pedomusicofilia - Fabrizio Tavernelli

PEDOMUSICOFILIA
Il mercato della canzone pop è da tempo territorio per le scorribande dei teen-agers. Non è un fenomeno
recente, è una realtà che si sviluppa contemporaneamente alla nascita dell’industria discografica. Nei primi
anni ’60 salgono alla ribalta i divi del rock’n’roll, si passa poi ai Beatles e successivamente al periodo dei
gruppi rock, oggi, dopo il cruciale e controverso passaggio degli anni ’80, siamo giunti alla produzione in serie
di girl e boy-band . L’affannata rincorsa all’hit-single coincide sempre più con l’individuazione di personaggi
che incarnino l’immagine e la tipologia gradita agli adolescenti. Indagini di mercato e scienze statistiche,
psicologia e sociologia, supportano le case discografiche nel decifrare o prevedere i bisogni e i desideri dei
giovani potenziali consumatori. Per essere, anche per breve tempo, portavoci di una generazione bisogna saper
parlare lo stesso linguaggio, conoscere i simboli e gli status, respirare la stessa aria, gli stessi ideali, sapere fare
breccia in un enorme gruppo anagrafico-tribale che si denota per la sua mutevolezza.
Tornando a qualche decennio fa, succedeva che l’artista, il cantante, la band, per naturali motivi temporali
cominciasse a maturare o addirittura invecchiare. Allora, insieme alle prime rughe, ai cambiamenti fisici,
giungeva una piena maturazione artistica, si affinava la comunicazione con il proprio pubblico, si costruiva un
rapporto con la musica più ricercato e riflessivo. Il percorso non si interrompeva, ma seguiva un suo corso
naturale, c’era modo di seguire in ogni tappa, in ogni trasformazione, in ogni accrescimento l’artista preferito.
C’era spazio per le urgenze ormonali delle prime canzoni così come per le parole più meditate. Era lecito
aspettarsi drastici cambi di rotta, ravvedimenti, camaleontismi, scoperte di nuovi suoni e nuove sensibilità, il
tutto all’interno della carriera dello stesso musicista. Forse persino dentro ai meccanismi delle case
discografiche esisteva una diversa idea della musica e dell’arte che non si basava soltanto sullo sfruttamento
commerciale di un prodotto.
Ma qui non si vogliono piangere nostalgicamente i bei tempi. Tranne che in piccoli eco-sistemi culturali,
l’industria ha vinto e detta le sue regole. Le Majors hanno bisogno di carne fresca , finchè ci sarà buona
reperibilità di giovanissime stars la fame sarà soddisfatta. Ma questa è una caccia grossa senza fine che
assomiglia agli stermini che nel passato hanno causato l’estinzione o la decimazione di specie animali. I talentscout fiutano un nuovo evento, cercano di scandagliare l’ondivago gusto delle ragazzine e dei ragazzini, gli
A&R manager impostano la direzione artistica spiando le mode dei quindicenni. D’altra parte questa rimane la
fetta di mercato più consistente, specialmente in tempi di crisi economica e culturale in cui i beni ritenuti
superflui come dischi o cd, diventano un bisogno che coinvolge soltanto i più giovani. Il tutto si fa poi più
appetitoso mano a mano che si guarda più in basso: una volta inaridito il mondo adolescenziale, c’è pronto il
business dei fanciulli, la selvaggia frontiera pre-puberale. Anche questa non è una cosa nuova: i bambini sono
ottimi consumatori perché più indifesi e capaci di influenzare le scelte dei genitori. Pubblicità, giocattoli,
scuola, alimentazione, sono facili terreni di conquista delle multinazionali, ma la musica fatta da e per i bambini
è il prossimo grande affare. E qui non si parla di stupide canzoncine fatte e pensate dai grandi per i piccini, no,
qua si parla di emancipazione, di bimbi che parlano e cantano a loro modo, proprio come i grandi. Vengono alla
mente quei programmi in cui i piccoli geni, artisti precoci si cimentano (a forza?) in inquietanti virtuosismi
televisivi. Quasi dei mostricciatoli allevati a finzione, teste di adulto impiantate su corpi di bimbo. Un altro tipo
di sfruttamento dei minori, buonista, luccicante, apparentemente innocuo ed indolore, ma che, per i suoi effetti,
può rientrare nella casistica da telefono azzuro. Il morboso spettacolo è un corpicino sovrastato da enormi
amplificatori, chitarre e batterie. Un corpicino schiacciato dall’insostenibile peso del music-biz.
