Cecilia Pennacini Comunità, famiglia, terapia: una visione antropologica Ringrazio per l’invito a partecipare a questo convegno. Devo subito dire che, in quanto antropologa, mi trovo in una posizione un po’ marginale rispetto alle vostre competenze, anche se l’antropologia culturale ha da sempre intrattenuto molteplici rapporti con le scienze psicologiche e psichiatriche. Mano a mano che i paradigmi psicologici e psichiatrici sono evoluti, come mi pare si possa osservare, verso la considerazione fondamentale dei contesti sociali e culturali nella costruzione stessa dei concetti di ‘malattia mentale’ e di terapia, il rapporto tra scienze psicologiche e scienze sociali è in effetti divenuto più stretto e necessario. Inoltre, ma è solo una battuta, l’antropologia è considerata una scienza che pone al centro lo studio dei confini, dei limiti, delle frontiere, dei margini, degli scarti, dei passaggi (ecc.), e dunque anche in questo senso può forse dare un contributo allo studio delle sindromi “marginali”. Il mio intervento si articolerà in due parti. Nella prima tento di offrire alcuni spunti di riflessione intesi a ripensare i concetti di ‘comunità’, ‘famiglia’ e ‘terapia’ e le loro strette interazioni secondo una prospettiva antropologica. Nella seconda parte del mio intervento riprenderò questi concetti alla luce di un caso etnografico, che conosco per averlo studiato direttamente nel ultimi dieci anni circa, e cioè il sistema religiosoterapeutico tradizionale dell’Africa dei Grandi Laghi. 1. Famiglia Credo che convenga iniziare prendendo in considerazione la famiglia, il gruppo all’interno del quale l’individuo fa per la prima volta esperienza delle sue relazioni sociali. La dimensione familiare è certamente prioritaria nello sviluppo individuale, motivo per cui essa costituisce anche – come le scienze psicologiche hanno ben dimostrato fin dall’inizio della loro storia – il contesto principale all’interno del quale si formano le patologie relazionali. Già Malinowski aveva avuto modo di affermare che “La dottrina psicoanalitica è essenzialmente una teoria dell’influenza della vita familiare sulla mente umana”, 1927: 27); la psicoanalisi prende in considerazione però un tipo molto specifico e nient’affatto universale di organizzazione sociale: la famiglia nucleare. L’intero “dramma freudiano” (Malinowski 1927: 27) si svolge all’interno di questa specifica forma socio-culturale. Uno sforzo di relativizzazione del concetto di famiglia in quanto parte essenziale della struttura sociale può forse aiutarci a comprendere come determinate sindromi potrebbero essersi originate all’interno di forme sociali specifiche. Parlare di famiglia, da una prospettiva antropologica, significa affacciarsi su uno scenario straordinariamente complesso e variegato, di fronte al quale è opportuno domandarsi se esista davvero una famiglia universale o al contrario se le forme di famiglia non siano così tante e sconcertanti nella loro diversità da mettere in dubbio la definizione stessa di un concetto generale, con tutte le conseguenze teoriche ed epistemologiche che si possono trarre da questa posizione. Come sappiamo, il dibattito su cosa sia o su cosa debba essere una famiglia è oggi estremamente attuale. Nonostante la tesi ampiamente diffusa (e riproposta anche dalla costituzione italiana, all’art. 29) della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” - l’idea cioè che la famiglia umana (ma che tipo di famiglia?) esista in natura e sia in qualche modo inscritta nei geni della specie - l’antropologia è oggi unanime nel presentare invece la famiglia come un costrutto culturale. Non esistono (almeno per l’antropologia) “famiglie naturali” ma solo modelli culturali di famiglie, estremamente variabili nel tempo e nello spazio. Una prima “relativizzazione” del concetto di famiglia rinvia all’opposizione famiglia estesa – famiglia nucleare. In Occidente quando si parla di famiglia si pensa immediatamente alla famiglia nucleare composta da due genitori di sesso opposto e dalla loro prole. Se possiamo ammettere che questa famiglia nucleare rimane il caso più diffuso nell’Occidente attuale, essa non costituisce invece la forma predominante se prendiamo in considerazione una dimensione storica e geografica più vasta. In