Le ambivalenze del lavoro nell’orizzonte del capitalismo cognitivo di Federico Chicchi e Gigi Roggero 1. Sociologia e transizione verso il post-moderno La ragione di fondo che ha sostenuto la realizzazione di questo volume è rintracciabile nella convinzione che i rapporti tra le forze e le forme sociali attraverso cui si promuove, organizza e governa la produzione del valore siano oggi cambiate e vadano quindi profondamente ripensate. Diremmo di più. Il quadro socio-economico che ha sostenuto lo sviluppo della società capitalistica durante, più o meno, tutto il ventesimo secolo appare oggi attraversato da una profonda crisi “strutturale”, che mina alla radice il funzionamento e la legittimazione di quegli istituti sociali che durante la società moderna e industriale avevano permesso la fondazione e quindi la (relativa) stabilizzazione di uno specifico “regime di crescita”1. L’erosione, la messa in discussione dei processi di riproduzione e sostenibilità della società industriale hanno comportato di conseguenza, lo spiazzamento e la perdita di efficacia interpretativa delle tipiche e fondative categorie concettuali (culturali, economiche, sociali e giuridiche) del sapere moderno (economia politica in primis). Rendendo particolarmente urgente la domanda di elaborazione di nuovi paradigmi adatti alla comprensione della transizione in atto. La sociologia, per parte sua, ha in tal senso proficuamente contribuito, a partire dalla fine degli anni ottanta, all’analisi di tali processi di trasformazione e delle loro fenomenologie sociali più visibili. In proposito e senza alcuna intenzione di esaurirne la variegata fecondità, crediamo doveroso sottolineare qui l’importanza delle riflessioni dei cosiddetti sociologi della modernità riflessiva (su tutti i lavori di Beck, Giddens, Lash, Urry e Bauman) che hanno ripensato le categorie interpretative della 1 Nel senso attribuito al concetto dalla cosiddetta Scuola della regolazione francese (Cfr. Aglietta, 2001 e Boyer, 2007). 1 modernità e fornito alcune stimolanti piste di indagine rispetto alla emergenza sociale di una sua inedita configurazione2. Un prezioso contributo alla definizione della transizione va inoltre attribuito all’indagine del sociologo/geografo inglese David Harvey, che a partire da alcune intuizioni della scuola regolazionista francese ha inteso sottolineare l’affermarsi di un nuovo modello di accumulazione (e di nuove istituzioni della regolazione) basato sulla flessibilità e capace, attraverso il superamento delle rigidità fordiste, di rilanciare, al prezzo di ingenti costi sociali, il funzionamento del sistema capitalistico. “C’è sempre il pericolo di considerare il transitorio e l’effimero alla stregua di trasformazioni fondamentali della vita politico-economica. Ma i contrasti tra le attuali pratiche politico-economiche e quelle del periodo del boom postbellico sono abbastanza marcati da rendere accettabile, per descrivere la storia recente, l’ipotesi di un passaggio dal fordismo a ciò che potrebbe essere chiamato regime “flessibile” di accumulazione” (Harvey, 1993, p. 155)3. È sotto l’analisi concettuale dei processi di globalizzazione, inoltre, e più in generale, che si è però sviluppato il più intenso dibattito sulle recenti trasformazioni socio-economiche. Tale discussione, complessa e plurale, ha certamente sedimentato e consegnato alla riflessione sociologica e scientifica alcune chiavi interpretative di grande interesse4. In particolar modo i temi che sono entrati a far parte della discussione teorica ed empirica, e che sono ancora oggi per molti versi attuali, hanno inteso chiarire: i processi di internazionalizzazione dei mercati e le loro conseguenze sul lavoro e sull’economie nazionali, gli effetti di ristrutturazione e re-engineering dell’impresa industriale e più in generale delle strutture produttive, l’indebolimento progressivo delle capacità regolative dello Stato nazione sull’economia e la crisi dei sistemi di Welfare tradizionali. Rispetto a quest’ultimo tema e alla diffusione di inedite condizioni di vulnerabilità sociale causate dalla crisi della cosiddetta società salariale e dei dispositivi di protezione sociale ad essa 2 Vorremmo ricordare in proposito, per quanto riguarda l’Italia, anche il lavoro del compianto sociologo riminese Alberto Melucci. Il lemma da lui utilizzato per definire la transizione, e la sua radicalità, è stato quello del passaggio d’epoca (Melucci, 1994). 3 Non ci è qui possibile entrare con sufficiente profondità e dettaglio all’interno della della proposta teorica di Harvey e di altri importanti teorici sul ‘rompicapo della transizione’, le cui argomentazioni meriterebbero certamente ben altra presentazione. Ci permettiamo, in proposito, di rimandare al primo capitolo del bel volume di Gigi Roggero “La produzione del sapere vivo” (2009). 4 Per quanto riguarda specificatamente la sociologia economica sul tema della globalizzazione e della complessità dei suoi processi, tutt’altro che lineari e progressivi va certamente ricordata l’importanza dei contributi del cosiddetto approccio neo-isituzionalista (Cfr. Rizza, 1999). Approccio cui farà ampio riferimento nelle sue opere lo stesso Manuel Castells. 2 consustanziali, sono senz’altro da mettere in risalto i lavori di Robert Castel (1995 e 2003). Lo studioso francese ha in particolare tematizzato, con notevole perizia storiografica e acutezza interpretativa, il progressivo processo di erosione della cittadinanza sociale e dei legami sociali moderni immersi nel farsi incerto dello statuto del lavoro nel contesto socioeconomico contemporaneo. Un’altro contributo di rilievo interno alla riflessione sociologica sulla crisi del modello di produzione fordista è da attribuire al non comune, per qualità e vastità, lavoro di analisi della cosiddetta società della rete, proposto all’inizio degli anni novanta dal sociologo di origini catalane Manuel Castells. L’opera di quest’ultimo ha avuto rispetto alla riflessione generale sulla transizione un così stupefacente e significativo eco che non è possibile non farne breve menzione. La sua proposta di definizione di un nuovo paradigma, economico e organizzativo, l’informazionalismo - basato sulla diffusione di una nuova “etica economica”, che echeggiando Schumpeter, Castells definisce come cultura della distruzione creatrice pone al centro dell’analisi l’importanza crescente del governo e dello sfruttamento economico dei flussi transnazionali di informazioni e conoscenza5. Castells sottolinea, quindi, l’importanza crescente del sapere nella definizione del nuovo paradigma economico post-fordista, paradigma che, in virtù dello stretto rapporto con le nuove tecnologie della comunicazione digitale porta, a seconda delle condizioni culturali ed istituzionali vigenti in ogni singolo territorio, alla precisazione prima e all’egemonia poi, di un inedito paradigma basato sulla diffusione della rete come suo costante e principale principio operativo di organizzazione e funzionamento. La sua analisi permette quindi alla difficoltosa e spesso