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L’evoluzione della vita sulla Terra: l’unicità del genere
umano
Giovedì 23, ore 18.30
Relatore:
Francisco AYALA,
Donald Bren Professor of Biological Science, Evolutionary Genetics all’Università della California
Moderatore:
Mario GARGANTINI
Gargantini: L’evoluzione è uno dei temi scientifici che più destano un’attrattiva su chiunque abbia un minimo
desiderio di conoscere la realtà e conservi quella curiosità che rende fruttuoso tale desiderio: forse perché riguarda una
storia – quella dei viventi – alla quale, pur con gradi diversi di consapevolezza, tutti percepiamo di appartenere; forse
anche perché è il tema scientifico più esplicitamente collegato ad alcune domande cruciali che continuamente spuntano
dal nostro impatto con la realtà naturale e alle quali tutti, poco o tanto, avvertiamo l’urgenza di una risposta.
Domande come “Che cos’è questa vita che mi trovo data, senza aver fatto nulla per averla? Da dove proviene la mia
vita, cosa la accomuna a quella di tanti altri viventi e cosa invece la distingue, rendendola unica e irrepetibile? Quali
sono i tratti che rendono così singolare e rara la storia del nostro pianeta Terra all’interno della storia dell’Universo?
Quali condizioni hanno reso possibile il costituirsi di un ambiente così adatto al manifestarsi dei processi evolutivi e in
grado di ospitare e far crescere la vita in tutta la sua molteplicità di forme e di comportamenti?”; sono le domande
intorno alle quali tra l’altro ruota la mostra “Una terra per l’uomo”.
E poi la domanda che più ci interessa: che cos’ha di tanto particolare e originale, e forse unico nello scenario
cosmico, la specie umana – come ci dirà il professor Ayala – da renderla inspiegabile, in tutte le sue espressioni,
soltanto in termini di processi biochimici casuali, da renderla capace di chiedere l’eternità?
È un peccato che, da un certo momento storico in poi, un’eccessiva carica ideologica abbia condizionato il dibattito,
anche scientifico, sul tema dell’evoluzione: sono state assolutizzate alcune posizioni, è stato assolutizzato il potere di
spiegazione della scienza, sottovalutandone i limiti. Spesso questo ha coperto la portata, l’interesse vero, di interrogativi
come i precedenti, offuscando la ricchezza e la sorpresa di alcune risposte che la scienza ha trovato e ancora sta
trovando: perché la scienza è un cammino che continua, i problemi sono tutt’altro che risolti.
Questa situazione è negativa sul piano della comunicazione e della divulgazione scientifica, ma lo è soprattutto a
livello educativo: le sbandierate dichiarazioni di maggior attenzione e maggior spazio riservati alle scienze nei
programmi scolastici non trovano, o trovano troppo poco, una corrispondente proposta educativa che sappia formare il
senso critico dei giovani e nello stesso tempo appassionarli all’avventura della ricerca e della scoperta.
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Questa figura mostra l’albero universale della vita che comprende tutti gli organismi viventi noti. In basso, dove
compare la prima ramificazione, è rappresentato l’ultimo progenitore comune. La Terra, il nostro pianeta, si è formato
circa 4.500 milioni di anni fa: i più antichi reperti fossili noti hanno una datazione di poco antecedente ai 3.500 milioni
di anni. Si trattava di organismi microscopici, ovvero singole cellule, che già presentavano una notevole complessità di
organizzazione ed elaborati meccanismi biochimici per svolgere le funzioni vitali.
Non sappiamo quando abbia avuto inizio la vita, ma con ogni probabilità fu parecchie centinaia di milioni di anni prima
dell’ultimo progenitore comune, ovvero non molto tempo dopo la formazione e il raffreddamento della Terra. Sono
numerose le ipotesi formulate sull’origine della vita, sebbene nessuna sia sufficientemente supportata da prove, ragion
per cui nessuna è unanimemente accettata dagli scienziati; il fatto però che siano stati necessarie “soltanto” alcune
centinaia di milioni di anni dalla formazione della Terra alla comparsa dei primi organismi unicellulari, porta a ritenere
che qualche forma di vita possa manifestarsi su qualsiasi pianeta dove siano presenti acqua e alcuni altri elementi (nella
fattispecie, nel nostro pianeta, carbonio, azoto, fosforo e zolfo). Anche la temperatura deve essere “giusta”, ossia
compresa entro un determinato intervallo, come è avvenuto per il pianeta Terra, dove, grazie ai 150 milioni di
chilometri che la separano dal Sole, l’acqua può esistere allo stato liquido.
