BOLLETTINO U.C.F.I. (UNIONE CATTOLICA FARMACISTI ITALIANI

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Rapporto tra Antropologia e Scienza
PERCHE’ LA SCIENZA NON PUO’ AVERE
L’ULTIMA PAROLA
L’articolo afferma la necessità di considerare e giudicare i risultati delle scienze
sperimentali all’interno dei principi dell’antropologia. Una necessità imposta
dalle patologie di una scienza che rifiuta il suo ruolo di puro strumento
conoscitivo e ama presentarsi sempre più come datrice di senso per la vita
umana e generatrice di etica.
Jürgen Habermas vede il mondo attuale dominato da due
forze contrastanti. Da un lato, un naturalismo scientifico,
dal quale dipende l’egemonia della scienza nella
comunicazione quotidiana. Dall’altro, un inatteso e
attivo ruolo politico della religione, dagli Stati Uniti
all’India e un po’ dovunque. Soffermiamoci sul primo
punto: le possibilità aperte dalla scienza.
Remo Bodei ha ricordato un fortunato romanzo del
1932, Il mondo nuovo, nel quale l’autore, Aldous
Huxley, descriveva una società formata da esseri umani
programmati in base ai ruoli che dovranno svolgere,
fabbricati dentro provette e macchine e soddisfatti della
loro condizione grazie a una droga. Ciò che una volta era
fantascienza ha acquistato oggi una certa plausibilità
mediante le biotecnologie e gli psicofarmaci. È
possibile, in prospettiva, avere bambini su misura
(designed babies), animali transgenici o clonati e stati di
coscienza modificati o alterati da droghe. Dieci anni or
sono, un filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, sostenne la
necessità di programmare gli uomini con l’uso di
tecniche «zoopolitiche» di selezione prenatale e di
modificazione del patrimonio genetico. La nascita degli
uomini non va lasciata al caso. Bisogna invece
tecnologicamente migliorarla. E il modo migliore
consisterebbe nell’assimilare la nascita e il governo degli
uomini all’allevamento degli animali. Contro questa
«eugenetica positiva» presero posizione l’Habermas e
l’allora card. Ratzinger con motivazioni diverse.
È possibile oggi condizionare psicofisicamente milioni
di uomini? Gli osservatori più prudenti ritengono che si
tratti di una prospettiva ancora prematura tecnicamente
e, nelle società democratiche, priva del necessario
appoggio o controllo politico. Tuttavia, è un fatto la
«società sedata». Lo prova non soltanto la
manipolazione mediatica e politica, ma anche, e forse
soprattutto, la diffusione dei farmaci psicotropi che,
soltanto negli Stati Uniti, sono consumati dal 10% della
popolazione equivalente a 28 milioni di persone. Questi
prodotti, appartenenti alla famiglia del Prozac o dello
Zoloft, incidono sui neuro-trasmettitori, calmano l’ansia
e favoriscono uno stato temporaneo di serenità e di
euforia. Il Ritalin, studiato inizialmente per tenere a
freno i bambini ipercinetici e incapaci do
concentrazione, è usato, di fatto, anche per stabilizzare
l’umore e il comportamento degli adulti. Potrebbero
questi farmaci, in versione potenziata, diventare armi di
controllo sociale, come la droga di Huxley o i farmaci
somministrati ai dissidenti politici nei manicomi
sovietici? La massificazione violenta e livellatrice degli
individui, in auge nei regimi totalitari del Novecento,
sarà sostituita da una sorta di benessere artificiale
tendente a fare degli uomini delle monadi chiuse in se
stesse? Come dicevamo, una risposta certa a queste
domande è oggi per molti versi prematura.
Non è però prematura una serie di considerazioni. È
vero, come nota il Bodei, che non siamo ancora in grado
di valutare e assorbire i grandi mutamenti introdotti dalle
biotecnologie e dalla farmacologia. Ne possiamo
misurare e prevedere compiutamente il senso della
trasformazione dallo stadio dell’umano a quello del post
human, cioè del passaggio dai corpi organici agli esseri
fatti di carne e metallo, di silicio e di plastica, di parti
umane e animali che i trapianti possono trasferire da un
individuo all’altro. Ma possiamo già riflettere su una
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realtà evidente per tutti. Le biotecnologie mettono in
discussione convincimenti, abitudini e idee che duravano
da millenni e obbligano a riformulare molti dei
parametri della vita quotidiana, dalle relazioni affettive
di parentela al ruolo della sessualità, dalle norme etiche
e giuridiche riguardanti i diritti dei singoli e delle
famiglie al sistema dei sentimenti che accompagnano i
momenti
solenni
dell’esistenza
dell’uomo:
il
concepimento, la nascita, la paternità e la maternità, la
morte. Ci si sente coinvolti nella rischiosa libertà
determinata dall’egemonia della scienza e dal
naturalismo scientistico che ad essa segue.