aporetica indagine sul post di fissare in positivo la rilevanza di alcune specifiche (culturali, economiche e tecnologiche) coordinate definitorie. In particolare è infatti nell’analisi di Castells che la rete come principio chiave di ri-organizzazione della morfologia d’impresa e del lavoro, trova una definitiva “consacrazione” sociologica e scientifica nell’analisi delle trasformazioni del lavoro, dell’impresa e più in generale, della produzione del valore. Non è possibile infine non nominare l’importanza della proposta teorica di Boltanski e Chiappello, che, alla fine degli anni novanta, hanno insistito, attraverso il loro volume Le nouvel esprit du capitalisme (1999), non solo 5 Si chiede Castells (2008, p. 86): “Questo approccio shumpeteriano alla crescita economica solleva un problema di rilevanza persino maggiore circa la struttura e la dinamica dell’economia informazionale. Ovvero: cosa c’è di storicamente nuovo nella nostra economia? Quale è la specificità rispetto ad altri sistemi economici, e in particolare rispetto all’economia industriale?”. 3 sulla diffusione e centralità organizzativa del paradigma della rete (loro parlano in merito di capitalismo connessionista o di città per progetti6) ma anche sulla necessità di individuare nella metabolizzazione/traduzione capitalistica delle rivendicazioni e critiche di stampo estetico e libertario rivolte contro di esso (la cosiddetta critica d’artista) il motore stesso del nuovo modello capitalistico post-industriale7. La rilevanza della loro interpretazione risiede nel mostrare come anche elementi non immediatamente interni alla organizzazione socio-economica capitalistica siano decisivi nel determinare la dinamicità e la “rigenerazione” dello stesso sistema. Come vedremo in seguito, tale questione, che riguarda direttamente la qualità e la natura dei rapporti sociali di produzione, risulterà centrale anche in alcune delle analisi sulla contemporanea produzione della ricchezza proposte nei saggi del presente volume. Come Castells, anche i due autori francesi, attraverso un approccio teorico e metodologico però molto differente, basato sulla attenta analisi della letteratura di fonte manageriale, indicano nella formazione di un nuovo spirito del capitalismo (il richiamo a Max Weber è quindi anche qui esplicito e fondante) e dunque nella generalizzazione di una inedita “grammatica di giustizia” (articolata attraverso ordini normativi convenzionali e specifiche prove di grandezza) che presiede e indirizza l’organizzazione dei processi di estrazione del valore, il momento chiave per comprendere l’attuale transizione capitalistica. “La grandezza della città per progetti è adattabile e flessibile. Essa può ondeggiare da una situazione all’altra molto differente adattandosi a quest’ultima. È polivalente, capace di cambiare attività o strumento. È in tal modo impiegabile nell’universo della impresa e perciò suscettibile di essere integrata in un nuovo progetto. Chi è grande in questa città è così attivo e autonomo. Sa correre dei rischi per annodare dei contratti sempre nuovi e ricchi di possibilità e reperire le buone fonti d’informazioni al fine di evitare i legami ridondanti” (Boltanski, 2002, p. 15). Un ulteriore pregio dell’opera di Boltanski e Chiappello ci pare essere infine quello di collocare la loro proposta interpretativa all’interno del quadro dinamico e conflittuale della società capitalistica, cornice quest’ultima che ha, a nostro avviso in modo 6 La diffusione della rete crea i presupposti per la formazione di una nuova organizzazione politica della produzione, una nuova città, per usare il lessico di Boltanski che insieme a Thevenot all’inizio degli anni novanta avevano individuato sei modalità differenti di gestire e organizzare l’efficacia della struttura normativa di uno spazio sociale (Cfr. Boltanski e Thevenot, 1999). 7 Essa consiste in sintesi “nell’abbandonare il terreno delle prove istituzionali , in cui si esprime la critica sociale, per mettersi all’ascolto delle nuove rivendicazioni che rientrano piuttosto nel campo della critica d’artista”. (Boltanski, 2002, p. 17). Si veda in proposito anche il contributo di Maurizio Lazzarato contenuto in questo volume. 4 improprio, progressivamente perso di rilevanza in gran parte della pubblicistica della sociologia contemporanea. Al di là dei contributi della riflessione sociologica nella interpretazione della crisi della società industriale molte sono inoltre le proposte teoriche che a partire da altri paradigmi disciplinari, in questi ultimi anni, hanno prodotto sul tema approcci teorici di grandissimo spessore e rilevanza. L’elenco sarebbe lungo e difficile da compilare in modo esaustivo, e non compatibile con gli intenti di questa introduzione8. Quello che invece ci pare utile sottolineare qui è che, a causa della complessità e profondità dei cambiamenti in atto, per accedere a descrizioni euristicamente efficaci e positive della transizione è diventata sempre più pressante ed evidente la necessità di perseguire una seria e intensa contaminazione reciproca (dunque senza alcun imperialismo o gerarchia disciplinare) delle diverse prospettive interpretative in gioco. L’imperante e progressiva iperspecializzazione dei saperi ha infatti, spesso e volentieri, indebolito la capacità delle singole scienze di costruire teorie “generali” dei processi in atto, producendo tagli e parzialità (intra e inter disciplinari) sull’oggetto da indagare (e in particolare sulla società capitalistica) fino alla grave conseguenza di produrre il rischio dell’evanescenza della sua complessiva ed unitaria rappresentazione cognitiva. Questo volume si è posto, quindi, da un punto di vista metodologico, il preciso obiettivo di interrogare (in modo transdisciplinare, dunque) la disciplina socio-lavorista attraverso il confronto con alcune delle più interessanti proposte interpretative sulla transizione provenienti da altre discipline affini, che ci pare consegnino, come già rilevato, alla analisi più generale della contemporaneità socio-economica, alcune piste di indagine che non è più possibile tenere in residuale considerazione. Per quanto riguarda specificatamente lo sfondo tematico all’interno del quale presentiamo qui i diversi contributi raccolti, al di là della prima richiamata urgenza che li connota e cioè quella di comprendere le nuove modalità attraverso cui la produzione del valore oggi si attualizza nel lavoro e nelle sue forme organizzative, è la necessità di articolare secondo paradigmi innovativi che tengano conto delle effettive continuità e discontinuità tra presente produttivo e passato industriale, e in particolare il mutato e ambivalente rapporto di implicazione che il lavoro instaura oggi con il “comando” capitalistico a porsi come questione rilevante. Riportando, dunque, al centro della riflessione, il tema per lo più oggi 8 Solo per citarne alcune delle più significative, l’importante tradizione degli studi cosiddetti post-coloniali, le riflessioni del post-operaismo italiano, in economia: la scuola della regolazione francese, l’approccio della teoria delle convenzioni, e sul piano più squisitamente filosofico il paradigma biopolitico. [Gigi.....]