Trattio dal Capitolo I di Lineamenti di diritto europeo dell

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TRATTIO
DAL
CAPITOLO I
DI
LINEAMENTI
DI DIRITTO EUROPEO DELL'INFORMAZIONE E DELLA
COMUNICAZIONE
La Struttura istituzionale dell'Unione europea e le procedure normative
1. I poteri d'azione dell'Unione: l’attuale ripartizione delle competenze in "pilastri"
Una posizione preminente è ancora attribuita alle competenze riconducibili agli originari tre,
oggi due, Trattati istitutivi delle Comunità europee. Il ruolo tendenzialmente assorbente ricoperto
dalla Comunità europea è comunque da tener presente: a ciò concorrono la posizione marginale che
oggi occupano le politiche affidate alla gestione della CEEA e l'avvenuto trasferimento dei poteri
d'azione della CECA alla Comunità europea.
L'insieme di tali competenze sostanzia il "pilastro" istituzionale - cosiddetto primo "pilastro"
- dell'Unione. Sono tutte competenze indirizzate a conseguire l'obiettivo espresso dall'art. 2 del
Trattato istitutivo della Comunità europea, come volta a volta integrato dagli accordi intervenuti a
sua modifica: in tale disposizione gli Stati membri stabiliscono che «la Comunità ha il compito di
promuovere (…), mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e
monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli artt. 3 e 4, uno
sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di
occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non
inflazionistica, un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un elevato
livello di protezione dell'ambiente e il miglioramento della qualità della vita, la coesione economica
e sociale tra gli Stati membri». In questa prospettiva si comprende come un rilievo non meramente
terminologico abbia la modifica - voluta dal Trattato di Maastricht - della denominazione
dell'Organizzazione (da Comunità economica europea a Comunità europea): si conferma in tal
modo la vocazione di questo ente a diluire il legame funzionale con la materia economica; nella
stessa prospettiva deve essere inquadrata la "cittadinanza dell'Unione" istituita dallo stesso Trattato
di Maastricht e oggi disciplinata dagli artt. 17-22 CE.
Il secondo "pilastro" dell'Unione è sostanziato dai compiti esercitati per far fronte alla
responsabilità di «stabili[re] e attua[re] una politica estera e di sicurezza comune estesa a tutti i
settori della politica estera e di sicurezza» (artt. 11-28 TUE). Tale competenza mira a conseguire
una molteplicità di obiettivi che tutti sono indirizzati ad affermare l'identità dell'Unione stessa nelle
relazioni internazionali (art. 2.2, II° trattino, TUE): si tratta della «difesa dei valori comuni, degli
interessi fondamentali, dell'indipendenza e dell'integrità dell'Unione», del «rafforzamento della
[sua] sicurezza», del «mantenimento della pace», della «promozione della cooperazione
internazionale», dello «sviluppo e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché
[del] rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali» (art. 11.1 TUE).
Le competenze esercitate dall'Unione nel quadro del terzo "pilastro" sono funzionali
all'obiettivo di «fornire ai cittadini un elevato livello di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza
e giustizia» (art. 29.1 TUE). Tali competenze - che attengono alla materia della cooperazione di
polizia e giudiziaria penale - possono in verità essere compiutamente apprezzate se si considera che
l'obiettivo di fare dell'Unione uno spazio di libertà sicurezza e giustizia è affidato ad azioni e a
politiche intraprese congiuntamente ai sensi del primo e del terzo "pilastro". Questa trasversalità è
stata voluta dal Trattato di Amsterdam, che ha modificato l'originario assetto stabilito dal Trattato di
Maastricht in due diversi modi. Ha anzitutto introdotto questo nuovo obiettivo fra quelli che gli
Stati si propongono di conseguire attraverso l'azione dell'Unione in materia di giustizia e affari
interni. In secondo luogo, ha diversamente distribuito - fra primo e terzo "pilastro" - le materie
oggetto di cooperazione: al "metodo comunitario" - grazie all'inserzione nel Trattato CE di un
nuovo Titolo IV (artt. 61-69) - sono state affidate le questioni relative alla mobilità delle persone
(indifferentemente cittadine europee ed extra-comunitarie) ivi comprese le problematiche connesse
alla cooperazione amministrativa, nonchè a quella giuridica e giudiziaria in materia civile e a quella
doganale; al "metodo intergovernativo" (artt. 29-39 TUE) le questioni relative appunto alla
cooperazione di polizia e giudiziaria in campo penale. Grazie all'impiego degli strumenti giuridici
propri di questo terzo "pilastro", lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia dovrebbe poter essere
conseguito «prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare il
terrorismo, la tratta degli essere umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di
armi, la corruzione e la frode» (art. 29.2 TUE).