sembra dare il primato a un’intelligenza artificiale che
diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e
dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur
sempre salvaguardare l’uomo e promuovere la sua
tensione verso il bene autentico». A questo punto, si
potrebbe avviare la discussione sul rapporto genetico tra
il progresso scientifico e il relativismo nei confronti dei
problemi
fondamentali
dell’esistenza
umana.
«L’eccezionale progresso della scienza, di cui noi
usufruiamo, ha portato alla rinuncia alla verità, che
all’umanità sembra essere inaccessibile nella profondità
del suo interrogativo». È il giudizio dell’allora card.
Ratzinger contenuto in un suo discorso all’Università di
Chieti il 28 gennaio 1989.
Primo: la scienza dell’uomo
I rischi ai quali abbiamo accennato non devono
significare rigetto o sfiducia o ingratitudine nell’opera
della scienza. Segnalano piuttosto la deriva a cui può
condurre il positivismo scientifico, ossia la razionalità di
una scienza che si fa neutrale rispetto ai valori. Uno dei
gravi problemi di oggi è la pretesa di onnipotenza della
scienza che, giocando sulle speranze che accende, aspira
a costruire e fornire il senso della vita. Hans Magnus
Enzensberger ha osservato che essa presenta più
dilemmi che soluzioni e, nel suo ambito, sono proprio le
scienze più giovani, come la biologia, a mostrare quel
tipico vizio dell’adolescenza e della giovinezza che è la
mania di grandezza.
Sui limiti della scienza il Magistero di Benedetto XVI è
particolarmente luminoso. Dopo aver reso omaggio ai
«prodigiosi progressi» conseguiti dalle scienze
sperimentali, il Papa mette in guardia dalla «tentazione
di voler circoscrivere completamente l’identità
dell’essere umano e di chiuderlo nel sapere» scientifico.
Poiché «l’uomo va sempre al di là di quello che di lui si
vede o si percepisce attraverso l’esperienza», è
necessario affiancare alla ricerca scientifica la ricerca
antropologica e teologica. Questa mostra che «l’uomo
non è il frutto del caso e neppure di un insieme di
convergenze, di determinismi o di interazioni
psicochimiche», ma è invece «un essere che gode di una
libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la
trascende e che è il segno del mistero di alterità che lo
abita». Perciò è necessario educare le coscienze
«affinché la scienza non divenga il criterio del bene».
Essa «non è in grado di elaborare princìpi etici: può solo
accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per
debellare le sue eventuali patologie».
È stato detto con arguzia che, nella pratica, non è la
scienza a creare problemi. Sono gli scienziati che fanno
della scienza l’unica forma valida di conoscenza,
traendo da essa ciò che essa non può dire sulla domanda
di senso, competente com’è soltanto nel campo
conoscitivo delle scienze empiriche, ossia in un campo
di conoscenza parziale che deve integrarsi con quelle
forme di conoscenza offerte dalla filosofia e dalla
teologia. Ma non è sfuggito a Benedetto XVI quel nodo
critico che nasce quando la ricerca scientifica si
interseca con la tecnica che la utilizza, applicandola a
risultati concreti. Allora «il contesto contemporaneo
La deformazione del sapere scientifico
Quando si sostiene che soltanto la scienza può far
raggiungere all’uomo la verità, permettendogli di
realizzare appieno il suo essere, si fa del sapere
scientifico il fine ultimo dell’essere: e lo si deforma nella
sua natura di semplice strumento conoscitivo del cosmo
e dell’uomo. Una tale deformazione comporta la
negazione, che attraversa tutta la modernità, di quegli
orizzonti insopprimibili nell’esperienza umana che
avviano oltre la pura materialità, verso la
consapevolezza che esiste una realtà non contraria alla
scienza ma più grande del sapere scientifico: una realtà
che è dato all’uomo di intravedere nella tensione a una
verità perfetta, alla bellezza, all’amore, al sacrificio di sé
per amore.