Europa la famiglia nucleare si diffonde infatti piuttosto tardi, soprattutto in concomitanza con i fenomeni di urbanizzazione che hanno accompagnato le rivoluzione industriale del XVIII secolo, e fuori dal primo mondo essa è ancora oggi abbastanza rara. Comuni invece sono diverse forme di estensione del gruppo domestico in senso orizzontale (fratelli o sorelle che vivono insieme ai loro coniugi e alla prole) o verticale (matrimoni patrilocali o matrilocali). Vi lascio immaginare le conseguenze psicologiche di una situazione familiare dove i bambini fin dalla più tenera infanzia abbiano costantemente a 2 disposizione una molteplicità di figure di riferimento (nutrici, zie, zii, cugini, fratelli, sorelle, vicini, nonni, prozii, ecc.) i quali scardinano la chiusura della relazione parentale a favore di una molteplicità di modelli affettivi e identitari. In questa molteplicità, che spesso è dato di vedere ad esempio nelle famiglie africane, i bambini sembrano in un certo senso più liberi di scegliersi i propri riferimenti e i propri modelli, in un processo che potremmo definire “auto-poietico”. La questione delle relazioni familiari si complica poi ulteriormente se teniamo conto delle diverse modalità di calcolo della discendenza e sugli effetti che queste scelte culturali producono sulle relazioni tra le generazioni. Malinowski aveva già chiaramente mostrato nel famoso volume del 1927 che la presunta universalità del complesso di Edipo era messa in dubbio dalla diffusione di sistemi di discendenza matrilineari all’interno dei quali l’autorità maschile non è rappresentata dal padre bensì dallo zio materno, con tutte le conseguenze psicologiche che questo fatto può comportare. Più in generale, molte culture incoraggiano una molteplicità di “care-givers”, spesso favorendo addirittura l’adozione di bambini da parte di zii o altri parenti. E’ ciò che accade ad esempio nell’isoletta polinesiana di Tikopia, studiata da Raymond Firth. Qui gli indigeni affermano che “E’ male per un figlio aderire soltanto ai suoi genitori” ed è male che la famiglia si isoli troppo rispetto al resto della società (cit. in Remotti 2007: 49). E’ positivo invece spezzare quei legami che rischiano di diventare esclusivi, assorbenti e in qualche modo anti-sociali. Il bambino deve essere socialmente svezzato al di fuori della famiglia nucleare, in un contesto di cura più ampio e diversificato, anche semplicemente per minimizzare i rischi di eventuali relazioni patogeniche. Esistono dunque molti tipi di famiglia, dalle famiglie monoparentali o matrifocali, sempre più diffuse in ogni parte del mondo, alle famiglie estese in senso orizzontale o verticale, a matrimoni tra persone delle stesso sesso (diversi i casi classici, come il berdache degli indiani delle pianure o il matrimonio tra donne dei Nuer) che prevedono anche meccanismi che consentono la riproduzione e l’allevamento dei bambini, oppure matrimoni tra persone con marcate differenze di età (ad es. donne adulte che sposano lattanti), senza alcuna implicazione sessuale ma con importanti ricadute sociali e patrimoniali. Ovviamente è importante in questo complesso e bizzarro scenario tener conto del fatto che in molte delle società cui si è fatto cenno il matrimonio e la famiglia sono istituzioni fondamentalmente sociali, che poco hanno a che vedere con l’esercizio 3 della sessualità. Tale sfera solo raramente è considerata di pertinenza della materia che regola la vita matrimoniale e familiare. 2. Comunità La dimensione della famiglia, fondamentale pur nelle sue differenze nella maggior parte delle società, si inquadra nella dimensione dei più ampi rapporti sociali definiti da ambiti economici, occupazionali, politici, di genere, di età, ecc., che nel loro insieme vanno a comporre la struttura sociale. A questo livello, le scienze sociali hanno individuato in generale due dimensioni diverse e complementari all’interno delle quali le relazioni sociali extrafamiliari si dispiegano: la dimensione della comunità e quella della società più vasta. In particolare, il concetto di comunità ha avuto grande successo nelle scienze umane, soprattutto in sociologia e in antropologia. Esso sembra rispondere all’esigenza di definire e analizzare l’evoluzione dei gruppi sociali, che