L’immagine mostra la relazione tra i diversi organismi sotto forma di un albero che ha origine da un tronco (l’ultimo
progenitore comune) dal quale scaturiscono tre rami che rappresentano i tre principali gruppi di organismi esistenti sulla
Terra. Gli eucarioti, comprendenti animali, piante e funghi, sono rappresentati dai tre piccoli rami a destra. Gli eucarioti
sono organismi il cui corredo genetico è racchiuso in una capsula speciale denominata nucleo; anche noi siamo
eucarioti. Gli animali, le piante e i funghi sono gli unici organismi di cui possiamo avere esperienza sensoriale diretta e
pertanto, fino a due secoli fa, erano gli unici organismi di cui l’uomo fosse a conoscenza: eppure rappresentano una
minuscola frazione delle forme viventi. Occorre spiegare che la figura illustrata è stata realizzata in modo che la
lunghezza di ciascun ramo sia più o meno proporzionale alla varietà del gruppo di organismi rappresentati dal ramo
stesso: vale a dire più o meno proporzionale al numero delle specie. Si nota quindi che animali, piante e funghi
rappresentano solo una frazione dell’ampia varietà degli eucarioti, ossia tre rami su circa una dozzina. Gli altri eucarioti
(così come gli altri due gruppi principali, i batteri e gli archaea) sono microscopici. Oltre agli eucarioti infatti sono
rappresentati nell’immagine altri due grandi gruppi di organismi, tutti microscopici. Quello a sinistra comprende i
batteri. L’uomo è a conoscenza dell’esistenza dei batteri da più di un secolo: in genere li si associa con le malattie, ma i
batteri possono svolgere anche molte funzioni utili, tra cui l’assorbimento dell’azoto, di cui animali e piante hanno
bisogno, ma che non riescono a ricavare direttamente dall’atmosfera (dove è invece presente in abbondanza, in quanto
rappresenta il 75% del totale, mentre il resto è per la maggior parte ossigeno). I batteri sono inoltre responsabili della
decomposizione della materia organica morta, processo essenziale per il mantenimento del ciclo di vita e morte. Notate
inoltre che i rami che costituiscono i batteri presentano, nel loro complesso, circa la stessa lunghezza dei rami che
rappresentano gli eucarioti: esistono molte più specie di batteri di quanto ne esistano per animali, piante e funghi nel
loro insieme. Essi sono inoltre talmente numerosi che il loro peso totale (ovvero la loro “biomassa”) è almeno
equivalente (ma probabilmente anche molto superiore) a quella di tutte le piante, gli animali e i funghi considerati nel
loro complesso.
Questo è un pensiero che ci ridimensiona alquanto: tendiamo infatti a considerare la nostra specie, quella umana, come
superiore a tutte le forme viventi, e siamo i più numerosi di tutti gli animali di grossa taglia. Consideriamo gli animali e
le piante come le forme dominanti di vita sulla Terra; ma la biologia moderna ci insegna che sia dal punto di vista
numerico che da quello della biomassa i quasi due milioni di specie animali note, compreso l’uomo, rappresentano
soltanto una minuscola frazione delle forme di vita presenti sulla Terra: dal punto di vista dei numeri e della biomassa
quindi i batteri da soli hanno un peso maggiore del nostro.
Fino a vent’anni fa i biologi erano a conoscenza di due grandi gruppi di organismi, i batteri e gli eucarioti. Al centro
della figura ne potete vedere un terzo, gli archaea, le cui dimensioni sono più o meno equivalenti a quelle di ciascuno
degli altri due. L’esistenza degli archaea è una scoperta molto recente della biologia molecolare; dato che questi
organismi non interagiscono direttamente con noi, non eravamo a conoscenza della loro esistenza. Ne conoscevamo
alcune specie, per esempio quella della sorgente calda di origine vulcanica, dove proliferano a temperature prossime al
punto di ebollizione dell’acqua: pensavamo fossero forme insolite di batteri. Adesso sappiamo invece che costituiscono
un gruppo di organismi numeroso e diversificato che abbonda negli strati d’acqua superficiali dei mari e degli oceani; in
un secchio di acqua di mare, studiata secondo le moderne tecniche di biologia molecolare, se ne possono trovare decine
se non centinaia di nuove specie.
Si stima che le specie viventi siano circa dieci milioni: oltre il 99% di tutte le specie vissute in passato si è estinto;
pertanto il totale delle specie esistite a partire dagli albori della Terra supera i mille milioni. Noi esseri umani non siamo
che una di loro. Gli animali rappresentano una piccola percentuale (forse il 5%) di tutte le specie ora viventi. I primati
rappresentano una percentuale molto esigua di tutti gli animali.
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Tra i primati, le scimmie antropomorfe sono quelle più simili all’uomo.
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Tra le scimmie, gli scimpanzé sono la specie vivente più assimilabile all’uomo. L’umanità è una specie biologica
che si è evoluta da altre specie che non erano umane. Per poter comprendere la natura umana, dobbiamo conoscere le
nostre basi biologiche e da dove veniamo, la storia dei nostri umili inizi. I nostri più vicini parenti sono le grandi
scimmie, e tra loro gli scimpanzé, che sono più simili a noi dei gorilla e molto di più degli oranghi.
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La linea evolutiva degli ominidi si è staccata da quella dello scimpanzé tra 5 e 7 milioni di anni fa, e si è evoluta
esclusivamente nel continente africano fino all’apparizione dell’homo erectus, un po’ prima di 1,8 milioni di anni fa.
Poco dopo la sua comparsa nell’Africa orientale tropicale o sub-tropicale, l’homo erectus si è diffuso negli altri
continenti; sono noti resti fossili di homo erectus in Africa, Indonesia (Giava), Cina, Medio Oriente ed Europa. I reperti
fossili di homo erectus rinvenuti a Giava sono stati datati 1,8 e 1,6 milioni di anni fa e quelli provenienti dalla Georgia
tre 1,6 e 1,8 milioni di anni fa.
