Bertoldini - Dipartimento di Giurisprudenza

I RITI IMMEDIATI ED ABBREVIATI PREVISTI DALLA LEGGE 21 LUGLIO 2000, N. 205: LA MEDIAZIONE
GIURISPRUDENZIALE TRA CERTEZZA ED EFFETTIVITÀ DI TUTELA
Dir. proc. amm. 2003, 4, 1288
Antonio Bertoldini
Sommario: 1. Premessa. - 2. La sentenza succintamente motivata nell'art. 21, comma 10, e nell'art. 26, commi 4-5, l. n.
1034/1971, così come introdotti dagli artt. 3 e 9, l. n. 205/2000. a) Fasi del giudizio in cui può intervenire la decisione ex art.
9, l. n. 205/2000. b) I presupposti «sostanziali» ex art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971 (manifesta irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità, infondatezza o fondatezza del ricorso). c) I presupposti «processuali» del rito immediato ai
sensi dell'art. 21, comma 10, l. n. 1034/1971: il diritto di difesa delle parti. d) L'appello avverso le sentenze succintamente
motivate. - 3. Il giudizio abbreviato ai sensi dell'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, come introdotto dall'art. 4, l. n. 1034/1971. a)
L'ambito oggettivo del rito accelerato. b) L'ambito dell'accelerazione processuale e la connessione tra riti diversi. c) I
termini soggetti a dimidiazione. d) L'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 in relazione ai termini di appello e a quelli operanti per gli
altri mezzi di impugnazione. - 4. Il ricorso contro il silenzio della P.A. (art. 21-bis, l. n. 1034/1971, come introdotto dall'art.
2, l. n. 205/2000). a) Le condizioni per il ricorso avverso il silenzio della p.a. b) La portata dell'ordine di provvedere. c) Il
provvedimento espresso sopravvenuto dopo il silenzio.
1. La riforma di cui alla l. n. 205/2000, scaturita dalla crescente pressione operata da una sensibilità costituzionalmente
orientata verso una più satisfattiva tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, ha inteso, sia pur in
termini forse non ancora pienamente definiti ed esaurienti, affrancare il sistema di giustizia amministrativa delineato dal r.d.
n. 1054/1924 (testo unico sul Consiglio di stato) e dalla l. n. 1034/1971 (legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali)
da alcuni condizionamenti interpretativi di ordine formalistico e pletorico per condurlo entro canoni di maggiore effettività
funzionale.
Nella prospettiva ora indicata, già nel d.lgs. n. 80/1998, poi confermato e corroborato in tal senso dalla l. n. 205/2000, è stata
estesa a nuove materie (servizi pubblici, diritti patrimoniali consequenziali, edilizia, urbanistica, appalti) la giurisdizione
amministrativa esclusiva, la quale involge negli ambiti ad essa devoluti dalla legge tanto questioni di diritto soggettivo che di
interesse legittimo, all'evidente scopo di evitare lungaggini, situazioni di denegata giustizia e dispersioni di risorse
giudiziarie, endemicamente scarse nel nostro ordinamento rispetto ai bisogni, mediante il superamento «ex lege» di diatribe
estremamente dilatorie tra giurisdizione ordinaria e amministrativa circa la spettanza all'una o all'altra di una determinata
controversia. Non solo, ma detta giurisdizione esclusiva è stata munita di maggiori poteri istruttori (consulenza tecnica
d'ufficio e prova testimoniale) e decisori (attribuzione al giudice amministrativo di poteri di condanna al risarcimento del
danno, anche in forma specifica), che, di riflesso, trasferiscono in tale sede misure cautelari (ora adottabili anche dal
presidente oltre che dal collegio) prima ottenibili soltanto davanti al giudice ordinario (provvedimenti possessori e
nunciatori) e che, nel complesso, la assimilano alla giurisdizione amministrativa di merito.
Peraltro, in un disegno di maggiore economia processuale, anche nella giurisdizione generale di legittimità sono stati
concentrati più rimedi, essendo stati previsti pure in essa nuovi strumenti istruttori (consulenza tecnica d'ufficio) e decisori,
con possibilità di sommare in un'unica impugnativa la domanda di annullamento a quella di condanna della p.a. al
risarcimento, anche in forma specifica, del danno causato da lesione di interessi legittimi, senza quindi necessità di separare
la questione di legittimità da quella risarcitoria. Si è così abbattuto, oltretutto, quel limite che, prima del rinnovamento del
processo amministrativo, era imposto dall'originaria concezione della figura dell'interesse legittimo, tradizionalmente
associata ad un'azione esclusivamente di tipo cassatorio, tesa alla mera demolizione dell'atto (I. Franco, Processo
amministrativo ordinario e riti particolari, in Cons. Stato, II, 2001, 77).
Il legislatore è stato altresì indotto ad occuparsi dell'efficienza del modulo processuale amministrativo anche in relazione
all'esigenza di ridurre i tempi di giudizio. Lo stimolo a muoversi in tale direzione è pervenuto dal moltiplicarsi delle
condanne dello Stato italiano, da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, al risarcimento del danno per l'eccessivo
ritardo nella definizione dei processi, nonché, sul piano costituzionale, dall'entrata in vigore della revisione dell'art. 111
Cost., che ha esplicitato a livello di carta fondamentale il principio di ragionevolezza della loro durata.
Ed invero, il terreno sul quale è maturata la riforma del processo amministrativo era caratterizzato da un progressivo
prolungamento del periodo di giacenza dei ricorsi incardinati davanti al giudice amministrativo, sia in primo grado che in
appello. Il fenomeno, secondo alcune analisi anche di tipo statistico, sarebbe stato cagionato da un considerevole aumento
della litigiosità tra privati e pubblica amministrazione, contestuale ad un peggioramento qualitativo dell'azione di soggetti
pubblici poco efficienti, male organizzati e sempre più permeati da una «mentalità autoritativa», con conseguente superlavoro
del giudice amministrativo, chiamato per certi versi ad un'opera di correzione del sistema mediante strutture inadeguate ad
attuarla con tempestività (F.O. Zuccaro, Il tempo e il processo amministrativo, Milano, 1999, 19).
Per fronteggiare quella che stava degenerando in una vera e propria emergenza, il sistema giuridico non ha tanto, come
sarebbe stato opportuno, promosso interventi preordinati ad un incremento di organico della magistratura amministrativa, ad
una ridefinizione delle norme organizzative di tale personale ed ad un significativo e diffuso impulso di radicale
informatizzazione, riqualificazione ed aggiornamento degli uffici giudiziari, quanto, piuttosto, ha inciso sull'impianto del
processo per consentire, in generale, decisioni più celeri e differenziazione dei riti a seconda dell'oggetto della vertenza.
Hanno manifestato l'intendimento ora riferito, oltre alla l. n. 205/2000, prima di essa, l'art. 19, d.l. n. 67/1997, convertito dalla
l. n. 135/1997 in materia di appalti di lavori e la l. n. 40/1998 in materia di provvedimenti di espulsione degli stranieri,
mentre, più di recente, l'art. 14, d.lgs. n. 190/2002 nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa che riguardino le
procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle infrastrutture ed insediamenti produttivi e relative attività di
espropriazione, occupazione e asservimento.
Si riscontra così, nell'insieme, una cospicua valorizzazione del ruolo delle procedure camerali, caratterizzate da particolare
agilità e velocità ed inserite in un contesto abbastanza disadorno di formalità, nel quale dibattere e decidere in relazione ad
istanze che necessitano di una delibazione immediata, ancorché sommaria e, dunque, solitamente preordinata all'adozione di
provvedimenti cautelari e provvisori (N. Saitta, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, Milano, 2000,
215). I riti anzidetti, peraltro, sono stati ora muniti dal legislatore di attitudine a produrre pronunce idonee ad acquisire
efficacia di cosa giudicata. Si è pertanto provveduto ad organizzare una tutela più celere rispetto a quella ordinaria e, nel
contempo, a consentire al giudice di pervenire ad una decisione più efficace di quelle che normalmente pronuncia (C.E.
Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2001, 258). È ormai risalente, in tal senso, l'assunto teso a definire la
camera di consiglio come «strumentazione della tecnica processuale» (G. Franchi, voce Camera di consiglio - dir. proc.
amm., in Enc. dir., V, Milano, 1959, 1006 ss.) della quale avvalersi per esclusive ragioni di economicità processuale e di
semplificazione procedurale, in deroga al principio della pubblicità dell'udienza, a condizione che una delle parti non
formalizzi la richiesta di rinviare ad una udienza pubblica, essendone abilitata legislativamente (G. De Candia, Dei
procedimenti in camera di consiglio nel diritto processuale amministrativo alla luce della L. 21 luglio 2000 n. 205, in Trib.
amm. reg., 2001, II, 163).
L'attribuzione al giudice amministrativo del potere d'ufficio di decidere la causa in camera di consiglio implica peraltro una
prevalenza delle ragioni di celerità su quelle di istruzione probatoria completa, con il rischio di un eccessiva compressione
della fase destinata alle difese delle parti, all'esame del ricorso e dei fatti posti a fondamento del medesimo, a scapito del
necessario approfondimento (C.E. Gallo, Attività istruttoria ed abbreviazione dei tempi del giudizio: il ruolo dell'organo
monocratico, in questa Rivista, 2002, 1037).
Riguardo alla recente innovazione dei meccanismi processuali, si noti che, in base a quanto riscontrato da alcuni,
occorrerebbe distinguere la parte della l. n. 205/2000 (art. 4) avente come «ratio» principale l'accelerazione del processo, da
quella (art. 9) che tende invece ad una sua semplificazione, in quanto i riti abbreviati di cui alla prima norma si presentano
con caratteristiche «ab origine» diverse da quello ordinario, mentre il rito «semplificato» contemplato dalla seconda altro non
è che un rito ordinario che si semplifica «in itinere» a seguito della valutazione che del ricorso effettui il collegio il quale
ritenga sussistere i presupposti «ex lege» per definire il giudizio senza previo passaggio alla pubblica udienza di trattazione
del merito (F.F. Tuccari, Decisione in forma semplificata, in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio n. 205,
a cura di F. Caringella - M. Protto, Milano, 2001, 798).
A ben vedere, però, tanto il caso in cui la legge, nel rispetto delle limitazioni derivanti dal modello rappresentato dal rito
ordinario (C.E. Gallo, Manuale, op. cit., 258, nel sostenere che la tutela giurisdizionale differenziata deve scostarsi il meno
possibile dal modello processuale ordinario, pare voler attenuare quella separazione tra processo ordinario e processi speciali
ritenuta più netta da altri autori) imponga direttamente termini più ristretti, quanto il caso in cui la legge consenta invece al
collegio giudicante di optare per la decisione in forma semplificata, alla quale sono indiscutibilmente legate logiche di
massima rapidità, trovano presupposto comune in un disegno complessivo di riduzione dei tempi di giudizio. Di
conseguenza, l'art. 4, l. n. 205/2000 (per effetto del quale alla l. n. 1034/1971 è stato aggiunto l'art. 23-bis), diretto ad
accelerare i tempi del processo in materie ritenute particolarmente esposte al rischio che la durata dei processi si traduca in un
grave danno per gli interessi pubblici che si intendono perseguire attraverso l'emanazione dei provvedimenti impugnati, non
va tenuto distinto, ma va letto insieme con la disposizione posta dal precedente art. 3, l. n. 205/2000 (D. Vaiano,
L'accelerazione dei tempi processuali, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, appendice al tomo IV,
Milano, 2001, 22), nella parte in cui, modificando il comma 9 dell'art. 21, l. n. 1034/1971, ha previsto in via generale che il
giudice amministrativo possa definire il giudizio nel merito già in sede di decisione della domanda cautelare, una volta che
abbia «accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria ed ove ne ricorrano i presupposti, sentite sul punto le
parti costituite».
Riservata al seguito un'analisi di dettaglio sui singoli istituti, sembra opportuno premettere che spetterà verosimilmente alla
giurisprudenza amministrativa, là dove ciò sia consentito, modulare le esigenze di celerità del processo con i diritti di difesa
delle parti (I. Volpe, Motivazioni «snelle» nelle decisioni semplificate, in Guida al diritto, «Processo amministrativo»,
novembre/10, 2002, 40), che non possono sempre ritenersi salvaguardate dalla sola instaurazione formale del contraddittorio.
In altri termini, il principio di durata ragionevole del giudizio di cui all'art. 111 Cost. non può essere ampliato al punto da
pregiudicare il principio di parità delle armi e di dialettica processuale tra le parti. Tali garanzie debbono operare nella loro
pienezza sin dal primo grado di causa, ai sensi dello stesso art. 111 Cost. e, più in generale, in applicazione dell'art. 24 Cost.,
pena la trasformazione del processo amministrativo in un rito «ufficioso» eccessivamente subordinato alle impressioni
soggettive del giudice, il quale, sempre in virtù delle regole cardine dianzi citate, è invece sempre tenuto a decidere «iusta
alligata et probata». Insomma, le istanze di velocizzazione emergenti dall'ordinamento non devono condurre alla «giustizia
sommaria», poiché altrimenti si renderebbe un pessimo servigio alla giustizia in sé e ai soggetti che abbisognano dell'opera
del giudice amministrativo per sciogliere questioni quasi sempre non lineari, sciogliendo la matassa degli intrichi posti dai
vari livelli di normazione molto spesso non coordinati con una valutazione, come suol dirsi, «cognita causa» (I. Franco, op.
cit., 96 s.).
A quanto appena osservato si riconnette una generale esigenza di certezza della disciplina processuale per quanto si riferisce
al regime delle preclusioni che, implicando, in caso di inosservanza, la sanzione della decadenza, debbono essere raccolte in
un numero chiuso tassativamente esplicitato dalla legge, come imposto dall'art. 152 c.p.c., comma 2, là dove si stabilisce che
«i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori». Si tratta, di una
prescrizione correlata al principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., oltre che, naturalmente, da quello
di difesa ex art. 24 Cost., i quali si oppongono al verificarsi, a carico di una parte, o di entrambe, di una tardività insuperabile
per effetto non del tenore letterale di una disposizione legislativa espressa, ma di un'interpretazione restrittiva operata dal
giudice amministrativo su di un dato normativo equivoco, generico o lacunoso.
Denuncia una situazione di disagio sul punto lo sforzo (M.A. Sandulli, I termini del processo amministrativo nella L. 205 del
2000, in Foro amm.-T.a.r., 2002, 302 ss.) di raccogliere in un quadro sinottico i termini perentori di compimento dei singoli
atti nei diversi riti in cui si articola il processo amministrativo. L'iniziativa, sia pur commendevole, conferma un notevole
grado di incertezza, comportante un certo disagio degli avvocati in merito alla strategia difensiva da assumere, nonché ampi
margini di discrezionalità dei magistrati che il principio dispositivo vorrebbe maggiormente circoscritti entro i confini
dell'impulso di parte, configurabile tanto in via di azione che di eccezione.
Ciò vale, sempre in un'ottica processual-civilistica, in rapporto all'ulteriore regola sancita dall'art. 157 c.p.c., a tenore della
quale una nullità e, dunque, anche quella che potrebbe configurarsi per inosservanza di alcuni termini posti per il
compimento degli atti del processo, quando sia stabilita nell'interesse di una parte, risulta sanata se non rilevata da colui che
vi è legittimato nella prima udienza o istanza successiva all'atto viziato. In tali ipotesi di nullità relativa, in virtù del citato
principio dispositivo, il superamento del limite temporale dovrebbe comportare decadenza soltanto qualora esso sia rilevato
dalla parte che vi ha interesse, a prescindere dal fatto che essa abbia subito un pregiudizio (vedasi C. Consolo-F.P. Luiso,
Codice di procedura civile commentato, Milano, 2000, 920).