si muoverebbero dalla dimensione ristretta della piccola comunità a quella della società più vasta. Il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies introduce a fine ottocento la dicotomia gemeinshaft (comunità) e gesellshaft (società) per marcare appunto questo passaggio. Se la comunità era vista da Tönnies come una dimensione sociale caratterizzata da rapporti faccia a faccia, relazioni concrete vissute in un luogo fisico definito e abbastanza circoscritto (ad esempio un villaggio), la società è invece una dimensione sociale complessa, fatta di relazioni molto più ampie, anonime, impersonali, per lo più regolate da una struttura abbastanza rigida e spesso gerarchica, conflittuale e competitiva. Tönnies inseriva le due dimensioni della comunità e della società in una prospettiva evolutiva: man mano che i gruppi si ingrandiscono e si sviluppano, essi abbandonano la vita di comunità per costruire relazioni sociali sempre più complesse e spersonalizzate. Nel corso del Novecento l’evoluzionismo culturale, all’interno del quale possiamo situare questa teoria di Tönnies, verrà abbandonato lasciando il posto a un succedersi di diverse teorie che rifiutano la prospettiva evolutiva. L’opposizione comunità/società riemerge, in una prospettiva non più evoluzionistica ma piuttosto strutturalfunzionalistica, presso un autore che diverrà famoso per i suoi studi sul rituale: Victor Turner. In un famoso volume dedicato appunto al processo rituale (1969), Turner introduce il concetto di “communitas”, che mutua dai lavori del filosofo ebreo Martin Buber. Per Turner “communitas” da un lato e società, o meglio struttura sociale, 4 dall’altra non sono due momenti di un’evoluzione storica del gruppo sociale, bensì due dimensioni essenziali e compresenti in ogni società, strettamente collegate tra loro da un rapporto di reciproca dipendenza dialettica. Per Turner, infatti, ogni società si fonda su di una struttura di relazioni complesse, gerarchiche e spesso competitive, all’interno della quale l’individuo è incardinato e in un certo senso anche incastrato da forze coercitive; per quanto si possano prevedere talune forme di mobilità e di creatività, a ciascuno viene in generale assegnato nella società un ruolo preciso, determinato dal suo status, genere, età, ecc. Tuttavia, Turner mette in luce come ogni struttura sociale, per poter sopravvivere e riprodursi nel tempo, deve potersi rigenerare all’interno di un processo dinamico, descritto come una dialettica tra la struttura e l’antistruttura. In altre parole, nessuna società può permettersi di vivere costantemente in una dimensione strutturale. E’ sempre necessario prevedere momenti antristrutturali che consentano alla struttura di rigenerarsi e di mutare e agli individui di percepire i confini della struttura e il loro ruolo in essa. La ‘communitas’ rappresenta precisamente questa dimensione anti-strutturale. Buber definisce la comunità: “Il non essere più fianco a fianco (e si potrebbe aggiungere sopra e sotto) di una moltitudine di persone, ma l’essere l’uno con l’altro. E questa moltitudine, pur muovendosi verso un obiettivo, tuttavia sperimenta dappertutto un volgersi a, un dinamico star di fronte degli altri, un fluire dall’Io al Tu” (Buber, 1961: 51, cit. in Turner 2001: 143). La comunità in questo caso è la dimensione in cui si sviluppano rapporti di parità, fratellanza, condivisione profonda e anche emotiva di esperienze sociali fondamentalmente antistrutturali. Come possiamo notare, la comunità in questa concezione si pone in un certo senso agli antipodi della famiglia, la quale costituisce invece la cellula base della struttura sociale. Le comunità di cui ci occupiamo in questo convegno sono naturalmente qualcosa di molto più specifico, trattandosi di comunità terapeutiche. Tuttavia mi pare si possa cogliere in esse alcuni aspetti delle teorie cui ho fatto cenno: 1) le comunità terapeutiche sono infatti ambiti sociali profondamente caratterizzati da rapporti in praesentia, vissuti, concreti e dunque carichi di contenuti emotivi; 2) esse si contrappongono in certa misura alla società più vasta dove vigono invece relazioni impersonali, strutturali e gerarchiche; 3) esse vengono proposte come alternativa almeno temporanea alla struttura