Discendenti anatomicamente distinti di homo erectus (classificati come homo antecessor) sono stati rinvenuti in
Spagna, in depositi formatisi prima di 780.000 anni fa: sono i più antichi in Europa meridionale. La transizione da homo
erectus alle forme arcaiche di homo sapiens è avvenuta circa 400.000 anni fa. L’homo erectus è esistito ancora per
qualche tempo in Asia, fino a 250.000 anni fa in Cina e forse fino a circa 100.000 anni fa a Giava: era quindi coetaneo
L’immagine mostra i reperti fossili di Lucy, esempio di Australopiteco vissuto tre milioni di anni fa. Osservate la
configurazione dell’osso iliaco.
dei primi membri della specie da esso discesa, l’homo sapiens.
In Europa circa 200.000 anni fa appaiono reperti di neanderthaliani (homo neanderthalensis), e persistono fino a
30/40.000 anni fa. I neanderthaliani possedevano, come l’homo sapiens, cervelli di grandi dimensioni. Fino a poco
tempo fa si pensava che fossero progenitori degli uomini anatomicamente moderni, ma ora si sa che gli uomini moderni
apparvero circa 100.000 anni fa, molto prima della scomparsa dei neanderthaliani. Recenti studi di genetica indicano
che l’incontro tra sapiens e neanderthalensis non è mai avvenuto.
Esiste una gran controversia a proposito dell’origine dell’umanità moderna. Alcuni antropologi che la transizione da
homo erectus a homo sapiens arcaico, e in seguito agli uomini anatomicamente moderni, avvenne in modo simile in
varie parti del Vecchio Mondo. I sostenitori di questo “modello multiregionale” sottolineano le testimonianze fossili che
mostrano continuità regionale nella transizione da homo erectus a homo sapiens, dapprima arcaico e poi moderno: per
poter fornire prove della transizione dall’una all’altra specie (cosa che non sarebbe potuta accadere indipendentemente
in vari luoghi) postulano che ogni tanto sia avvenuto uno scambio genetico fra le popolazioni, cosicché le specie si
sarebbero evolute come un unico pool genico, nonostante avvenisse e persistesse una differenziazione geografica, così
come esistono popolazioni geograficamente diverse nelle altre specie animali e nell’uomo. È difficile conciliare il
modello multiregionale con l’esistenza contemporanea di specie o forme differenti in regioni diverse, come la
persistenza dell’homo erectus in Cina e a Giava per più di 100.000 anni dopo la comparsa dell’homo sapiens. La
maggior parte delle testimonianze indica che l’umanità moderna è comparsa in Africa o nel Medio Oriente all’incirca
prima di 100.000 anni fa e da lì si è diffusa in tutto il mondo, rimpiazzando nelle altre regioni le popolazioni preesistenti
di altri uomini.
Due caratteristiche peculiari dell’uomo sono il bipedismo e un volume cerebrale di notevoli dimensioni. Alcuni decenni
fa gli evoluzionisti si erano posti il problema se il bipedismo fosse venuto prima dello sviluppo del cervello o se si fosse
trattato di un’evoluzione concomitante. La questione è ora risolta: si è sviluppata prima la stazione bipodalica, mentre
l’ingrossamento del cervello è avvenuto in data successiva. I nostri antenati di 4,5 milioni di anni (australopithecus
ramidus) fa avevano già assunto la posizione eretta, mentre l’ingrossamento del cervello è databile a non prima di 2
milioni di anni fa (homo abilis).
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L’immagine mostra i reperti fossili di Lucy, esempio di Australopiteco vissuto tre milioni di anni fa. Osservate la
configurazione dell’osso iliaco.
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L’immagine mostra un raffronto tra l’osso iliaco di Lucy, al centro e ingrandito per facilitarne il confronto, e le ossa
iliache di un gorilla, a sinistra, e di un uomo moderno, a destra. È chiaro che la configurazione dell’osso iliaco di Lucy è
simile alla nostra e non a quella del gorilla.
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L’immagine mostra che non avrebbe potuto camminare appoggiandosi sulle nocche, come fanno i gorilla e gli
scimpanzé. Come dicevo prima, l’homo sapiens, la nostra specie, è soltanto una dei mille milioni di specie che hanno
vissuto sulla Terra dalla sua origine: da questo punto di vista l’uomo non è che un puntino sul nostro pianeta.
Lo stesso si può dire dal punto di vista del tempo. Gli ominidi cominciarono a diversificarsi dalle scimmie circa 6
milioni di anni fa, mentre l’uomo moderno comparve per la prima volta un centinaio di migliaia di anni fa. Eppure la
vita esiste sulla Terra da oltre 3.500 milioni di anni. È difficile pensare in termini di milioni di anni: consentitemi quindi
di trasformare la linea temporale dell’evoluzione in una scala equivalente a un anno. La vita compare sul nostro pianeta
il primo gennaio all’ora 0.00; in questa scala corrispondente a un anno per i primi otto mesi esiste soltanto la vita
microscopica; i primi animali compaiono attorno al 1° settembre, ma si tratta di animali marini; la terra viene
colonizzata attorno al 1° dicembre; i primati hanno origine il 26 dicembre; gli ominidi si differenziano dagli scimpanzé
a mezzogiorno del 31 dicembre, mentre gli uomini moderni compaiono alle 23.45 dell’ultimo giorno dell’anno.
Esistiamo quindi da un totale di quindici minuti: è un pensiero che ci ridimensiona alquanto.