Parimenti, la preclusione processuale consistente nell'impossibilità di deduzioni difensive o istruttorie successive alla prima
camera di consiglio successiva alla proposizione del ricorso, qualora il collegio ritenga di poter anticipare la decisione sul
merito pronunciandosi definitivamente in forma succintamente motivata già nella fase cautelare, dovrebbe poter essere
superata in via di eccezione dalla parte che vanti ulteriori diritti di contraddittorio a fronte della sopravvenienza di atti o
circostanze ulteriori connessi all'oggetto del giudizio.
Dato che il discorso sull'abbreviazione del processo amministrativo associa, come si è visto, l'introduzione generalizzata della
camera di consiglio all'abbreviazione dei tempi per l'esplicazione delle attività di causa, la maggiore informalità del rito
camerale rispetto all'udienza pubblica induce ad una riflessione sull'opportunità di applicare in modo più ampio, anche nella
sede giurisdizionale in esame, l'istituto della convalidazione sia oggettiva ex art. 156, comma 3, c.p.c., sia soggettiva di cui
all'art. 157 c.p.c. (A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1999, 234 s.), nella direzione, chiaramente, di
non assolutizzare nullità processuali che non abbiano compresso i diritti di difesa o che non siano state tempestivamente
rilevate da chi vi aveva interesse.
Si procederà, quindi, nell'immediato prosieguo, all'analisi circoscritta della giurisprudenza formatasi in merito alla decisione
in forma semplificata di cui all'art. 21, comma 9, l. n. 1034/1971, al rito abbreviato ai sensi dell'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 ed
al giudizio sul silenzio ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971. Essi, infatti, tra i riti camerali operanti nel processo amministrativo,
costituiscono nel loro complesso la novità più autonoma ed incisiva nel quadro della riduzione della durata dei giudizi del
processo voluta dal legislatore.
2. Al fine di rendere più rapido lo svolgimento del giudizio amministrativo, l'art. 9, l. n. 205/2000 ha generalizzato la
possibilità del giudice di definirlo mediante sentenza succintamente motivata che può essere adottata, tanto in primo grado
che in appello davanti al Consiglio di Stato, oltre che in pubblica udienza, già nella camera di consiglio fissata per la
decisione sulla domanda cautelare, oppure in quella successiva all'esame istruttorio di cui all'art. 44, r.d. n. 1054/1924. Si
tratta di un istituto che, dal punto di vista del diritto positivo, non ha rappresentato una novità assoluta, essendo stato
precorso, in termini pressappoco identici, dall'art. 19 del d.l. n. 67/1997, ora abrogato e sostituito dall'art. 23-bis, l. n.
1034/1971, applicabile al ristretto settore delle impugnative concernenti gli appalti di lavori.
Occorre innanzitutto premettere che la rubrica dell'art. 9, l. n. 205/2000, fissando il concetto di «decisioni in forma
semplificata», non si riferisce soltanto al provvedimento decisorio isolatamente considerato, ma anche al procedimento
giurisdizionale, il quale risulta suscettibile di maggior concentrazione rispetto alla sua configurazione primigenia in forza
dell'assorbimento o inglobamento, pur sempre eventuali (sul processo amministrativo come una doppia verifica eventuale,
prima interinale, poi di merito, si rimanda a G. Virga, I procedimenti abbreviati previsti dalla legge 21 luglio 2000, n. 205,
Relazione al Convegno della Società italiana degli avvocati amministrativisti, sezione regionale per la Sicilia, Il processo
amministrativo dopo la riforma, in www.giust.it/articoli/virgag procedabbrev.htm) dell'udienza pubblica per la trattazione del
merito in una delle camere di consiglio che la precedono, in sede cautelare, come previsto dall'art. 3, l. n. 205/2000, o in sede
istruttoria (F.F. Tuccari, op. cit., 797). Vi è dunque ora, tra gli strumenti a disposizione del giudice, anche la possibilità, in
ogni camera di consiglio, di trasformare il rito da ordinario in immediato (Cons. di Stato, sez. VI, 10 marzo 2003, n. 1271, in
Guida al diritto, 13/2003, 88 ss.).
La disamina della giurisprudenza formatasi sulla figura qui considerata si articolerà in relazione alla fisionomia che essa
assume all'interno delle norme che la prevedono, sia in ordine alle condizioni prescritte per la sua adozione, sia per quanto
attiene ai momenti in cui tale tipo di sentenza può intervenire, sia in riferimento ai contenuti minimi che la debbono
corredare.
a) Fasi del giudizio in cui può intervenire la decisione ex art. 9, l. n. 205/2000. - In relazione al momento in cui è ammessa la
pronuncia di sentenza breve, è pacifico, ai sensi dell'art. 3, l. n. 205/2000, che essa possa seguire l'udienza in camera di
consiglio fissata per la decisione sull'istanza di sospensione cautelare del provvedimento impugnato. Peraltro, è stato statuito
che il giudice ben può avvalersi di tale strumento anche dopo la trattazione della causa in pubblica udienza (Cons. di Stato,
sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5681, in Foro amm., C. di S., 2002, 2351; Cons. di Stato, sez. IV, 16 ottobre 2002, n. 5651, in
Cons. Stato, 2002, I, 2249): difatti, i termini e la procedura previsti per la decisione in pubblica udienza sono di più efficace
garanzia per i diritti di difesa e per l'integrità del contraddittorio, rispetto alla disciplina delle udienze camerali; inoltre, la
sentenza, ancorché succintamente motivata, è comunque idonea a definire un giudizio a cognizione piena, non essendovi
alcuna reciproca interdipendenza tra semplificazione della motivazione e sommarietà della cognizione (Cons. di Stato, sez.
IV, 12 luglio 2002, n. 3929, in Riv. giur. urbanistica, 2002, 5; Cons. di Stato, sez. V, 26 gennaio 2001, n. 268, in Giur. it.,
Rep., 2001, voce «Giustizia amministrativa», n. 104.).
Sempre in riferimento alle fasi processuali in cui il rito immediato risulta utilizzabile, si è affermato che, in caso di istanza
cautelare contestuale all'atto contenente motivi aggiunti, l'obbligo di disamina della stessa nella prima camera di consiglio
utile non determina una riduzione della materia del decidere, tale che essa debba intendersi limitata ai soli motivi nuovi, ma
rimette al giudice nuovamente tutta la controversia. Da ciò consegue la possibilità, anche in quella camera di consiglio
successiva all'atto contenente motivi aggiunti, di far luogo a pronuncia in forma semplificata, senza che a ciò possa essere di
ostacolo la presentazione di un'istanza di prelievo e fissazione della discussione nel merito (Cons. di Stato, sez. VI, 10 marzo
2003, n. 1271, cit., 90). L'impiego dell'istituto in esame parrebbe non consentito, invece, nel giudizio di appello avverso
l'ordinanza cautelare che nega o che concede la sospensione del provvedimento impugnato poiché, in caso contrario, le parti
sarebbero private di un grado di giudizio. A volere sostenere il contrario, si finirebbe per giustificare un'indebita violazione
dell'art. 24 Cost., oltretutto in assenza di una previsione legislativa espressa che ammetta il giudizio in unico grado (M.
Branca, Brevi note sulla «sentenza succintamente motivata», in Cons. Stato, 2002, II, 682, rileva che il doppio grado di
giudizio non è imprescindibile, ma la legge deve espressamente consentire di prescinderne. Peraltro, il principio dell'esame in
seconda istanza di tutti i provvedimenti giurisdizionali è imposto nel nostro ordinamento, in virtù dell'art. 11 Cost., dalla
Convenzione europea dei diritti dell'uomo). Sotto il profilo quantitativo, si riscontra, ad ogni modo, un'interpretazione
dell'art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971 diretta a rendere residuale la sentenza ordinaria rispetto a quella succintamente
motivata, sebbene sul piano letterale, il sistema tenda a assegnare a quest'ultima una posizione di specialità (F.F. Tuccari, op.
cit., 802 s.). Proprio in tema di generalizzazione della decisione in forma semplificata, sono sorte perplessità in ordine al
richiamo fatto, dall'art. 26, comma 5, l. n. 1034/1971, all'art. 44, r.d. 1054/1924, poiché quest'ultimo, al comma 2, contempla
in termini circoscritti il giudizio di merito: pertanto, stando ad un'interpretazione letterale della disposizione, sembrerebbe
che la decisione in forma semplificata possa trovare applicazione soltanto in questa tipologia di giudizio che, da un punto di
vista quantitativo, riguarda una minima parte del contenzioso giurisdizionale amministrativo. A ben vedere, chi voglia dare
all'istituto in esame un valore conforme alla «ratio» acceleratoria insita nell'intera l. n. 205/2000, dovrà renderlo operante,
oltre che nella giurisdizione di merito, anche in quella generale di legittimità ed in quella esclusiva (I. Volpe, op. cit., 39).
Nella direzione estensiva ora riferita, l'attuale indirizzo seguito dalla giurisprudenza amministrativa, oltre ad ammettere che
ogni tipo di ricorso possa essere definito in forma semplificata, denota una propensione a scegliere la strada del rito
immediato a prescindere dalla natura complessa o meno della lite (L. Pasanisi, La sentenza breve in sede cautelare come
modo ordinario di definizione del giudizio amministrativo, in Foro amm.-T.a.r., 2002, 3521).
L'impostazione esegetica al momento affermatasi, sensibile all'accelerazione dei processi per assecondare istanze di
effettività di giustizia, spinge, però, anche nella direzione di evitare indebite compressioni della sfera di tutela assicurata
dall'art. 24 Cost., ove si prenda spunto dall'associazione, fatta in linea di principio dalla giurisprudenza (Cons. di Stato, sez.
V, 26 gennaio 2001, n. 268, cit.), tra maggiore garanzia di contraddittorio, da una parte, e decisione in pubblica udienza,
dall'altra. Ciò significa accentuare l'attenzione verso il presupposto «processuale» del diritto di difesa delle parti, diritto che,
come si è già osservato, l'art. 26, comma 5, l. n. 1034/1971 vuole concretamente salvaguardato per tutti i casi di decisione in
forma semplificata, ma che deve acquisire una dimensione rinforzata ogniqualvolta si opti per una cognizione più rapida e
sommaria finalizzata alla definizione del giudizio anticipata alla fase cautelare.
b) I presupposti «sostanziali» ex art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971 (manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità,
infondatezza o fondatezza dei ricorso). - L'art. 9, l. n. 205/2000, nell'inserire l'attuale comma 4 all'art. 26, l. n. 1034/1971,
stabilisce che «nel caso in cui ravvisino la manifesta (in quanto individuabile "prima facie", secondo la lettura di G. Virga,
cit.) irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il Tribunale amministrativo regionale e il
Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata».
A proposito della sussistenza delle sopra indicate premesse per poter pronunciare sentenza succintamente motivata, spetta al
giudice investito dell'istanza cautelare valutare l'opportunità di decidere o meno il merito in forma abbreviata (Cons. di Stato,
sez. VI, 30 gennaio 2002, n. 542, in Cons. Stato, 2002, I, 159; Cons. di stato, sez. IV, ord. 22 maggio 2001, n. 2957, in Cons.
Stato, 2001, I, 1514), trattandosi di apprezzamento rimesso alla valutazione discrezionale del giudice amministrativo nel
superiore interesse pubblico alla sollecita definizione dei processi (Cons. di Stato, sez. VI, 30 dicembre 2002, n. 8252, in
Cons. Stato, 2002, I, 2809), in conformità all'esigenza di garantire la ragionevolezza della loro durata ai sensi dell'art. 111,
comma 2, Cost. (Cons. di Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3929, cit.; Cons. di Stato, sez. V, 26 gennaio 2001, n. 268, cit.). Il
collegio, pertanto, prescinde dalle prospettazioni delle parti, anche se coincidenti, in ordine alla sussistenza dei presupposti
(sulla distinzione tra presupposti processuali - integrità del contraddittorio e completezza dell'istruttoria - e sostanziali manifesta fondatezza ovvero manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso - della
pronuncia succintamente motivata, Cons. di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2002, n. 453, in Giur. it., 2002, diritto amministrativo,
1968. La stessa classificazione, sia pur sinteticamente, è ripresa da M. Giunta, In sede di esame cautelare dei motivi aggiunti
si può definire nel merito l'intera controversia, in Guida al diritto, 13/2003, 96), per la decisione in forma semplificata,
potendo anzi dissentirne e procedere d'ufficio (F.F. Tuccari, op. cit., 803).
Si noti che, in merito alla valutazione giudiziale concernente il «carattere manifesto» dell'irricevibilità, inammissibilità,
improcedibilità, infondatezza o fondatezza del ricorso, non può configurarsi un vizio di procedura. Tale prospettazione è
dunque insindacabile (Cons. di Stato, sez. VI, 15 luglio 2002, n. 3956, in Foro Amm.-C.d.S., 2002, 1807): l'effetto devolutivo
del gravame determina che in seconde cure ci si debba pronunciare sul merito della controversia, quindi sulla conformità a
diritto della sentenza, prescindendo dall'appariscenza con la quale le singole tesi si palesino fondate o infondate (Cons. di
Stato, sez. VI, 18 marzo 2003, n. 1424, in La sett. giur., 2003, I, 242, con massima più generica rispetto al testo, al momento
inedito). I requisiti prescritti dal citato art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971 sono stati definiti come «sostanziali» (da ultimo,
Cons. di Stato, sez. VI, 10 marzo 2003, n. 1271, cit., 90. Prende atto del riportato orientamento anche L. Pasanisi, op. cit.,
3519), evidentemente per la loro attinenza con il modo, manifesto o non manifesto, con il quale l'oggetto dedotto in giudizio
si pone in rapporto ad un possibile esito finale della causa.
Perciò, detti presupposti vanno tenuti distinti dalla «completezza del contraddittorio e di istruttoria», che saranno analizzate
nel seguito, poste dal successivo comma 5 della norma citata come premesse «processuali», questa volta, per l'adozione della
decisione in forma semplificata (Cons. di Stato, sez. IV, 28 gennaio 2002, n. 453, cit., 1968), insite nel momento
pregiudiziale della ritualità tanto della proposizione del ricorso, quanto della sequenza temporale degli atti connessi al diritto
di azione e di eccezione, nonché agli oneri connessi.
c) I presupposti «processuali» del rito immediato ai sensi dell'art. 21, comma 10, l. n. 1034/1971: il diritto di difesa delle
parti. - Si può così proseguire con l'esame del combinato disposto tra gli artt. 21, comma 10 e 26 comma 5, l. n. 1034/1971,
per osservare come essi, nel loro tenore letterale, moltiplicando i precetti di integrità del contraddittorio, esprimano sul
medesimo una particolare enfasi in rapporto all'intenzione del collegio di concludere il giudizio nella camera di consiglio
dedicata alla sospensione cautelare. È stato al riguardo statuito che la risoluzione del giudizio amministrativo anticipata alla
camera di consiglio fissata per la fase cautelare presuppone necessariamente la verifica, da parte del giudice stesso, della
completezza del contraddittorio processuale, intesa sia in senso soggettivo (ossia come evocazione in giudizio di tutte le parti
necessarie), sia in senso oggettivo (ossia come rispetto dei termini di difesa), nonché l'audizione sul punto delle parti (Cons.
di Stato, sez. VI, 4 gennaio 2002, n. 35, Cons. Stato, 2002, I, 20 s.).
