Dire Dio ad Auschwitz: Edith Stein e la Sho’ah , in AA.VV., La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Vivarium, Napoli 1998, pp. 707-32 DIRE DIO AD AUSCHWITZ: EDITH STEIN E LA SHO’AH di Rocco Pititto La Sho’ah ha posto drammaticamente alla coscienza europea di questo fine millennio, e in termini assai diversi rispetto al passato, il problema dell’uomo e il problema di Dio. La caduta ad Auschwitz nell’abisso del demoniaco di tutta una cultura aveva bruciato secoli di predicazione cristiana su l’uomo e su Dio. Lì lo scacco subito dall’umanità è stato tanto grande da obbligare l’uomo a rimettere tutto in discussione dalla comprensione di sé e del mondo alla comprensione di Dio stesso. Tutto un mondo familiare fatto di valori, di comportamenti e di attese è crollato rovinosamente e le macerie si sono sparse dappertutto. Lo scoramento è stato enorme. Il mondo dell’uomo, all’improvviso, è diventato un deserto, mentre il cielo è diventato sinistramente muto. Nel vuoto dell’anima all’uomo non è rimasto che ‘appendere le sue cetre ai salici’ e assistere impotente all’infuriare della tempesta. Dell’uomo, del ‘terribile che è in lui’ più che in nessuna altra cosa (Antigone, 332-33), del suo egoismo innato, della sua pratica costante di prevaricazione , dell’istinto di violenza, del ricorso alla distruzione dell’altro come strumento di risoluzione dei conflitti, che caratterizzano i suoi comportamenti verso i suoi simili, sì sapeva già abbastanza. Ma ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio, il male radicale ha avuto il sopravvento e l'uomo ha dato di sé una prova di violenza inaudita e di barbarie ben superiore, superando ogni limite precedentemente raggiunto. Auschwitz è diventato, per questo, uno dei simboli più forti del male radicale nel mondo contemporaneo1. Lì, realmente, è accaduto l’impensabile e l’inenarrabile e l’uomo è sprofondato nella abiezione più grande. Per di più nella notte più oscura del mondo, ad alcuni è sembrato che Dio stesso fosse venuto meno alla “cura” dell’uomo e non si fosse nemmeno reso presente visibilmente a quanti l’avevano cercato e invocato nel tempo della disperazione e dell’agonia. Dio era assente mentre l’uomo veniva annientato: “ C’è Auschwitz, aveva affermato con disperazione Primo Levi, quindi non può esserci Dio”2. Il male più radicale escludeva Dio. Ed è così che milioni di uomini sono stati soppressi dalla furia della barbarie nazionalsocialista nell’indifferenza di molti e nell’abbandono e nel silenzio anche del loro Dio 3. Il loro grido di invocazione e di aiuto non è stato raccolto da nessuno. Si è consumata così una 1[1] Crr. A. COREN, The Tremendum: A Theological Jnterpretation of thr Holocaust, Crossroad, New York 1981 6. KREN - L.RAPPORT, The Holocaust and the Crisis ofHuman Behavior, Holmes &Meier, New York 1980. 2[2] F. CAMON, Conversazione con Primo Levi, Garzanti, Milano 1991. Su Auschwitz come luogo teologico' cfr. J. KOLIN - J. B. MFTZ, Auschwitz, in Dizionario delle questioni religiose del nostro tempo. trad. it., Queriniana, Brescia 1992. 3[3] Gli Ebrei sterminati nei campi di concentramento voluti da Hitler fuirono diversi milioni. Secondo il tribunale internazionale di Norimberga il numero degli ebrei sterminati dai nazisti nel corso della seconda guerra mondiale ammonta a sei milioni. Nei paesi europei controllati da Hitler su 8.295.000 ebrei ne sono morti 6.093.000, ossia il 73,4%. Cfr. E. de MIRIBEL, Edith Stein. Dall'università al lager di Auschwitz trad. it. dì 6. Fiori, Edizioni Paoline, Milano 1987,pp. 220-1. tragedia, che ha lasciato dietro di sé conti in sospeso e ferite sanguinanti non ancora sanate. L’ebreo era diventato il nemico da distruggere, perché su di lui era stato dirottato il risentimento di quelle fasce del popolo tedesco, che maggiormente avevano sofferto per l’umiliazione della Germania, in seguito alla disfatta della prima guerra mondiale. Enormi furono, a questo riguardo, le responsabilità della stessa cristianità che da sempre aveva dato vita a forme di antisemitismo deteriore , riprese dalla cultura tedesca più recente . L’evento Auschwitz è il risultato di un antisemitismo, che aveva trovato terreno molto fertile nella Germania degli anni venti. Ora l’uomo, e soprattutto Dio, sono stati chiamati in causa a rendere ragione del male che è stato commesso o, almeno, permesso o non scoraggiato. Trovare e giudicare i responsabili della Sho’ah, se mai questo fosse possibile, è diventato un atto di giustizia e di amore per i morti e per i sopravvissuti e una scommessa per il futuro, perché il male non torni a dilagare, coprendo di nuovo la terra. L’esito del processo all’uomo è già scontato, come scontato è il giudizio di condanna inappellabile contro l’uomo. Il tribunale della storia non ha avuto alcuna esitazione nel condannare mandanti ed esecutori degli efferati misfatti compiuti dai nazionalsocialisti contro l’umanità. Assai più problematico è, invece, il processo a Dio. Accusare Dio come responsabile di tuffo il male commesso potrebbe costituire solo un alibi per negare, o minimizzare, la responsabilità dell’uomo. Ma, oltretutto, come processare Dio, di quali colpe accusarlo e, soprattutto, si potrà pronunciare un giudizio di condanna su di lui e con quali conseguenze per il futuro della convivenza umana? Una prima sentenza, ripresa dal movimento filosofico che dall’ateismo nietzscheano conduce all’ateismo semantico del positivismo logico di questo secolo, conclude affermando la non rilevanza dell’esistenza di Dio, dove la negazione è ancora più radicale, perché investe la capacità stessa dell’uomo del parlare di Dio. Dio non esiste, - dicono -, e di lui non si può nemmeno parlare; dire Dio è un non senso . Se Dio è un non senso, il problema potrebbe finire qui e sarebbe fuorviante e, perciò, inutile qualsiasi idea di un processo a Dio. Nondimeno le tracce di Dio nel mondo sono tante e tali da consentire al credente, comunque, un “dire Dio” pieno di senso. Rimane, però, come un macigno sulla coscienza dell’uomo, la questione dell’assenza di Dio ad Auschwitz, ancora più colpevole, secondo alcuni, per il gemito inascoltato di un popolo e per il sangue innocente di milioni di uomini versato. Eppure, ad Auschwitz Dio non è stato affatto assente. Non c’è, quindi relativamente a questa accusa, alcuna prova di colpevolezza da parte sua. Sempre, e ancora di nuovo, Egli è salito sulla Croce con l’uomo, facendosi carico del male e della sofferenza di tutti. Li, come dovunque l’uomo è stato ferito e ucciso, si è reso presente con la sua Croce , piantata nel mezzo del campo e tutti ha radunato attorno ad essa , facendosi compagno degli uomini per i giorni della difficile traversata. Sotto l’albero della Croce l’umanità è risanata e rappacificata con Dio. Ancora, e di nuovo, il Figlio di Dio è salito sulla Croce di tutti i suoi fratelli, ebrei, cristiani e zingari, umiliati, offesi e soppressi nelle camere a gas, condividendone la sorte nell’abbandono e nell’ignominia di una fine assurda. Dovunque la sua presenza è stata