Dicevo prima che le condizioni perché sia possibile la vita non sono eccessivamente restrittive e che è probabile che
forme di vita si formino di nuovo in un pianeta con condizioni simili alle nostre. Non sappiamo quanti pianeti esistano
con queste caratteristiche: secondo cifre approssimative esistono centomila milioni di galassie nell’Universo noto, e
ciascuna galassia ha circa centomila milioni di stelle; non si sa quante stelle abbiano pianeti o quanti di questi pianeti
presentino condizioni adatte a consentire la vita. Gli astronomi suggeriscono tuttavia che possano esistere molti pianeti
di questo tipo: ritengo pertanto probabile che esista vita anche altrove nell’Universo, anche se basata su una chimica
diversa da quella della vita sulla Terra (con il termine “vita” intendo creature simili a organismi in grado di crescere e di
riprodursi). Sorge quindi il problema se possano esistere in altre parti dell’Universo esseri umani, o quanto meno esseri
intelligenti con cui potremmo essere in grado di comunicare.
Ritornerò più avanti su questo argomento: voglio prima esaminare in che senso gli esseri umani sono unici nel
proprio genere. Ogni specie è unica, nel senso che possiede caratteristiche di cui nessun’altra specie è dotata: se non
avesse caratteristiche precipue non costituirebbe nemmeno una specie diversa. Gli esseri umani sono però unici anche
per aspetti più sostanziali; nella fattispecie abbiamo cultura, una specifica forma di eredità che supporta l’evoluzione
culturale, una modalità di adattamento all’ambiente più efficace di quella biologica (per cultura intendo l’insieme di
tutte le attività e le creazioni prettamente umane, comprendenti tecnologia, letteratura, arte, etica, religione, codici
giuridici e istituzioni politiche).
La postura eretta e il cervello grande non sono gli unici tratti anatomici che ci distinguono dai primati non umani,
anche se possono essere i più ovvi. Un elenco delle nostre caratteristiche anatomiche più distintive include le seguenti:
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Gli uomini sono sensibilmente differenti dagli altri animali non solo nell’anatomia, ma anche, e in modo non meno
importante, per ciò che riguarda il loro comportamento, sia come individui sia socialmente.
Un elenco dei tratti comportamentali distintivi dell’uomo include i seguenti:
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Gli uomini vivono in gruppi che sono socialmente organizzati, e così fanno gli altri primati, ma le società di primati
non si avvicinano alla complessità dell’organizzazione sociale umana.
Un tratto distintivo della socialità umana è la cultura, che può essere definita come il gruppo di attività e creazioni
umane non strettamente biologiche: la cultura comprende le istituzioni politiche e sociali, i modi di fare le cose, le
tradizioni religiose ed etiche, il linguaggio, il senso comune, le conoscenze scientifiche, l’arte, la letteratura, la
tecnologia e in generale tutti i prodotti della mente umana. L’avvento della cultura ha portato con sé l’evoluzione
culturale, una modalità di evoluzione “super-organica” sovrimposta alla modalità organica: negli ultimi millenni essa è
divenuta quella dominante nella evoluzione umana. L’evoluzione culturale si è instaurata a causa di cambiamenti ed
eredità culturali: un modo esclusivamente umano per adattarsi all’ambiente e trasmettere gli adattamenti attraverso le
generazioni.
Per l’uomo ci sono due tipi di eredità: quella biologica e quella culturale, che possono anche essere chiamate
organica e super-organica, o sistemi di eredità endosomatica ed esosomatica. L’eredità biologica nell’uomo è uguale a
quella degli altri organismi che si riproducono sessualmente; l’eredità culturale al contrario è basata sulla trasmissione
delle informazioni tramite un processo di insegnamento-apprendimento che in linea di principio è indipendente dalla
discendenza biologica. La cultura è trasmessa tramite l’istruzione e l’apprendimento, tramite l’esempio e l’imitazione,
attraverso i libri, i giornali, la radio, la televisione e i film, tramite le opere d’arte e grazie ad ogni altro mezzo di
comunicazione. La cultura è acquisita da ogni persona, a partire dai genitori fino ai parenti, ai vicini e a tutto l’ambiente
umano.
Per le persone l’eredità culturale rende possibile ciò che nessun altro organismo può compiere: la trasmissione
cumulativa dell’esperienza di generazione in generazione. Gli animali possono imparare dall’esperienza, ma non
trasmettono le loro esperienze, le loro “scoperte” (almeno in senso lato), alle generazioni successive; gli animali
possiedono una memoria individuale, ma non hanno una “memoria sociale”. Gli uomini, d’altra parte, hanno sviluppato
la cultura, perché possono trasmettere in modo cumulativo le loro esperienze di generazione in generazione. L’eredità
culturale rende possibile l’evoluzione culturale, cioè l’evoluzione della conoscenza, delle strutture sociali, dell’etica e di
tutte le altre componenti che costituiscono la cultura umana.
L’eredità culturale rende possibile una nuova modalità di adattamento all’ambiente, che non è disponibile per gli
organismi non umani: adattamento tramite la cultura. In genere gli organismi si adattano all’ambiente tramite la
selezione naturale, cambiando di generazione in generazione la propria costituzione genetica in modo da rispondere alle
richieste dell’ambiente; gli uomini, solo gli uomini, possono adattarsi anche cambiando l’ambiente perché questo
risponda ai bisogni dei loro geni. Gli animali costruiscono nidi e tane e modificano l’ambiente anche in altri modi, ma la
manipolazione dell’ambiente da parte di qualsiasi specie non umana è irrisoria rispetto a quella dell’uomo.