Nel segno della continuità, il Trattato di Nizza non ha alterato nella sua sostanza l'impianto
articolato in "pilastri", intervendo con alcune poche modifiche sopprattutto relative agli aspetti
istituzionali della cooperazione, che qui non rilevano.
Una rottura dell'equilibrio così conseguito potrebbe tuttavia essere segnata se entrasse in
vigore il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa: ivi si prevede la riorganizzazione delle
competenze di Unione e Stati membri all'interno dello «spazio politico europeo» costituito da un
quadro istituzionale unico, tramite la soppressione della distinzione delle competenze
dell'Organizzazione sulla base di "pilastri" (cioè, in definitiva, di procedure) diversificate.
2. L'equilibrio interistituzionale
L'Unione dispone «di un quadro istituzionale unico che assicura la coerenza e la continuità
delle azioni svolte per il perseguimento dei suoi obiettivi» (art. 3 TUE). Tale quadro è organizzato
secondo un equilibrio che vede la contemporanea presenza di quattro interessi, ciascuno dei quali
con una propria sede di rappresentanza.
La dimensione intergovernativa trova spazio nel Consiglio dell’Unione nonchè nel Consiglio
europeo (non ancora istituzione dell'Unione, bensì suo "motore politico"): la progressiva – anche se
lenta – estensione del voto a maggioranza e l'imperfetta e parziale associazione del Parlamento
europeo al procedimento decisionale segnalano l’inizio di un processo di "sovrannazionalità
decisionale", ancora tutta sbilanciata e carente rispetto a una già forte "sovrannazionalità
normativa", a maggior ragione alla luce dell’evoluzione che ha imboccato la prassi relativa al
Consiglio europeo, il quale sembra sempre più confondersi nel Consiglio dell’Unione, rafforzando
in quest’ultimo la dimensione intergovernativa.
La dimensione dell’efficienza tecnica è assicurata dalla Commissione, affiancata dal
variegato arcipelago di comitati che collaborano all’esercizio della funzione esecutiva: essa è sede
dell'interesse
collettivo
degli
Stati
membri
dell'Unione,
ovvero
dell'interesse
proprio
dell'Organizzazione, che consiste nel perseguimento dei fini statutari anche quando gli interessi dei
singoli Stati membri indirizzerebbero l'attività sociale verso altri obiettivi. Tale interesse, come si
comprende, non risulta dalla mera sommatoria degli interessi individuali statali.
La dimensione democratico-rappresentativa si esprime nel Parlamento europeo, anche nel
suo collegamento con i parlamenti nazionali, i quali concorrono a fornire all’Unione quella
legittimazione democratica della cui carenza essa non può non essere afflitta, essendo ancora oggi
ente internazionale espressione della sovranità degli Stati. Tuttavia, se a tale concetto si vuole
assegnare un significato neutro (intendendolo come «metodo di adozione della decisione di
qualsiasi gruppo sociale i cui comportamenti siano retti dal diritto»: CANNIZZARO), la questione del
deficit democratico dell'Unione può probabilmente essere in parte sdrammatizzata: la legittimazione
democratica nel contesto dell'Unione si arricchisce, infatti, anche grazie alla presenza di istanze e
sedi di rappresentanza degli interessi che emergono dalla società civile e che sono canalizzati
dall’attività di comitati e lobbies (cd. democrazia partecipativa). Certamente la questione della
carenza di legittimazione democratica dell'Unione nel senso classico del termine tende a riprendere
tutta la propria importanza, e ad essere dunque sempre più difficile da giustificare, via via che,
estendendosi le competenze dell'Organizzazione, i suoi atti normativi incidono al livello delle
prerogative delle persone, tradizionalmente protette, negli ordinamenti democratici, da uno statuto
di diritti e libertà indisponibili. Si tratta di una carenza, peraltro, che potrebbe essere sanata grazie a
un maggior coinvolgimento nel procedimento normativo europeo dei parlamenti nazionali sia nella
fase di elaborazione degli atti, sia nella fase di loro esecuzione negli ordinamenti interni.