«L’uomo, questo è il punto che il pensiero illuminista
non ha mai voluto affrontare, percepisce sin dall’inizio
che la sua mente aspira a qualcosa di più, a conoscere,
almeno a intuire, l’infinito e l’invisibile. Immanuel Kant
pone precisi limiti alla conoscenza umana, ma aggiunge
che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo
perde senso, diviene piatta e statica. Ma il razionalismo
scientista preferisce chiudere in un cassetto questa parte
di Kant». L’attività della scienza, quando non esonda dal
sua ambito di ricerca, costituisce una preziosa opera di
ampliamento delle conoscenza umane. E quel suo
ambito dovrebbe essere sempre tenuto ben distinto dalla
tradizione religiosa. Purtroppo, «di tanto in tanto,
qualche cattivo scienziato, in cerca di facile popolarità,
si mette a pontificare, in nome della scienza, su questioni
religiose. Ma quel cattivo scienziato è giustamente
considerato un ciarlatano dagli scienziati seri». In
proposito, è sempre auspicabile che da tutti si lavori per
l’unità del sapere, per l’unità della comprensione dei
contributi delle varie discipline e delle loro relazioni
reciproche.
Altrimenti,
cioè
settorializzare
assolutizzando, si darebbe ragione a un illustre pensatore
contemporaneo: «Il generalista superficiale è il prodotto
di un’educazione incompleta tanto quanto lo specialista
dalle vedute ristrette».
Dicevamo della trasformazione che subisce la scienza
quando, da strumento conoscitivo qual è, la si eleva a
fine della vita umana. Un eminente storico, già negli
anni Trenta del secolo scorso, parlava in questo caso di
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profanazione della scienza. Non aveva ancora
conosciuto gli orrori del Terzo Reich, dai quali sarebbe
poi stato personalmente travolto, ma aveva capito in
anticipo l’apporto che una scienza moralmente
disimpegnata avrebbe dato a quel regime criminale. Non
era un pacifista radicale e neppure un partigiano del
disarmo assoluto. Temeva però il giorno in cui il
dominio dell’uomo sulla natura mediante la scienza si
sarebbe trasformato in frustrazione della natura e nella
sua potenziale distruzione. Parlava sia dell’aborto sia dei
mezzi di distruzione chimici e balistici usati nel
combattimento aereo e sottomarino. «Il limite, oltre il
quale quest’applicazione delle verità scientifiche diventa
abuso, dipende dalla nostra concezione morale, ed essa a
sua volta è fissata essenzialmente da un punto di vista
religioso».
Affermava così il primato dell’antropologia sulla
scienza. E la sua mente lungimirante gli dettava una
pagina che, dopo ottanta anni, o quasi, non è ancora
passata di moda: «La formula “sapere e potere”, grido di
gioia dell’età demoliberale, comincia ad acquistare un
lugubre suono. La scienza, ove non sia retta da un
principio superiore, cede senza resistenza i suoi segreti
alla tecnica smisuratamente cresciuta e animata da
spirito commerciale; a sua volta la tecnica, meno ancora
frenata da un superiore principio atto a promuovere la
civiltà, coi mezzi che la scienza le offre, crea tutti gli
strumenti che l’organismo inteso a potenza le richiede.
Ogni nuova scoperta scientifica apre nuovi orizzonti; ma
la società nella sua odierna struttura non può ancora
accogliere tutto ciò che la tecnica può offrirle». Huizinga
scriveva negli stessi anni che videro la pubblicazione del
romanzo di Huxley. Anche alla scienza, alla sua
necessità di essere retta da un principio superiore,
possono riferirsi le riflessioni di Benedetto XVI
contenute nel suo Discorso a Londra, nella Westminster
Hall del Palazzo del Parlamento, lo scorso 17 settembre:
«Se i princìpi morali che sostengono il processo
democratico non si fondano su nient’altro di più solido
che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo
si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale
sfida per la democrazia». Le soluzioni pragmatiche ai
problemi etici e sociali, prive come sono di un solido
fondamento etico, sono sempre inadeguate. Anche nel
campo della scienza e delle sue applicazioni, la religione
svolge un ruolo che il Papa definisce «correttivo»,
consistente nella sua innata capacità «di aiutare nel
purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione
nella scoperta dei principi morali oggettivi»
Giandomenico Mucci
(tratto da La Civiltà Cattolica, quaderno 3850, pag. 353-358)
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