Durante gli ultimi millenni gli uomini hanno adattato l’ambiente ai loro geni più spesso che non i loro geni
all’ambiente. Per poter estendere il suo habitat geografico o per sopravvivere in un ambiente che cambia, una
popolazione di organismi deve divenire adatta, attraverso il lento accumularsi di varianti genetiche selezionate dalla
selezione naturale, alle nuove condizioni climatiche, a fonti di cibo diverse, a competitori differenti e così via. La
scoperta del fuoco e l’utilizzo di ripari e abbigliamento hanno permesso all’uomo di diffondersi dalle tiepide regioni
tropicali e sub-tropicali del Vecchio Mondo all’intera Terra, eccetto che per le fredde terre dell’Antartide, senza lo
sviluppo di strutture anatomiche quali la pelliccia o i peli. Gli uomini non hanno aspettato l’apparizione di mutanti
genetici che promuovessero lo sviluppo di ali: essi hanno conquistato l’aria in modo più efficace e versatile costruendo
macchine volanti. Le persone attraversano i mari e gli oceani senza avere branchie e pinne. L’esplorazione dello spazio
è iniziata senza dover aspettare mutazioni che permettessero all’uomo di respirare in presenza di scarse pressioni di
ossigeno o di vivere in assenza di gravità: gli astronauti hanno il loro ossigeno e tute pressurizzate attrezzate in modo
particolare. Dalle loro oscure origini in Africa gli uomini sono diventati la specie di mammiferi più diffusa e
abbondante della Terra.
È stata l’apparizione della cultura come una forma super-organica di adattamento che ha reso l’umanità la specie
animale di maggior successo. Nell’uomo l’adattamento culturale prevale su quello biologico, perché è una modalità più
rapida e perché può essere diretto. Una nuova scoperta scientifica o una conquista tecnologica possono essere trasmesse
a tutta l’umanità, almeno potenzialmente, in meno di una generazione; inoltre ogni volta che sorge un nuovo bisogno, la
cultura può effettuare direttamente i cambiamenti adeguati per rispondere alla sfida. Al contrario, l’adattamento
biologico dipende dalla disponibilità accidentale di una mutazione favorevole, o di una combinazione di diverse
mutazioni, nel tempo e luogo in cui il bisogno sorge. La postura eretta e il cervello di grandi dimensioni sono
caratteristiche anatomiche distintive dell’umanità moderna; alta intelligenza, linguaggio simbolico, religione ed etica
sono alcuni tratti comportamentali che ci distinguono dagli altri animali.
Il resoconto delle origini umane che ho svolto implica che ci sia continuità nel processo evolutivo che va dai
progenitori non umani di 7 milioni di anni fa agli umani moderni, passando per gli ominidi primitivi. Una spiegazione
scientifica di questa sequenza evolutiva dovrebbe rendere conto della comparsa dei tratti umani, anatomici e
comportamentali, in termini di selezione naturale, insieme ad altri processi e cause biologiche. Una strategia per
spiegare ciò deve concentrarsi su una particolare caratteristica umana e tentare di identificare le condizioni sotto le quali
essa potrebbe essere stata favorita dalla selezione naturale. Una strategia di questo tipo potrebbe portare a conclusioni
errate, come conseguenza della fallacia dell’attenzione selettiva: alcuni tratti potrebbero essersi instaurati non perché
sono adattativi in se stessi, ma piuttosto perché sono associati con tratti favoriti dalla selezione naturale. La letteratura,
l’arte e la tecnologia sono tra le caratteristiche comportamentali che potrebbero essere sorte non perché erano favorevoli
da un punto di vista adattativo, ma perché sono espressione delle grandi capacità intellettuali presenti negli uomini
moderni.
Termino con alcune brevi considerazioni a proposito dell’etica e del comportamento etico, come modello per come
possiamo cercare una spiegazione evoluzionistica per un tratto peculiarmente umano. Ho scelto il comportamento etico
perché la moralità è un tratto umano che sembra essere molto lontano dai processi biologici. Il mio obiettivo è quello di
accertare se può essere avanzata una descrizione del comportamento etico come risultato dell’evoluzione biologica e, se
è così, se il comportamento etico è stato promosso direttamente dalla selezione naturale, oppure se è sorto come una
manifestazione epigenetica di qualche altro tratto che era il vero bersaglio della selezione naturale. Sottolineerò
dapprima che la domanda se il comportamento etico sia determinato biologicamente, può essere riferita a:
SLIDE 10
Riguardo al primo problema, sostengo che la capacità di etica è un attributo necessario alla natura umana, quindi un
prodotto dell’evoluzione biologica: ma il comportamento etico è sorto durante l’evoluzione non perché sia adattativo
per se stesso, ma come conseguenza necessaria delle considerevoli capacità intellettuali dell’uomo, che sono un
attributo promosso direttamente dalla selezione naturale.
Riguardo al secondo problema, credo, al contrario di molti distinti evoluzionisti, che le norme morali non derivino
dall’evoluzione biologica. È vero che la selezione naturale e le norme morali a volte coincidono per alcuni
comportamenti, cioè sono in accordo; ma questo isomorfismo tra i comportamenti promossi dalla selezione naturale e
quelli sanciti dalle norme morali esiste solo riguardo alle conseguenze dei comportamenti: le cause che sottintendono a
ognuno dei due sono completamente diverse. L’uomo mostra il comportamento etico per natura perché la sua
costituzione biologica determina la presenza in esso delle tre condizioni necessarie e sufficienti, se considerate insieme,
per il comportamento etico:
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Queste capacità esistono come conseguenza delle considerevoli capacità intellettuali degli esseri umani.