avvertita e non è passata invano, perché si è stampata sui volti di ciascuno dei condannati. Realmente è diventato ciascuno di loro nella sofferenza e nella morte. Ad Auschwitz, più in particolare, Dio è salito sulla Croce dell’ignominia e della morte insieme a Edith Stein4: sul volto di questa donna è rifulso il volto sofferente e morente di Cristo 4[4] Edith Stein (Breslavia 12 ottobre 1891 - Auschwitz 9 agosto 1942), nasce da famiglia ebraica, profondamente credente. Dopo i primi studi universitari a Breslavia, segue le lezioni di Husserl a Gottinga e a Friburgo e rimane affascinata dalla figura di Max Scheler. Allieva prediletta di Husserl e successivamente sua assistente a Gottinga e poi a Friburgo, collabora attivamente con il suo maestro nell'ordinare i suoi testi delle lezioni e i suoi manoscritti. Nell'estate del 1921 si converte al cattolicesimo e il l° gennaio dell'anno successivo riceve il battesimo. Insegna a Spira (1923-1931) e poi a Münster all’Istituto Tedesco di Pedagogia Scientifica. Nel 1931 le viene rifiutata una cattedra alla Facoltà di Filosofia di Friburgo-in-Brisgau; Heidegger, successore di Husserl, la ritiene troppo cattolica. La sua carriera accademica viene bruscamente e definitivamente interrotta nel 1933 con le prime leggi e in lei Dio si è reso presente visibilmente a quanti lo hanno cercato nel tempo dell’angoscia della morte. Ora, anche attraverso di lei l’uomo può fare ancora esperienza di Dio e diventa possibile parlare con senso di un Dio nascosto, ma tremendamente vicino. Perché è, soprattutto, nel patire dell’uomo che si articola ogni possibile “dire Dio’.” 1. Dio nel naufragio della Sho’ah La questione su Dio ha avuto, perciò, nel secondo ‘900 uno sviluppo imprevedibile e per molti aspetti un esito sconvolgente. La negazione di Dio, questa volta soprattutto pratica, non tanto teorica, si è imposta prepotentemente nella cultura e consumata quando Dio stesso è rimasto, così è sembrato a molti contemporanei, indifferente e sordo, se non addirittura complice, alla sorte dei tanti milioni di uomini, condotti “come pecore mandate davanti al tosatore” e finiti nelle camere a gas, nello strazio di una sofferenza infinita e di una morte innocente. La profezia sinistra sulla morte di Dio (Gott ist tot), enunciata dall’uomo folle ne La gaia scienza di Nietzsche, si era avverata. Nella coscienza collettiva degli uomini di questo tempo, la profezia assumeva ora la forma della constatazione di un evento tragico realmente accaduto nella storia e del giudizio di forte condanna nei riguardi di una latitanza, come quella di Dio, tanto ingiustificata e sospetta: Dio si era congedato dal mondo dell’uomo abdicando alla sua responsabilità e lasciando l’uomo, sua creatura, nella notte oscura, solo “nella fossa dei leoni”5. Nelle tante stazioni dolorose della via Crucis, disseminate nelle terre di un’Europa dominata dal nazionalsocialismo, milioni di vite umane erano state soppresse da altri uomini. Molti degli assassini erano credenti praticanti, buoni cittadini e padri di famiglia esemplari, persone assolutamente normali6. Ma nessuno, allora, salvo poche eccezioni, ebbe il coraggio di disubbidire; nessuna voce significativa si levò contro i folli ordini di Hitler, che, eseguiti ciecamente, condannavano tutto un popolo alla distruzione totale. Un massacro immane, un genocidio, si era così potuto consumare nel silenzio e nell’indifferenza generale degli uomini e delle nazioni. Nessuno sapeva o voleva sapere il destino riservato ai milioni di ebrei strappati dalle loro case e deportati in massa. Più forte di tutto era la paura di trasgredire gli ordini e il desiderio di non compromettersi con il potere. La coscienza europea, di fronte a un cosi grave scempio contro l’umanità, ha avuto più tardi, a guerra finita, un sussulto di repulsione e di vergogna. Il senso della colpa e l’elaborazione del lutto, che ne derivarono, portarono molti alla consapevolezza che con la Sho’ah era stato raggiunto un punto limite di rottura e di non ritorno nel modo stesso di vivere razziali promulgate dai nazisti. Il 14 ottobre dello stesso anno, realizza la sua antica vocazione entrando nel Carmelo di Colonia. Il 2 agosto del 1942 viene prelevata dalla polizia segreta del Terzo Reich dal Convento carmelitano di Echt, in Olanda, dove era stata trasferita il 31 dicembre del 1938, in seguito alle persecuzioni razziali. Condotta nel campo di raccolta di Westerbork, presso Hooghalen, viene poi trasferita ad Auschwitz, dove, una settimana più tardi, troverà la morte, insieme alla sorella Rosa, in una camera a gas. Giovanni Paolo Il l'ha proclamata beata. 5[5] Hans Jonas (il concetto di Dio dopo Auschwitz Una voce ebraica, trad. it. a cura di C. Angelino, il Melangolo, Genova 1991) ha scritto su questo argomento delle pagine molto acute, ponendo in risalto la radicalità della domanda di Dio dopo la tragedia di Auschwitz. Vedere anche G.M.PIZZUTI, L 'eredità teologica del pensiero occidentale: Auschwitz, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, soprattutto il capitolo 111: Auschwitz, pp. 10142. 6[6] Cfr. H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it., Feltrinelli, Milano 1964. Proprio per questo "Ad Auschwitz è successo qualcosa che noi tutti non eravamo preparati a comprendere"( H. ARENDT, Che cosa resta? Resta la lingua materna, in " Aut-Aut", 239-240, p. 22). degli uomini. Dopo la sho’ah da più parti si avvertiva con sgomento e angoscia che l’umanità stessa non avrebbe avuto più ragione di sussistere, privata com’era dei valori fondanti la convivenza umana, andati distrutti dalla macchina infernale costruita dal nazionalsocialismo. Del resto, dopo Auschwitz, il mondo non era più lo stesso, né mai sarebbe stato più come prima: all’appello, dopo la resa finale, mancavano i tanti milioni di ebrei soppressi e sterminati dalla furia nazionalsocialista e i pochi sopravvissuti avrebbero vissuto a disagio nel resto dei loro giorni, ossessionati dal ritorno dei fantasmi del loro passato. Ma, nonostante le gravi accuse a Dio per tutto l’orrore vissuto dall’umanità nei campi di sterminio, la questione su Dio non può essere considerata definitivamente chiusa, ritenendola inattuale o scarsamente significativa. Perché rimane pur sempre nell’esperienza della profondità di ognuno un’eccedenza di significato, non diversamente riconoscibile, che, rimandando oltre il mondo dei fatti, deve essere ricercata e riproposta di continuo come cifra dell’esistenza umana. Proprio nell’eccedenza di significato si dà all’uomo la nuova questione su Dio, nei termini di una apertura dell’uomo sul mistero di Dio. Questa apertura dell’uomo sul mistero di Dio è l’eccedenza di significato che dà un senso alla vita stessa dell’uomo e salvaguarda l’umanità dal cadere di nuovo nella barbarie. Di più, sono, soprattutto, le voci dei tanti milioni di morti che gridano il nome di Dio, e, ancora, il dolore, la sofferenza e la morte delle vittime innocenti, a riaprire la questione religiosa. Si tratta, dopo tutto, coniugando memoria e speranza, di