familiare, consentendo al paziente di fare esperienza di relazioni che sfuggono alla dimensione 5 strutturale e si dipanano invece in un’atmosfera maggiormente spontanea e antistrutturale. Se la società più vasta mette l’accento dunque sulla struttura e sulle sue esigenze di gerarchia e competitività, la comunità (anche quella terapeutica) valorizza invece una condivisione di esperienze e di valori che, più che dividere le persone ponendole su piani diversi, tenta di affratellarle e unirle. Ben inteso, le due dimensioni della società e della comunità risultano entrambe necessarie e complementari e non si pongono mai in alternativa l’una con l’altra. Ciascun individuo dovrebbe poter fare alternativamente esperienza della dimensione strutturale e di quella comunitaria, che normalmente si esprime nei momenti rituali. Le comunità terapeutiche, per quel poco che ho potuto vedere, ripropongono la dimensioni delle relazioni vissute e concrete in alternativa (almeno momentanea) alla più vasta struttura sociale. In questa dimensione, coloro che per ragioni in questo caso patologiche devono essere momentaneamente allontanati dalla società, hanno la possibilità qui di rigenerare la loro esperienza relazionale attraverso rapporti di “fratellanza”. La dimensione antigerarchica e antistrutturale (nei limiti delle possibilità di funzionamento di una struttura di tipo sanitario) mi pare siano valorizzate, almeno nella comunità che ho potuto visitare. Questa dimensione dovrebbe, almeno in linea teorica, favorire la ricostruzione di relazioni sociali strutturali. 3. Terapia Società e culture hanno inventato diversi tipi di famiglia, predisposti a riprodurre la struttura sociale attraverso l’esercizio del controllo della riproduzione biologica, per poi forgiare la prole secondo uno specifico modello. In questo processo si costruiscono letteralmente gli individui i quali vengono fin da subito proiettati, attraverso le relazioni familiari, verso il modello sociale in vigore. La famiglia e le sue relazioni, che si tratti di nucleare, estesa, monoparentale o altro, prepara l’individuo a una certa struttura sociale e ai ruoli che vi dovrà ricoprire. Ovunque, tuttavia, questo complesso e delicato meccanismo può entrare in crisi, dando luogo a patologie specifiche. Se la malattia mentale si produce essenzialmente all’interno delle relazioni familiari, tale patologia non può che essere strettamente dipendente nelle sue manifestazioni e nelle sue concezioni dalla specifica forma di famiglia che la società si è data. Detto altrimenti, se la famiglia è un costrutto socio-culturale lo sono anche le sue patologie. 6 Una delle domande che possiamo porci a questo punto riguarda le patologie specifiche della società occidentale e del suo particolare tipo di famiglia: la sindrome bordeline può essere considerata il prodotto specifico della famiglia nucleare, una forma sociale inventata nelle città europee nei secoli XVIII e XIX, e delle sue disfunzioni? La chiusura (che in taluni casi sembra la ricerca di una sorta di autosufficienza) della relazione madre-figlio, che si attua talvolta all’interno di questo modello familiare, può essere considerata un fatto antisociale e dunque potenzialmente pericoloso, nel momento in cui la madre è portatrice a sua volta di traumi precedenti? Infine, la relazione psico-terapeutica classica che si esplica nel rapporto a due paziente/terapeuta, nel chiuso di una stanza, soggetta alle limitazioni temporali che vengono di consueto imposte, non riproduce a sua volta tale chiusura e tale dipendenza? L’ipotesi che sto tentando di formulare vorrebbe proporre una relazione stretta tra modello di famiglia, patologia psichiatrica e risposta diagnostico-terapeutica. Questi tre aspetti sono a mio parere strettamente connessi all’interno del medesimo orizzonte culturale che li ha originati. La controprova potrebbe consistere nel prendere in considerazione un contesto che presenti un diverso modello di famiglia e di conseguenza patologie relazionali descritte, classificate e trattate secondo altri schemi interpretativi. Tenterò dunque di presentarvi brevemente il caso del sistema terapeutico-religioso utilizzato nell’Africa dei Grandi Laghi, che ho potuto studiare nel corso delle mie ricerche sul campo. 