La capacità di anticipare le conseguenze delle proprie azioni è la condizione più importante delle tre necessarie per il
comportamento etico. Solo se posso anticipare che premendo il grilletto, sparerò il proiettile che a sua volta colpirà e
ucciderà il mio nemico, allora l’azione di premere il grilletto potrà essere valutata come malvagia. Premere un grilletto
non è in se un’azione morale: lo diventa in virtù delle sue conseguenze rilevanti. La mia azione possiede una
dimensione etica solo se anticipo queste conseguenze. La capacità di anticipare le conseguenze delle proprie azioni è
strettamente legata alla capacità di stabilire la connessione tra mezzi e fini, cioè di vedere un mezzo semplicemente
come un mezzo, come qualcosa che serve per un particolare fine. Questa abilità di stabilire questa connessione tra i
mezzi e i loro fini richiede l’abilità di anticipare il futuro e di formare immagini mentali di realtà non presenti o non
ancora esistenti.
La capacità di stabilire la connessione tra mezzi e loro fini è la capacità intellettuale fondamentale che ha reso
possibile lo sviluppo della cultura e della tecnologia umane. Le radici evolutive di questa capacità possono essere
trovate nella evoluzione dell’andatura bipede, che trasformò gli arti anteriori dei nostri progenitori da organi di
locomozione a organi di manipolazione. Le mani quindi sono gradualmente divenute organi adatti alla costruzione e
all’uso di oggetti per la caccia e per altre attività che aumentarono la sopravvivenza e la riproduzione: di conseguenza
aumentarono la fitness riproduttiva di chi le possedeva. La costruzione di strumenti, comunque, dipende non solo
dall’abilità manuale, ma dalla loro percezione esattamente come utensili, come oggetti che possono aiutare a compiere
determinate azioni: un coltello per tagliare, una freccia per cacciare, una pelle di animale per proteggere il corpo dal
freddo.
L’ipotesi che propongo è che la selezione naturale promosse la capacità intellettuale dei nostri progenitori bipedi,
perché l’aumentata intelligenza facilitò la percezione degli strumenti come tali, e di conseguenza la loro costruzione e il
loro utilizzo, con il conseguente miglioramento della sopravvivenza biologica e della riproduzione. La capacità di
anticipare il futuro, essenziale per il comportamento etico, è quindi strettamente associata allo sviluppo della capacità di
costruire strumenti: una capacità che ha prodotto le tecnologie avanzate delle società moderne e che è responsabile del
successo dell’umanità come specie biologica.
La seconda condizione per l’esistenza del comportamento etico è la capacità di formulare giudizi di valore, di
percepire certi oggetti o atti come più desiderabili di altri. Solo se posso vedere la morte del mio nemico come
preferibile alla sua sopravvivenza, l’azione che porta al suo decesso può essere percepita come morale. Se le
conseguenze alternative di un’azione sono neutrali rispetto al suo valore, non possono essere caratterizzate come etiche.
La capacità di formulare giudizi e valori, dipende dalla capacità di astrazione: in pratica dalla capacità di percepire le
azioni e gli oggetti come membri di classi generali. Questo rende possibile il confronto tra oggetti o azioni e il
percepirne alcuni come più desiderabili di altri. La capacità di astrazione, necessaria per percepire oggetti e azioni
individuali come membri di classi generali, richiede un’intelligenza avanzata, come quella che esiste negli uomini e a
quanto pare solo in essi. Perciò io vedo la capacità di formulare giudizi di merito in primo luogo come una conseguenza
implicita dell’aumentata intelligenza favorita dalla selezione naturale nell’evoluzione umana.
I giudizi morali sono una classe particolare di giudizi di valore: quelli per i quali la preferenza non è dettata dal
proprio interesse o profitto, ma dalla considerazione degli altri, che potrebbe portare benefici a individui particolari
(altruismo) o prendere in considerazione gli interessi del gruppo sociale al quale un individuo appartiene. I giudizi di
valore indicano la preferenza per ciò che è percepito come buono e il rigetto per ciò che è percepito come cattivo.
Buono o cattivo si possono riferire a valori monetari, estetici o di ogni tipo. I giudizi morali riguardano i valori di ciò
che è giusto o non giusto nella condotta umana.
La terza condizione necessaria per il comportamento etico è la capacità di scelta tra soluzioni alternative. Premere il
grilletto potrebbe essere un’azione morale solo se io avessi l’opzione di non premerlo. Un’azione necessaria al di là del
nostro controllo non è un’azione morale. La circolazione del sangue o la digestione del cibo non sono azioni morali. Se
ci sia libera volontà è stata una questione molto discussa dai filosofi e questa non è la sede adatta per parlare
dell’argomento. Il punto che desidero discutere qui è che comunque la libera volontà dipende dall’esistenza di
un’intelligenza ben sviluppata, che rende possibile l’esplorazione di corsi d’azione alternativi e la scelta dell’uno o
dell’altro in vista di conseguenze anticipate.