non dimenticare il male commesso dai carnefici e lo strazio delle vittime e di dare un volto e una speranza all’uomo di questo tempo. Può accadere così, come afferma Adorno nell’ultimo aforisma dei Minima moralia, che “la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto” 7 e rinvia a una possibile redenzione. Dall’accanirsi con uno scavo impietoso sull’oscuro di questo nostro passato, di quanto è accaduto ad Auschwitz, può nascere un nuovo chiarore di speranza per l’umanità. Ecco perché si impone una nuova teodicea, proprio a partire dall’orrore di Auschwitz8. Questa può nascere proprio sulle rovine, ancora fumanti, lasciate nei campi di sterminio, come monumenti di una umanità degradata, che seppure ha consumato l’omicidio dell’uomo e di Dio, rimane sempre alla ricerca di un Dio. La sofferenza, non la gloria, è il paradigma di questa teodicea. Perché qui si fa esperienza di un Dio, anche egli sofferente e morente, che si fa incontro a un uomo, così mal ridotto, offeso nella sua dignità e distrutto nell’anima e nel corpo e si prende cura di lui riaprendo l’antico dialogo, che sembrava interrotto. La parabola del buon samaritano rappresenta, sotto questo aspetto, il tipo di modello di comportamento di Dio verso gli uomini, che l’uomo si attende dal suo Dio. Da queste stazioni dolorose, sparse per l’Europa, metafore di una esistenza umana violentemente negata e distrutta, bisognerà ripartire oggi per ridare ragione di un’esistenza, come quella di Dio, che, dopo tutto, costituisce la cifra segreta di ogni possibile esistenza umana e rivendica con prepotenza il suo posto nella storia dell’uomo. Non è vero, parodiando Adorno, che dopo Auschwitz, non si possa più parlare di Dio. Si potrà, invece, continuare a parlare e, forse, con un senso ancora maggiore rispetto al passato, solo che si dovranno recuperare quei tanti significati religiosi dell’esistenza, andati perduti nel corso dei secoli. Sono da recuperare, soprattutto, quei significati che, a partire dalla sofferenza dell’uomo, disegnano una umanità solidale con Dio nel portare a compimento l’opera della creazione. Perché Dio non è morto ad Auschwitz: qui, come altrove, nel fallimento più totale 7[7] T. W. ADORNO, Minima moralia, trad. it. di R. Solmi, Emaudi, Torino 1974, p.235£ Cli. P. PIFANO La luce di Giobbe tra teologia e dramma, Santi Quaranta, Treviso 1994, p.l 33. 8[8] A questa esigenza risponde lo stesso Jonas, quando in risposta alla domanda di Giobbe riformula la risposta nei termini di una 'rinuncia' da parte di Dio alla sua potenza. Cli. lvi, p. 39. dell’uomo e nel dolore più grande dell’umanità, egli ha conosciuto nel patire degli uomini la forma più alta di esistere. La passione di Dio ha assunto la stessa passione dell’uomo e le due passioni si sono intrecciate tra loro in un’unica passione, la passione esemplare di ciascun uomo. Se con l’uomo ad Auschwitz è morto anche una parte di Dio , bisognerà dire che con Dio è anche risorto l’uomo. Proprio nel pianto e nel grido accorato di quanti, nonostante tutto il male intorno a loro, continuavano a rivolgersi a Dio, facevano progetti per il futuro e anelavano a un ritorno a una vita più piena per tutti gli uomini, qualunque fosse la loro razza, la religione, la condizione sociale, sta la nuova prova dell’esistenza di Dio. È per questo che, in realtà, ad Auschwitz Dio non è mai morto del tutto, né poteva morire. Perché, invocato o negato, vituperato o maledetto, dalle bocche di tutte le vittime, il nome di Dio, anche il nome del Dio cristiano, non solo il nome del Dio di Israele, è risuonato forte ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio. Il nome di Dio, detto nelle più diverse lingue si è, infine, confuso nel pianto indistinto di tutte le vittime della Sho’ah ed è risuonato all’unisono come un’unica voce di invocazione. Dio si è reso presente nella sofferenza mortale dell’uomo. Da tutti i campi si è levata anche dai cristiani una voce di preghiera, soffocata pure essa dal pianto, che invocava Dio: “Vieni in nostro aiuto e soccorrici contro i nostri nemici”9. Ma nella notte più oscura e più profonda dell’umanità le voci imploranti delle vittime non sono state ascoltate e Dio, impassibile, così è sembrato a molti, è rimasto muto. La forza del male ha potuto trionfare sulla debolezza degli inermi e degli indifesi. Non intervenendo, Dio stesso, forse, ha sperimentato la sua impotenza di fronte alla violenza e alla ferocia di uomini su altri uomini. Ad Auschwitz, afferma Jonas, Dio tacque, “non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo”10. Il male commesso fu così grande e terrificante da rendere, perfino, Dio impotente, senza, cioè, che potesse intervenire a favore dell’uomo. I tanti milioni di ebrei, vittime della Sho’ah, non furono soli nel loro calvario. Accanto a loro ci furono molti cristiani che, per motivi diversi, conobbero la stessa fine di morte. Figure esemplari di cristiani hanno condiviso lo stesso destino degli ebrei, loro fratelli nella fede. Così Ebrei e cristiani si sono ritrovati uniti nella comune discendenza da Abramo e insieme si sono interrogati sul loro Dio “assente”, che li aveva “abbandonati alla crudeltà dei loro nemici”. L’abbandono di Dio è diventato un problema lacerante per tutti, per i morti, come per i vivi. Il ‘patto di elezione’, che fin dai tempi più antichi aveva regolato le relazioni particolarissime tra Dio e il suo popolo, sembrava che fosse stato rotto unilateralmente ed era stato proprio Dio a volerlo rompere, o, almeno non aveva fatto nulla per dare seguito alle sue promesse di fedeltà. 2. La domanda di Giobbe e la risposta di Edith Stein Soli e abbandonati nella terra di nessuno, senza “la mano potente dell’Altissimo” e “in 9[9] Centinaia di migliaia sono stati i cristiani, - cattolici e protestanti - , finiti torturati a morte nei campi di sterminio. Le cifre sono incerte. Nel numero bisogna considerare le centinaia di cattolici olandesi di origine ebraica, - quasi ottocento -, avviati nelle camere a gas, senza dimenticare figure come il pastore Bonhoeffer e i tanti sacerdoti cattolici, tra i quali P. Kolbe, testimoni di Dio tra i fratelli a Tagel, Auschwitz, Dachau, Mautausen. La decisione dei vescovi olandesi, il 26 luglio 1942, di dare lettura nelle chiese di un telegramma indirizzato al commissario imperiale Seysslnquart, nel quale si esprimeva il loro sdegno contro le persecuzioni degli ebrei, lii l'inizio in Olanda delle persecuzioni contro i cattolici di origine ebraica. Una delle vittime più illustri di queste persecuzioni fii Editti Stein. Cli. W. UERBSTRITH ( a cura di), Edith Stein. Vita e testimonianze, trad. it., Città Nuova, Roma 19902, p. 61. 