La "rule of law", ossia l’esigenza che il diritto sia rispettato nell’organizzazione e nel
funzionamento dell’ordinamento, è assicurata dalla Corte di giustizia che ricopre nell’Unione la
funzione di giudice costituzionale: essa infatti controlla la costituzionalità del diritto comunitario
(esercitando un vaglio di costituzionalità dell’attività normativa delle istituzioni); salvaguarda
l’equilibrio istituzionale (dirimendo i conflitti fra le istituzioni dell’Unione e fra i diversi livelli di
governo ivi operanti, assolvendo quotidianamente al compito di accertare l’ampiezza delle
competenze di questi, dunque detenendo quella che si suole definire la Kompetenz-Kompetenz);
presidia il rispetto dei valori sui quali si fonda l’Unione, come espressi nell’art. 6 TUE. Si esprime
principalmente con sentenze vincolanti, assistite – eccetto che nei confronti degli Stati membri e
solo nell'ambito del primo "pilastro" – dalla garanzia della forza esecutiva.
Questo delicato assetto istituzionale – che non può che accogliere in misura ridottissima
(limitatamente alla funzione giudiziaria) il principio della separazione dei poteri – detiene infine la
potestà di autoconformarsi ai fini indicati dai Trattati (art. 6.4 TUE).
Questo complesso apparato, che esercita competenze ben più estese di quelle che
tradizionalmente ricoprono i governi federali, ha alcuni gravi punti di debolezza: un bilancio esiguo,
del tutto inadatto a sostenere politiche impegnative in autonomia dagli Stati; l’assenza di poteri
coercitivi nei confronti degli Stati membri; la sua non visibilità sul piano delle relazioni
internazionali attraverso una politica comune in materia estera e di sicurezza militare. Quest’ultimo
dato appartiene ad un quadro di perdurante intergovernamentalità: il metodo della cooperazione
stenta a cedere il passo al metodo dell’integrazione in materia di relazioni esterne, così come
viceversa sembra essere avviato a succedere per l'ambito delle questioni che attengono alla giustizia
anche in campo penale.
3. La diversificazione delle procedure normative
Ciò che contraddistingue l'attività svolta dalle istituzioni nelle diverse articolazioni
dell'Unione è il fatto che per ciascun "pilastro" sono adottati strumenti e procedure in parte
differenziati. Vero è che fin dall’inizio la progressiva realizzazione di procedure di cooperazione
politica si mosse nella direzione di creare alcune (poche) entità nuove, ma soprattutto di estendere a
tale forma di cooperazione la struttura istituzionale delle Comunità, adattando il ruolo delle
istituzioni e le loro procedure alle peculiarità della cooperazione stessa. Si è assistito insomma a una
sorta di "comunitarizzazione" dei metodi della cooperazione intergovernativa; ovvero, se si
preferisce, per tale forma di cooperazione il metodo squisitamente diplomatico si è stemperato per
caratterizzarsi maggiormente secondo procedure che vedono un più o meno intenso coinvolgimento
di organi creati per l’organizzazione comunitaria.