4. Il sistema religioso-terapeutico dell’Africa dei Grandi Laghi La regione dei Grandi Laghi africani, pur suddivisa in cinque stati nazionali e in una ventina di società diverse (che parlano lingue differenti e presentano svariate forme di organizzazione politica), presenta una notevole uniformità culturale, rilevabile in particolare a livello della tradizione terapeutico-religiosa. In tutte le società interlacustri viene infatti praticato un culto di possessione, denominato kubandwa nelle lingue locali, all’interno del quale dei medium, posseduti da spiriti di eroi e sovrani che si ritiene avessero un tempo vissuto nell’area, esercitano funzioni divinatorie e terapeutiche. Accanto a queste figure maggiori, sono presenti altri specialisti magico-religiosi: guaritori-indovini che apprendono tecniche magico-divinatorie da colleghi anziani (senza tuttavia possedere il carisma che i medium ottengono in virtù della possessione spiritica), erboristi specializzati nell’impiego della farmacopea, e infine stregoni che utilizzano la 7 magia nera a scopi malefici. Tali categorie di specialisti, soprattutto al giorno d’oggi tendono a sovrapporsi le une all’interno di un’offerta terapeutica piuttosto flessibile. Inoltre, accanto a queste figure tradizionali troviamo attualmente numerose figure di guaritori religiosi, soprattutto pentecostali o musulmani, oltre che rappresentanti della medicina e anche della psichiatria occidentale. L’offerta terapeutica è dunque vasta e articolata; essa si fonda sulla compresenza di sistemi religiosi e terapeutici differenti. Mi concentrerò sul sistema tradizionale, in quanto è quello che si discosta maggiormente dal sistema europeo. Innanzitutto descriverò brevemente (e fin troppo schematicamente) il modello di famiglia presente nei Grandi Laghi. Qui siamo in presenza di una struttura di discendenza patrilineare, che dunque calcola i parenti solo per via maschile (la madre e le relazioni uterine non danno luogo, almeno in linea teorica, a rapporti di parentela). Il matrimonio è poliginico e virilocale, dunque un uomo può sposare diverse donne, le quali vanno a vivere nel villaggio e sulla terra del clan del marito, ciascuna dando luogo a una sua cellula matrifocale basata in una casa (un “focolare”) dove la donna vive lavorando la sua porzione di campo con i suoi figli. Il marito circola tra le mogli visitandole a turno. Il modello si è ovviamente modificato a partire dall’evangelizzazione (circa il 65% della popolazione oggi è cristiana), e tuttavia nonostante l’avversione dei missionari e del clero nei confronti della poliginia, essa è ancora presente soprattutto nei contesti rurali, dove assolve anche a una funzione economica. La famiglia dei Grandi Laghi non è però descritta correttamente, almeno in termini “emici”, se non si dà risalto alla presenza in essa dei defunti. La famiglia è infatti concepita come un gruppo di discendenza di cui fanno parte con egual diritto i vivi e i defunti. La morte comporta infatti la trasformazione di una persona in uno spirito, che continua - in forme e gradi diversi a seconda del tempo intercorso dal momento della morte - a vivere all’interno del nucleo domestico, dove per altro è stato sepolto. I defunti sono vividamente percepiti come parte del gruppo domestico, protagonisti di offerte e rituali miranti a pacificarli, poiché la loro presenza è sentita per lo più come minacciosa e pericolosa. La famiglia è dunque estesa soprattutto nella dimensione verticale delle generazioni che si susseguono, nonostante la morte. Quali patologie mentali possono affliggere individui che crescono all’interno di queste famiglie? La visione locale ci parla di una costellazione di disturbi ben codificata e ricorrente nelle storie dei pazienti, che viene ricondotta a due ordini di spiegazioni- 8 classificazioni: la causa prima e principale dei disturbi mentali rimanda alla possessione da parte degli spiriti. Si può trattare degli spiriti dei defunti della famiglia, gli antenati, che vengono a vessare e infastidire un discendente che ha mancato nei loro confronti, dimenticando le offerte e i rituali che dovrebbero tener viva la memoria del morto, oppure di spiriti super-clanici divinizzati, la cui possessione prelude all’iniziazione al rango di medium. Come