10[10] H. JONAS,, il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 35. preda ai loro nemici”, per gli Ebrei, e per quanti fra i cristiani, fossero ebrei convertiti o anche ‘tedeschi ariani’, considerati nemici del popolo tedesco, ne avevano condiviso lo stesso destino, era stata studiata fin nei più piccoli dettagli una operazione di “annientamento totale”. Il tanto promesso ‘viaggio ad oriente’, al quale molti ebrei, e tanti benpensanti, avevano anche creduto con fiducia, in realtà, era solo un macabro eufemismo per indicare nello sterminio sistematico degli ebrei la “soluzione finale” allo stesso problema ebraico. Ma, non c’era più all’orizzonte una nuova terra di Canaan, pronta ad accogliere e a dare ospitalità a quanti in fuga dal nuovo Faraone avevano, tra oscuri presagi, iniziato, loro malgrado, un nuovo Esodo, confidando nella "mano forte" e nel “braccio teso” del Dio, che aveva guidato 1’ antico Esodo del popolo di Israele dall’Egitto verso la “terra promessa”. Piuttosto, questo esodo forzato, che si era venuto realizzando tra disagi e sofferenze inaudite, attraverso gli interminabili e avventurosi viaggi in carri bestiame di donne e bambini, giovani e anziani, vecchi e malati, portava direttamente nelle camere a gas dei campi di sterminio. Era in atto lo sterminio di tutto un popolo. Si veniva a consumare, in realtà, un fratricidio su larga scala: Caino uccideva di nuovo Abele, suo fratello, ma la voce di Dio, che chiedeva a Caino ragione di Abele, non si era udita o, almeno, nessuno l’aveva udita. E così la distruzione degli ebrei poté procedere con celerità secondo i programmi stabiliti. E, allora, di fronte a tutto questo, “Dov’è il Buon Dio? Dov’è?”, si chiedeva con insistenza qualcuno ad Auschwitz, mentre i prigionieri assistevano a un’esecuzione capitale di tre loro compagni, tra cui un bambino, chiamato da Wiesel, “l’angelo dagli occhi tristi”, rimasto muto, mentre gli altri due adulti inneggiavano alla libertà11. Ma poi, nel silenzio più cupo e agghiacciante, rimaneva dentro la voce straziante di Abele e, soprattutto, l’odore acre dì carne umana bruciata che prendeva alla gola e la pioggia di cenere che fuoriusciva dai camini dei forni crematori, a testimonianza del grande dramma che si stava compiendo sotto gli occhi di tutti Sullo sfondo di una crudeltà senza limiti e di un progetto di morte scientificamente costruito, il dolore e l’angoscia, la rabbia e la disperazione di ebrei e di cristiani, popoli storicamente divisi da antichi steccati, da lamenti degli oppressi sono diventati un grido corale, quasi una rivolta, contro Dio. Anche quelli tra loro più religiosi non potevano non porsi le stesse drammatiche domande di tutti. – “Dov’era Dio quando bruciavano i forni crematori ?”. – “Perché questa morte così assurda?”. – “Perché Dio aveva abbandonato il suo popolo ‘nelle mani dei suoi nemici’?” . – “Fino a quando Dio, dimenticandosi del suo popolo, avrebbe ‘nascosto il suo volto’, senza intervenire con ‘mano potente’ per ‘disperdere i malvagi’ e ristabilire il suo regno di giustizia?”. La stessa domanda di Giobbe sul perché del male nel mondo, risuonata tante volte nei campi di sterminio, risuona forte ancora oggi e ogni possibile risposta non è affatto convincente. Rimane sempre lo spazio per altre domande ancora più inquietanti. Se Dio non è responsabile del male, tuffo ricade allora sulla libertà dell'uomo. Ma Dio, infine, se ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, se ha stabilito un patto di alleanza con lui e si “prende cura di lui”, “perché non è intervenuto a ristabilire la giustizia offesa, quando lo stesso ordine della creazione veniva sconvolto?”. –“Perché Caino non è stato disperso e messo in condizione di non uccidere più l'innocente?”. Dopo tutto, continuare a parlare di una prova a cui Dio avrebbe voluto sottoporre il suo popolo per la “durezza del loro cuore”, non risolve affatto la questione: la morte degli innocenti non può essere cancellata: rimane, comunque, come un macigno. A questa domanda di Giobbe, sempre ricorrente nella storia, soprattutto nei suoi passaggi più dolorosi, ha dato una risposta personale, nei termini di una scelta radicale di vita, 11[11] Cfr. E. WIESEL, La notte, Giunti, Firenze 1980, pp.66-7. " Dietro di me, - scrive Wiesel , raccontando questo episodio di impiccagione di prigionieri, a cui aveva assistho -, udii il solito uomo domandare: Dov'è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov'è? Eccolo: è appeso li, a quella forca". Edith Stein. Filosofa tedesca, allieva di Husserl, Edith si convertì al cattolicesimo, e divenne suora di clausura nel Carmelo di Colonia. Non esitò ad accettare fino in fondo la sua condizione di ebrea convertita e morì, infine, in una camera a gas, proprio ad Auschwitz, vittima volontaria di espiazione e segno di riconciliazione del popolo di Israele con Dio12. Nell’ora dell’agonia, l’offerta consapevole della sua vita a Dio, assume il valore di una prova dell’esistenza di Dio. Consapevole del suo destino si è offerta alle mani del carnefice, facendo della sua morte un inno di lode a Dio. “Ho fiducia, - scriverà Edith nel 1938 ad una madre superiora - che Dio abbia accettato la mia vita. Penso sempre alla regina Ester che è stata scelta tra il suo popolo proprio per intercedere davanti al re per il suo popolo. Io sono una piccola Ester, povera e impotente, ma il re che mi ha scelto è infinitamente grande e misericordioso e questa è una grande consolazione”13. Prima di lasciare il Carmelo insieme alla sorella Rosa e di consegnarsi alle SS, venute a prelevarle, le sue ultime parole, prendendo per mano la sorella spaventata, furono un invito ed un incoraggiamento ad andare avanti verso il loro destino, accettando pienamente la volontà di Dio. Nell’invito si esprimeva il senso e il compimento di tutta la sua vita: “Vieni, andiamo per il nostro popolo”14. Donna di grande sensibilità, dotata di profonda intelligenza speculativa15, “filosofa e scienziata”16, forte e coraggiosa, assetata di assoluto, Edith Stein ha ricercato Dio, quasi senza volerlo, ma lasciandosi guidare verso la verità da una serie di circostanze fortuite17. La sua ricerca non è stata vana, perché, infine, ha ritrovato Dio camminando sulla strada della fenomenologia e facendo i conti con la sua eredità ebraica, dalla quale peraltro si era allontanata negli anni della sua formazione. Perché, come ebbe a scrivere, “Chi cerca la verità, cerca Dio, ne sia egli consapevole o meno”18. Il suo incontro con Dio in Gesù di Nazareth era stato decisivo e seppe trarre da esso tutte le conseguenze, anche quelle più dolorose da un punto di vista personale e familiare: fu battezzata nella Chiesa cattolica, divenne carmelitana, finì i suoi giorni in una camera a gas ad Auschwitz, avendo per tutti i suoi compagni di prigionia parole di conforto e di speranza. Il suo cammino alla ricerca della verità è esemplare e rappresenta il paradigma di una esistenza 12[12] Su Edit Stein vedere la bibliografia più recente curata da A.M. Pezzella e P. Conforti contenuta nel volume di E. STEIN, La ricerca della verità Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, ed. it. a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, pp. 231-42. 