. Cfr. Roggero, 2009. 5 negletto, della tensione, del conflitto irriducibile, e delle contraddizioni tra capitale e lavoro che il capitalismo deve continuamente governare e gestire per generare una misura del valore che permetta la sostenibilità generale dei suoi processi di accumulazione. A questo proposito nella prima sezione della presente monografia, intitolata “Quale analitica del valore nell’economia post-fordista?” presentiamo una serie di contributi, a nostro parere di straordinario valore teorico, che pongono, ciascuno in modo diverso, al centro della loro disamina proprio tale questione. Il saggio di Carlo Vercellone, che apre il volume, avanza la sua riflessione all’interno dell’ipotesi del cosiddetto “capitalismo cognitivo”. La tesi dell’autore, articolata in modo originale attraverso le principali categorie interpretative marxiane, riguarda in estrema sintesi, la formazione, sulle ceneri del paradigma della produzione di massa (della cui crisi l’autore presenta una attenta e puntuale disamina genealogica), di un nuovo sistema di accumulazione capitalistico, basato prevalentemente sullo sfruttamento della conoscenza. In tale contesto, nella produzione della ricchezza diverrebbe centrale la crescente autonomia del lavoro-vivo cognitivo in rapporto alla “tradizionale” prevalenza del sapere accumulato nelle macchine e nelle organizzazioni manageriali delle imprese. Secondo Vercellone il capitalismo cognitivo è infatti, in primo luogo, caratterizzato dalla definizione sociale di un inedito rapporto, “di una nuova fase storica”, tra capitale e lavoro contrassegnata dalla crescente potenza produttiva di una intellettualità diffusa che si genera prevalentemente al di fuori della classica cornice capitalistica della fabbrica e che richiama direttamente in causa il concetto marxiano di General Intellect. Afferma l’autore in proposito: “Con il concetto di “capitalismo cognitivo” designiamo un sistema di accumulazione nel quale il valore produttivo del lavoro intellettuale e immateriale diviene dominante e dove la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle altre forme di proprietà poggia direttamente sulla espropriazione “attraverso la rendita” del comune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce fittizia”. Avremo modo di ritornare rapidamente in seguito su quest’ultima questione che Vercellone definisce attraverso la formula del farsi rendita del profitto, perché essa apre, al di là della aperta e stimolante questione teorica, una prospettiva interpretativa che ci pare per certi versi estremamente feconda ed efficace per leggere le più recenti fenomenologie della crisi finanziaria del capitalismo contemporaneo (Cfr. Fumagalli e Mezzadra, a cura di, 2009). Il prezioso e ricco di suggestioni teoriche contributo di Enzo Rullani si pone per certi versi in continuità con quello di Carlo Vercellone. Ad 6 esempio quando identifica nella conoscenza la risorsa che nella modernità, in modo più o meno esplicito a seconda dei paradigmi, è stato a fondamento dello sviluppo economico e sociale. Le riflessioni di Rullani, sulla scorta di una prospettiva teorica differente da quella di Vercellone (in particolare le teorie della complessità e i modelli dell’evoluzionismo biologico) concordano però con quest’ultimo nel verificare l’emergenza di un nuovo paradigma capitalistico, quello che lui definisce come capitalismo comunicativo, dove è centrale l’importanza delle infrastrutture tecnologiche di natura comunicativa (Ict) e dove la produzione e la misurazione del valore deve necessariamente adottare criteri diversi da quelli tipicamente industriali e fordisti (Rullani, 2004). La proposta analitica di Rullani permette di fare un importante passo avanti nella lettura della transizione economica per tre principali ordini di motivi: a) mostra la centralità delle risorse immateriali nella produzione del valore e identifica le proprietà costitutive della risorsa conoscenza rispetto alla risorsa produttiva materiale (la conoscenza non è una risorsa scarsa e non si consuma con l’uso, la conoscenza ha costi di riproduzione che tendono a zero); b) propone una innovativa analitica del valore dell’economia della conoscenza basata: i. sulla misurazione della capacità del bene conoscenza di produrre valore per l’esperienza soggettiva, ii. sul potenziale di moltiplicabilità e ri-uso della risorsa conoscenza, e iii. sulla possibilità di regolare e distribuire istituzionalmente il valore economico e sociale prodotto all’interno della articolata filiera della cosiddetta fabbrica dell’immateriale; c) evidenzia come i processi “normali” di produzione del valore oggi non possano più essere ricompresi all’interno della classica definizione di impresa. “Si tratta infatti, come abbiamo detto, di una ‘fabbrica diffusa’, che super ai confini proprietari delle singole imprese e si distribuisce lungo la filiera dei molti operatori e delle molte funzioni”. Quest’ultima considerazione pone, inoltre, un’altra fondamentale questione: la difficile definizione dei confini (oggi sempre più porosi e difficili da tracciare) tra lavoro e consumo (infatti per Rullani il consumatore è certamente un attore, tutt’altro che passivo, della filiera produttiva del capitalismo comunicativo). Ritorneremo più avanti sull’argomento, anche richiamando le stimolanti considerazioni proposte nel suo contributo da Vanni Codeluppi riguardo ai concetti di terzo lavoro e di prosumer di Alvin Toffler, ci basti per ora qui mettere in evidenza come su questa questione, non a caso, siano molti i contributi del volume che si soffermano ad indagare le qualità emergenti di questo rapporto. 7 2. Biocapitalismo: norme e spazi del vivente messo al lavoro Vi è da raccogliere e quindi precisare la grande rilevanza di un’altra questione che emerge da alcuni dei saggi qui proposti. Essa riguarda il farsi sempre più stretto e prossimo del rapporto tra vita e lavoro. Lo scenario che delimita e al contempo caratterizza la prassi lavorativa contemporanea è connesso, infatti, all’imporsi di una nuova fattispecie normativa che si esercita, diremmo, al di là della sua tradizionale ed astratta generalità. Nelle fabbriche sociali e diffuse del post-fordismo non si tratta più di predisporre e disciplinare (subordinare) i soggetti produttivi all’interno di rigidi e specifici ruoli funzionali cui corrisponde una ferrea disciplina operativa (in questo caso infatti non vi sarebbe la possibilità di sfruttare al meglio le sempre più rilevanti competenze cognitive ed emotive dei lavoratori), ma piuttosto di formare e quindi controllare9 degli spazi di “libertà” di azione produttiva all’interno dei quali le condotte soggettive possano plasmarsi in conformità con le esigenze di continua e imperante innovazione dei processi e dei prodotti. Sul piano dell’analisi del potere, si tratta di riconoscere quella che possiamo definire come la svolta biopolitica della società contemporanea, dove