Occorre prendere le mosse dai requisiti soggettivi di completezza del contraddittorio, il quale può considerarsi integro, con
possibilità di sentenza definitiva immediata ex art. 21, comma 9, l. n. 1034/1971, quando, nella camera di consiglio volta alla
trattazione sull'istanza cautelare, si riscontri che gli intimati (pubblica amministrazione e controinteressati), ancorché non
costituiti in pendenza del relativo termine, abbiano ricevuto rituale notificazione del ricorso introduttivo (Cons. di Stato, sez.
VI, 7 febbraio 2003, n. 650, in Guida al diritto, 9/2003, 95).
D'altro canto, in ordine al rispetto dei termini di difesa, la sentenza in forma semplificata deve essere annullata qualora il
giudice di primo grado abbia fissato la camera di consiglio a distanza di meno di dieci giorni liberi dal deposito del ricorso e
le parti controinteressate non si siano costituite entro la stessa: una siffatta assenza dell'integrità del contraddittorio può anche
essere rilevata d'ufficio dal giudice (Cons. di Stato, sez. IV, 29 luglio 2002, n. 4070, in Cons. Stato, 2002, I, 1621 s.). Fuori di
questo caso, se le parti costituite in giudizio non si siano opposte alla possibilità di definire immediatamente il ricorso con
sentenza in forma semplificata, l'art. 9, l. n. 205/2000 consente detta definizione anche nel caso in cui non siano decorsi i
termini per proporre ricorso incidentale, indipendentemente da un mandato specifico conferito in tal senso al difensore, non
sussistendo le premesse logico-giuridiche per un parallelismo tra rinuncia al ricorso incidentale già proposto e omessa
dichiarazione di volersi opporre alla decisione immediata al fine di promuovere - con facoltà implicitamente ricompresa, tra
gli altri compiti di difesa tecnica, nel mandato ad litem conferito dal controinteressato - ricorso incidentale (Cons. di Stato,
sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2538, in La sett. giur., 2003, I, 408 s.), ferma restando la possibilità che i motivi di ricorso
incidentale che non sia stato possibile far valere in primo grado si convertano in motivi di appello (Cons. di Stato, sez. VI, 4
gennaio 2002, n. 35, cit.).
Passando al ruolo delle parti costituite, si ritiene che la decisione immediata possa intervenire anche senza necessità di
acquisire il loro consenso (Cons. di Stato, sez. VI, 15 luglio 2002, n. 3956, in Cons. Stato, 2002, I, 1587). Di conseguenza, le
pronunce appena citate debbono essere intese nel senso che l'istituto in esame non vincola il giudice ad un indefettibile
impulso di parte, potendo egli prescinderne in caso di mancata comparizione delle parti costituite (Cons. di Stato, sez. VI, 30
gennaio 2002, n. 546, in Cons. Stato, 2002, I, 159), essendo le stesse sufficientemente tutelate dalla possibilità di essere
sentite (Cons. di Stato, sez. VI, 30 dicembre 2002, n. 8252, cit., 2809; Cons. di stato, sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, in
Cons. Stato, 2002, I, 41) ed avendo esse l'onere di comparire e di chiedere un differimento, nel caso i cui vi abbiano interesse
(Cons. di Stato, sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2538, cit.; Cons. di Stato, sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 650, cit., 96). Si è
soggiunto che, constatata l'assenza dei difensori delle parti nella camera di consiglio, può legittimamente ravvisarsi un
disinteresse degli stessi a portare a conoscenza dell'organo giurisdizionale ragioni ostative all'immediata conclusione del
giudizio (Cons. stato, sez. V, 1 marzo 2003, n. 1131, in La sett. giur., 2003,1, 192).
Bisogna però notare che le allegazioni delle parti comparse in udienza aventi segno contrario alla definizione subitanea della
causa non possono essere impedite. Il giudice, difatti, ai sensi dell'art. 21, comma 9, l. n. 1034/1971, soggiace all'obbligo di
sentire le parti costituite e comparse, poiché la loro mancata audizione, nella camera di consiglio fissata per l'esame della
domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato e, inoltre, l'omesso preavviso circa la conversione del rito, ove
venga emessa in quella sede sentenza succintamente motivata sul merito, costituiscono difetto di procedura incidente sul
diritto di difesa (Cons. giust. ammin. Reg. sic., 24 dicembre 2002, n. 696, in Cons. Stato, 2002, I, 2832).
L'audizione delle parti ed il preavviso di possibile sentenza immediata nel merito costituiscono due ulteriori presupposti alla
cui verificazione la l. n. 205/2000 ancora la possibilità della definizione del merito. Si ravvisa in ciò una differenza della
figura in questione rispetto al rito abbreviato previsto dall'art. 19, d.l. n. 67/1997, convertito in l. n. 135/1997, che non
contemplava espressamente l'interlocuzione delle parti (Cons. stato, sez. VI, 26 giugno 2001, n. 3463, in Cons. Stato, 2001, I,
1436). Tuttavia, anche per quella tipologia processuale, ai fini della sentenza anticipata in luogo dell'ordinanza cautelare,
furono ritenuti indispensabili l'osservanza della completezza formale del contraddittorio nei confronti di tutti i litisconsorti
necessari, l'avvenuto decorso dei termini di costituzione in giudizio, il rinvio per consentire al ricorrente di proporre motivi
aggiunti per contestare nuove produzioni avversarie, l'esaustività dell'istruttoria (Corte cost., 10 novembre 1999, n. 427, in
Foro it., 2000, I, 746).
Ora, l'odierna disciplina processuale, imponendo l'audizione delle parti nelle modalità sopra indicate, ha voluto
ridimensionare il rischio per le parti costituite e comparse di trovarsi di fronte alla sorpresa di una pronuncia definitiva,
anziché solo cautelare (Cons. di Stato, sez. VI, 7 febbraio 2003, n. 650, cit., 96). Ciò trova la propria «ratio» nella
considerazione della maggiore ampiezza del «thema decidendum» nel rito destinato all'esame del merito rispetto al
procedimento proprio della decisione in sede cautelare, avente indiscutibili riflessi quantitativi sulla pienezza delle garanzie
della difesa (Cons. di Stato, sez. V, 13 novembre 2002, n. 6296, in Foro amm.-C.d.S, 2002, 2904), specialmente quando le
parti, allegando dimostrate esigenze di replica o di supplementari indagini probatorie, abbiano formulato fondata istanza di
rinvio. Quest'ultima può essere pertanto disattesa «solo quando risulti irrilevante ai fini della decisione da adottare, ovvero sia
processualmente inammissibile la specifica attività difensiva annunciata dalla parte» (Corte cost., 10 novembre 1999, n. 427,
cit., 746 e, sullo specifico punto della motivazione testualmente citato, G. Caruso, Con la notifica del ricorso alle parti
garantito il rispetto del contraddittorio, in Guida al diritto, 9/2003, 99).
Sicché, il ricorrente, a fronte di produzioni documentali dell'ultimo momento da parte dell'amministrazione resistente, o
entrambe le parti, qualora siano emerse nuove circostanze di fatto, debbono vedersi riconosciuto, ai fini di una loro più
compiuta difesa, il diritto di inibire, tramite apposite obiezioni, la subitanea adozione di una decisione in forma semplificata
(sembra orientarsi in tal senso T.A.R. Campania, sez. I, 31 gennaio 2003, n. 511, in Foro amm.-T.a.r., 2003, 237).
Induce a condividere l'assunto ora indicato la stessa natura atipica della cosiddetta «conversione» o «trasformazione» del rito
(Cons. di Stato, sez. VI, 10 marzo 2003, n. 1271, cit., 90; Cons. di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2002, n. 453, cit., 1968; Cons. di
Stato, sez. VI, 26 giugno 2001, n. 3463, cit., 1439) che il giudice dispone scegliendo la forma semplificata di decisione. Non
si tratta, invero, di una determinazione del rito vincolata dalla legge, come avviene, ad esempio, quando, ai sensi dell'art. 40,
comma 4, c.p.c. vi sia connessione tra processo civile ordinario di cognizione e procedimenti speciali, ma di una facoltà
discrezionale esercitabile dal giudice nel caso in cui ritenga «manifesto» il presupposto «sostanziale» per la definizione del
giudizio. È evidente che, in presenza di un mutamento di procedura «ope iudicis», anziché «ope legis», è indispensabile che
le parti possano addurre argomentazioni a favore o contro il passaggio immediato al merito e che il giudice dimostri, nel
pronunciarsi, di averle prese in esame. In caso contrario, si produrrebbe una situazione di abbreviazione «iussu iudicis» non
compatibile con l'effettivo esercizio dei diritti di difesa. Continuando sul problema della completezza di istruttoria e di
contraddittorio, si tratta di aspetti che implicano pure un equilibrato modo di intendere le dimensioni della sentenza ex art.
26, comma 4 e seguenti, l. n. 1034/1971. Tale disposizione, con l'avverbio «succintamente», raccomanda, ad avviso di alcuni,
una brevità dell'elaborato in termini assai marcati (M. Branca, op. cit., 681 s, evidenzia che la prescrizione di sinteticità di cui
all'art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971 non è neppure paragonabile a quella «concisa esposizione dello svolgimento del
processo e dei motivi di fatto e in diritto della decisione» che figura nell'art. 132 c.p.c., o a quella «succinta esposizione»
degli stessi di cui al r.d. n. 642/1907, sembrando piuttosto volersi ricalcare il modello indicato per l'ordinanza dall'art. 134
c.p.c., ma con l'ulteriore accentuazione derivante dalla esemplificazione del come pervenire alla auspicata stringatezza della
decisione) e comporta che la motivazione possa esaurirsi in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto
risolutivo, oppure ad un precedente conforme (I. Volpe, op. cit., 39). Sono però da contemperare con la sopra riportata
«ratio» di accelerazione le garanzie connesse al procedimento giurisdizionale, le quali esigono in ogni caso che la decisione
debba contenere, sia pure in termini stringati, un congrua ed idonea illustrazione delle argomentazioni svolte e condivise dal
giudice (Cons. di Stato, 28 giugno 2002, n. 3573, in Cons. Stato, 2002, I, 1395), evitando di assumere i connotati di una
pronuncia sommaria (Cons. di Stato, sez. VI, 18 marzo 2003, n. 1424, cit.).
Dall'orientamento ora riportato è automatico desumere, anche in chiave critica, che il modello di sentenza in esame può
incorrere in vizi di omessa pronuncia, qualora, per eccessiva rapidità di redazione, taccia illegittimamente su alcuni motivi o
istanze dedotte in giudizio. A titolo esemplificativo, una decisione, sebbene in forma semplificata, non può astenersi da un
riferimento espresso, di accoglimento o di rigetto, a tutte le domande proposte dal ricorrente, tanto in via istruttoria, quanto
nel merito, soprattutto a fronte di un ricorso che, in virtù dell'ampliamento dei mezzi probatori e dei poteri decisori
determinatosi con la l. n. 205/2000, si articoli in un'istanza di c.t.u., o di ammissione di prove testimoniali nelle ipotesi
consentite dalla legge, o in una domanda risarcitoria.
È evidente che, sulle singole questioni dedotte dal ricorrente, il giudice non potrà tacere, né potrà ritenere adempiuto
l'obbligo di pronunciarsi su ciascuna di esse attraverso l'impiego di una generica clausola di stile, come avveniva, con prassi
perdurante, seppur da tempo qualificata negativamente dal Consiglio di Stato, nelle ordinanze cautelari, che, per lo più, si
esaurivano in un oscuro cenno alla sussistenza o insussistenza del «fumus boni iuris» o del danno grave ed irreparabile, senza
alcun riferimento puntuale alla fattispecie. Ebbene, se ciò dovesse constatarsi anche in caso di decisione sul merito anticipata
in sede cautelare, si aprirebbe il varco ad una prevaricazione delle esigenze di celerità su quelle che presiedono ad una
sufficiente valutazione in tema di mezzi di prova e di risarcibilità del danno e, nella sostanza, ad una giustizia affidata alle
impressioni e agli umori del momento, specialmente se si consideri che l'individuazione di una responsabilità civile della p.a.
non può prescindere dalla prova fornita dall'interessato circa la produzione e la consistenza del danno ingiusto.
La necessità di una motivazione esauriente, oltre che breve, così come voluta dall'art. 26, comma 4, l. n. 1034/1971, trova
conferma nell'assunto secondo il quale l'aspetto della carente motivazione della decisione immediata è assorbito dall'effetto
devolutivo dell'appello (Cons. di Stato, sez. VI, 18 marzo 2003, n. 1424, cit.), sicché il giudice di seconde cure potrà
intervenire in proposito, riformando la sentenza che non indichi con la necessaria ampiezza i propri presupposti di fatto e di
diritto.
d) L'appello avverso le sentenze succintamente motivate. - In precedenza si è già avuto modo, nel ricostruire gli aspetti
concernenti i requisiti essenziali della sentenza succintamente motivata, di anticipare alcune osservazioni relative al suo
regime di impugnazione che merita, quindi, alcuni cenni specifici.
In linea di massima, la decisione in forma semplificata, per il giudice di appello, si presenta allo stesso modo di una decisione
ordinaria. Infatti, l'effetto devolutivo dell'impugnazione, implicante lo spostamento della controversia davanti al giudice di
seconde cure, con la facoltà di aggiungervi le questioni di nullità o invalidità autonomamente correlate alla pronuncia
appellata, si spiega con identiche caratteristiche tanto nell'ipotesi di definizione del giudizio con le modalità ordinarie, quanto
in quella che interviene nel rito abbreviato (sull'effetto devolutivo dell'appello avverso la sentenza ex art. 26, comma 4, l. n.
1034/1971, da ultimo, Cons. di Stato, sez. VI, 18 marzo 2003, n. 1424, cit.).
Con specifico riferimento ai vizi della pronuncia immediata nel merito, diverse sono le conseguenze a seconda che essi la
rendano invalida per omissione di taluno degli adempimenti processuali prescritti, oppure per inadeguata valutazione della
sussistenza dei medesimi. Sul punto, è possibile stilare, recependola dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. di
Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3929, cit., 503), la seguente casistica: «1) in caso di incompletezza del contraddittorio o di
violazione del diritto di difesa di una delle parti, la decisione sarà senz'altro appellabile e, in applicazione dell'art. 35 l. TAR
il Consiglio di Stato potrà annullarla con rinvio al primo giudice per difetto di procedura; 2) in caso di incompletezza di
istruttoria, l'omissione di accertamenti istruttori da parte del TAR non concreta un vizio di procedura e non richiede, pertanto,
rinvio al tribunale medesimo, spettando al Consiglio di Stato, qualora l'omissione venga specificamente rilevata come vizio
della sentenza, provvedere agli accertamenti non effettuati; 3) in caso di sentenza del TAR che abbia erroneamente dichiarato
(manifestamente) irricevibile, inammissibile o improcedibile il ricorso, il Consiglio di Stato trattiene la causa per l'esame del
merito e non rinvia al giudice di primo grado; nel caso, infine, di sentenza del TAR che abbia erroneamente dichiarato
(manifestamente) fondato oppure (manifestamente) infondato il ricorso, è sufficiente che il soccombente si dolga
dell'erroneità della sentenza di primo grado, chiedendo un nuovo giudizio di merito sulla controversia, perché l'intera materia
del contendere si devolva al giudice di secondo grado (c.d effetto devolutivo), naturalmente nei limiti di quei soli capi che
abbiano formato oggetto di appello (tantum devolutum quantum appellatum), e così anche nei casi di carenza di motivazione,
che non comportano annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ma sono semplicemente causa di integrazione della
motivazione da parte del Consiglio di Stato ed in quelli di mancata pronuncia del giudice di primo grado su determinate
censure, che non integrano vizio di procedura di cui all'art. 35 l. TAR, ma solo un difetto di motivazione, sul quale può
provvedere il giudice di secondo grado in forza dell'effetto devolutivo dell'appello».