Questo punto d’approdo, già accolto dal Trattato di Maastricht, è stato valorizzato
ulteriormente dal Trattato di Amsterdam - come detto non modificato sostanzialmente dal Trattato
di Nizza -, che tende a ridurre ulteriormente la distanza fra metodi e strumenti della cooperazione
istituzionale e metodi e strumenti della cooperazione, soprattutto per la materia della giustizia e
degli affari interni, così da assimilare sotto molti aspetti il law-making process del terzo "pilastro" a
quello del primo, attenuando le differenze che opponevano i due ambiti soprattutto quanto ai
rapporti interistituzionali. Tale processo è ancor più evidente per quelle competenze del "pilastro"
comunitario che concorrono, con il terzo, a fare dell'Unione uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia. A questo risultato hanno concorso principalmente tre fattori. Anzitutto il fatto che
all'incorporazione nel Trattato CE delle materie disciplinate dal "sistema degli Accordi di
Schengen" non è corrisposta una puntuale estensione ad esse del "metodo comunitario", il quale è
stato viceversa adattato con accorgimenti utili a salvaguardare in modo più significativo l'esercizio
di poteri sovrani da parte degli Stati membri. Peraltro, parallelamente, si è andato assistendo a un
maggior coinvolgimento delle istituzioni dell'Unione nel processo normativo all'interno del terzo
"pilastro" e, soprattutto, alla previsione dell’esercizio di funzioni giurisdizionali da parte della Corte
di Giustizia, sulla base di un'esigenza emersa e fatta propria dal Trattato di Maastricht. Infine, vi è
stata l’affermazione e la valorizzazione dell’Unione come entità dotata di una propria individualità
distinta dagli Stati membri, in grado di assorbire la personalità delle Comunità.
Le procedure del secondo "pilastro" restano viceversa strettamente intergovernative.
3.1. Il "metodo comunitario" e gli atti tipici
Nell'ambito delle procedure di adozione degli atti normativi è dunque possibile distinguere
fra "metodo comunitario" e "metodo intergovernativo". Il primo si manifesta attraverso l'adozione
di atti normativi, che di massima scaturiscono dal congiunto contributo di Commissione (con
funzione propositiva), Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione (secondo le procedure di
codecisione, cooperazione, consultazione, parere conforme). Gli atti normativi tipici della Comunità
europea sono i regolamenti, le direttive, le decisioni, i pareri e le raccomandazioni (art. 249 CE).
Mentre le due ultime categorie comprendono atti giuridici a portata raccomandatoria, le prime tre si
traducono in atti vincolanti, seppure di diversa incisività. I regolamenti sono atti a portata generale,
vincolanti in tutti i loro elementi e per questo motivo direttamente efficaci negli ordinamenti degli
Stati membri senza necessità alcuna che le autorità nazionali adottino norme a loro puntuale
trasposizione. Le direttive sono atti indirizzati agli Stati membri, in via di principio vincolanti
soltanto nei principi che esprimono poiché rimettono alla discrezionalità delle autorità nazionali
l'individuazione dei mezzi (le norme di dettaglio) e delle forme (il tipo di atto) per conseguire i fini
da esse indicati; nella prassi tuttavia si riscontra la vigenza (legittima) di direttive capaci di esplicare
effetti diretti: è il caso delle cd. direttive dettagliate, che privano gli Stati di qualsivoglia margine di
discrezionalità nell'adempimento poiché contengono norme chiare a incondizionate; ovvero delle
direttive il cui termine di adempimento sia scaduto, consentendo così agli individui di pretendere
dalle autorità nazionali il rispetto dei diritti da quelle nascenti anche se non eseguite
nell'ordinamento interno. Le decisioni sono atti vincolanti in tutti i propri elementi, direttamente
applicabili, a portata individuale, poiché indirizzati a soggetti determinati (Stati o persone fisiche e
giuridiche).
3.2. Il "metodo intergovernativo"
Il "metodo intergovernativo" rappresenta la forma secondo la quale il sistema tradizionale
delle relazioni diplomatiche fra Stati si é innestato entro un contesto istituzionale delle Comunità e,
poi, dell'Unione: la cooperazione nelle materie che toccano da vicino il cuore della sovranitá si
esprime attraverso il ruolo centrale ricoperto dal Consiglio dell'Unione (affiancato in modo molto
penetrante dal Consiglio europeo), che adotta atti nel rispetto pressoché generale del criterio di
unanimità (artt. 23 e 34.2-4 TUE), mai dotati di efficacia diretta perchè sempre indirizzati agli Stati,
ai quali si chiede di conformare ad essi il proprio ordinamento interno; in questo contesto il
Parlamento europeo ha un ruolo meramente consultivo (artt. 21 e 39 TUE) e la Commissione
spartisce la funzione di iniziativa normativa con gli Stati membri (artt. 22 e 34.2 TUE).