le relazioni di potere non sono più intese nel senso della semplificante forma dicotomica sovrano-sudditi, o dentrofuori della legge; la norma biopolitica si presenta infatti come “extragiuridica, eccezionale, flessibile, poiché la flessibilità e l’imprevedibilità sono i caratteri dell’oggetto-vita cui si riferisce” (Bazzicalupo 2006, p. 39). Tale potere non si esercita attraverso l’esercizio di un comando “minaccioso” e “sovrano”, ma attraverso la “suadente” e maternale proposta di percorsi di soggettivazione e potenziamento delle proprie qualità personali al fine di sostenere la costruzione “orientata al regime di verità” delle singole biografie professionali (empowerment). Il potere biopolitico è in tal senso un potere “che produce un più di vita” e non è costrittivo/disciplinare nel senso tradizionale del termine, è un potere che governa la vita attraverso l’assoggettamento al sapere/potere economico (bioeconomia) e attraverso la produzione di spazi di libertà fittizia, all’interno dei quali stimolare la soggettività creativa e la cooperazione sociale, spazi che però sono già piegati in una unica direzione 9 Il concetto di controllo si definisce in filosofia politica in contrasto con quello di disciplina e rimanda implicitamente al lavoro (sulla “società del controllo”) di Gillez Deleuze. Ma sono stimolanti in proposito anche alcune riflessioni dello psicoanalista lacaniano francese J.-A. Miller (2006, p. 82 ): “Non si tratta dell’esercizio diretto ingiuntivo del padrone, quanto piuttosto di indurre nei soggetti un’autocoercizione mentale”. Egli definisce tale fenomeno come l’alleggerimento della padronanza. 8 prestabilita, quella indicata dal mercato e dai suoi autoreferenziali criteri di efficienza10. Serve la libertà del mercato del lavoro, ma occorre anche che vi siano dei lavoratori: che siano abbastanza numerosi, sufficientemente competenti e qualificati, ma anche politicamente disarmati, in modo che il mercato del lavoro non sia sottoposto a pressioni. Si creano così le condizioni per dar vita ad una legislazione formidabile, per una formidabile quantità di interventi di governo, a garanzia di quella produzione di libertà di cui si ha appunto bisogno per governare (Foucault, 2005, p. 66-67). Per osservare la stessa questione da una diversa prospettiva interpretativa, ciò che appare divenire rilevante, con l’affermarsi del cosiddetto capitalismo biopolitico, riguarda, in primo luogo, l’indebolimento delle mediazioni (sociali e giuridiche) tra vita ed economia, e di conseguenza, l’accentuarsi della prossimità dei dispositivi di governo sulle condotte; dispositivi11 che possono essere facilmente riscontrati anche all’interno dei nuovi rapporti organizzativi post-tayloristici. Con il concetto di prossimità intendiamo quindi sottolineare la “cattura”12 all’interno della pianificazione razionale e strategica della produzione flessibile, degli aspetti intimi, privati, relazionali e comunicativi che prima non partecipavano alla vita produttiva. L’immediata “messa a valore” del bios (mente e corpo, vita e saperi personali) pone quindi le basi di una nuova struttura di definizione della forma del lavoro nella società capitalistica attuale. Questo processo di “approfondimento” della relazione produttiva volto a comprendere al suo interno gli aspetti più intimi e privati della persona, come detto, prefigura anche una nuova modalità di gestione del potere organizzativo. È il tema che in filosofia politica è stato definito, tramite il ricorso al lessico foucaultiano, come il passaggio dal governo alla 10 E’ comunque bene specificare che la diffusione dei dispositivi biopolitici/governamentali non eliminano le tradizionali e coercitive (quando non violente) forme di esercizio del potere (basti pensare in proposito alla attuale condizione sociale e giuridica dei migranti), ma in un certo senso le integrano e affiancano in modo complementare. Sul tema specifico della bioeconomia ci permettiamo invece di rimandare ad un nostro precedente lavoro intitolato: “Bioeconomia: ambienti e forme della mercificazione del vivente” in (Amendola, Bazzicalupo, Chicchi, Tucci, 2008). 11 L’analisi foucaultiana sulla biopolitica fa riferimento, in proposito, al cosiddetto “potere pastorale”, inteso come modello di riferimento nella combinazione dei nuovi poteri dispositivi. L’efficienza di questi ultimi starebbe proprio nella efficace connessione di potestas e benevolentia tipica di tale istituto. 12 Il termine cattura viene qui utilizzato per sottolineare la incorporazione ex post delle qualità valorizzanti i processi di produzione; queste ultime infatti tendono a formarsi e a precisarsi in un rapporto di (naturalmente non assoluta ma relativa) esternalità rispetto alle tipiche organizzazioni produttive capitalistiche. 9 governamentalità13, intesa quest’ultima come una pervasiva tecnica di controllo delle condotte sociali che si differenzia dalle tradizionali azioni di disciplina gerarchica dell’agire sociale e che si caratterizza, tra l’altro, per il mettere a valore non solo gli aspetti meramente operativi e professionali del fare sociale, ma ogni aspetto della vita umana (Cfr. Amendola, Bazzicalupo, Chicchi, Tucci, 2008 e Marzocca, 2007). Su questo specifico e importante tema si soffermano sia Vanni Codeluppi che Andrea Fumagalli e Cristina Morini. In particolare nel loro contributo Fumagalli e Morini approfondiscono, mirabilmente, il modo in cui nel biocapitalismo il lavoro si presenta direttamente sotto la forma di biolavoro e cioè “come summa delle facoltà vitali-cerebrali-fisiche degli esseri umani”. Ancor più specificatamente di grande interesse è il modo con cui gli autori mostrano come non siano solo gli aspetti cognitivi e simbolici a caratterizzare il lavoro post-fordista ma come giochino un ruolo altrettanto importante, gli aspetti emotivi e relazionali e di come questo sia da collegare direttamente ai processi di femminilizzazione del lavoro. “Il lavoro affettivo, emozionale, di cura, rappresenta insomma a nostro avviso l’esempio più calzante di come, nella sfera biopolitica, la vita è destinata a lavorare per la produzione e la produzione a lavorare per la vita”. 3. Capitalismo, reti e produzione di saperi La tendenziale indistinzione tra rendita e profitto, ovvero il «divenire rendita del profitto», è come abbiamo precedentemente accennato, una delle linee interpretative attraverso cui Vercellone struttura l’ipotesi del capitalismo cognitivo. Matteo Pasquinelli la conferma nell’indagine della rete: l’algoritmo PageRank di Google è qui assunto come modello esemplificativo di quello che viene definito un «parassita macchinico dell’intelletto comune». Il problema non è più, allora, concentrarsi sul motore di ricerca come apparato di sorveglianza e controllo: il modello del Panopticon, particolarmente diffuso negli studi critici sui network, rischia di essere fuorviante. Al centro dell’analisi è, anche in questo caso, la produzione del valore in Internet, cioè come si fanno profitti e si accumula 13 Un’efficace e sintetica definizione di governamentalità si trova in Chignola (2006, p. 58): “Governamentalità è l’insieme delle istanze analitiche che adeguano l’esercizio del potere sulla centralità dell’economia e non del diritto”. E ancora (Ivi, p. 61): “L’ambiente sociale delle relazioni di mercato […] L’homo oeconomicus, che lo abita, è un “elemento intangibile” per il potere; deve, letteralmente, essere lasciato fare. La sua, è un’azione libera che consuma libertà e che libertà pertanto richiede gli venga continuamente assegnata e garantita. Questa libertà è l’ “oggetto” della cura governamentale”. 