Quindi, le statuizioni ora citate conducono a recepire, anche in rapporto all'appello, la distinzione, che ha ispirato lo schema
della presente trattazione, tra requisiti sostanziali e requisiti processuali della sentenza succintamente motivata, dato che la
mancanza dei primi consente al giudice d'appello investito della questione di decidere senza rinvio, mentre la carenza dei
secondi, traducendosi in un vizio di procedura ai sensi dell'art. 35, l. n. 1034/1971 per nullità della sentenza o difetto di
contraddittorio, quando rilevata, impone il rinvio della causa al primo giudice (sull'annullamento con rinvio, vedasi C.E.
Gallo, Manuale, cit., 292 ss.). L'impostazione descritta, peraltro, segue lo schema tipico del giudizio d'appello, che si divide
in un momento rescindente, volto a rimuovere la sentenza denunciata dall'appellante come affetta da vizi, ed in un momento
rescissorio, finalizzato al riesame della controversia da parte di un giudice diverso e caratterizzato, perciò dall'effetto
devolutivo prima richiamato (S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 474).
Resta ferma l'insindacabilità in seconde cure della natura manifesta o non manifesta, prospettata dai primi giudici, della
irricevibilità, improcedibilità, inammissibilità, infondatezza o fondatezza del ricorso giurisdizionale (Cons. di Stato, sez. VI,
15 luglio 2002, n. 3956, cit., 1807).
3. Limitatamente a determinate materie, il sistema di giustizia amministrativa, in seguito all'emanazione dell'art. 19, d.l. n.
67/1997, si era arricchito di un procedimento speciale caratterizzato da notevole brevità di svolgimento. La disposizione
citata è stata abrogata dall'art. 4, l. n. 205/2000, che vi ha sostituito l'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, recependo sia alcune istanze
di maggiore sistematicità della disciplina del processo amministrativo, sia alcune indicazioni scaturite dal primo periodo di
impiego del rito in esame, in un contesto di progressiva differenziazione tra modelli processuali che, dotati singolarmente di
una fisionomia particolare (M. Lipari, I riti abbreviati, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di F. Caringella e M.
Protto, Milano, 2001, 264 ss.), sono stati introdotti a rendere la funzione del giudice amministrativo più adattabile alle
singole fattispecie di quanto lo fosse quando il giudizio ordinario si poneva come strumento unico, monolitico e
generalizzato.
La ragione ispiratrice posta alla base dell'istituto di cui all'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, comune, peraltro, a tutti i precedenti
interventi legislativi dello stesso segno, è quella di imprimere, per finalità di maggiore effettività della tutela contenziosa,
quanta maggiore velocità possibile allo svolgimento della causa, soprattutto in relazione a controversie particolari, in
rapporto alle quali superiore risulta l'esigenza di una giustizia rapida (I. Volpe, Iter abbreviato su misura per casi determinati,
in Guida al diritto, «Processo amministrativo», novembre 10/2002, 42). Si è infatti osservato che l'art. 23-bis, l. n. 1034/1971,
riprendendo in parte l'esperienza legata alla normativa di cui all'art. 19, d.l. n. 67/1997 ed all'art. 1, comma 27, l. n. 249/1997,
ha introdotto una disciplina processuale speciale, volta a conseguire obiettivi di accelerazione della definizione delle
controversie in determinate materie, per le quali una pronta ed immediata definizione è considerata di particolare interesse
pubblico (Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5, in Cons. Stato, 2002, I, 999; Cons. di Stato, Ad. plen., 14 febbraio
2001, n. 2, in Giur. it., 1040; Cons. di Stato, sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2994, in La sett. giur., 2003, I, 456).
Si assiste, perciò, alla configurazione legislativa di un rito che si qualifica non soltanto come immediato (come quello
analizzato in precedenza, che consente la subitanea definizione del ricorso nel merito in sede cautelare), ma come abbreviato,
ossia caratterizzato dalla previsione legislativa di termini ridotti nella loro durata. Per tale suo carattere, il processo accelerato
ex art. 23-bis, l. n. 1034/1971 costituisce, nel suo circoscritto ambito di applicabilità, un «microsistema» normativo (M.
Lipari, I riti abbreviati, cit., 268. Sulla possibilità di una lettura estensiva dell'impostazione acceleratoria, A. Travi, Verso una
pluralità di termini per il ricorso al giudice amministrativo?, in questa Rivista, 1997, 658), connotato dunque da una sua
specialità.
Alcune previsioni normative contenute nell'art 23-bis e, più precisamente, il primo comma, determinante il raggio d'azione
del giudizio abbreviato, il secondo comma, comportante la riduzione alla metà dei termini processuali previsti ad eccezione
di quelli per la proposizione del ricorso e, infine, il settimo comma concernente l'appello, impongono, per la formulazione
che li caratterizza, un rinvio ai principi propri del processo amministrativo, tanto per motivi di certezza, quanto per assicurare
il rispetto del diritto di difesa e di contraddittorio di cui all'art. 24 Cost., onde scongiurare il rischio che le parti vengano a
subire preclusioni e decadenze di non immediata percezione all'interno del dettato normativo.
a) L'ambito oggettivo del rito accelerato. - Il primo comma dell'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, nel delimitare lo spazio di
operatività dell'abbreviazione dei termini da esso prevista, ha preso le mosse dal previgente art. 19, d.l. n. 67/1997, convertito
con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, ampliandone però la portata (M. Andreis, Art. 23-bis, in Commentario
breve alla giustizia amministrativa, a cura di A. Romano, Padova, 2001, 867) ad ulteriori settori. E così, il procedimento
speciale regolato dalla nuova disposizione legislativa, accanto alle controversie afferenti a provvedimenti relativi a procedure
di affidamento di incarichi di progettazione e attività tecnico amministrative connesse, a quelle instaurate avverso
provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche e di pubblica utilità,
nonché a quelle contro le procedure espropriative e di occupazione d'urgenza connesse alle opere predette, ha aggiunto quelle
dirette a contestare «i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti», prima non testualmente contemplate.
La tipizzazione delle materie soggette a rito accelerato è stata, poi, ulteriormente allargata dall'art. 23-bis anzidetto alle
seguenti categorie: provvedimenti di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture;
provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti; provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o
di dismissione di imprese o beni pubblici; provvedimenti relativi alla costituzione modificazione o soppressione di società,
aziende, e istituzioni ai sensi dell'art. 22 della l. n. 142/1990; nomine adottate previa deliberazione del Consiglio dei ministri
ai sensi della l. n. 400/1988; scioglimento degli enti locali e provvedimenti concernenti la formazione ed il funzionamento
degli organi.
Alcune delle ora individuate categorie creano, tra l'altro, un parallelismo tra rito abbreviato e giurisdizione amministrativa
esclusiva di cui all'art. 33, d.lgs. n. 80/1998 (M. Andreis, art. 23-bis, cit., 867).
In rapporto alla sopra riportata elencazione, ci si chiede se essa debba essere interpretata con criteri di assoluta tassatività o
se, invece, essa consenta un approccio di carattere logico-estensivo. Si deve premettere che un'indebita elasticità sul tema
finirebbe per far soggiacere a decadenze ravvicinate vertenze che, invece, rientrano a pieno titolo tra quelle soggette al
processo ordinario. Tant'è vero che in giurisprudenza si è affermato che il sistema acceleratorio dei processi amministrativi
nelle materie indicate dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, come introdotto dall'art. 4, l. n. 205/2000 e successive modifiche, non
può essere interpretato estensivamente, nel senso che vada a ricomprendere anche tipologie di provvedimenti non
specificamente indicate dalle citate disposizioni (Cons. giust. ammin. Reg. sic., 8 luglio 2002, n. 401, in Cons. Stato, 2002, I,
1742. Nello stesso senso, riguardo all'art. 19, d.l. n. 67/1997, T.A.R. Puglia, Lecce - sez. I - 7 giugno 2002, n. 2037, in Trib.
Amm. Reg., 2002, I, 3160).
Le maggiori perplessità si manifestano là dove il primo comma dell'art. 23-bis, alle lettere a) e g) comprende nel proprio
impulso di abbreviazione attività e provvedimenti «connessi». La genericità dell'enunciato implica necessariamente che la
definizione delle une e degli altri avvenga in via ermeneutica, con una sostanziale incertezza che, nel dubbio, finisce per
imporre al ricorrente il rispetto dei termini dimezzati (Cons. giust. amm. reg. sic., 3 marzo 2003, n. 93, in Cons. Stato, 2003,
I, 762 s.). Ciò rappresenta, rispetto al diritto di azione riconosciuto dall'art. 24 Cost., un'ipotesi di condizionamento sfornita di
adeguata previsione legislativa e dell'annesso doveroso bilanciamento con l'interesse pubblico alla brevità del processo, dato
che l'operata abbreviazione va ad incidere sulle fondamentali garanzie connesse alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi dal punto di vista della durata dei tempi per il compimento degli atti di impulso al giudizio.
Quanto osservato, tradotto in linguaggio maggiormente processual-amministrativistico, significa che, sia pure in circoscritti
casi, vengono poste decadenze più ravvicinate a carico di chi intenda ricorrere contro alcune categorie di provvedimenti,
senza che esse appaiano tipizzate mediante un soddisfacente grado di tassatività e, perciò, senza quella certezza giuridica,
imposta in modo rigoroso dai principi costituzionali in materia di tutela giurisdizionale, circa l'ambito caratterizzato dalla
dimidiazione dei termini. Ad esempio, sono state considerate come soggette al rito breve, seppure in assenza di un conforto
testuale da parte del legislatore, le controversie relative ad atti di secondo grado, cioè di annullamento, ritiro o revoca di
provvedimenti espressamente individuati dal citato art. 23-bis (Cons. giust. amm. reg. sic., 3 marzo 2003, n. 93, cit.; Cons. di
Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1, in Cons. Stato, 2001, I, 175).
Una volta, però, che la causa sia inequivocabilmente riconducibile nella cerchia delle controversie sottoposte ad
accelerazione del processo, l'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 diviene regola generale, i cui effetti possono essere inibiti soltanto
dalla presenza di una disposizione derogatoria o che prescriva, comunque, per determinati atti o incombenti, un diverso
specifico termine per il loro compimento (Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5, in Cons. Stato, 2002, I, 1000).
Pertanto, ravvisati come esistenti i presupposti «ex lege» del rito breve, in presenza di eventuali lacune della relativa
disciplina, eventuali integrazioni della medesima in via ermeneutica comportano l'impiego della tecnica dell'autointegrazione
(che può impedire di attingere alle norme generali sul processo amministrativo; in tal senso I. Volpe, Iter abbreviato, cit., 42),
implicante una forza espansiva della disposizione citata.
b) L'ambito dell'accelerazione processuale e la connessione tra riti diversi. - La riferita attitudine dell'art. 23-bis ad ampliare il
proprio raggio di efficacia pone problemi applicativi di non agevole soluzione ogniqualvolta ad impugnazioni sottoposte a
rito ordinario si uniscano impugnazioni sottoposte a rito abbreviato (sul rito applicabile ai ricorsi cumulativi, M. Lipari, I riti
abbreviati, cit. 285). Qualora si accerti una situazione di conflitto tra riti diversi (rito ordinario e rito speciale, o più riti
speciali tra loro), il processo amministrativo, come attualmente regolato, denuncia una lacuna, dato che la legge che lo
disciplina è carente di una previsione analoga a quella sancita per il processo civile dall'art. 40, 3º e 4º comma c.p.c. (Cons. di
Stato, sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605, in Guida al diritto, 15/2003, 97; Cons. di Stato, sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4454, in
Foro it., 2002, III, 74-88 ss.; L. Bertonazzi, Il cumulo di domande assoggettate a riti diversi nel processo amministrativo: una
«regola iuris» da individuare in via interpretativa, in questa Rivista, 2002, 1011).
Secondo una tesi, stante la similitudine tra concorrenza di riti diversi nel processo amministrativo e concorrenza di riti diversi
nel processo civile, si dovrebbe estendere in via analogica al primo la regola positivizzata per il secondo dal citato art. 40
c.p.c. (di tale impostazione prende atto, per poi rifiutarla, Coni Stato, sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605, cit.; in senso contrario
si esprime anche L. Bertonazzi, op. cit., 1015) Indurrebbe a muovere verso una scelta interpretativa di questo tipo il fatto che
il fenomeno della connessione è stato oggetto di studi e di crescente interesse applicativo, nell'ambito del processo civile,
proprio per il diffondersi di ipotesi di rito speciale, con le difficoltà di raccordo fra i diversi riti, con l'emersione prepotente
dell'esigenza del «simultaneus processus» nel caso di cause connesse e soggette a riti diversi (Cons. di Stato, sez. VI, 4
settembre 2002, n. 4454, cit. ).
Orbene, l'art. 40, comma 3º, c.p.c., dopo la riforma introdotta con la l. n. 353/1990, in caso di concorrenza tra riti diversi, ha
posto i vari moduli processuali in un rapporto gerarchico tra loro, attribuendo il grado prevalente ed assorbente al rito del
lavoro, facendovi seguire il rito ordinario e subordinando a questo tutti gli altri riti. Il successivo comma 4º della stessa
norma stabilisce che, in caso di concorrenza di riti speciali di pari grado, si segua il rito della causa in ragione della quale si
determina la competenza del giudice adito, oppure quello della causa di maggior valore.
Orbene, è opinione della giurisprudenza amministrativa che l'orientamento appena illustrato, non sia compatibile con la
peculiarità del processo amministrativo, né in riferimento alla correlazione tra processo ordinario di impugnazione e processi
speciali, né con riguardo alla commistione di impugnative che seguono riti speciali diversi.
Ed invero, nella prima ipotesi, qualora, essendo stati impugnati più atti, sussista un collegamento tra rito ordinario e rito
abbreviato ex art. 23-bis, l. n. 1034/1971, adottando il principio fissato dall'art. 40, comma 3º, c.p.c., prevarrebbe sempre il
giudizio ordinario che, però, essendo più lento, indurrebbe l'interessato a promuovere ricorsi separati per ottenere una
decisione più celere di quello al quale è applicabile il processo più rapido. La moltiplicazione dei giudizi vanificherebbe,
peraltro, i canoni di simultaneità del processo amministrativo e, dunque, di massima celerità del medesimo, così come
desumibili dalla «ratio» della l. n. 205/2000. Per addivenire ad un risultato conforme alla «voluntas legis» di sveltire il
sistema, nell'eventualità di una connessione tra rito ordinario e rito speciale, si è ritenuto di dover spostare l'attenzione dal
piano processuale a quello del rapporto sostanziale controverso e delle domande di tutela ad esso inerenti. Pertanto, se,
proposte più domande, una tra esse investe una delle tipologie di provvedimento previste dall'art. 23-bis, comma 1º, l. n.