si può vedere, la patologia è considerata anche il primo passo nel percorso che conduce una persona a divenire medium e guaritore. Solo colui o colei che ha fatto esperienza personale della malattia potrà infatti trasformarsi in mediatore e terapeuta. La seconda causa di disturbo rinvia invece alla stregoneria, cioè alla volontà di qualcuno di danneggiare il paziente utilizzando tecniche e sostanze streganti, per cause che vanno dall’invidia al rancore, e più in generale all’espressione del conflitto sociale. Queste due condizioni (possessione e stregoneria) danno luogo a una costellazione di disturbi mentali e sociali che rientrerebbero, in Occidente, in una diagnosi di tipo psichiatrico. Si tratta tipicamente di una serie di sintomi che implicano una difficoltà a mantenere le relazioni familiari all’interno del gruppo domestico. I pazienti descrivono una storia clinica spesso abbastanza stereotipata, fatta di delirio, allucinazioni, incapacità di comunicare, rifiuto a condividere il cibo nella dimensione familiare, successivo abbandono del nucleo domestico, vagabondaggio nella foresta, sintomi che in generale rinviano a un’interruzione delle relazioni familiari, non più sostenibili per il paziente. Come si svolge la terapia? Il paziente viene normalmente portato dal medium dopo un periodo prolungato di manifestazione dei sintomi. La famiglia estesa accompagna il paziente (il coniuge se c’è, i genitori, spesso i nonni, a volte i vicini di casa). Il medium procede a una consultazione collettiva, in cui di fronte a tutti i parenti riuniti effettua una delle forme di divinazione in suo possesso, proponendo un’interpretazione della malattia. Le cause vengono per lo più rinviate a una rottura nelle relazioni con i parenti defunti. La cura consiste allora nell’effettuare per un certo periodo una serie di rituali mirati ai defunti, fatti di offerte e gesti significativi, che risvegliano nel paziente e nei suoi familiari il senso di appartenenza al gruppo esteso rigenerando le relazioni familiari. Nel caso di disturbi gravi, che la famiglia non riesce a gestire al suo interno, il paziente viene “internato” nella clinica del medium (che possiede sempre la possibilità di ospitare il paziente e alcuni suoi parenti per un periodo anche prolungato) insieme ad alcuni parenti stretti. In questo modo il medium accompagna i rituali familiari 9 riorganizzando le relazioni. In alcuni casi la patologia può essere curata soltanto tramite un’iniziazione al rango di guaritore. Dopo tale iniziazione il paziente ottiene un nuovo ruolo che lo porterà a vivere al di fuori della famiglia, il suo status viene modificato e innalzato così ad una dimensione pubblica. In questo sistema, la “pazzia” viene interpretata fondamentalmente come una presenza spirituale aliena dentro al Sé: si tratta di spiriti ancestrali che vengono a infastidire la persona che ha mancato nei loro confronti dimenticandosi di loro, oppure di spiriti superclanici che per così dire estraggono la persona dal suo ambiente familiare per farne un guaritore e un indovino. Nel primo caso è evidente come il sistema della famiglia estesa produce le sue patologie nel momento in cui i vincoli ancestrali vengono trascurati. La terapia consiste allora nel riorganizzare tali relazioni ricostruendo l’immagine dei defunti. Nel secondo caso invece la società prevede la possibilità di una vera e propria uscita dalla famiglia per quegli individui che non riescono ad integrarvisi. In questo caso, invece di insistere sulla ricostituzione dei legami, si apre una strada completamente diversa, quella della loro rescissione in vista dell’acquisizione di un nuovo status, lo status del medium-guaritore. Questi individui hanno in un certo senso abbandonato la loro famiglia dapprima durante la fase della malattia iniziatica, che significativamente li portava fuori dall’ambiente domestico a vagabondare in solitudine nella foresta, e successivamente, attraverso il rito iniziatico a entrare in una nuova dimensione, quella del gruppo dei medium che si occupa non più del benessere della propria famiglia ma di chiunque anche fuori dal clan richieda i suoi servigi. La pazzia è dunque “creata” per così dire dagli spiriti, dagli spiriti familiari nel primo caso, da quelli nazionali