10 capitale in uno spazio spesso ingenuamente considerato esterno al mondo delle merci e del lavoro. L’algoritmo produce una gerarchia nella produzione di conoscenza finalizzata a trasformarla in unità quantitativamente misurabili, ovvero in valore di scambio. È in questo processo che si situa l’arcano della fattura del plusvalore. Da questo punto di vista, la rete è paradigmatica di ciò che, nella letteratura sul capitalismo cognitivo, è identificato come un vero e proprio rovesciamento rispetto all’organizzazione produttiva del capitalismo industriale. Per sintetizzare: la cooperazione sociale ha raggiunto un livello di autonomia tale da costringere il capitalismo cognitivo a rinunciare ad organizzarla a monte, inseguendone invece i movimenti per “catturarla” a valle. La creazione del valore avverrebbe perciò attraverso la captazione ex post dell’autonoma potenza produttiva del lavoro vivo. Indipendentemente dalla valutazione nel merito di tale ipotesi interpretativa, va precisato che non vi è nessun giudizio morale nella definizione “parassitaria” del capitalismo contemporaneo, quanto piuttosto l’urgenza di individuare le nuove forme dell’accumulazione. In questo processo capovolto, per usare i termini marxiani, la riduzione del lavoro vivo a lavoro astratto avviene attraverso l’imposizione di unità di misura artificiali, atti a segmentare la cooperazione sociale e ricondurre la «dismisura» al rapporto salariale. Viene così imposta la vigenza della legge del valore laddove essa ha cessato di essere valida: smarrito ogni rapporto con la quantificazione dell’attività produttiva, diventa – sostengono i teorici del capitalismo cognitivo – nuda misura dello sfruttamento, cioè legge del plusvalore. Dunque, innervato dalla centralità dei rapporti di produzione e dall’insistenza sui mutamenti della composizione di classe, dall’analisi dello sfruttamento e del conflitto, il concetto di lavoro cognitivo si allontana dalla categoria di knowledge worker e si separa in modo definitivo da altre immagini prevalenti nella letteratura sociologica e non solo, come quella di “classe creativa” (Florida, 2003). Il lavoro resta l’unica fonte di creazione del plusvalore, ma è sono gli stessi confini del lavoro a modificarsi. L’economia del brand, su cui si soffermano il saggio di Oscar Marchisio, lo mostra con esemplare chiarezza. È allora necessario mettere in discussione un consolidato luogo comune che ha accompagnato la transizione “postfordista”, ossia la trasformazione del lavoratore in consumatore, laddove è piuttosto all’opera il processo inverso. Si pensi – oltre alla fenomenologia presentata da Vanni Codeluppi – alla figura professionale del cool hunter, letteralmente il cacciatore di tendenze pagato dalle aziende per individuare e “catturare” stili e forme di vita. Se negli anni Venti Ford diceva “comprate una qualsiasi macchina purché sia una Ford T nera”, sintetizzando la (peraltro irrealizzata) egemonia 11 dell’organizzazione imprenditoriale capitalistica sul ciclo della produzione e del consumo, il cool hunter invece agisce a valle, per mettere a valore quel «sapere comune» di cui parla lo stesso Codeluppi in quello che definisce «biocapitalismo». Tuttavia, l’economia del brand non può essere interpretata in termini esclusivamente parassitari, ma a sua volta funziona attraverso processi di cooperazione, di cui i cacciatori di tendenze sono appunto un segmento, finalizzati alla ricomposizione del comando ex post. Se, mantenendo lo stesso angolo prospettico, ritorniamo al paradigma della rete, la figura del prosumer – da vent’anni immagine dell’unificazione tra produttore e consumatore – si spacca e si rovescia: è, a tutti gli effetti, un lavoratore non retribuito. Lo ha capito bene Yochai Benkler (2007), su cui si soffermano sia Pasquinelli sia Carlo Formenti, nella sua formulazione di una «produzione orizzontale basata sui beni comuni». Osservando le forme di innovazione e produzione «informazionale», dal peer-to-peer ai social network, il giurista neoliberale esalta quelle caratteristiche dello spazio di Internet – condivisione, centralità delle strategie non proprietarie, eccedenza della cooperazione rispetto al mercato, orizzontalità – che costituiscono il bagaglio dei movimenti open source e free software. Se vari pensatori critici (Gorz, 2003) hanno inteso la produzione “immateriale” nella chiave di un’economia dell’abbondanza e della gratuità, destinata a condurre motu proprio verso forme di cooperazione, scambio e consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, per Benkler questo è esclusivamente il punto di partenza. Lungi dall’essere in contraddizione con il suo sviluppo, l’“economia dei beni comuni” è una condizione di possibilità del capitalismo contemporaneo, tanto rischiosa quanto necessaria. Anche da questo punto di vista, le nuove tecnologie – se intese come prodotto e posta in palio dei rapporti sociali, non causa oggettiva della trasformazione – segnano uno scarto rispetto al passato. Indubbiamente, costituiscono uno dei vettori attraverso cui è passata la tendenziale indistinzione tra tempi di vita e di lavoro: per i lavoratori cognitivi, infatti, diventa sempre più difficile distinguere l’utilizzo delle nuove tecnologie per il tempo di lavoro e per il tempo libero, per l’occupazione e per il piacere (Ross, 2003). Ciò non configura, però, un lineare sviluppo verso uno scenario post-capitalistico: disegna semmai il nuovo terreno dell’accumulazione e del conflitto. A questo livello, lo stesso sistema della proprietà intellettuale – identificato come irrinunciabile pilastro delle strategie di appropriazione capitalistica – rischia di diventare un ostacolo per processi di innovazione che, poiché fondati su una cooperazione in buona misura autonoma, devono oggi garantire un certo grado di libertà delle forze produttive. È allora una sorta di “capitalismo senza proprietà” quella vagheggiata da Benkler e 12 molti altri teorici dell’“anarco-capitalismo”, che esemplificano nello scontro tra Google e Microsoft la lotta tra nuova e vecchia economia. Le imprese del Web 2.0, capeggiate dal gigante fondato da Page e Brin, incarnano così quel modello di «produzione orizzontale basata sui beni comuni» che non rappresenta certo un’alternativa al libero mercato, ma al contrario uno straordinario meccanismo di valorizzazione per un capitalismo che non riesce più a governare ex ante la cooperazione sociale. Nella dissoluzione della classica dicotomia