1034/1971, la giurisprudenza, capovolgendo il principio sancito dall'art. 40 c.p.c., ha ritenuto la regola dell'accelerazione
estensibile all'intero complesso del ricorso proposto ed a tutti i provvedimenti in esso contestati, con prevalenza del giudizio
abbreviato su quello ordinario (Cons. di Stato, sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605, cit.).
Parimenti, anche la seconda ipotesi, ossia quella di concorso tra riti speciali (ad esempio, tra giudizio ex art. 23-bis, l. n.
1034/1971 e giudizio sul silenzio ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971), è stata sottratta alla sfera di operatività dell'art. 40, comma
4º c.p.c. Ed invero, l'impossibilità di equiparare la connessione processualcivilistica al processo amministrativo si riconnette
alla circostanza che quest'ultimo non è provvisto dell'istituto della competenza per valore, né colloca testualmente alcuno dei
suoi riti speciali nella posizione assorbente che nel codice di procedura civile assume il processo del lavoro. Si è quindi
pervenuti alla conclusione che, «dall'assenza di una regola espressa deriva l'esigenza di colmare un vero e proprio vuoto
normativo, esistente nel processo amministrativo, con una regula iuris adeguata anche in attesa della riforma del processo
amministrativo» (Cons. di Stato, sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4454, cit.). Partendo dalla considerazione ora riportata,
relativamente all'ipotesi in esame di connessione tra più riti speciali, è stata affermata in via di interpretazione logicosistematica l'impossibilità del «simultaneus processus» per l'insussistenza di un criterio legislativo che, nell'odierno
ordinamento della giustizia amministrativa, consenta di individuare il rito prevalente o preferibile. Ne conseguirebbe,
secondo la linea argomentativa che si sta illustrando, l'inammissibilità di una domanda accessoria nell'ambito di un rito
speciale diverso da quello prescritto per quella stessa domanda. A temperare un assunto così rigoroso, incompatibile con una
situazione di silenzio del legislatore, al quale il giudice non può sostituirsi per introdurre nuove nullità processuali che
esigono di essere tassativamente codificate, si è profilata l'applicabilità dell'istituto della separazione tra impugnazioni che
seguono riti speciali diversi, affinché ciascuna possa seguire le regole sue proprie.
Peraltro, le esigenze di certezza, di semplificazione e di snellimento del processo correlate alla mitigazione del principio di
inammissibilità del cumulo di domande soggette ad altrettanti processi speciali debbono essere intese «secondo ragione»,
senza rigorismi puramente formali e nell'osservanza di criteri di economia processuale (Cons. di Stato, sez. VI, 4 settembre
2002, n. 4454, cit.), affinché non sia aprioristicamente preclusa la verifica in un unico giudizio della legittimità di
provvedimenti tra loro interdipendenti (Cons. di Stato, sez. IV, 11 marzo 1993, n. 275, in Foro it., Rep. 1993, voce Giustizia
amministrativa, n. 133).
La casistica appena analizzata, giunta, per la necessità di vagliare settori inesplorati dallo stesso legislatore, a stabilire nuovi
confini nell'elaborazione teorica del diritto processuale, porta alla ribalta la tematica della complementarietà tra processo
civile e processo amministrativo, ora forse più contigui di un tempo, dopo la riforma introdotta con la l. n. 205/2000, sia pure
in una interdipendenza più «metodologica» che «analogica».
Dei rapporti tra i due sistemi, la dogmatica tradizionale è sempre stata consapevole, anche se con punti di vista differenziati
sulla capacità del processo civile di integrare il processo amministrativo. Secondo alcuni, l'influenza del primo sul secondo
sarebbe naturale perché, rispettivamente, l'uno si porrebbe come disciplina processuale generale, l'altro, invece, come legge
processuale speciale. Si è autorevolmente dissentito da tale ricostruzione, poiché il processo amministrativo non costituisce
una specie di processo civile, né la legge processuale civile può essere considerata legge processuale generale rispetto a
quella amministrativa. La tendenza del diritto processuale civile ad una sorta di primazia è stata associata alla presenza al suo
interno di regole, come quella del «simultaneus processus», fortemente unite a principi costituzionali in materia di effettività,
efficacia e celerità della tutela giurisdizionale.
Trascorrendo dal diritto processuale civile ai suddetti principi costituzionali, si è pervenuti all'esito di individuare come
canone di interpretazione integratrice, valevole per tutti i processi, non il codice di procedura civile isolatamente considerato,
ma quei dettami fondamentali da esso desumibili mediante una lettura costituzionalmente orientata delle sue norme e
costituenti, ormai, un vero e proprio diritto processuale comune (M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1990, 325 s.).
La tesi dell'appartenenza del processo amministrativo ai «genus» della giurisdizione civile è stata, ad ogni modo, ribadita di
recente in riferimento all'art. 1 c.p.c., a tenore del quale sarebbe giurisdizione civile anche quella che si svolge in sedi in cui
non operano giudici ordinari. Dunque, tutta la giustizia latamente intesa, compresa quella amministrativa, ove si voglia
attribuire valenza onnicomprensiva alla disposizione citata, dovrebbe considerare il processo civile come «prototipo»
attraverso il quale colmare eventuali lacune (F. Auletta, La consulenza tecnica nel processo amministrativo e l'art. 1 c.p.c., in
Giust. civ., 2002, I, 893).
Al di là degli sforzi di positivizzazione, forse non sempre appaganti quando si tratta di rintracciare un principio applicabile e
di fondarvi un orientamento, resta fermo che l'avvicinamento del processo amministrativo al processo civile per ciò che
inerisce alla moltiplicazione dei riti speciali implica che, in una prospettiva «de iure condendo», quando si tratti di
disciplinare «ex novo» la connessione tra cause assoggettate a riti speciali diversi, al fine di individuare lo schema
processuale prevalente ed assorbente, per esigenze di certezza e di organicità, si prenda spunto, sia pure con gli adattamenti
opportuni, da un meccanismo già sperimentato quale quello processual-civilistico.
c) I termini soggetti a dimidiazione. - La previsione di tempi processuali più ristretti in uno speciale rito giurisdizionale
amministrativo applicabile a determinate materie è stata introdotta dal legislatore, per la prima volta, con l'art. 19, d.l. n.
67/1997, convertito dalla l. n. 135/1997, il quale sottoponeva a dimezzamento tutti i termini processuali, compreso quello di
proposizione del ricorso.
Rispetto alla norma citata, la Consulta (Corte cost., 10 novembre 1999, n. 427, cit. ), si era espressa nel senso
dell'infondatezza della questione di costituzionalità sulla dimidiazione del termine per la proposizione del ricorso
giurisdizionale, sollevata in via incidentale (T.A.R. Trentino - Alto Adige, sez. Trento, ord. 11 febbraio 1998, n. 2, in Foro
amm., 1998, 802) per ritenuto contrasto di tale limitazione temporale con il diritto costituzionale di difesa.
L'art. 19, d.l. n. 67/1997 è poi stato espressamente abrogato dall'ari. 4, l. n. 205/2000, che, nel disciplinare «ex novo» il rito
accelerato in materia di appalti e procedure connesse, ha escluso la riduzione alla metà del termine di «proposizione» del
ricorso giurisdizionale, facendo propria un'istanza di ragionevolezza (come sottolinea Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio
2002, n. 5, cit., 1000) che, in prima battuta, la Corte costituzionale, come si è appena rilevato, non aveva accolto. A seguito
dell'intervenuta innovazione legislativa, sono inoltre sorte incertezze sull'estensione del concetto di «proposizione del
ricorso» sottratta all'abbreviazione. Si è conseguentemente aperta un'ampia discussione, tradottasi anche in conflitti
giurisprudenziali, tra chi riteneva che esso contemplasse tanto la notificazione quanto il deposito dell'impugnativa (C.E.
Gallo, Manuale, cit., 270; M. Lipari, I riti abbreviati, cit., 323; in giurisprudenza, da ultimo, Cons. di Stato, sez. V, 18 marzo
2002, n. 1559, in Giur. it., 2002, Diritto amministrativo, 2178) e chi, invece, sosteneva che la deroga al dimezzamento fosse
operante per il solo termine di notificazione (pur evidenziando l'equivocità del dato normativo, riscontra tale diverso
indirizzo M.A. Sandulli, I termini, cit., 303; in giurisprudenza, Cons. giust. amm. reg. sic., 5 aprile 2002, n. 183, in Cons.
Stato, 2002, I, 924; Cons. di Stato, sez. V, 31 maggio 2002, n. 3043, in Cons. Stato, 2002, I, 1241). A fronte delle differenti
opinioni sopra illustrate, la questione concernente i termini processuali rientranti nella dimidiazione ex art. 4, l. n. 205/2000 è
stata devoluta (Cons. di Stato, sez. IV, ord. 10 gennaio 2002, n. 122, in Giur. it., 2002, Diritto amministrativo, 1078)
all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha puntualmente affermato che «il termine per il deposito del ricorso
debba ritenersi ridotto a quindici giorni» (Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5, cit., 999). Al riguardo, richiamando
osservazioni già effettuate in premessa, è doveroso osservare in chiave critica che, secondo i prevalenti criteri di tecnica
legislativa da adottarsi nella individuazione di decadenze ed invalidità processuali, il citato art. 4, l. n. 205/2000, rifuggendo
dalle tentazioni di una sintesi fuorviante che ha prodotto, all'interno della sentenza da ultimo citata dell'Adunanza plenaria,
risvolti esegetici sprovvisti del necessario rigore logico-testuale, avrebbe dovuto espressamente estromettere dal
dimezzamento i termini di «notificazione» del ricorso, non quelli di «proposizione», afferenti ad un fenomeno più complesso.
Non si è infatti mancato di rimarcare che la «proposizione del ricorso» contemplata dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971
ricomprende, nel processo amministrativo, non solo il momento della notifica del ricorso stesso (vocatio in ius), ma anche
l'instaurazione del rapporto processuale con il giudice, cioè il deposito del ricorso (editio actionis) (T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 3 giugno 2002, n. 3285, in Trib. Amm. Reg., 2002, I, 3051).
Per giunta, il superamento dei termini stabiliti per il compimento dell'una e dell'altro comporta un'identica sanzione: quella
della irricevibilità dell'impugnazione.
Si ritiene, pertanto, che una definizione soddisfacente del problema debba necessariamente passare attraverso una modifica
letterale dell'art. 4, l. n. 205/2000 da parte del legislatore. Intanto, in considerazione delle difficoltà interpretative sul numero
di giorni prescritto a pena di decadenza dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 per il deposito del ricorso giurisdizionale
amministrativo soggetto ad abbreviazione, è stato riconosciuto il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile
(Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5, cit., 1003), da concedersi però soltanto ove sussista uno stato di obiettiva
incertezza (Cons. di Stato, sez. VI, 24 marzo 2003, n. 1504, in Cons. Stato, 2003, I, 689) e senza compromettere il regime di
tassatività dei tempi di consolidamento degli atti amministrativi (Cons. di Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1, cit., 178).
L'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, lascia altresì integro, senza riduzioni, il termine per la proposizione del ricorso incidentale
indicato dall'art. 22, l. n. 1034/1971 e dall'art. 37, r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, di trenta giorni dalla scadenza del termine per
il deposito del ricorso principale (ovvero, di complessivi sessanta giorni dalla notificazione), per le stesse ragioni che hanno
condotto all'esclusione della regola della riduzione del termine di proposizione del ricorso principale (Cons. di Stato, sez. V,
1 marzo 2003, n. 1137, in Cons. Stato, 2003, I, 555), dato che nell'uno e nell'altro caso si tratta di posizioni di contestazione
del provvedimento - o, in secondo grado, della sentenza - che vanno tutelate in maniera omogenea (Cons. di Stato, sez. IV, 9
ottobre 2002, n. 5363, in Cons. Stato, 2002, I, 2159; Cons. di Stato, sez. IV, 27 marzo 2001, n. 1807, in Cons. Stato, 2001, I,
779). Evidentemente, le indicazioni fornite dalla giurisprudenza in ordine al dimezzamento dei termini per il deposito del
ricorso principale varranno anche per il termine di deposito del ricorso incidentale che, pertanto, sarà ridotto da quello
ordinario di dieci giorni a quello abbreviato di cinque giorni dalla notificazione (M.A. Sandulli, op. cit., 305).
Rispetto all'omogeneità di trattamento degli atti processuali diretti a contestare un provvedimento, espressamente ritenuta
indispensabile dal Consiglio di Stato in alcune sue pronunce, lo stesso supremo Organo della giustizia amministrativa è però
incorso, ad avviso di chi scrive, in una notevole contraddittorietà relativamente all'istituto dei motivi aggiunti, per dedurre i
quali, nei settori ex art. 23-bis, l. n. 1034/1971, è stata affermata la dimidiazione dei termini, come per tutti gli altri termini
processuali diversi da quello di proposizione del ricorso (Cons. di Stato, sez. V, 6 luglio 2002, n. 3717, in questa Rivista,
2003, 260).
Ciò suscita notevoli perplessità, se si tiene conto che l'art. 1, comma 1º, l. n. 205/2000, innovando al regime anteriore, ha
stabilito che «tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi
aggiunti». Di conseguenza, secondo le attuali regole, il ricorrente può avvalersi dei motivi aggiunti non solo per dedurre,
rispetto alla determinazione impugnata, nuovi vizi sconosciuti al momento della notificazione dell'atto introduttivo, ma anche
per contestare nuovi provvedimenti connessi con quello originariamente censurato (sull'esistenza di due tipi di motivi
aggiunti, P. Micozzi, Ragione ed ambito dell'esclusione dalla dimidiazione ex art. 23-bis, comma 2, l. 6 dicembre 1971, n.
1034 come modificata dall'art. 4, l. 21 luglio 2000, n. 205 dei termini per la proposizione del ricorso e cumulo progressivo di
domande nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2003, 302).
Diversamente, allora, da quanto statuito dal Consiglio di Stato nella sentenza da ultimo indicata, la logica imposta dagli artt.
3 e 24 Cost. avrebbe voluto che, per lo meno nel caso di ulteriore impugnazione di provvedimenti connessi in corso di causa,
il termine per proporre motivi aggiunti non rientrasse nel dimezzamento ex art. 23-bis, in quanto la fattispecie presenta
pressoché totale corrispondenza con quella della proposizione di un ricorso (M.A. Sandulli, op. cit., 304). Tanto più che il
ricorrente, nell'ipotesi in questione, anziché proporre motivi aggiunti, per evitare il rischio di una decadenza anticipata,
sarebbe incoraggiato ad attivare un giudizio autonomo, certamente affrancato, per quel che concerne la sua instaurazione, dai
restringimenti temporali del procedimento speciale, riservandosi di chiederne, in prosieguo, la riunione agli altri ricorsi
pendenti ad esso soggettivamente ed oggettivamente connessi, con vanificazione, però, della lettera dell'art. 1, comma 1º l. n.
205/2000, che, nelle fattispecie gius-pubblicistiche a formazione progressiva, vuole assicurare, in caso di contenzioso
giurisdizionale, la simultaneità del processo. In definitiva, non vi sarebbe dunque ragione di sostenere sempre la dimidiazione
dei termini per la proposizione dei motivi aggiunti, giacché, a volerla generalizzare indiscriminatamente, si finirebbe,
soprattutto nell'eventualità in cui non si abbia mera estensione del «thema decidendum» ma, a tutti gli effetti,
un'impugnazione distinta, per compromettere la concentrazione, la conoscenza complessiva della vicenda o per sacrificare i
diritti di difesa, nell'ambito di un procedimento nel corso del quale possono presentarsi integrali mutamenti di carattere,
direzione e complessità del quadro processuale (P. Micozzi, op. cit., 307).