Riassumendo, la mia proposta è che il comportamento etico è un attributo della struttura biologica dell’uomo e in
questo senso un prodotto dell’evoluzione biologica. Ma non vedo nessuna prova che il comportamento etico si sia
sviluppato perché è adattativo per se stesso. La teoria evolutiva ha dimostrato in modo convincente, che i tratti che
favoriscono il gruppo invece dell’individuo non possono essere emersi tramite la selezione naturale. Piuttosto, le nostre
capacità intellettuali avanzate ci permettono di discernere che prendendo in considerazione gli interessi del gruppo che
guidano le nostre azioni, cioè considerando le conseguenze che le nostre azioni hanno sugli altri, possono derivarne
benefici per la società e di conseguenza per noi stessi come individui. Con il nostro comportamento morale
oltrepassiamo la selezione naturale, ma in ultima analisi ne beneficiamo come individui.
Vi sono numerose teorie a proposito delle basi razionali della morale, come le teorie deduttive che tentano di
scoprire gli assiomi, o princìpi fondamentali, che determinano che cosa sia moralmente corretto basandosi
sull’intuizione morale diretta. Vi sono anche teorie, come il positivismo logico o l’esistenzialismo, che negano i
fondamenti razionali della morale, riducendo i princìpi morali a decisioni emozionali o ad altre basi irrazionali. Sin
dalla pubblicazione della teoria di Darwin dell’evoluzione naturale, filosofi e biologi hanno tentato di trovare la
giustificazione delle norme morali nel processo evolutivo. Il terreno comunque a tutte queste proposte è che
l’evoluzione è un processo naturale che raggiunge risultati che sono desiderabili, e di conseguenza moralmente buoni:
infatti ha prodotto l’uomo. I sostenitori di queste idee asseriscono che solo gli obiettivi evolutivi possono dare valore
morale alle azioni umane: che un atto compiuto dall’uomo sia moralmente giusto dipende dal fatto che possa
promuovere direttamente o indirettamente il processo evolutivo e i suoi obiettivi naturali. Herbert Spencer è forse il
primo filosofo che ha tentato di trovare le basi della morale nell’evoluzione biologica. Tra i tentativi più recenti vi sono
quelli di eminenti evoluzionisti come J.S. Huxley, C.H. Waddington ed Edward O. Wilson, il fondatore della
sociobiologia come disciplina impegnata nella scoperta dei fondamenti biologici del comportamento sociale. Le teorie
morali di Spencer, Huxley e Waddington sono errate e falliscono nel tentativo di evitare la fallacia naturalistica. Questi
autori sostengono, in un modo o nell’altro, che gli standard tramite i quali le azioni umane sono giudicate buone o
cattive derivino dal contributo delle azioni al progresso o all’avanzamento evolutivo: ma i sostenitori dei codici morali
basati sull’evoluzione falliscono nel dimostrare perché la promozione dell’evoluzione biologica da sola dovrebbe essere
lo standard per misurare ciò che è moralmente buono.
Il tentativo più recente e più sottile di basare i codici morali sul processo evolutivo viene dai sociobiologi, in modo
particolare da E.O. Wilson. L’argomentazione dei sociobiologi è che la nostra percezione della morale è una
manifestazione epigenetica dei nostri geni, che così manipolano gli uomini in modo da far loro credere che determinati
comportamenti sono moralmente buoni, cosicché le persone si comportano in modi che sono vantaggiosi a causa dei
loro geni. Gli uomini non potrebbero in altri modi perseguire questi comportamenti (per esempio l’altruismo), perché il
loro beneficio genetico non è visibile. La spiegazione dell’evoluzione del senso morale fatta dai sociobiologi è
fuorviante: come ho sottolineato in precedenza, formuliamo giudizi morali come conseguenza delle nostre considerevoli
capacità intellettuali, non come una via innata per ottenere un guadagno biologico. La valutazione dei codici morali o
delle azioni umane prende in considerazione le conoscenze biologiche, ma la biologia non è sufficiente per decidere
quali codici morali devono, o dovrebbero, essere accettati.
Ciò potrebbe essere ribadito considerando l’analogia con le lingue umane. La nostra natura biologica determina i
suoni che possiamo o non possiamo pronunciare e vincola in altri modi il linguaggio umano. Ma la sintassi e il
vocabolario di una lingua non sono determinati dalla nostra natura biologica (altrimenti non ci potrebbe essere una
moltitudine di lingue parlate), ma sono prodotti della cultura umana. Allo stesso modo le norme morali non sono
determinate da processi biologici, ma da tradizioni culturali e princìpi che sono prodotti della storia umana. Le norme
morali, in base alle quali valutiamo le azioni particolari come moralmente buone o cattive, così come le basi che
possono essere usate per giustificare le norme morali, sono prodotti dell’evoluzione culturale, non di quella biologica.
Le norme morali appartengono, da questo punto di vista, alla stessa categoria di manifestazioni come le istituzioni
politiche e religiose, le arti, le scienze e la tecnologia. I codici morali, tramiti i quali gli uomini valutano il loro
comportamenti sono prodotti di tradizioni religiose e culturali: sono determinati dalla storia culturale e da
considerazioni sociali, non dall’interesse dei nostri geni. Come ha scritto il prof. Fiorenzo Facchini, per comprendere la
cultura umana e il comportamento umano abbiamo bisogno di riconoscere la presenza della “cultura come un nuovo
meccanismo adattativo” e vedere che “la progettualità e la simbolizzazione”, due attributi determinanti del
comportamento etico, sono caratteristiche metabiologiche della cultura, indipendenti dalle leggi biologiche.