tra pubblico e privato, come Pasquinelli mostra, pubblicità e finanziarizzazione sono i principali dispositivi attraverso cui si alimentano i «rentier globali» dell’economia digitale. Su questa base interpretativa, saldamente ancorata nelle trasformazioni produttive e del lavoro, si staglia la questione della crisi, che assume una luce peculiare dall’angolo prospettico dell’ipotesi del capitalismo cognitivo: la illustra Formenti, dialogandovi criticamente. La crisi finanziaria, lungi dall’essere creata da degenerazioni speculative o bolle incontrollate, è immediatamente crisi economica (Fumagalli e Mezzadra, 2009). Se negli schemi tradizionali finanziarizzazione e crisi intervengono alla fine del ciclo, dopo l’espansione dell’economia reale legata all’affermarsi di un modello produttivo, oggi la finanziarizzazione non solo pervade l’intero ciclo economico, ma mette in discussione la stessa categoria di ciclo, legata a periodi medio-lunghi. Nell’ultimo decennio, invece, abbiamo assistito al succedersi di crisi economico-finanziarie di portata mondiale in tempi talmente brevi (si pensi solo al crollo dei mercati del sud-est asiatico nel ’97, a quello dell’indice Nasdaq e della new economy nel 2000, alla crisi del sistema del debito e dei subprime a cominciare dal 2007) da rendere estremamente difficoltoso ricostruire, anche ex post, la dinamica ciclica. In un certo senso le nostre vite sono interamente dentro al processo di finanziarizzazione: quando usiamo la carta di credito o il bancomat, quando facciamo ricorso a mutui e debiti per aver accesso a bisogni fondamentali (casa, formazione, mobilità, sanità), quando una parte dei salari viene pagata in stock option, o le pensioni diventano fondi di investimento. In questa luce la finanziarizzazione non solo non si contrappone alla cosiddetta “economia reale”, ma è la forma dell’economia capitalistica atta al comando e alla “cattura” del lavoro cognitivo. La provocatoria formula scelta da alcuni circoli vicini a The Economist, “comunismo del capitale”, è definita da alcuni teorici del capitalismo cognitivo come la captazione del comune – ovvero ciò che è prodotto dal lavoro vivo e dall’intelletto generale – nel segno della rendita, intesa marxianamente come il potere di appropriazione di una parte crescente dei valori creati dalla cooperazione sociale senza un intervento 13 diretto del capitale. La crisi, allora, lungi dall’essere confinata a una fase discendente del ciclo e a preparare una nuova espansione, oppure al farsi levatrice di una dinamica di crescita, non è più solo dato strutturale dello sviluppo capitalistico, ma sembra diventare suo elemento permanente e orizzonte insuperabile. Del resto, configurandosi come crisi del capitalismo tout court, significa la fine del neoliberalismo, il che non significa che siano finiti i suoi effetti, ma questi non riescono più a fare sistema. È qui evidente, dunque, come le reti giochino un ruolo di primo piano nelle trasformazioni del lavoro e del capitale. Non manca, del resto, una ricca letteratura internazionale che ne ha esaminato l’importanza nel passaggio dal “fordismo” al “postfordismo” (Castells, 2008; La Rosa, 2004). Tale ruolo, tuttavia, assume una peculiare declinazione nell’ipotesi del capitalismo cognitivo: respingendo i rischi del “determinismo tecnologico”, cioè dell’assunzione dei mutamenti produttivi come inevitabile conseguenza delle innovazioni scientifiche e macchiniche, la rete viene soggettivizzata. In altri termini, la produzione cooperativa dei saperi e i rapporti sociali non sono il risultato bensì la trama dello sviluppo tecnologico, nonché i suoi agenti di vivificazione e trasformazione continua. Ma c’è di più: è necessario ripensare, si sostiene, il classico rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. Infatti, a differenza delle conoscenze sottratte agli artigiani e agli operai nella fase del capitalismo industriale e incorporate nelle macchine, oggi i saperi – nella misura in cui diventano forza produttiva diretta e centrale, nonché mezzo di produzione – non possono essere completamente trasferiti né alla macchina né all’impresa. In altre parole, la conoscenza non viene ceduta completamente e quindi interamente strappata al suo detentore, ma gli resta appiccicata addosso. Le nuove tecnologie si basano infatti sulla produzione e gestione dinamica di conoscenze, linguaggi e informazioni, che non possono essere separati completamente dai soggetti della cooperazione sociale e staticamente incapsulati nelle macchine, pena bloccare il processo stesso dello sviluppo tecnologico. La separazione può così avvenire esclusivamente su un piano formale e artificiale. Non è un caso che la riduzione degli investimenti in capitale fisico e la diffusione delle macchine telematiche sia per Benkler il primo dei tre elementi caratteristici della sua auspicata economia dei commons – il secondo è la natura di bene comune delle materie prime dell’economia dell’informazione, il terzo è la peculiare forma modulare e cooperativa della produzione su Internet. Ed è indagando la nuova qualità del rapporto tra capitale fisso e capitale variabile che Christian Marazzi (2005) descrive l’emergenza di un «modello antropogenetico», cioè basato sulla produzione dell’uomo attraverso l’uomo, «in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data 14 soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività)» (p. 109). Nel modello antropogenetico, continua Marazzi, «la smaterializzazione del capitale-fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la “messa al lavoro” delle facoltà umane […] che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto. […] Nella nostra ipotesi, il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato» (p. 111). Indipendentemente dalla completa obsolescenza o meno della distinzione tra capitale fisso e lavoratore, possiamo sostenere che il processo di cristallizzazione e oggettivazione del sapere nel sistema delle macchine si articola in modo nuovo e peculiare: il lavoro/sapere morto ha bisogno di essere vivificato con tempi estremamente più rapidi, da cui sfugge continuamente un’eccedenza di sapere vivo e sociale (Roggero, 2009). Comunque, ci basti qui evidenziare il ruolo centrale della produzione dei saperi nelle forme contemporanee del lavoro e dell’accumulazione, efficacemente messo in evidenza dal saggio di Aihwa Ong: è attraverso la conoscenza che si determinano le gerarchie all’interno del mercato globale. Frantumatesi le illusioni delle dot.com e la retorica degli “analisti di simboli”, come ben racconta Ong, il declassamento è diventata la dura realtà del lavoro cognitivo. Tutto sommato, molte delle nuove definizione dei produttori di conoscenza – si pensi ancora una volta alla creative class – non sono altro che il tentativo di trovare un equivalente funzionale del ruolo, sociale e politico prima ancora che economico, che in passato svolgeva un ceto medio ora in fase di dissoluzione. La «guerra globale dei talenti» di cui parla Florida (2006) disegna perciò uno scenario in