In particolare: nell'ambito del secondo "pilastro" il Consiglio è sede di reciproca
informazione e consultazione fra Stati membri (art. 16 TUE). Esso adotta principi, orientamenti
generali e strategie comuni (art. 13 TUE). Delibera azioni comuni e posizioni comuni. Le prime
sono indirizzate ad affrontare «specifiche situazioni in cui si ritiene necessario un intervento
operativo dell'Unione»: «definiscono gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui l'Unione deve disporre,
le condizioni di attuazione e, se necessario, la durata», in modo vincolante per gli Stati, i quali sono
tenuti a informare in via preventiva il Consiglio di ogni presa di posizione nonché di ogni azione
adottata per la loro attuazione (art. 14 TUE). Le posizioni comuni sono destinate a definire
«l'approccio dell'Unione su una questione particolare di natura geografica o tematica»: gli Stati sono
tenuti a conformare ad esse le proprie politiche nazionali (art. 15 TUE).
Nell'ambito del terzo "pilastro" il Consiglio adotta posizioni comuni, decisioni quadro,
decisioni e convenzioni (art. 34 TUE). Le prime sono assunte per definire «l’orientamento
dell’Unione in merito a una questione specifica»: si tratta dunque di prese di posizione generali la
cui portata è riconducibile, caso per caso, alla volontà del Consiglio al momento della loro
adozione. Agli Stati membri dell’Unione incombe l’obbligo di «esprimere» (art. 37.1 TUE) e
«difendere» (art. 19.1 TUE, in virtù del richiamo operato dall’art. 37.2 TUE) le posizioni comuni in
occasione delle conferenze internazionali cui essi partecipano e nell’ambito delle organizzazioni
internazionali delle quali essi siano membri (art. 37.1 TUE). Le decisioni quadro sono
espressamente destinate al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati
membri: hanno portata vincolante quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle
autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi: evidente è l’analogia con l’istituto della direttiva,
sulla quale la decisione-quadro si modella quanto a struttura e funzioni. Il Trattato di Unione precisa
che si tratta di atti insuscettibili di esplicare un’efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati
membri: ciò sicuramente ad evitare le evoluzioni cui la prassi delle direttive ha dato vita all’interno
dell’ordinamento comunitario. Le decisioni sono strumento normativo destinato a ricoprire un ruolo
operativo: il Trattato esclude che possano essere utilizzate a fini di ravvicinamento delle
legislazioni; esse hanno portata vincolante ma non possono esplicare efficacia diretta; sono
suscettibili di essere ulteriormente precisate grazie all’adozione di misure di attuazione a livello
dell’Unione. Per quanto riguarda le convenzioni, si tratta di strumenti a proposito dei quali non si
dubita della portata giuridica vincolante ed estesa a tutti gli Stati che le abbiano ratificate: è infatti
alla disciplina del diritto internazionale generale, nonchè a quella espressa dalla Convenzione di
Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, che occorre fare riferimento. Tuttavia nel caso delle
convenzioni stipulate nell’ambito del terzo "pilastro" vi sono alcune particolarità che dipendono dal
contesto specifico in cui queste si situano. Occorre, infatti, considerare che i negoziati ad esse
relativi avvengono sì nel quadro del diritto internazionale, ma all'interno di un ordinamento
particolare, a forte connotazione integrativa; esse sono inoltre destinate a “servire” l’ordinamento
comunitario perché sono teleologicamente e funzionalmente indirizzate al perseguimento anche dei
fini delle Comunità europee. Le convenzioni in questione sono atti dei quali «si raccomanda
l’adozione agli Stati membri». Con il Trattato di Amsterdam si è superato l’ostacolo rappresentato
per la loro entrata in vigore dalla necessaria unanime ratifica di tutti gli Stati membri: esso, infatti,
dispone che le convenzioni entrino in vigore una volta adottate da almeno la metà degli Stati
dell’Unione (salvo contraria disposizione contenuta nella convenzione stessa).