Per completezza, si deve prendere atto anche di una tesi diretta a sottrarre totalmente i motivi aggiunti dalla previsione
generale del dimezzamento dei termini in materia di gare pubbliche, poichè è priva di giuridico fondamento l'attenuazione
della tutela dell'interessato nei casi in cui la possibilità di esprimere doglianze emerga dopo la presentazione del ricorso
originario (T.A.R. Lombardia - Milano, sez. III, 29 gennaio 2002, n. 379, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1052). Al di fuori degli
illustrati punti di discussione, tutti gli altri termini, qualora il giudizio rientri nelle materie previste dall'art. 23-bis, l. n.
1034/1971, debbono intendersi dimezzati e, in particolare, in riferimento a quelli prescritti a pena di decadenza; quello di
deposito dell'istanza di fissazione d'udienza (da due anni ad un anno); quello di deposito dell'atto di intervento (da venti a
dieci giorni in primo grado, da dieci a cinque giorni in grado d'appello); quello per l'istanza di fissazione dei ricorsi
ultradecennali (da sei a tre mesi decorrenti dall'avviso pervenuto dal T.a.r. adito ex art. 9, l. n. 205/2000); quello per il
deposito dei documenti da parte del ricorrente e dei controinteressati prima dell'udienza di discussione (da venti a dieci giorni
in primo grado, da trenta a quindici giorni in grado di appello) salvo quello speciale, stabilito dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971,
di quindici giorni dalla data di deposito dell'ordinanza di fissazione dell'udienza di merito da parte del Tribunale
amministrativo regionale; quello di deposito di memorie prima dell'udienza di discussione (da dieci a cinque giorni) salvo
quello speciale, di cui all'art. 23-bis, l. n. 1034/1971, di 25 giorni dal deposito dell'ordinanza di fissazione dell'udienza di
merito da parte Tribunale amministrativo regionale; quello per il deposito del provvedimento impugnato da parte
dell'amministrazione resistente (da sessanta a trenta giorni decorrenti dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso);
quello di riassunzione del giudizio dopo che esso si sia interrotto (da sei a tre mesi; Cons. di Stato, 28 giugno 2002, n. 3559,
in Cons. Stato, 2002, I, 1393); quello per l'istanza di regolamento di competenza (art. 31, l. n. 1034/1971, da venti a dieci
giorni decorrenti dalla data di costituzione della parte che intende eccepire l'incompetenza); quello di costituzione in giudizio
davanti al Tribunale amministrativo regionale dichiarato competente (da venti a dieci giorni); quello di fissazione della prima
camera di consiglio utile a fini della decisione sull'istanza cautelare (da dieci a cinque giorni dall'ultima notificazione); quello
per proporre ricorso in opposizione avverso il decreto presidenziale dichiarativo della cessata materia del contendere,
dell'estinzione del giudizio o della perenzione (art. 24, l. n. 1034/1971, da sessanta a trenta giorni dalla comunicazione del
decreto per la notifica dell'opposizione e da dieci giorni a cinque per il deposito della stessa); quello di deposito di atti e
documenti per la prosecuzione del giudizio davanti al Tribunale amministrativo regionale in seguito a rinvio da parte del
Consiglio di Stato (dimidiazione del termine di tre giorni); quello per la richiesta del fascicolo di primo grado (art. 23, l. n.
1034/1971, da trenta a quindici giorni dalla data di iscrizione a ruolo del ricorso in appello); quello di deposito di memorie e
documenti nel giudizio su regolamento di competenza (art. 1, l. n. 1034/1971, da venti a dieci giorni decorrenti dalla notifica
del ricorso) (M.A. Sandulli, op. cit., 303 ss.).
È stato infine chiarito che la sospensione feriale opera «ab externo» sul computo del termine vanificandone o impedendone il
corso, ma, in difetto di norma specifica, non subisce alcuna influenza dalla riduzione quantitativa dei termini contemplata
dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 (Cons. di Stato, Sez. V, 28 febbraio 2001, n. 1089, in Foro amm., 2001, 466).
d) L'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 in relazione ai termini di appello e a quelli operanti per gli altri mezzi di impugnazione. - Il
settimo comma del citato art. 23-bis dispone: «Il termine per la proposizione dell'appello avverso la sentenza del tribunale
amministrativo regionale pronunciata nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni
dalla pubblicazione della sentenza. La parte può, al fine di ottenere la sospensione dell'esecuzione della sentenza, proporre
appello nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione del dispositivo, con riserva di motivi, da proporre entro trenta giorni
dalla notificazione ed entro centoventi giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza».
In riferimento al primo periodo della norma appena riprodotta, la quale, relativamente al processo speciale da essa regolato,
indica in modo preciso i tempi di proposizione del gravame contro le sentenze di primo grado, è stato evidenziato che
l'applicabilità della regola generale sul dimezzamento dei termini processuali va esclusa nel caso in cui, nell'ambito della
stessa disciplina acceleratoria, è prevista una disposizione che introduce uno specifico termine di adempimento (Cons. di
Stato, 9 ottobre 2002, n. 5363, in Cons. Stato, 2002, I, 2157) Poiché nessuna norma dell'art. 23-bis si riferisce al termine di
proposizione dell'appello incidentale, si dubita che la dimidiazione possa valere anche per esso (M.A. Sandulli, op. cit., 314).
Sul punto il Consiglio di Stato si è espresso nel senso di escluderne la riduzione alla metà (Cons. di Stato, 9 ottobre 2002, n.
5363, cit.). La suddetta compressione dei tempi opererà, invece, per tutti gli altri termini processuali, compreso quello di
deposito dell'appello (Cons. di Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, cit., 1003) e di notificazione dei motivi aggiunti, con tutte le
perplessità che sono state prima evidenziate.
Passando quindi all'impugnativa immediata del dispositivo, prevista dal secondo periodo della previsione sopra riportata e
sempre caratterizzata dai termini speciali del rito accelerato, essa è stata delineata dal legislatore per attribuire, qualora
l'esecuzione del dispositivo medesimo possa generare danno grave ed irreparabile, tempestiva tutela cautelare all'appellante.
Questi, infatti, potrà richiederla in seconde cure sin dalla pubblicazione del solo dispositivo, senza dover attendere il deposito
della decisione nella versione integrale, comunque suscettibile di successiva censura mediante doglianze a proposizione
differita, da notificarsi entro gli stessi termini previsti dall'art. 23-bis, l. n. 1034/1971 per il ricorso in appello.
Nel rapporto tra contestazione del dispositivo a fini cautelari e contestazione della motivazione, qualora l'appello contro il
dispositivo risulti tardivo, tale ricorso, pur se inammissibile, non consuma il potere dell'appellante di instaurare il giudizio di
secondo grado contro quella stessa sentenza: ne deriva che la rituale successiva proposizione dei motivi contro la decisione
integrale è atta ad introdurre validamente il giudizio di appello. Infatti, se si tiene conto che la legge prevede un identico
termine (quanto a durata e, sostanzialmente, a decorrenza), sia per l'appello ordinario avverso la sentenza che per la
proposizione dei motivi riservati dopo l'impugnazione del dispositivo, si perviene all'assunto secondo il quale l'intempestività
di quest'ultima «non preclude una successiva rituale proposizione del vero gravame o, più formalmente, una conversione dei
motivi riservati in atto di appello (ove, come nel caso in esame, ne ricorrano i presupposti) in base al principio dei valori
giuridici» (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2823, in La sett. giur., 2003, 1, 439).
Si tratta, d'altronde, di una soluzione compatibile con ciò che accade in altri settori del nostro sistema processuale e, in
particolare, in sede di applicazione dell'art. 433, comma 2, c.p.c., che, nel rito del lavoro, ammette l'appello contro il
dispositivo della sentenza con riserva di motivi. Tale disposizione è stata interpretata nel senso che l'appello contro l'intera
decisione costituisce, a tutti gli effetti, un nuovo giudizio, valido ed autonomamente rilevante, attivabile anche in presenza di
un precedente gravame, proposto contro il dispositivo della stessa sentenza, affetto da inammissibilità (Cass. civ., sez. III, 16
novembre 1999, n. 12687, in Foro it., Rep. 1999, voce Lavoro e previdenza, n. 219; Cass. civ., sez. III, 11 agosto 2000, n.
10647, id., Rep. 2000, voce cit., n. 191). Quanto evidenziato significa, altresì, che l'inutile decorso del termine fissato dall'art.
23-bis, l. n. 1034/1971 per l'impugnazione del dispositivo non esaurisce la legittimazione all'azione cautelare dell'appellante,
il quale potrà proporre la relativa istanza anche in seguito, ossia in sede di impugnazione del testo integrale della sentenza e,
secondo le regole generali, pure in pendenza del gravame così promosso, qualora il presupposto del pericolo di danno sia
insorto in corso di causa. Le previsioni in esame portano a chiedersi se esse siano estensibili alle sentenze che definiscono
processi sulle materie ora soggette a rito abbreviato, già pendenti secondo il rito ordinario, o quello ex art. 19, d.l. n. 67/1997,
al momento dell'entrata in vigore della l. n. 205/2000. In virtù del principio «tempus regit actum», data la mancanza di una
disciplina transitoria sulla fattispecie in discussione, il momento al quale occorre fare riferimento per individuare la norma
applicabile coincide con la data in cui si verifica l'evento costitutivo del diritto di impugnazione e, cioè, la pubblicazione o la
notificazione della sentenza (Cons. di Stato, sez. V, 11 giugno 2001, n. 3131, in Cons. Stato, 2001, I, 1282), le quali, se
contestuali alla vigenza dell'art. 23-bis, ne comporteranno l'applicabilità all'appello, anche se il primo grado aveva seguito il
rito ordinario. Passando, quindi, agli altri mezzi di impugnazione, per la revocazione sia ordinaria che straordinaria di cui
all'art. 395 c.p.c., il disposto dell'art. 23-bis è stato considerato pienamente applicabile (Cons. di Stato, sez. IV, 25 luglio
2001, 4080, in Foro it., 2002, 42). Per l'effetto dell'indirizzo così formulato, il ricorso per revocazione ordinaria dovrà essere
sempre notificato, essendo tale fase sottratta alla dimidiazione, entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza
(termine in generale stabilito per le impugnazioni delle sentenze del giudice amministrativo dall'art. 28, l. n. 1034/1971,
estensibile alla revocazione, in mancanza di specifica previsione letterale, in virtù dell'art. 400 c.p.c. In tal senso, Cons. di
Stato, Ad. plen., 9 maggio 1996, n. 3, in Foro it., 1997, III, 32), o, in mancanza di notificazione della sentenza revocanda,
entro un anno dalla pubblicazione, come stabilito dall'art. 327 c.p.c. (Cons. di Stato, sez. IV, 10 giugno 1999, n. 1001, in Foro
it., Rep., voce Giustizia amministrativa, n. 1057).
Il termine di deposito del ricorso per revocazione, ordinariamente di venti giorni dalla sua notificazione ai sensi dell'art. 399
c.p.c., essendo compreso, secondo l'odierno indirizzo giurisprudenziale, tra quelli riducibili alla metà ex art. 23-bis, l. n.
1034/1971, diverrà, nei casi stabiliti, abbreviato a dieci giorni (Cons. di Stato, sez. IV, 25 luglio 2001, cit., 42).
Parimenti, per la revocazione straordinaria, si osserverà il termine vigente davanti al giudice adito, ossia, per il giudice
amministrativo, quello di sessanta giorni per la notificazione del ricorso, decorrenti dal verificarsi dei presupposti di cui ai
numeri 1), 2), 3) e 6) dell'art. 395 c.p.c., mentre il deposito, nei casi in cui venga in considerazione la disciplina acceleratoria
del citato art. 23-bis, dovrà anche in tal caso avvenire entro dieci giorni dall'avvenuta notificazione. Infine, relativamente
all'opposizione di terzo, il termine di notificazione del ricorso davanti al giudice amministrativo è quello fissato dall'art. 404
c.p.c. di trenta giorni dalla legale o piena conoscenza della sentenza lesiva da parte dell'opponente (Cons. di Stato, sez. VI, 3
febbraio 2003, n. 508, in Cons. Stato, 2003, I, 226; Cons. di Stato, sez. IV, 3 maggio 1999, n. 773, in Cons. Stato, 1999, I,
791). Se lo si considera come termine di proposizione, esso non dovrebbe soggiacere a dimezzamento alcuno, operante,
invece, nel rito speciale qui considerato, per tutti gli altri termini processuali.
4. L'art. 21-bis, l. n. 1034/1971, ha aggiunto tra gli strumenti di tutela nei confronti della pubblica amministrazione un
rimedio apposito contro il silenzio della medesima. A titolo di inquadramento teorico, sul piano della struttura stabilita nella
disposizione citata, si osservi che il rito speciale anzidetto è fondamentalmente modellato sullo schema previsto dall'art. 25, l.
n. 241/1990 per il rito speciale in materia di accesso documentale; va aggiunto, però, che esso, in ordine alla sua fisionomia
di rimedio celere, si caratterizza per un «quid pluris» rappresentato dalle innovazioni disposte dalla l. n. 205/2000,
specialmente per quanto riguarda la motivazione della sentenza la quale, come prescritto in generale dall'art. 26, comma 5º, l.
n. 1034/1971 (di cui sopra al n. 2), è sancito che debba essere succintamente motivata. Il relativo giudizio ha natura camerale
ed è sottoposto a cadenze temporali predeterminate, dato che il giudice dovrà decidere entro sessanta giorni (30+30) dalla
notificazione del ricorso introduttivo, ovvero entro 30 giorni dalla data fissata per gli adempimenti istruttori. Il procedimento
in esame, come quello ex art. 25, l. n. 241/1990, non ha natura cautelare, essendo privo di alcuna strumentalità ed è autonomo
in quanto incidentale (M. Andreis, Art. 21-bis, l. n. 1034/1971, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia
amministrativa, a cura di A. Romano, Padova, 2001, 820).
Intervenuta la sentenza nei tempi estremamente rapidi dianzi indicati, essa è appellabile entro 30 giorni dalla sua
notificazione, o entro 90 giorni dalla comunicazione della sua pubblicazione. L'odierno processo contro il silenzio è stato
definito come «specialissimo», perché al suo interno si fondono cognizione ed esecuzione, dato che il giudice, accertato
l'obbligo di provvedere, ordina alla pubblica amministrazione di adempiervi entro un termine prestabilito, di norma non
superiore a trenta giorni, scaduto il quale, nella persistente inerzia dell'autorità amministrativa, nomina su istanza diparte un
commissario «ad acta» con poteri sostitutivi (D. Iaria, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, in Trattato di diritto
amministrativo, appendice al Vol. IV, a cura di S. Cassese, Milano, 2001, 17). Si è peraltro rilevato che sia la fase decisoria
che quella di esecuzione si presentano come sprovviste di particolare originalità: la prima, con la sua connotazione di
condanna, attinge dalla disciplina generale del processo amministrativo che, dopo la recente riforma, consente al giudice
amministrativo di decidere sul risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica; la seconda segue
la falsariga del giudizio di ottemperanza, con l'unica particolarità determinata dal fatto che l'art. 21-bis, l. n. 1034/1971, non
subordina espressamente il giudizio di esecuzione alla «non sospensione» della sentenza di primo grado, sebbene appaia
chiaro che l'esecutività della pronuncia sia condizione imprescindibile per la nomina del commissario «ad acta» (G. Greco,
L'articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in questa Rivista, 2002, 2 s.).