cui la centralità della cooperazione sociale e la sempre più stretta interdipendenza globale della produzione deve essere continuamente segmentata e divisa dallo scontro tra le elite nazionali per l’egemonia dei mercati e la lotta intestina tra i lavoratori cognitivi per la loro sopravvivenza. Insieme a tali illusioni, è caduta anche l’idea che le mansioni ad alto skill siano al riparo dall’esternalizzazione: soprattutto nella crisi si moltiplicano i casi di imprese che optano per l’esternalizzazione di attività ad alto contenuto cognitivo verso luoghi in cui possono trovare una manodopera a basso costo. Allora, è attraverso la conoscenza che si disegnano le nuove geografie della divisione del lavoro. Si prenda 15 l’esempio dell’iPhone: nel luglio del 2007, pochi giorni dopo le impressionanti code di consumatori in fila nelle città americane per comprare il gioiellino della Apple, The New York Times vi ha dedicato un articolo per dimostrare come la sua produzione non sia riducibile alla classica divisione di software e componentistica tra paesi del “primo” e del “terzo mondo”. Le imprese di Taiwan giocano un ruolo fondamentale nell’innovazione tecnologica, sono le mani (e i cervelli) silenziosi che stanno dietro all’iPhone. D’altro canto, la parte di progettazione sviluppata sul suolo americano si basa in buona misura sul lavoro dei “tecnomigranti” indiani descritti da Ong: è il caso, esemplare in quanto affatto comune, di Sajit, ingegnere indiano trasferitosi negli Stati Uniti attraverso un body shop, sistema di intermediazione che alloca il lavoro a basso costo nei mercati dell’hi-tech (Xiang, 2007). Approdato in California dopo aver lavorato in un’azienda di software a Houston, Sajit – come molti suoi connazionali – fa anche il taxista, strada temporanea per realizzare il proprio “sogno americano”. Sogno di difficile realizzazione, per Sajit così come per gli ingegneri bianchi della Silicon Valley colpiti da un vero e proprio déclassement quando le loro imprese hanno deciso per l’outsourcing a Bangalore, in India appunto. Ad essere qui messa in discussione è quindi la tradizionale immagine della divisione internazionale del lavoro, che affonda le proprie radici nei principi dell’economia politica elaborati da Ricardo e nell’analisi smithiana della ricchezza delle nazioni, per poi essere ricalcata sulla divisione geografica tra zone “avanzate” ed “arretrate”. Già durante gli anni Novanta Manuel Castells (2002), ipotizzando il passaggio alla società «informazionale», evidenziava il problema: «La teoria della nuova divisione internazionale del lavoro sottostante alle analisi degli impatti differenziali di commercio e globalizzazione sulla forza lavoro, si affida a un assunto che è messo in dubbio dall’osservazione empirica dei processi produttivi nelle aree di nuova industrializzazione: vale a dire la persistenza di un divario di produttività tra lavoratori e fabbriche nel Sud e nel Nord del mondo. […] Più si approfondisce il processo di globalizzazione economica, più si espande l’interpenetrazione delle reti di produzione e gestione al di là dei confini, e più stretti divengono i collegamenti tra le condizioni della forza lavoro nei diversi paesi, posti a livelli diversi di retribuzione e tutela sociale, ma sempre meno distinti per competenze e tecnologia» (pp. 275-276). Oggi nelle metropoli globali del capitalismo contemporaneo sempre più è possibile osservare – con intensità e gradazioni estremamente differenti – l’intero spettro delle forme contemporanee della produzione e del lavoro. Non è questa la sede per approfondire la validità euristica della categoria di “divisione cognitiva del 16 lavoro”. Sicuramente, se non si vuole riproporre immagini che ricalcano la diffusa quanto dubbia idea di un “postfordismo occidentale” che si alimenta di un “fordismo periferico”, è necessario che l’ipotesi del capitalismo cognitivo cerchi le sue verifiche ed eventuali correzioni all’interno delle coordinate spazio-temporali disegnate dai processi di unificazione del mercato mondiale e di gerarchizzazione della forza lavoro transnazionale. 4. L’ipotesi cognitiva nella ricerca sul campo I lavori di ricerca sul campo qui presentati – dando concretamente corpo quell’indicazione metodologica di Marchisio orientata all’inchiesta che costituisce il fondamento dello stile operaista e della produzione teorica post-operaista – restituiscono proprio la dimensione globale dei processi qui analizzati: come abbiamo visto, infatti, nel dissolversi della tradizionale dialettica tra centro e periferia, qualsiasi ipotesi sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo deve assumere il farsi uno del mondo. Migrazioni e mobilità del lavoro si rivelano centrali, come mostra in modo convincente Ong decostruendo gli ideali del maschio americano middle class. E nelle nuove geografie spazio-temporali del capitale globale, ci suggeriscono i saggi basati sul fieldwork, titoli di istruzione e confini, ovvero scuole, università e stati, diventano innanzitutto dispositivi di regolazione (perlopiù artificiale, potremmo dire seguendo la grammatica dei teorici dell’ipotesi cognitiva) del valore di una forza lavoro transnazionale e flessibile. Studiando il caso del «triangolo della ricerca» del North Carolina, Anna Curcio – aprendo un campo di ricerca in parte inedito nella letteratura socio-lavorista italiana – legge il passaggio dalle fabbriche “fordiste” alle “fabbriche della conoscenza” alla luce della produzione della razza. Perciò non solo la «linea del colore» non è separata dai rapporti di produzione, ma al contrario è attraverso essa che si modulano le linee del lavoro e dello sfruttamento. In altri termini, le attitudini relazionali, linguistiche, affettive e cooperative della forza lavoro contemporanea, descritte con precisione nei saggi di apertura del volume, vengono qui gerarchizzate per mezzo della loro etnicizzazione: le differenze, spesso evocate come fonte di trasformazione radicale, possono quindi essere messe a valore nei circuiti dell’accumulazione capitalistica. In questo quadro, il saggio di Curcio rileva come il management aziendale vada di pari passo con il management della razza, in una scala che va dalla whiteness alla blackness in cui si determinano i processi di inclusione subordinata della forza lavoro latinos. 