13[13] 14[14] E. STEIN, La scelta di Dio. Lettere (1917-1942), ,trad. it., Città Nuova, Roma 1973, p. 131. Ivi p. 161 15[15] Nei suoi colloqui con Husserl, la benedettina suor Adelgundis Jaegersclirnid, allieva di Husserl e amica della stessa Stein, riporta il giudizio del filosofo: " Curioso, Ella ( Editti Stein) vede da una montagna la chiarezza e l'ampiezza dell'orizzonte nella sua meravigliosa trasparenza e soavità, ma sceglie l'altra strada, quella del ripiegamento verso l'interno e della prospettiva dell'io... In lei, tutto è assolutamente autentico. Altrimenti direi che ci deve essere qualcosa di artefatto. Ma in conclusione, negli ebrei il radicalismo e l'amore per il martirio è sempre stato molto fort&' ( A. JAEGERSCHMID OSB, Gesprdche mit Husserl 1931-1936, in "Stimmen derzeit",q.1, anno 106, gen. 1981,p.51). 16[16] R. INGARDEN, Uber die phìlosophischen Forschungen Edith Steins, 'in "Znak", aprile 1971,n, 202, pp.2 sgg. 17[17] Una di queste circostanze fa la lettura della biografia di santa Teresa d'Avila. Nell'estate del 1921, trovandosi a casa dell'amica fledwig Conrad-Martius, ebbe tra le mani questo libro, che suscitava interesse tra i fenomenologi per la capacità di santa Teresa di descrivere in modo cosi vivo le sue 'esperienze'. Continuò a leggere il libro tutta la notte. La mattina, chiudendo il libro, ebbe da affermare : "Questa è la verità". La sua vita ebbe, allora, una svolta radicale. Cli. E. de MIRIBEL, Edith Stein, cit., p. 50. 18[18] E. STEIN, Selbstbildnis in Briefen, in Werke Ix, Band Il, Druten, Louvain - Freiburg i. Br. 1977, p. 102. che nella passione dell’uomo incontra la passione di Dio. Nella sofferenza e nella morte, a cui era sottoposto il popolo ebraico, vedeva il prolungamento della morte del Figlio di Dio, una partecipazione alla Croce di Cristo. Ragioni di sangue e di fede non le consentivano di fuggire o di prendere le distanze dal destino di tuffo un popolo. Ella faceva pur parte di quel popolo e sarebbe stato un tradimento non prenderne coscienza, dividendo il suo destino da quello dei milioni di ebrei, per i quali si avvicinava “l’ora del giudizio”. “La persecuzione degli ebrei era per Edith, la persecuzione dell’umanità di Gesù”. La sua scelta è nel compimento della attesa messianica della religione ebraica dei suoi antenati. La resistenza al male significava per lei non “fuggire la sofferenza, ma prenderla su di sé nella forza della Croce, in segno di solidarietà con gli altri e per gli altri”19 Fare, oggi, memoria di Edith Stein significa rivisitare e proporre come esemplare la storia di una donna, che ha rivissuto nella sua carne, pur potendosene sottrarre solo se lo avesse voluto, la tragedia della Sho’ah, non subendola come una condanna, ma accettandola come un dono di Dio, come risposta personale alla tragedia che si stava profilando in Europa con le prime persecuzioni contro gli ebrei. Come ebrea e come cristiana, Edith si sentiva chiamata a rappresentare il popolo di Israele davanti a Dio, intercedendo per esso con la preghiera e con il sacrificio e, infine, offrendo la sua stessa vita, dopo che nel 1933 si era adoperata, senza alcun risultato, perché Pio XI scrivesse una enciclica sulla questione ebraica20 Già da tanto tempo Edith aveva capito, soprattutto da quando Hitler aveva preso il potere, quale destino sarebbe stato riservato agli ebrei europei. Si sentiva a disagio, lei tedesca da tante generazioni, di vivere in Germania. Aveva assistito con sgomento agli assalti di studenti aizzati con gli ebrei dalla propaganda nazionalsocialista e aveva saputo da notizie non confermate ufficialmente, ma riportate da giornali americani, delle atrocità di cui erano vittime gli ebrei. “Avevo, - scriveva Edith - , già sentito parlare in precedenza di crudeli provvedimenti contro gli ebrei. Ma solo allora mi apparve chiaro all’improvviso che Dio metteva di nuovo duramente alla prova il suo popolo e che il destino di questo popolo era anche il mio destino” 21. Nei mesi successivi i fatti, di cui si parlava, diventavano sempre più tragici ed Edith stessa e i suoi familiari dovettero sperimentare su di loro come fosse diventato difficile e rischioso essere ebrei in Germania, stranieri nella propria terra. Attraverso le lettere di quel periodo, scritte da Edith, si possono ricostruire le tante vicende che interessarono i suoi familiari in Germania in seguito alla “notte dei cristalli”, quando uomini, donne e bambini furono scacciate dalle loro case, i negozi distrutti e le sinagoghe bruciate. I provvedimenti contro gli ebrei ebbero esecuzione immediata: gli ebrei persero i loro diritti e i loro averi, le loro famiglie furono distrutte dall’emigrazione. Gli Stein a Breslavia persero la vecchia attività commerciale di famiglia, come pure ogni altro tipo di attività professionale. Edith fu privata dell’insegnamento. L’esonero dall’insegnamento presso l’Istituto Tedesco di Pedagogia Scientifica a Münster, avvenuto nella primavera del 1933, che dovette accettare insieme con suoi concittadini ebrei, diede alla vita di Edith l’occasione per lo sbocco a 19[19] E. STEIN, La mistica della croce, trad. it., Città Nuova, Roma 1985, p. 88. 20[20] Così scriveva Edith Stein nel 1933: “Nelle ultime settimane avevo sempre meditato domandandomi se potessi fare qualcosa anch'io per il problema degli ebrei. Infine avevo deciso di recarmi a Roma e di chiedere al Santo Padre un'enciclica in un'udienza privata... Anche se compiere un passo tanto estremo corrispondeva al mio carattere , in qualche modo sentivo che non era il ‘vero’. Cosa fosse il vero, non lo sapevo tuttavia nemmeno io”( W. HERBSTRITH, Der Weg Edith Steins. Bilder des Lebens, München 1982, p. 104). Il progetto, però, non andò in porto. Edith Stein scrisse, comunque, una lettera a Pio IX, nella quale prospettava i gravi problemi che il paganesimo nazista stava per creare agli ebrei e avrebbe creato, o prima o poi, agli stessi cattolici. Di qui la necessità di una Enciclica. Solo quattro anni più tardi Pio XI avrebbe scritto una tale lettera ( Mit brennender Sorge). 21[21] E. STEIN La mistica della croce, cit., p.88. cui pensava fin dal giorno del battesimo22. Rifiutò, così, la proposta di trasferirsi in una università sudamericana, come pure rifiutò di continuare tranquillamente il suo lavoro scientifico a Münster, aspettando tempi migliori. Il 4 ottobre del 1933, pur sapendo del grande dolore che questa scelta causava nei suoi familiari, non ebbe più alcuna esitazione di tipo affettivo e poté entrare nel Carmelo di Colonia per seguire la sua vocazione. Nel suo stare, infine, ad Auschwitz insieme ai suoi fratelli nel sangue, o dovunque i suoi carnefici l’avessero voluto mandare, sta il significato vero di ogni “dire Dio”, inteso come un “compromettersi” con l’uomo e un “prendersi cura” di Dio, accettando anche il rischio di non vedere il suo volto e di sperimentare la sua lontananza e la resistenza ad intervenire nelle vicende umane. “Dire Dio”" significa qui, soprattutto, essere testimone di un Dio, che rimane pur sempre implicato nelle vicende umane fino ad assumere le sembianze dell’uomo più sofferente. 