Il giudizio ora considerato, inoltre, si riferisce ad una fattispecie priva di provvedimento. Ciò comporta l'impossibilità di
utilizzare il criterio oggettivo dell'atto, per dare spazio a quello soggettivo dell'interesse toccato dal futuro esercizio del
potere. Quindi, in riferimento alla regolare instaurazione del contraddittorio, sarà il contenuto della domanda del ricorrente a
consentire l'individuazione dei controinteressati. Particolarmente delicata sarà, allora, l'operazione di contemperamento tra
due esigenze: da una parte, quella di non gravare il ricorrente di oneri eccessivi e di sanzioni di inammissibilità del ricorso
troppo pesanti sul versante dell'individuazione dei controinteressati; dall'altra, quella di evitare che si pervenga a decisione
senza che si siano sentite le ragioni difensive di chi potrebbe subire una lesione dall'adempimento all'obbligo di provvedere
(L. Tarantino, Giudizio amministrativo e silenzio della pubblica amministrazione, in Il nuovo processo amministrativo dopo
la legge 21 luglio 2000, n. 205, a cura di F. Caringella - M. Protto, Milano, 2001, 170 s.).
Da un diverso punto di vista, la finalità di abbreviazione verso la quale si dirige l'art. 21-bis, l. n. 1034/1971 implica anche
uno sforzo di elaborazione dogmatica sul rapporto che la norma citata genera tra processo amministrativo e procedimento
amministrativo. Non vanno trascurati, in particolare, gli esiti che scaturiscono dalla nuova tipologia di giudizio sulla
definizione sostanziale di silenzio. Quest'ultimo, all'infuori dei casi di silenzio significativo e di silenzio-rigetto, sottratti al
rimedio qui considerato (Cons. di Stato, sez. V, 4 aprile 2002, n. 1879, in Foro amm.-C.d.S., 2002, 919; Cons. di Stato,
comm. spec., 17 gennaio 2001, n. 1242/2000, in Cons. Stato, 2001, I, 498 s.), dovrebbe assumere, secondo condivisa
opinione, la qualificazione giuridica di mero fatto, anziché di determinazione negativa tacita (F.G. Scoca, Il silenzio della
pubblica amministrazione alla luce del nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 242; E. Sticchi Damiani, La
diffida a provvedere nel giudizio avverso il silenzio nell'amministrazione, in Foro amm.-T.a.r., 2002, 4218 ss.).
Ciò porta alla configurabilità di un processo amministrativo che, scostandosi dal modello classico impugnatorio-cassatorio,
come tale correlato all'esistenza di un provvedimento, tende ad avvicinarsi maggiormente al processo civile ed a passare dalla
tutela indiretta avente ad oggetto l'atto, alla tutela diretta avente ad oggetto il rapporto (riscontra tale evoluzione, dopo
l'entrata in vigore del d.lgs. n. 80/1998, F. Benvenuti, Nuovi indirizzi nel processo amministrativo, in Dir. econ., 1998, 530).
L'evoluzione scientifica alla quale si è appena fatto sintetico cenno, animata anche da istanze di maggiore effettività di tutela
ispirate dall'art. 24 Cost., non pare abbia trovato adesione nella giurisprudenza formatasi subito dopo la previsione del nuovo
processo sul silenzio, come emergerà dalle pronunce che, attenendosi alla sistematica imposta dallo schema del rito in esame,
saranno ora analizzate.
a) Le condizioni per il ricorso avverso il silenzio della p.a. - Per l'ammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 21-bis, l. n.
1034/1971, è necessario, innanzitutto, che sia riscontrabile quella che, secondo l'interpretazione delle norme sull'attività
amministrativa, costituisce inerzia della pubblica amministrazione a fronte della quale sia azionabile una pretesa di
provvedimento espresso. Al riguardo, si è ribadito in giurisprudenza l'orientamento tradizionale che, traendo spunto da una
concezione «attizia» di silenzio, ritiene necessario per la sua insorgenza, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 2, l. n.
241/1990, il previo sollecito a provvedere mediante notifica di apposita diffida e messa in mora ex art. 25, d.P.R. n. 3/1957
da parte di chi abbia presentato l'istanza senza ottenere alcun consequenziale provvedimento espresso entro il termine
previsto dall'art. 2, l. n. 241/1990 (Cons. di Stato, 10 febbraio 2003, n. 672, in Cons. Stato, 2003, 272; Cons. di Stato, sez. IV,
11 giugno 2002, n. 3256, in Giur. it., 2002, Dir. amm., 2402; Cons. di Stato, sez. III, 2 giugno 1998, n. 113/98, in Cons.
Stato, 1999, I, 1048). Peraltro, non sono mancate posizioni diverse, conformi alla tesi che, come si è detto poc'anzi, inserisce
il silenzio della p.a. in una dimensione fattuale, nella quale il silenzio si produce immediatamente, senza bisogno di
preventiva diffida ad adempiere, una volta decorso inutilmente, dalla formale presentazione dell'istanza dell'interessato, il
termine per provvedere di cui all'art. 2, l. n. 241/1990. Il silenzio come fatto, oltretutto, trova riscontro anche nell'art. 21-bis,
l. n. 1034/1971, che non contiene alcun riferimento letterale alla previa diffida per la proposizione dell'azione da esso
contemplata (T.A.R. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4977/2001, in Giorn. dir. amm., 2003, 45 ss.). Secondo
l'indirizzo da ultimo riportato, quindi, il ricorso avverso l'inerzia deve ritenersi volto a sanzionare il silenzio serbato dalla
pubblica amministrazione e non ad annullare un'attività (M. Veronelli, Azione diretta ed immediata avverso il silenzio della
pubblica amministrazione, in Giorn. dir. ammin., 2003, 51).
Contro l'orientamento prevalente che esige la previa diffida ad adempiere, milita anche la logica di speditezza (rilevata anche
da Cons. di Stato, Ad. plen, 9 gennaio 2002, n. 1, in Foro it., 2002, III, 234) seguita dal legislatore nel predisporre lo schema
di giudizio ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971, il quale prevede che, in accoglimento del ricorso avverso il silenzio, il giudice, con
imprescindibile intervento indefettibilmente prodromico alla nomina del commissario «ad acta», dovrà ordinare alla pubblica
amministrazione di provvedere entro il termine di trenta giorni. Non si vede come possa rispettare esigenze di rapidità di
giudizio, connesse pure ai principi di tutela effettiva desumibili dagli artt. 24 e 113 Cost., la imposizione al privato della
notificazione «ante causam» di un sollecito, cosicché egli possa poi procedere all'instaurazione del processo dopo un'ulteriore
inerzia della pubblica amministrazione protrattasi per altri trenta giorni, quando il giudice dovrà in ogni caso «replicare» il
sollecito stesso all'esito del giudizio (E. Sticchi Damiani, La diffida, cit., 4235). Altra condizione per l'esperibilità dell'azione
in discorso è che sia fatta valere una posizione di interesse legittimo. Ciò presuppone la titolarità in capo alla pubblica
amministrazione del potere il cui esercizio venga sollecitato, nonché la sussistenza della legittimazione del soggetto istante
fondata su di una posizione qualificata avente valenza di titolo per la proposizione dell'istanza (Cons. di Stato, sez. VI, 10
febbraio 2003, n. 672, cit.).
Risulta pertanto essenziale, ai fini di stabilire se l'art. 21-bis sia applicabile o meno, la focalizzazione dell'attenzione sulla
pretesa sostanziale addotta dal ricorrente nei confronti dell'amministrazione rimasta inerte (S. Mirate, nota a Cons. di Stato,
sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, in Giur. it., 2002, Dir. amm., 2403), come prescritto dall'indirizzo giurisprudenziale che
configura il giudizio qui considerato esclusivamente come sede di accertamento dell'illegittimità del silenzio (Cons. di Stato,
Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit.) e come si desume da altra indicazione giurisprudenziale che ha dichiarato inammissibile,
per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, un ricorso proposto per l'annullamento di un silenzio inadempimento
relativo alla materia del pubblico impiego, attribuita alla cognizione del giudice ordinario ai sensi dell'art. 63, comma 1, d.lgs.
30 marzo 2001, n. 165 (T.A.R. Campania, sez. V, 28 settembre 2002, n. 5864, in Giur. it., 2002, Dir. amm., 2402).
Sempre nello stesso senso, in relazione ad una fattispecie concernente attività della pubblica amministrazione di tipo
privatistico, cui corrispondevano diritti soggettivi per i quali il giudice amministrativo ha negato la propria giurisdizione, si è
ribadito il principio secondo il quale il silenzio-rifiuto, per essere giuridicamente rilevante e quindi oggetto di impugnativa,
deve essere pur sempre riconducibile ad inadempienze dell'amministrazione in rapporto ad un sussistente obbligo
pubblicistico di provvedere (T.A.R. Lazio, sez. II, 28 gennaio 2003, n. 506, in Guida al diritto, 11/2003, 104). Anzi, in senso
ancor più restrittivo, il rito sul silenzio è stato ritenuto incompatibile con controversie avverso l'inerzia della pubblica
amministrazione incentrate sull'accertamento di pretese patrimoniali costitutive di diritti soggettivi di credito, pur se attribuiti
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cons. di Stato, sez. V, 24 maggio 2002, n. 2863, in Guida al diritto,
9/2002, 84). Nell'ipotesi di azione avverso un'inerzia incidente su diritti soggettivi a contenuto patrimoniale, però, ogni vizio
scaturente dall'avvenuta applicazione del processo speciale previsto dall'art. 21-bis, l. n. 1034/1971 è stato ritenuto sanabile
quando il giudizio predetto, sebbene erroneamente seguito, non abbia causato alcuna compressione dei diritti di difesa delle
parti, ma solo un'accelerazione del processo (Cons. di Stato, sez. V, 4 aprile 2002, n. 1879, cit.). Sembra, così, essersi aperta
la strada alla convalidazione, per lo meno oggettiva ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c. di quegli errori di procedura che
abbiano portato un'indebita sostituzione del rito speciale sull'inerzia amministrativa a quello ordinario.
La ricostruzione dell'istituto processuale ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971 effettuata dalle decisioni appena citate, aderendo alla
concezione che equipara il silenzio ad un atto amministrativo, si scontra con quella che, con più fedele lettura della norma in
esame, delinea il giudizio sull'inerzia della pubblica amministrazione come giudizio sul rapporto. Il legislatore, difatti, non ha
espressamente subordinato il rito in questione ai tradizionali canoni di riparto delle controversie tra giurisdizione ordinaria e
amministrativa, né alla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo all'interno dell'esclusiva giurisdizione del
giudice amministrativo.
Soprattutto in relazione a quest'ultima, il combinato disposto tra l'art. 21-bis, l. n. 1034/1971 e l'art. 34, d.lgs. n. 80/1998
avvalora l'assunto che il silenzio in determinate materie, quale l'urbanistica e l'uso del territorio, comporti la devoluzione al
giudice amministrativo, nell'ambito dello speciale rito in esame, anche di posizioni di diritto soggettivo perfetto. Lo si è
affermato in tema di silenzio su istanza di retrocessione totale, rispetto alla quale il privato interessato vanta una posizione
giuridica di diritto soggettivo a fronte del quale non si può escludere un obbligo di provvedere della pubblica
amministrazione, in considerazione del carattere vincolato e meramente ricognitivo della determinazione diretta
all'accertamento dei presupposti del diritto alla retrocessione totale. Detta determinazione, tuttavia, quale atto amministrativo,
risulterebbe incoercibile (art. 4, l. n. 2248/1865, all. E) con l'ordinario strumento della pronuncia di condanna e renderebbe
quindi imprescindibile la speciale impugnativa avverso il silenzio (T.A.R. Campania, sez. I, 15 maggio 2001, n. 2102, in
Trib. amm. reg., 2001, I, 2423 ss.).
Il richiamo fatto dalla pronuncia appena richiamata al divieto di revoca o modifica dell'atto amministrativo di cui all'art. 4, l.
n. 2248/1865, all. E (legge abolitrice del contenzioso amministrativo) induce ad affrontare, nel paragrafo successivo,
l'argomento dell'ampiezza dei poteri decisori del giudice amministrativo nell'ambito del giudizio qui considerato.
b) La portata dell'ordine di provvedere. - In tema di ricorso giurisdizionale contro il silenzio dell'amministrazione, il
Consiglio di Stato, in sede consultiva, ha affermato che l'impugnativa disciplinata dall'art. 21-bis, l. n. 1034/1971, avente
natura sussidiaria ai sensi del comma 3 della norma citata, ha un duplice oggetto, misto di accertamento e di condanna, il
quale supera l'interpretazione che affidava alla decisione del giudice una mera efficacia demolitoria del silenzio dichiarato
illegittimo (Cons. di Stato, comm. spec., 17 gennaio 2001, n. 1241/2000, cit.). A seguito della pronuncia appena riportata,
sembrava aver ricevuto autorevole accreditamento la tesi secondo la quale l'odierna azione contro l'inerzia della pubblica
amministrazione avesse superato il pregresso modello processuale caratterizzato, di fronte alla violazione di un obbligo di
provvedere, dalla sola esperibilità dell'azione di annullamento. In altri termini, ciò lasciava presagire che fosse stata superata
la tesi tradizionale, secondo la quale il giudice adito contro il silenzio avrebbe dovuto limitarsi ad accertare l'inosservanza di
un obbligo di provvedere e la sussistenza delle condizioni essenziali perché potesse configurarsi un silenzio della pubblica
amministrazione. Tale effetto pareva essere stato generato dall'impulso del legislatore, che conduceva a suffragare il diverso
e più recente indirizzo secondo il quale, in caso di controversia sull'inerzia del soggetto pubblico, specie con riferimento ad
attività amministrativa fortemente vincolata, il sindacato giurisdizionale avrebbe dovuto estendersi anche alla pretesa
sostanziale fatta valere, ossia all'accertamento autonomo del rapporto (G. Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel
processo amministrativo, Milano, 1980), fino ad individuare il contenuto che l'atto da emanarsi avrebbe dovuto assumere (sui
due diversi modi di intendere il ricorso sul silenzio, A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro
it., III, 227 ss.). Avendo riscontrato la persistente coesistenza tra l'orientamento più antico e restrittivo (tra le tante, Cons. di
Stato, sez. V, 7 febbraio 2000, n. 670, in Foro it., Rep. 2000, voce Giustizia amministrativa, n. 1026; Cons. di Stato, sez. IV,
19 aprile 1999, n. 658, id., Rep. 1999, voce cit., n. 1172) e quello diretto ad un ampliamento dell'oggetto del giudizio sul
silenzio della p.a. (tra le tante, Cons. di Stato, sez. V, 13 aprile 2000, n. 2211, id., Rep. 2000, voce cit., n. 416; Cons. di Stato,
sez. V, 12 ottobre 1999, n. 1446, id., voce cit., n. 417), il Consiglio di Stato rimetteva la questione all'Adunanza plenaria
(Cons. di Stato, sez. VI, ord. 10 luglio 2001, n. 3803, in Cons. Stato, 2001, 1, 1599).