3.3. Gli accordi internazionali stipulati da Comunità e Unione
Queste convenzioni non devono essere confuse con gli accordi di cui agli artt. 24 e 38 TUE,
ovvero con gli accordi stipulati dalla Comunità europea, per esempio di associazione (art. 310 CE),
commerciali (art. 133 CE), di cooperazione allo sviluppo (art. 179 CE): essi sono esercizio di una
competenza delle istituzioni posta in essere sul piano delle relazioni internazionali con Stati terzi o
altre Organizzazioni internazionali. Tali accordi sono vincolanti, oltre che per l’Unione o la
Comunità, anche per gli Stati membri (secondo un modello normativo collaudato - nel primo
"pilastro" - dall’art. 300.7 CE). L’art. 24 TUE tiene peraltro conto della possibilità che il
rappresentante di uno Stato membro dichiari, in sede di Consiglio, che il proprio Paese, per
assumere gli impegni relativi all’accordo in questione, «deve conformarsi alle prescrizioni della
propria procedura costituzionale», ma si consente ugualmente agli altri Stati membri di «convenire
che l’accordo si applichi a titolo provvisorio nei loro confronti».
3.4. Gli atti atipici
Le istituzioni comunitarie hanno sempre manifestato l'attitudine ad adottare una variegata
quantità di atti normativi, detti atipici perché non nominati dalla norma sulle fonti (l'art. 249 CE,
produttivi di effetti giuridici fra i più vari e dalle denominazioni più diverse: programmi, piani,
risoluzioni, ecc.
Nella prima prassi applicativa del Trattato di Maastricht tale attitudine si è riprodotta anche
nell'Unione tramite l’adozione di strumenti normativi ivi non previsti, il cui utilizzo non è tuttavia
escluso nè incompatibile con lo spirito del Trattato nella misura in cui esso stesso invita gli Stati a
promuovere, «nella forma e secondo le procedure appropriate (…), la cooperazione finalizzata al
conseguimento degli obiettivi dell’Unione» (art. 34.2 TUE). Sono così stati approvati dal Consiglio
numerosi programmi, orientamenti, risoluzioni, raccomandazioni, dichiarazioni, relazioni,
valutazioni, ecc. - tutti atti privi di portata giuridica vincolante - con effetti giuridici vincolanti nei
limiti dei rapporti interorganici. Il proliferare di questi strumenti è probabilmente da ascrivere alla
loro duttilità e flessibilità nel senso che essi non esigono una trasposizione puntuale negli
ordinamenti degli Stati membri ma consentono la massima libertà di apprezzamento sulla loro
incidenza interna. Inoltre, poiché come ricordato sono stati di utilizzo diffuso già negli ambiti della
cooperazione intergovernativa precedenti all’entrata in vigore del Trattato di Unione, presentano da
questo punto di vista il vantaggio della familiarità. Si tratta insomma in gran parte di un vasto
“materiale” giuridico della cui natura si può dibattere in termini di soft law.
3.5. Il ruolo della Corte di Giustizia in relazione all'atttività normativa di Comunità e
Unione
La "cartina al tornasole" di questa diversa organizzazione della funzione normativa è ben
rappresentata dal ruolo assegnato alla Corte di Giustizia. Esso si informa, infatti, a un quadruplice
registro: alle procedure generali stabilite dal Trattato CE a partire dall'art. 225 - che fanno della
Corte l'unica giurisdizione competente a determinare l'applicazione e l'interpretazione del diritto
comunitario (art. 220 CE) - si affiancano procedure speciali per il diritto derivato adottato in tema di
«spazio di libertà, sicurezza e giustizia», a propria volta diversificate a seconda che si tratti di
apprezzare una questione in materia di visti, asilo e immigrazione (art. 68 CE) ovvero in materia di
cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia (art. 35 TUE). Infine alla Corte è sottratta la
conoscenza delle disposizioni assunte nel quadro del secondo "pilastro".
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