3. Edith Stein vittima della Sho’ah Nella notte oscura dell’abbandono e nella sofferenza della morte, Edith Stein, figlia di Israele nel sangue, non si è trovata impreparata o recalcitrante. La preparazione a questo possibile esito finale era stata lunga e il desiderio della Croce era profondo. Era ben consapevole dell’esistenza di “una chiamata a patire con Cristo e per questo a collaborare con lui alla sua opera di redenzione”23. Proprio per questo, riteneva a ragione che “non si poteva desiderare la liberazione dalla Croce, quando si è particolarmente prescelti per la Croce”24 Tale consapevolezza era radicata in Edith da lungo tempo. Già nel febbraio del 1930 parlava della necessità di “avere fiducia nella imperscrutabile misericordia di Dio”, senza “perdere di vista gli ultimi eventi” e si interrogava su quanto lei stessa avrebbe dovuto fare in concreto per essere fedele alla sua vocazione. “Dopo ogni incontro, - così scriveva -, in cui sento più l’importanza di ogni azione diretta, si acuisce in me un desiderio urgente di essere holocaustum, che si definisce sempre più in : hic Rhodus, hic salta”25. La scelta finale fu il Carmelo, non una fuga dalla realtà; da lì, infatti, avrebbe vissuto gli avvenimenti del mondo con più partecipazione e sarebbe diventata come la regina Ester, pronta a intercedere per tuffi presso Dio. Consapevolmente è diventata, perciò, testimone di Dio tra i fratelli e prova vivente della presenza di Dio nel mondo della Scho’ah. “Cristo continua a vivere nei suoi membri e soffre con loro; e la sofferenza, portata in unione col Signore, è sua sofferenza, innestata nella grande opera della redenzione e per questo è feconda”26. Nel brevissimo e ultimo passaggio nel campo di prigionia di Auschwitz ha invocato il suo Dio ed ha voluto condividere lo stesso destino di morte dei tanti fratelli ebrei, diventando per tutti presenza visibile di Dio. La sua morte accanto ai suoi fratelli, accettata e voluta, deve essere letta nel segno di una riconciliazione con il suo 22[22] Quando Edith Stein seppe di essere stata privata dell'insegnamento ebbe a scrivere: “Se non posso continuare oggi non c'è più nessuna possibilità per me in tutta la Germania. .. Provai quasi un senso di sollievo al pensiero di essere colpita anch'io dalla sorte comune...”( E. STEIN, Come giunsi al Carmelo di Colonia, in TERESlA RENATA, Edith Stein, Morcelliana, Brescia, 1952, p.7 i). 23[23] E. STEIN, La scelta di Dio, cit., p. 68. 24[24] Ivi,p. 146. 25[25] Ivi, p. 46. 26[26] Ivi, p. 69. mondo di origine, dopo che con la sua conversione sembrava che avesse voluto recidere i suoi legami affettivi con le sue radici ebraiche. Nel racconto dei giorni trascorsi a Westerbork ( 5-7 agosto 1942) da Edith, fatto da un commerciante ebreo di Colonia addetto alla sorveglianza dei detenuti, e scampato alla morte, si dà una descrizione commossa di quei giorni dalla quale la figura della Stein emerge “"come un angelo consolatore” nel mezzo di una tragedia che si avvia con la disperazione e l’angoscia di molti alla sua conclusione: “Tra i prigionieri arrivati al campo [di Westerbork] il 5 agosto, suor Benedetta [era il nome da religiosa di Edith Stein] si distingueva per il comportamento pieno di pace e l’atteggiamento calmo. Le grida, i lamenti, lo stato di sovreccitazione dei nuovi arrivati erano indescrivibili. Suor Benedetta andava fra le donne come un angelo consolatore, calmando le une, curando le altre. Molte madri sembravano cadute in una sorta di prostrazione, prossima alla follia; rimanevano a gemere come inebetite, trascurando i figli. Suor Benedetta si occupò dei bimbi piccoli, li lavò, li pettinò, procurò loro il nutrimento e le cure indispensabili. Per tuffo il tempo in cui stette al campo dispensò intorno un aiuto caritatevole che, a ripensarci, sconvolge”27. Nel campo di smistamento Dio si era reso presente visibilmente tra gli uomini con le parole e con i gesti di questa donna. La scelta di Edith di ricevere il battesimo nella Chiesa cattolica non era stata indolore e senza conseguenze, sul piano affettivo, con i membri della sua famiglia. La rottura era stata inevitabile, con grave disappunto, soprattutto, della madre, che non riusciva a capire e ad accettare la decisione presa. La sua famiglia di origine era di stretta osservanza religiosa; la madre, soprattutto, era una pia ebrea, che viveva la sua religione nell’osservanza fedele dei precetti della legge ebraica ed aveva educato i suoi figli nel rispetto e nella tolleranza delle altre religioni28. Edith, però, già da giovanissima si era allontanata dalla fede ebraica. Come ella stessa ebbe a dire fu atea dall’età di tredici anni fino ai vent’anni. Così la sua conversione è “da interpretare come un passaggio da una certa irreligiosità alla religione, e non invece come fuga da un credo ben noto e familiare ad un altro credo. Edith era già estranea all’ebraismo prima di abbandonarlo”29 L’eredità ebraica, in ombra negli anni della giovinezza, sarà recuperata da Edith, solo più tardi, dopo il battesimo, in continuità con la sua vocazione, come anticipazione di un compimento definitivo in Gesù di Nazareth. Si comprende da qui come il suo più grande desiderio, a cui non diede seguito per non provocare una ulteriore rottura con i suoi familiari, fosse quello di trasferirsi in Palestina, sul monte Carmelo, dove all’epoca delle Crociate , da asceti cristiani era stato fondato l’ordine religioso del Carmelo. La sua scelta di vita era nel solco della riappropriazione, quasi geografica, della propria identità ebraica Si trattava di un atto chiaramente simbolico che voleva significare nelle sue intenzioni un ritorno alle origini della sua identità religiosa. Ebraismo e cristianesimo non potevano costituire due mondi contrapposti, in odio tra di loro, perché rappresentavano, di fatto, per l’intelligenza cristiana della fede più matura la continuità tra un prima e un poi, tra l’inizio e la fine della fede dei patriarchi e dei profeti. Più precisamente un incontro tra questi due mondi era possibile e la preghiera costituiva 27[27] Cit. in E. de MIRIBEL, Edith Stein, cit., pp. 206-7. Della religiosità della madre e dell'educazione ricevuta in famiglia cosi ne parla la Stein: “Si studiavano i comandamenti, si leggevano dei brani della Sacra Scrittura e si imparavano alcuni salmi a memoria. Mia madre ricorda il profondo entusiasmo con cui partecipava a queste lezioni. Venivamo costantemente educati al rispetto per tutte le religioni e a non parlarne mai”. Nel giorno del Kippur la madre stava tutta la giornata nella sinagoga. “Nessuno di noi, aggiunge Editti, si dispensò mai dal digiunare, anche quando non condividevamo più la fede di nostra madre, né ci attenevamo alle prescrizioni di rito al di fuori delle mura domestiche” ( E. STEIN, Aus dem Leben einer jüdischen Familie, in Werke VII, E. Nauwelaerts, Herder, Louvain-Freiburg i. Br. 1965, p.7.41). 