nel secondo. Essa non è mai concepita come un disturbo organico, “naturale”, anche se organiche eventualmente possono essere le sue manifestazioni. Anzi, persino patologie che chiaramente nel sistema medico occidentale presenterebbero un’eziologia batterica o virale (addirittura l’AIDS), vengono il più delle volte ricondotte a cause spirituali o alla stregoneria. Si tratta dunque di un sistema medico che pone al centro la dimensione spirituale, la quale a sua volta rinvia alla centralità delle relazioni familiari della famiglia estesa dei vivi e dei defunti e ai rischi delle loro interruzioni. Nonostante tale centralità, tuttavia, non tutti sono costretti a vivere all’interno di tali relazioni. Alcuni individui manifestano spesso fin dall’infanzia una sintomatologia grave che viene ricondotta alla possessione degli spiriti non familiari. A queste persone viene offerto un percorso alternativo: uscire definitivamente dalla 10 famiglia e entrare nella “comunità” dei medium, intraprendendo un percorso terapeutico e iniziatico che in generale trasforma i sintomi in manifestazioni della positiva presenza degli spiriti. Nella comunità dei medium non c’è famiglia e non c’è gerarchia. Ciascun medium vive occupandosi dei suoi pazienti, in una dimensione considerata parallela a quella della società normale e delle sue regole. Per quel che ho potuto vedere, questi percorsi terapeutici hanno in generale successo. Gli unici casi non trattabili che ho potuto osservare riguardavano persone che la famiglia non aveva, per diversi motivi, voluto far iniziare al culto. In questo caso i sintomi della malattia iniziatica, che normalmente si trasformano attraverso il rito di iniziazione in tecniche divinatorie e terapeutiche, restavano allo stadio patologico, cronicizzando per così dire il malato in una condizione di asocialità definitiva. 5. Conclusioni Il sistema terapeutico dei Grandi Laghi è coerente con il modello famigliare che queste società si sono date: esso insiste soprattutto su di una famiglia trans-generazionale che comprende i vivi e i defunti, una struttura all’interno della quale ego si sente erede di una lunga lista di parenti patrilineari la cui memoria risulta indispensabile nella costruzione della propria identità. La pazzia nasce dal trascurare la memoria dei defunti; la terapia interviene allora a ricostituire i legami rotti, un’operazione svolta collettivamente dai parenti in vita, dal momento che la relazione con i defunti viene coltivata collettivamente. Tuttavia, per quanto il sistema ponga al centro la famiglia estesa in senso verticale, è previsto che alcuni individui possano fuoriuscire completamente da questa rete. La pazzia severa che colpisce i futuri medium viene letta come la manifestazione di una rottura insanabile con i parenti e il clan. In questo caso un’alternativa alla famiglia viene offerta ai pazienti: entrare nella comunità dei medium, una dimensione caratterizzata da forti elementi di anti-struttura. I medium sono infatti persone in qualche modo marginali e trasgressive, esse vivono accanto alla struttura sociale ma non vi partecipano completamente, a loro è consentito rovesciare e trasgredire alcune regole fondamentali, tra loro non c’è gerarchia n’è organizzazione sociale. Le società dei Grandi Laghi hanno dunque immaginato due percorsi patologici e terapeutici differenti per chi non si adatta “naturalmente” alla struttura familiare e sociale: un primo percorso per coloro che, avendo manifestato disturbi a livello delle 11 relazioni familiari, possono essere risocializzati all’interno del nucleo domestico, attraverso un consolidamento per così dire “artificiale” dei vincoli ancestrali; un secondo percorso per coloro che invece devono rompere completamente con la famiglia e con la società per entrare a vivere in una dimensione comunitaria e anti-strutturale, all’interno della quale assumeranno il ruolo di mediatori e guaritori. Una scelta radicale, che permette di recuperare individui altrimenti del tutto inutilizzabili nella società normale, che vengono innalzati a uno status per molti versi superiore anche ai ruoli dell’autorità politica, ma che rimane sempre parallelo e almeno in parte estraneo alla vita sociale. 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