17 Dentro la globalizzazione, infatti, anche la dialettica tra dentro e fuori va fecondamene ripensata: il saggio di Xiang Biao sulle migrazioni dalla Cina verso Giappone, Corea del Sud e Signore, ossia in una macro-area centrale per comprendere i mutamenti del capitale globale, non dipingono uno scenario di esclusione, ma piuttosto di quella che potremmo chiamare inclusione differenziale (Mezzadra, 2008). Si tratta di una logica che unifica attraverso la segmentazione, connette frammentando, ricompone gli spazi dividendo e gerarchizzando le figure del lavoro. Come già nel saggio di Ong, anche Xiang mostra come la stessa definizione dello skill tende a perdere valore descrittivo dell’attività svolta per assumere principalmente una funzione di divisione, ovvero di controllo. Basti pensare – ritornando all’esempio del circuito globale della produzione hi-tech – al già citato caso dei body shop, dei “tecnomigranti” indiani e di Sajit: la loro definizione in quanto lavoratore high skill o low skill non risponde tanto all’attività svolta e alle capacità che possiede, quanto innanzitutto alle necessità di ricatto delle imprese attraverso la politica dei visti. Anche la certificazione delle competenze, dunque, funzionano come moltiplicazione dei confini salariali e di segmentazione ed etnicizzazione della forza lavoro globale. La formazione, ci suggerisce allora Xiang, diviene tecnologia di governo della mobilità del lavoro, di inclusione differenziale appunto. Ma i soggetti produttivi tendono continuamente a sfuggire alla produzione di tali confini, anch’essi sempre più mobili e flessibili, per mettere in tensione le nuove geografie del capitale globale. Così, se Xiang descrive le nuove forme di governance transnazionale, Curcio e Andrew Ross ne mostrano l’intima fragilità di fronte alla mobilità del lavoro vivo e alle sue forme di resistenza. Il disimpegno della responsabilità aziendale nei confronti dei lavoratori, su cui ci si è a lungo soffermati negli ultimi anni e ancor più nell’avanzare della crisi nei termini di un deterioramento etico (Gallino, 2005), cessa di essere un processo unilaterale: l’infedeltà del lavoro vivo rispetto alle imprese – cioè lo sciogliersi dei vincoli di lealtà e responsabilità che sono stati la base del compromesso fordista così come dei processi di disciplinamento e interiorizzazione dell’etica del lavoro – costituisce esattamente l’altra faccia della medaglia. La mobilità del capitale globale si trova così, come in uno specchio, a fronteggiare un lavoro vivo altrettanto mobile e globale (Ross, 2006): paradossalmente, allora, il principale problema delle corporation transnazionali non è oggi quello di aumentare la flessibilità della forza lavoro, ma di fidelizzarla. Arriviamo qui, dunque, al nodo della precarietà, uno dei temi centrali delle pratiche dei movimenti sociali in Italia e in Europa nell’ultimo decennio: Ross tenta di tradurne i lessici al di fuori del vecchio continente, mettendo correttamente in evidenza i problemi e il rischio che restino 18 confinati all’interno delle istanze di riconoscimento dei knowledge worker. In questo quadro, comunque, la flessibilità emerge in tutta la sua ambivalenza: affonda le proprie radici nella «rivolta contro il lavoro» prima ancora che nelle tecnologie di governo capitalistiche, che semmai ne rappresentano la risposta. È ciò che già avevano messo in evi,denza come precedentemente sottolineato, sul finire degli anni Novanta Luc Boltanski ed Ève Chiappello (1999), autori con cui proficuamente dialoga il saggio di Lazzarato: in un voluminoso e accurato studio sulla letteratura del management aziendale, hanno infatti mostrato come la categoria di flessibilità ricorra in ugual misura negli anni Settanta e nel decennio loro coevo, ma con un segno completamente rovesciato. Da minaccia al sistema del lavoro salariato e alla stabilità delle gerarchie di potere, passata la grande paura delle lotte, del sabotaggio e dell’assenteismo di massa, la flessibilità è diventata per il management parola d’ordine obbligatoria e ricetta salvifica delle politiche del lavoro. Nella metamorfosi semantica descritta dai due sociologi francesi non vi è la semplice constatazione di una generica possibilità di leggere lo stesso fenomeno da più punti di vista. Emerge piuttosto la genealogia conflittuale del lavoro flessibile, all’interno dello scontro tra pratiche di autonomia e processi di precarizzazione. Essa ci permette di fare un passo oltre la semplice constatazione della «modernità liquida» (Bauman, 2002), né d’altro canto si rappresenta solo come un «Giano bifronte», attraversato da una linea progressiva che deve liberarsi dai rischiosi contraccolpi della «modernità riflessiva» (Beck, 2000). È perciò necessario ripartire dalla genealogia del lavoro precario per indagarne la sua nuova antropologia politica e le sue lotte contro i processi di declassamento. Da questo punto di vista, la rete è anche forma organizzativa delle nuove figure del lavoro. E se Formenti, come aveva già fatto in precedenti lavori (Formenti, 2002), è critico rispetto all’individuazione delle figure del conflitto e dell’organizzazione delle lotte, a partire dall’attività di networking si possono costruire, secondo Ross, quelle che lui chiama «coalizioni» tra differenti soggetti di classe. Il problema, che assume carattere politico prima ancora che teorico, rimane aperto: è la questione della produzione di soggettività dentro la nuova composizione del lavoro vivo. Vari altri nodi e domande si dischiudono a partire dall’ipotesi del capitalismo cognitivo e dai saggi qui presentati. Come cambia, ad esempio, l’organizzazione di impresa laddove muta radicalmente la classica formula trinitaria, cioè salario, profitto e rendita, ovvero si sostiene che la creazione del plusvalore passi attraverso la cattura della cooperazione sociale? Il concetto di ciclo produttivo ed economico può ancora essere utilizzato, oppure in che modo deve essere ridefinito alla luce della crisi globale? Come la «tendenza imperfetta alla 19 sussunzione reale» di cui parla Vercellone ci permette di leggere il paradigma della cognitivizzazione al di fuori di una successione lineare e progressiva di tempi e spazi dei modelli produttivi? È possibile ripensare il welfare, tema su cui da tempo si confronta una parte importante della letteratura sociologica (Paci, 2005; Castel, 2004), a partire dalle domande poste dalle nuove figure del lavoro e dai movimenti che animano la società? Infine, la questione del comune può qui uscire dall’evocazione per diventare materia di inchiesta, connessa alle trasformazioni del lavoro e alla sua qualità di auto-organizzazione, cioè alla capacità di costruire nuove istituzioni dentro la crisi della governance contemporanea. Tali domande, tra le molte che ancora si potrebbero porre, possono servire ad approfondire la discussione attorno all’ipotesi del capitalismo cognitivo e, soprattutto, alle questioni che esso solleva. Ad ogni buon conto, al di là di tale verifica critica, nella misura in cui questo volume può contribuire a porre tali interrogativi dentro la disciplina socio-lavorista, può dire di aver raggiunto un importante obiettivo. Bibliografia Aglietta M. (2001), “Regolazione e crisi del capitalismo”, in Aglietta M., Lunghini G., Sul capitalismo contemporaneo, Torino, Bollati Boringhieri. Amendola A., Bazzicalupo L., Chicchi F., Tucci A., a cura di (2008), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Macerata, Quodlibet. Bauman Z. (2002), Modernità liquida (2000), trad. it. Roma-Bari, Laterza. Bazzicalupo L. (2006), Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-Bari, Laterza. Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), trad. it. Roma, Carocci. 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