Mentre si attendeva la conseguente decisione, con riguardo al silenzio rifiuto in rapporto all'art. 21-bis, l. n. 1034/1971,
traendo spunto dalla tendenza più evolutiva, si sosteneva con vigore che il giudice amministrativo, nell'ordinare
all'amministrazione di provvedere, in presenza di aspetti vincolati correlati all'inadempiuto obbligo di provvedere su di
un'istanza di concessione edilizia, dovesse anche esprimersi sulla pretesa sostanziale del ricorrente, con l'unico limite
costituito dal divieto di sostituzione agli apprezzamenti discrezionali riservati all'amministrazione (Cons. di Stato, sez. V, 28
dicembre 2001, n. 6465, in Cons. Stato, 2001, I, 2756). Sembrava che la giurisprudenza avesse recepito l'idea che, dopo la
novella di cui alla l. n. 205/2000, l'accertamento del rapporto era da intendersi normativamente prescritto e, comunque,
presupposto, una volta introdotta in via generale l'azione di risarcimento del danno, anche in forma specifica, la quale, a
piena salvaguardia degli interessi legittimi pretesivi, assume i connotati di una vera e propria azione di adempimento, sia di
fronte ad un illegittimo diniego espresso, sia, tanto più, avverso un silenzio lesivo (G. Greco, L'articolo 2, cit., 7).
Invece, l'Adunanza plenaria ha asserito che il giudice, nell'accogliere il ricorso proposto ai sensi del citato art. 21-bis, ha
unicamente il potere di ordinare all'amministrazione di provvedere sull'istanza del cittadino entro il termine assegnato, ma
non può, neppure in caso di attività vincolata, imporre alla pubblica amministrazione il contenuto della determinazione
adottanda, verificandosi altrimenti un'indebita sostituzione del giudice all'autorità amministrativa nelle prerogative sue
proprie, anche in considerazione del fatto che l'art. 21-bis, comma 2, assegnerebbe testualmente al commissario «ad acta»
tale funzione sostitutiva (Cons. di Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit.
La pronuncia ora riportata lascia l'impressione che, partendo dalla natura camerale del rito speciale sul silenzio e dalla sua
brevità, correlata per giunta alla previsione di una sua definizione con sentenza succintamente motivata, il Consiglio di Stato
abbia privilegiato finalità di certezza dell'inadempimento dell'obbligo di provvedere su quelle di completezza ed effettività di
tutela. Ciò lo dimostra sotto più profili la motivazione adottata.
Ed invero, in primo luogo, la costrizione dei poteri del giudice entro il mero accertamento del silenzio e il conseguente ordine
generico di provvedere comporta che, intervenuta la sentenza di accoglimento con tali esigui contenuti, l'ottemperanza della
pubblica amministrazione potrebbe tradursi in un atto ulteriormente lesivo per il ricorrente vittorioso, costretto dunque ad un
nuovo autonomo ricorso secondo le forme ordinarie (D.F.G. Trebastoni, Silenzio della pubblica amministrazione e oggetto
del giudizio: un problema di tutela effettiva, in Foro amm.-C.d.S., 2002, 259; S. Mirate, La natura del giudizio ex art. 21-bis
della legge n. 1034/1971: l'Adunanza plenaria limita il sindacato del giudice amministrativo all'illegittimità del silenzio, in
Giur. it., 2002, Dir. amm., 1287). Ciò deriva dal diniego di tutela risarcitoria opposto dalla giurisprudenza amministrativa nel
processo speciale sull'inerzia della p.a., nonostante la l. n. 205/2000 abbia garantito in termini inequivoci il risarcimento in
forma specifica e per equivalente ad ogni specie di giurisdizione amministrativa (M. Andreis, art. 21-bis, cit., 821).
In secondo luogo, con un non del tutto conferente richiamo all'art. 112 c.p.c., attinente al principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato, si è dato per certo che, ai sensi dell'art. 21-bis, l'interessato chiederebbe soltanto l'accertamento
dell'inerzia, quando egli potrebbe invece chiedere anche il riconoscimento della pretesa sostanziale sottostante, vincolando il
giudice a pronunciarsi in merito invocando il principio dispositivo (D.F.G. Trebastoni, cit., 262 s.) e promovendo un'azione
risarcitoria.
In terzo luogo, valorizzata la specialità del rito in esame e, quindi la sua originalità rispetto al giudizio di solo annullamento,
è stato delineato un ultroneo parallelismo tra giudizio sul silenzio e impugnazione contro il diniego espresso, per confinare il
nuovo rimedio entro gli angusti limiti del tradizionale sindacato di legittimità ed escluderne l'operatività nelle controversie su
diritti soggettivi (A. Travi, Giudizio, cit., 231).
In quarto ed ultimo luogo, al commissario «ad acta» è stato attribuito un ruolo particolarmente ambiguo, poiché la sua
collocazione in una norma processuale non potrebbe che affidargli, attraverso un approccio interpretativo logico sistematico
che prenda spunto dal giudizio di ottemperanza, una funzione ausiliaria del giudice in sede di esecuzione della sentenza sul
silenzio mentre, invece, l'Adunanza plenaria lo ha configurato come organo straordinario della pubblica amministrazione, in
grado di sostituirsi ad essa (A. Travi, Giudizio, cit., 233), senza legami con una sentenza che sarebbe, ad ogni modo,
estremamente scarna nel suo mero accertamento dell'inerzia. L'illustrata soluzione richiede una rivisitazione, se si considera
che un commissario «ad acta», per assumere la veste di organo straordinario sostitutivo della pubblica amministrazione, deve
ricevere espressa attribuzione in tal senso da una norma non già di diritto processuale, ma di diritto sostanziale, come avviene
ad esempio all'art. 21, D.P.R. n. 380/2001 (T.U. sull'edilizia), che ne prevede la nomina da parte della regione competente per
definire in via sostitutiva il procedimento di rilascio del permesso di costruire, quando l'ente destinatario dell'istanza l'abbia
lasciata inevasa. Nonostante le critiche provenienti da voci tutt'altro che isolate, bisogna constatare che, nel solco tracciato
dall'Adunanza plenaria, la giurisprudenza, ormai costantemente, a prescindere dalla discrezionalità o vincolatezza della
funzione rimasta inerte, esclude che l'art. 21-bis, l. n. 1034/1071 consenta al giudice amministrativo di adottare
determinazioni inerenti all'esercizio di poteri riconducibili all'amministrazione attiva (Cons. di Stato, sez. IV, 4 febbraio
2003, n. 540, in Cons. Stato, 2003, I, 234; Cons. di Stato, sez. VI, 27 gennaio 2003, n. 426, in Cons. Stato, 2003, I, 120).
c) Il provvedimento espresso sopravvenuto dopo il silenzio. - Nel periodo necessario per la diffida e messa in mora della p.a.
inerte, imposta dalla giurisprudenza come presupposto per il ricorso ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971, ma anche in pendenza del
giudizio stesso, una volta instaurato, il silenzio potrebbe venire meno per intervenuta adozione del provvedimento che
definisca il procedimento instaurato dall'istanza dell'interessato. Si noti che l'emanazione di qualsivoglia atto da parte della
pubblica amministrazione, in risposta all'istanza dell'interessato, è sempre consentita anche dopo la scadenza del termine di
cui all'art. 2, l. n. 241/1990, limite temporale avente carattere ordinatorio e non perentorio. Orbene, l'esercizio, sia pure
tardivo, della funzione richiesta dal privato fa venire meno il presupposto per la proposizione dell'azione in questione,
rendendo il ricorso inammissibile, per carenza originaria di interesse ad agire, se il provvedimento, ancorché non comunicato,
intervenga prima della proposizione del ricorso medesimo, o improcedibile, per carenza sopravvenuta di interesse ad agire,
qualora il provvedimento intervenga nel corso del giudizio (Cons. di Stato, sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, cit., 2404).
Resta salva la facoltà del ricorrente ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971 di impugnare, qualora la ritenga illegittima, la
determinazione amministrativa esplicita sopravvenuta (Cons. di Stato, sez. V, 7 aprile 2003, n. 1836, in Cons. Stato, 2003, I,
1836). In tal caso, l'istituto processuale più idoneo allo scopo parrebbe quello dei motivi aggiunti contro provvedimenti
successivi al ricorso introduttivo e connessi all'oggetto del medesimo, previsto dall'art. 21, l. n. 1034/1971, come novellato
dall'art. 1, l. n. 205/2000. Ma la soluzione ora descritta è stata considerata impercorribile da una parte della giurisprudenza
amministrativa, in relazione all'asserita autonomia del rito speciale sul silenzio-rifiuto che, perciò, non può essere convertito
in un giudizio ordinario contro provvedimenti espressi (Cons. di Stato, sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12, in Foro amm.-C.d.S.,
2002, 80 s.). L'orientamento suddetto è stato confermato dalla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione proposta
mediante motivi aggiunti, ai sensi dell'art. 21, l. n. 1034/1971 come sostituito dall'art. 1, l. n. 205/2000, volta a censurare un
provvedimento di cui era stata acquisita conoscenza in pendenza dello stesso ricorso avverso il silenzio a norma dell'art. 21bis, l. n. 1034/1971 (Cons. di Stato, sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144, in questa Rivista, 2002, 1005 ss.).
Pertanto, quando, instaurato il giudizio contro l'inerzia della pubblica amministrazione, questa decida di estrinsecare
finalmente il proprio potere, il destinatario del medesimo che intenda contestare una simile modalità di azione dovrà, secondo
l'indirizzo sopra indicato, promuovere un ricorso autonomo secondo le regole ordinarie, sempre che l'atto successivo al
silenzio vi soggiaccia. Non è da escludersi, infatti, che la nuova impugnativa debba seguire un altro rito speciale come, ad
esempio, quello ex art. 23-bis, l. n. 1034/1971: pure in questa evenienza, il cumulo di domande sarebbe, come si è visto
prima sub 3, lett. b), inammissibile, per mancanza nel processo amministrativo di una disciplina corrispondente all'art. 40
c.p.c. in ordine ai rapporti di connessione tra cause assoggettate a riti speciali diversi.
Per evitare tali conseguenze, si potrebbe impiegare lo strumento della separazione delle controversie (Cons. di Stato, sez. VI,
4 settembre 2002, n. 4454, cit.), oppure, nell'ottica del principio della conservazione degli atti, quello della convalidazione
oggettiva (art. 156 c.p.c.), quando essi abbiano raggiunto lo scopo (opzione accolta dal giudice amministrativo in fattispecie
diversa e prima illustrata, afferente al caso di improprio utilizzo del giudizio ex art. 21-bis, l. n. 1034/1971 per far valere
pretese patrimoniali: Cons. di Stato, sez. V, 4 aprile 2002, n. 1879, cit.). In caso contrario, subita la pronuncia di
inammissibilità dei motivi aggiunti proposti contro il provvedimento esplicito nella stessa impugnazione contro il silenzio,
l'interessato, salva la rimessione in termini per errore scusabile, finirebbe per incorrere in un'insuperabile decadenza
relativamente alla proposizione di un ricorso autonomo contro l'atto sopravvenuto, per non averlo censurato in prima battuta
nel rito prescritto (F. Satta, Impugnazione cumulativa del silenzio e del provvedimento esplicito: una anomala ipotesi di
inammissibilità derivata, in Foro amm.-C.d.S., 2002, 81 s.).
Nella direzione voluta dalle precedenti osservazioni critiche, è stata pronunciata una decisione di segno meno restrittivo, a
tenore della quale «è ammissibile l'impugnazione mediante motivi aggiunti, ai sensi dell'art. 21, comma 1, secondo periodo,
della l. n. 1034 del 1971, come sostituito dall'art. 1 della l. n. 205 del 2000, di un provvedimento negativo sopravvenuto nelle
more del ricorso precedentemente proposto nei riguardi del silenzio-inadempimento dell'Amministrazione, ai sensi dell'art.
2l-bis della l. n. 1034 del 1971, come introdotto dall'ari. 2 della l. n. 205 del 2000, a condizione che risultino rispettati termini
e modalità che il rito ordinario prevede a garanzia delle parti del processo e, in particolare, di tutti i controinteressati» (Cons.
Stato, sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974, in questa Rivista, 2002, 1005 ss.).
Non può quindi dirsi che presso il Consiglio di Stato si sia consolidato un orientamento univoco sulla conversione in rito
ordinario di quello ex art. 21-bis, in caso di proposizione, all'interno di quest'ultimo, di motivi aggiunti contro il sopraggiunto
provvedimento esplicito della p.a. in origine inadempiente. L'opinione favorevole alla descritta cumulabilità di domande
comporterà, necessariamente, sentenze a contenuto misto: definitive nella parte in cui dichiarano l'improcedibilità del
giudizio ex art. 21-bis per sopravvenuta carenza di interesse; interlocutorie nella parte i cui dispongono la separazione del
processo ed il passaggio al rito ordinario (L. Bertonazzi, op. cit., 1027). Non è mancato, peraltro, chi ha escluso tanto
l'improcedibilità del giudizio sull'inerzia della p.a., quanto la necessità di far luogo al rito ordinario, in caso di proposizione di
motivi aggiunti avverso il sopravvenuto provvedimento espresso di diniego: anzi, i motivi aggiunti potrebbero inserirsi a
pieno titolo nel rito speciale affinché non risulti vanificata l'attività istruttoria intercorsa e, nel contempo, la causa non
dovrebbe essere trasferita in sede ordinaria, ma si farebbe luogo immediatamente al sindacato sulla legittimità del diniego
espresso, dato che esso si pone come pregiudiziale rispetto all'accertamento della pretesa sostanziale azionata (G. Greco,
L'articolo 2, cit., 14). Sarebbe così assicurata una maggior coerenza con la «ratio»acceleratoria della riforma operata dalla l.
n. 205/2000, dal momento che l'intenzione del legislatore di rendere più rapido il processo amministrativo non resterebbe
delimitata al fatto-silenzio, ma si amplierebbe verso tutte le sue potenziali conseguenze, ivi compreso il diniego espresso
intervenuto in violazione del termine di conclusione del procedimento di cui all'art. 2, l. n. 241/1990 e, pertanto, generatore di
danno risarcibile, almeno nella misura in cui il ritardo ha generato nell'interessato un affidamento su di un possibile risultato
positivo dell'azione amministrativa (sulla risarcibilità del danno da ritardo e sulla necessità di accertamento del dolo e della
colpa della p.a. inadempiente, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 19 aprile 2002, n. 1572, in www.giust.it, n. 4-2002).
Nonostante i tentativi di espandere i margini di operatività del rimedio considerato, si deve osservare che la specialità del
giudizio sul silenzio rispetto a quello ordinario è stata ribadita anche in relazione alla fase di appello, forse perché, ai sensi
dell'art. 21-bis, comma 1, l. n. 1034/1971, essa è sottoposta, appunto, alle stesse regole stabilite per il primo grado e conduce
di riflesso a ritenere che i due momenti siano inscindibili. Traendo spunto da questa distinzione, sebbene in mancanza di una
disciplina transitoria, si è ritenuto che debbano essere appellate seguendo il rito ordinario e non quello sul silenzio le sentenze
sull'inerzia della p.a. pronunciate nel regime antecedente la riforma, anche se il momento costitutivo del diritto di appello si
sia verificato dopo l'entrata in vigore della l. n. 205/2000, in quanto il gravame ex art. 21-bis può essere rivolto soltanto
contro pronunce succintamente motivate emanate in quel rito (Cons. di Stato, sez. VI, 28 marzo 2003, n. 1640, in Cons.
Stato, 2003, I, 750, solo in massima).