28[28] 29[29] S. BATZDORFF-BIBERSTEIN, Ricordo di mia zia Edith Stein, in W. {LERBSTRITH ( a cura di), Edùh Stein. Vita e testimonianze, cit., p. 74. lo ‘spazio’ entro cui si poteva sperimentare l’avvenuta saldatura. Da convertita non avrà difficoltà ad accompagnare la madre alla sinagoga e a pregare con lei, riuscendo a sorprendere anche la madre. Soprattutto ritroverà nell’ora difficile del popolo ebraico la sua appartenenza a quel popolo, presentandosi a Dio in un rapporto tanto solidale con esso da chiedergli, ottenendolo, di diventare vittima di espiazione per la sua salvezza. Il dolore degli ebrei, la distruzione che per loro si stava preparando, trovavano in lei un’eco profonda e una partecipazione intensa. Di fronte alla marea montante di odio e di violenza, cui erano fatti oggetto i suoi fratelli ebrei, non le restava che offrire la sua vita. E questa offerta era formulata con un atto di consapevolezza nella sua appartenenza al popolo della ‘promessa’, appartenenza che la conversione, invece di attutire, aveva rafforzato, e che ora sollecitava da lei una traduzione su un piano di vita. La traduzione sarebbe stata, soprattutto, di ordine personale, nella partecipazione, anche fisica, al dolore e alla morte del suo popolo. L’avventura umana e intellettuale di Edith Stein, tuttavia, non è affatto lineare; essa presenta i segni di una svolta radicale, compiuta alla fine di un lungo travaglio interiore, che avrebbe comportato la scomparsa di tuffo un mondo e l’assunzione di convinzioni e di atteggiamenti profondamente diversi. Un susseguirsi di avvenimenti e di circostanze avrebbe condotto Edith Stein a confrontarsi con il cristianesimo, giungendo, infine a chiedere di farne parte. La filosofia, in questo caso, era stata la via regia per ritrovare Dio pur partendo da una situazione di ateismo. Lo studio, la lettura di testi sacri, l’incontro con credenti erano stati fattori decisivi. Aveva conosciuto il mondo cristiano attraverso l’incontro con i filosofi Edmund Husserl, Max Scheler, Adolf Reinach, Hedwig Conrad-Martius. Tra questi Husserl era evangelico, Scheler si era convertito al cattolicesimo, mentre Reinach e Conrad-Martius si erano convertiti alla confessione evangelica. Proprio partendo dalla filosofia fenomenologica, e seguendo un cammino già percorso da altri filosofi vicini all’ambiente husserliano, Edith Stein era giunta a Dio. La fenomenologia era diventata per Edith la via più sicura per arrivare a Dio. Il realismo del primo Husserl, al quale si sentiva più vicina, l’aveva portata a riscoprire Dio sulla strada del ritorno alle cose dell’esperienza. Oltre i fenomeni del mondo, oggetto d’indagine, c’era il mistero, a cui i fenomenologi stessi erano giunti, senza, tuttavia concludere, se non vagamente, nella riproposizione del mistero di Dio. Sul piano personale, però, i fenomenologi erano stati più consequenziali, accettando di confrontarsi con l’emergere del mistero. Husserl stesso era consapevole del forte legame che univa la fenomenologia alla professione religiosa e non esitò a cercare le ragioni di questa relazione. Le riflessioni sulla conversione di Edith prima e le discussioni avute, negli ultimi mesi della sua vita, con suor Adelgundis, sua allieva, confermano ampiamente questo interesse di Husserl30. Nell’estate del 1936, confidandosi con la sua allieva avrebbe detto: “La mia filosofia, la fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa, di ritornare a Dio”31 4. Sulla Croce con i fratelli ebrei 30[30] Cfr. A. JAGERSCHMID Die letzten Jahre E. Husserl 1936-38, in " Stimmen der Zeit", 199, 1981,pp.129138; trad. it. in E. de MIRIBEL, EdùhStein, cit.,pp. 213-219. 31[31] Ivi, p.214. La Croce diventa per Edith la chiave di lettura delle vicende umane, con un crescendo maggiore negli ultimi anni, quando ormai la filosofa, dopo essersi esercitata lungamente sul mistero di Dio, vede chiaramente prefigurarsi sulla scena del mondo il destino del suo popolo e in esso il suo proprio e si dichiara pronta per l’estremo sacrificio della sua vita. Senza voler sfuggire al suo destino, prende su di sé il peso dell'umanità sofferente dei suoi fratelli ebrei e con questo peso si presenta al suo Dio per salire sulla sua Croce. Lei stessa, nell’assumere nel suo stesso nome di religiosa il nome della Croce , - nel diventare carmelitana chiederà, infatti, di poter essere chiamata Teresa Benedetta della Croce - , diventa garante davanti a Dio della sua volontà di offrirsi in olocausto per la salvezza di tuffi. La Croce è il simbolo della presenza di Dio nel mondo. Tre settimane prima della sua partenza in Olanda, Edith Stein era perfettamente consapevole del destino che incombeva sul suo popolo e su di lei. I tentativi intrapresi dal suo Convento perché potesse riparare in Svizzera, insieme alla sorella, erano stati negativi; non per questo, però, aveva perso la sua serenità e la sua forza d’animo. La sua riflessione toccava ora più specificamente il tema della Croce, ma su una scena più ampia. Sulla scena del mondo degli uomini, delle vittime, come degli oppressori, collocava la croce come segno di identificazione degli uomini. E, ancora, leggeva gli avvenimenti del tempo come manifestazione della volontà di Dio su di lei. “Sotto la croce ho capito il destino del popolo di Dio, che fin d’allora [nel 1933, quando entrò nel Carmelo] cominciava a preannunciarsi. Ho pensato che quelli che capiscono che tutto questo è la croce di Cristo dovrebbero prenderla su di sé in nome di tutti gli altri. Oggi so un po’ più di allora che cosa vuol dire essere sposa del Signore nel segno della croce, anche se per intero non lo si capirà mai, perché è un mistero” 32. Precedentemente aveva scritto: “Non ho altro desiderio che si compia la volontà di Dio su di me e attraverso di me. Lui conosce quanto tempo mi lascia ancora qui e che cosa succederà poi. In manibus tuis sortes meae. Il futuro è in buone mani e non ho di che preoccuparmi”33. Da qui si comprende la sua decisione di offrirsi a Dio, nel 1939, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, come vittima di riparazione. Sta qui il senso del suo messaggio rivolto alla madre superiora, nella Domenica di Passione (26 marzo 1939): “Cara madre, mi permetta di offrire me stessa al cuore di Gesù quale vittima d’espiazione per la vera pace: affinché cessi il dominio dell’anticristo, possibilmente senza una seconda guerra mondiale e possa venire instaurato un nuovo ordine. Vorrei farlo ancor oggi, poiché è l’ora X. So di essere un nulla, ma Gesù lo vuole, ed egli chiamerà molti altri in questi giorni”34. C’è qui esplicitata una vocazione al martirio, che gli ultimi avvenimenti renderanno più prossima. Così determinata, Edith vivrà gli ultimi mesi della sua vita richiamando sempre a se stessa, e lo scriverà ai suoi interlocutori, la sua scelta di rimettersi nelle mani di Dio quale vittima di espiazione. “Io sono sinceramente contenta di qualunque soluzione, - scriverà probabilmente alla fine del 1941 -. Si giunge a possedere una ‘scientia crucis’ solo quando sì sperimenta fino in fondo la croce. Di questo ero convinta fin dal primo istante, perciò ho detto di cuore: ave crux, spes unica”35. La Croce diventa, allora, il paradigma dell’esistenza umana redenta: da segno di obbrobrio diventa segno di salvezza e di speranza. Per Edith Stein la salita sulla Croce della Scho’ah è il compimento della sua vita. L’oscurità di decisioni precedenti cede ora il campo ad una sovrabbondanza di luce. La sua anima, ormai, è pronta per il sacrificio 32[32] E. STEIN, La scelta di Dio, cit., p. 132. 