Forse le case discografiche stanno già pensando, una volta finito il momento delle baby-stars, alla prossima
trovata promozionale: vagiti di neonati raccolti in compilation, suoni corporei ed ambienti organici direttamente
registrati negli uteri, il micro-clash sonoro dello spermatozoo che si fonde all’ovulo. Una volta spremuta ogni
possibile umanità, l’industria discografica sarà pronta al lancio di superstars virtuali, cosa che tra l’altro già
succede con personaggi creati al computer. In Giappone la diva preferita dai ragazzini (e non solo) è una cybercantante assolutamente perfetta ed infallibile: le sue fattezze, la sua voce, le sue movenze sono il frutto di una
equipe di programmatori, tecnici informatici e computer-animation.
Nei videoclip assistiamo alla scomparsa della figura umana sostituita da pupazzi, cartoni animati, androidi.
L’uomo sarà completamente disincarnato dalla musica? Siamo probabilmente all’inizio di questo processo. Un
processo che come primo atto ha causato l’interruzione del percorso che ha permesso a gruppi ed artisti di
giungere al trentesimo album, alla ventesima tournée, alla millesima canzone. Un processo negativo che ci
priverà di un particolare modo di cantare o suonare che si fa stile dopo anni di applicazione ed affinamento. Il
mercato della musica ha ormai piantato i suoi paletti oltre i quali non è raccomandabile andare. Sono stati creati
precisi confini all’espressione. Certo, rimangono i mostri sacri, ma questi hanno ricevuto una investitura nel
passato e possono contare su una intaccabile glorificazione. Il difficile viene per quelli che, per coincidenze
anagrafiche, si sono ritrovati a fare musica in questi anni. La musica che conta, così dicono i tabulati, i
rendiconti e le classifiche, è quella che fa fatturato. Tutti allora rincorrono i giovincelli nelle strade, nelle
scuole, nei luoghi di ritrovo. Si copiano i loro modi, si costringono i musicisti all’eterna giovinezza, a barare
sull’età dichiarando meno anni possibili. I management incitano e spronano le pop-stars alla lotta al massacro
spettacolare per essere i più esuberanti, i più entusiasmanti, i più attraenti. Immolati e sacrificati al successo
immediato, ma breve e precario perché destinato ad un pubblico assai volubile ed instabile, pronto a tradire
innocentemente i propri beniamini. I Take That erano fighi, cantavano e ballavano bene, ma poi sono usciti i
Backstreet Boys che probabilmente erano ancora più fighi e bravi, ora attendiamo la nuova sensazione che
sicuramente sbaraglierà la concorrenza. La catena di montaggio funziona e macina inesorabilmente, sugli
scaffali i prodotti vanno e vengono, ben esposti o subito rimpiazzati a seconda del gradimento dei consumatori.
La ninfetta Britney Spears durerà o sarà costretta a cedere il posto ed il passo ad una nuova eroina costruita
apposta per il ritmo e lo stile di MTV?
Diventa allora parte dello show l’agonia dei divi, il precoce decadimento in tenera età, lo stress e gli
esaurimenti, la delusione provocata dopo l’allontanamento dai palchi e dalle luci della ribalta. Diventa parte
dello show il triste epilogo della teen-star invecchiata (a 18 anni) e dimenticata.
Avremmo potuto avere capolavori come “Revolver”, “Sgt. Pepper”, “White Album”…. se i Beatles fossero
rimasti soltanto quelli di “She loves you”?
Fabrizio Tavernelli