Concluderò tornando alla questione se possano esistere o meno in altre parti dell’universo esseri intelligenti simili
all’uomo. La mia risposta è un no inequivocabile. Cosa succederebbe se si dovesse rivedere la “registrazione della
vita”? Supponiamo di essere di nuovo agli albori della vita. Sappiamo che per i primi 8 mesi dell’anno della vita
dell’uomo sulla Terra esistevano soltanto i microbi. Non c’è nulla, nella natura del processo evolutivo, in grado di
assicurare con una certa probabilità la formazione degli eucarioti (ricordate che gli eucarioti sono organismi con un
nucleo all’interno delle loro cellule, contenente il DNA, ossia la sostanza chimica che contiene le informazioni
genetiche). Non c’è nulla, nella natura del processo evolutivo, in grado di garantire con una certa probabilità,
l’evoluzione degli organismi pluricellulari.
La probabilità che esistano animali è ancor più remota. Sappiamo che la maggior parte delle linee evolutive (oltre il
99%) si sono estinte senza discendenza. Sappiamo che gli animali si sono evoluti soltanto una volta. Se si dovesse
“rivedere la registrazione della vita”, la probabilità che gli animali ricompaiano sulla terra sarebbe quindi molto ridotta.
La maggior parte delle specie animali vissute 500.000 anni fa si sono estinte; in effetti la maggior parte dei body plan
esistenti in quel tempo non erano più riscontrabili a distanza di 100 milioni di anni. Soltanto una linea ha dato origine ai
vertebrati, ovvero animali con la spina dorsale, tra cui pesci, anfibi, rettili e mammiferi. Anche se l’evento
dell’evoluzione degli animali si ripetesse, sebbene le probabilità siano basse, non prevediamo che si possa assistere di
nuovo alla comparsa di animali con la spina dorsale.
Possiamo continuare secondo questo filo logico, e arrivare all’improbabilità, praticamente infinita, che possano
ricomparire i primati e con loro gli ominidi fino all’homo sapiens. In ciascuna fase del processo assistiamo a una lunga
concatenazione di eventi, quali mutazioni, eventi ambientali, storia passata e altri processi, la maggior parte dei quali è
casuale, e ciascuno dei quali ha una probabilità di verificarsi pari a uno su un milione. Ripetendo la storia della vita
queste improbabilità si moltiplicherebbero di anno in anno, di generazione in generazione per milioni e milioni di volte.
Le improbabilità che ne deriverebbero sarebbero di tali entità che anche se avessimo milioni di universi, tanto grandi,
quanto l’universo che conosciamo, il prodotto della moltiplicazione (improbabilità dell’uomo x numero di pianeti
idonei) non si annullerebbe per molti ordini di grandezza. La stessa improbabilità si applica agli “organismi intelligenti
con cui potremmo comunicare”. Con questa espressione intendo organismi dotati di un organo simile al cervello, che
consenta loro di pensare e comunicare, e di sensi simili ai nostri, che consentano loro di ricavare informazioni
dall’ambiente e di comunicare in modo intelligente con altri organismi.
Dobbiamo concludere che gli esseri umani sono da soli nell’immenso universo, e lo saranno per sempre.
Gargantini: Vorrei concludere con una brevissima osservazione. La scienza non esaurisce le domande, e non
chiude nessun discorso; in particolare sui meccanismi dell’evoluzione e sulla singolarità della terra nel cosmo e
dell’uomo tra i viventi. Ma restano ancora aperte interessanti piste di ricerca, alcune indicate anche dal Professor Ayala,
che vengono sviluppate col concorso di molte scienze e non soltanto della biologia.
La scienza non risolve tutti i problemi, ma offre un poderoso contributo alla presa di coscienza di alcuni dati
inequivocabili e stupefacenti. Mi hanno colpito gli ultimi passaggi: quando il Professor Ayala diceva che se dovessimo
fare la registrazione della vita, la probabilità che gli animali ricomparissero sarebbe molto bassa. Non c’è nulla che ci
dice che le cose dovevano andare in quel modo: i dati che affiorano dall’orizzonte dalla storia di tutto il cosmo, quelli
citati all’inizio, relativi alle proporzioni tra le specie viventi, sembrano ridimensionare l’uomo; ma poi con l’analisi del
comportamento ci è stato riproposto un uomo con caratteristiche che trascendono il puro livello biologico, e ne fanno un
essere unico, fino alla conclusione suggestiva, perfettamente conseguente alla logica del discorso svolto.
Comunque, vorrei far notare il modo in cui è stato costruito il suo intervento, sulla base dell’analisi dei dati che la
scienza mette a disposizione: prendere sul serio questi dati, continuare a cercarli, a misurarli sempre meglio, con gli
strumenti che abbiamo a disposizione, non ridurli per la fretta di sistemarli nelle teorie che vanno per la maggiore, è il
primo compito di ogni indagine scientifica. Questo significa rispettare fino in fondo la ragionevolezza di un’impresa
come quella scientifica che è tipicamente umana: è un insegnamento prezioso, quello di prendere sul serio il dato della
realtà, che lo scienziato consegna ad ogni uomo che voglia adeguatamente rispondere al desiderio di conoscenza che
muove tutti noi.
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