33[33] Ivi, p. 140. 34[34] Ivi, p. 138. 35[35] 1vi,p. 152. finale. Proprio l’ultima grande opera di Edith Stein, - uno studio su S. Giovanni della Croce - , rimasta incompiuta, ma solo sul piano della scrittura , uscirà con il titolo di Kreuzeswissenschaft36, quasi per affermare nella croce il fondamento del suo camminare verso Dio con i suoi fratelli ebrei. Il risultato, a cui vuole giungere, sarà una filosofia della persona, orientata in senso religioso. Già nel titolo si sente l’influenza di Husserl, ma questa rimane come sullo sfondo, perché ora gli interessi spirituali sono ben diversi. L’immediatezza a cui Edith vuole ora arrivare è l’esperienza mistica, questo abbandono totale dell’anima a Dio, che è un perdersi per un ritrovarsi. Si potrebbe dire, da questo punto di vista, che Edith Stein si propone di leggere l’esperienza mistica di S. Giovanni della Croce alla luce delle intuizioni husserliane. L’idea husserliana di una evidenza in se stessa poteva trovare riscontro solo nell’esperienza comune ai mistici. Uno sbocco diverso non sarebbe stato mai esaustivo. Proprio nell’esperienza mistica Edith avrebbe ritrovato lo sbocco finale della fenomenologia, quasi fosse il suo inveramento , oltre che il compimento della sua scelta di darsi pienamente a Dio. Qui, infatti, la Stein, pur rimanendo sempre ancorata alla fenomenologia e all’insegnamento husserliano, ha scelto di ripercorrere la sua nuova strada sino in fondo. Il suo sforzo è di introdurre nella delineazione di una filosofia della persona tematiche fenomenologiche rivisitate alla luce dell’opzione religiosa. Dalla “scienza della croce”, sviluppando le sue premesse, arriva ad enucleare una filosofia della persona. Nello studio delle leggi fondamentali dell’essere spirituale la sua attenzione si polarizza, soprattutto, sulle questioni concernenti l’essenza e il destino della persona umana. L’io, la persona. la libertà, e, ancora, lo spirito, la fede e la contemplazione, sono questi i temi che caratterizzano l’ultima fatica intellettuale della Stein, volendo dare un fondamento teoretico alla sua vita, che vedeva, ormai, alla fine dei giorni, issata sulla Croce. L’unione con Dio, alla quale ella tendeva, non poteva non consistere per lei che nella morte di croce: morendo sulla croce diventava tutt’uno con Dio: “Se l'anima vuole partecipare alla vita di Cristo, deve passare attraverso la morte di croce: come lui deve crocifiggere la propria natura con una vita di mortificazione e annullamento e lasciarsi crocifiggere con quelle sofferenze e quella morte che Dio sceglie e permette per lei. Più sarà totale questa crocifissione attiva e passiva e più profonda sarà l’unione con il Dio crocifisso e quindi più ricca la partecipazione alla vita divina”37. Proprio la crocifissione nel campo di Auschwitz sarebbe stato l'atto conclusivo della sua vita. La Scientia crucis si colloca, così, al termine di una ricerca personale e contemporaneamente all’inizio, di una nuova fase, - l’ultima - , sia religiosa che filosofica di Edith Stein. Il problema non era più di ricercare un punto di contatto tra fenomenologia e tomismo sul versante del realismo, ma di considerare la croce come cifra dell’esistenza, utilizzando per questo un metodo di tipo fenomenologico. L’opera38 nella sua articolazione fa vedere come la teoria non può essere scissa dalla pratica. Ciò che si pensa e ciò a cui si crede deve essere sperimentato nel proprio intimo e vissuto nella testimonianza quotidiana, che, a seconda delle circostanze, può essere eroica o umile, qualche volta, forse, non molto chiara e 36[36] Cfr. E. STEIN, Kreuzeswissenschaft. Studie über Joannes a Cruce, in Werke I , E, Nauwerlaerts, Herder, Louvain-Freiburg i. Br. 1950; trad. it. Scientia Crucis. Studio su 5. Giovanni della Croce, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1982. Editti Stein iniziò a scrivere quest'opera nell'agosto del 1941 e vi stava ancora lavorando ,quando venne tratta in arresto il 2 agosto del 1942. La terza parte non poté essere portata termine, di essa rimane solo un frammento. 37[37] 38[38] E. Stein, La scienza della croce, cit., p. 27. La Scientia crucis è suddivisa in tre parti: la prima riguarda il messaggio della croce, la seconda, più ampia, sviluppa la dottrina della croce; la terza, rimasta sotto forma di frammento, si intitola sulla via della croce. limpida perché offuscata dalla limitatezza, ma desiderosa sempre di un’unica cosa: camminare sulla via della croce. Sotto questo aspetto, l’ultima parte della Scientia crucis non poteva non richiedere il suo completamento che nella vita stessa di Edith Stein, non sul piano della scrittura. La vita vissuta veniva a costituire, così, il banco di prova di ogni credenza. “La predica della croce sarebbe vana, infatti, se non fosse espressione di una vita di unità col crocifisso”39. La Scientia crucis, sottolinea la Stein nell’Introduzione, “non va intesa nel senso abituale solito: non si tratta di una teoria, vale a dire di un semplice complesso di proposizioni vere, reali o ipotetiche, né di una costruzione ideale congegnata da un processo logico di pensiero. Si tratta, invece, di una verità già ammessa, di una teologia della croce, ma che è una verità viva, reale ed attiva: seminata nell’anima [,,,] e determinante nella sua condotta, al punto da risultare veramente all’esterno”. Si comprende da qui come “da questo stile e da questa forza [...] scaturisce anche la concezione della vita, l’idea che un uomo si fa di Dio e del mondo, sicché tali cose in un sistema di pensiero, m una teoria” Come tale la Scientia crucis termina in un’esperienza, anzi fa tutt’uno con essa. Sta qui il senso dell’affermazione della Stein secondo la quale “si giunge al possesso di una scientia crucis, soltanto quando si sperimenta fino in fondo la croce”. La Scientia crucis diventa così una teologia della croce e una scuola della croce, dove la teoria trova il suo inveramento nella pratica. Nella vita di Edith Stein questa opposizione tra dire e fare è pienamente superata, quando ad Auschwitz sale lei stessa sulla croce insieme con i suoi fratelli ebrei. Soffrendo le sofferenze di tutti e morendo nell’anonimato di una camera a gas, ella si presenta al suo Dio con fiducia, certa di poter essere esaudita. Sulla Croce di Auschwitz la filosofa tedesca nella profonda unitarietà della sua vita sarà segno di riconciliazione tra il popolo ebraico e il popolo cristiano e prova evidente dell’esistenza di Dio e della “cura” particolare che Dio ha degli uomini. La sua vita, allora, sarà un continuo “dire Dio”, pur se nell’agonia di una morte, accettata dalle mani di Dio, nella consapevolezza che “colui ci dà la croce e sa anche rendersi il peso dolce e leggero”40. 39[39] Ivi, p. 252. 40[40] E. STEIN, La scelta di Dio, cit., p.134.