MESSA CRISMALE 2009

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MESSA CRISMALE 2009 (clero)
A 50 ANNI DALL’ANNUNCIO
DEL CONCILIO VATICANO II
A colloquio con Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI
Novara / Cattedrale, Messa Crismale, 9 aprile 2009
Saluto tutti voi che partecipate a questa singolare celebrazione del mattino
del Giovedì Santo. Vedo presenti numerosi ragazzi, accompagnati dai loro
Sacerdoti. Sono sicuro che questo momento è ricolmo di grazia per il loro
cammino. Ma vedo in particolare voi Sacerdoti, provenienti da tutte le parti della
Diocesi. Come ho già fatto venendo nei Vicariati per il Ritiro quaresimale, con
particolare intensità esprimo a ciascuno di voi Sacerdoti la mia gratitudine.
L’apostolo Paolo ci ha aiutati a comprendere che il nostro ministero è bellissimo
e appassionante. E questa bellezza convive con le difficoltà, talvolta le delusioni
e perfino gli abbandoni della vita cristiana. Ma anche noi, come Paolo,
possiamo dire: “Tutto posso in Colui che mi dà forza”; mentre abbiamo motivo
per dire con lui alle nostre comunità: “Avete fatto bene tuttavia a prendere parte
alla nostra tribolazione” (Fil 4,14).
La santa Messa Crismale è una celebrazione che pone in primo piano
l’unità della Chiesa, la sua comunione interna. Attraverso la benedizione degli
olii essa fa emergere con evidenza la natura sacramentale della Chiesa.
Volendo che questa celebrazione avvenga per tutti solo in Cattedrale, con
l’intero presbiterio unità attorno al Vescovo, ricorda che “nelle singole comunità
locali dei fedeli rendono, per così dire, presente il Vescovo, cui sono uniti con
animo fiducioso e grande, condividendo in parte le sue funzioni e la sua
sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana” (LG, 28/335). In tal modo
“i Sacerdoti rendono visibile la Chiesa universale e lavorano efficacemente
all’edificazione di tutto il corpo di Cristo. Sempre intenti al bene dei figli di Dio,
cerchino di portare il loro contributo al lavoro pastorale di tutta la Diocesi, anzi,
di tutta la Chiesa” (id.).
Il significato ecclesiologico e sacramentale di questa celebrazione mi
suggerisce di dare evidenza, quest’anno, a quell’avvenimento rilevante per la
Chiesa universale e per la nostra Chiesa particolare, che fu il Concilio Vaticano
II. Venne annunciato da Giovanni XXIII esattamente cinquant’anni fa.
1
Ripensarlo in questo Giovedì Santo è un modo di dire a noi stessi che ne
dobbiamo diventare sempre più familiari. E poi che, attraverso di noi, la
consonanza con il Concilio venga fatta maturare nelle nostre comunità. In
questi cinquant’anni ben quattro Papi sono stati straordinariamente coinvolti nel
Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII ne è stato coinvolto perché a lui venne
l’ispirazione e fu lui a guidarne i lavori dall’11 ottobre all’11 dicembre 1962.
Giovanni XXIII: i sentimenti, il programma
È bello trovare, nelle parole di questo Papa, la confessione dei sentimenti
da lui sperimentati nel giorno dell’annuncio. A san Paolo fuori le mura disse ai
Cardinali presenti:
“Pronuncio davanti a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme
con umile risolutezza, il nome e la proposta di celebrare un Concilio ecumenico per
la Chiesa universale”.
Ecco: commozione e risolutezza; un Papa sensibile, un Papa coraggioso.
Il giorno dell’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, riemergono ancora i
sentimenti e, nel medesimo tempo, emerge un programma di lavoro “molto
esigente”. Disse:
“Il Concilio vuole trasmettere pura ed integra la dottrina senza attenuazioni o
travisamenti. Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso,
come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre
volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… È necessario che
questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia
approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo.
Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra
veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate,
conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”1.
***
Riprendendo questo testo nel 2005, quarantesimo dalla conclusione del
Concilio, Benedetto XVI lo ritiene “inequivocabile” e invita a considerare due
esigenze che emergono dall’ “impegno di esprimere in modo nuovo una
determinata verità”. La prima: occorre “una nuova riflessione su di essa e un
nuovo rapporto vitale con essa”. La seconda è collegata al fatto che in ogni
caso si tratta del mistero e della vita di fede: “La riflessione sulla fede esige
anche che sia viva questa fede”. Se si tiene veramente conto di questo, si
constata che il programma proposto da Giovanni XXIII “era estremamente
esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica”.
1
S. Oec. Conc. Vat. II Costitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865.
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Benedetto XVI aggiunge anche una valutazione di come sono andate le
cose sull’arco di quarant’anni: “Ovunque questa interpretazione ha guidato la
recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi”.
Gli sembra anche che “il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse
apparire nell’agitazione degli anni attorno al 1968. Ora vediamo che il seme
buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la
nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio”.
Paolo VI: la centralità di Cristo e l’attenzione all’uomo
Se Giovanni XXIII ha indetto il Concilio, Paolo VI ne fu coinvolto come
timoniere della nave della Chiesa, portandolo a termine e poi affrontando il
mare aperto degli anni seguenti il Concilio, fino al 1978. Il giorno in cui iniziò il
ministero di Pietro fece riferimento al Concilio che avrebbe ripreso i lavori
qualche mese dopo. Disse:
“Chiediamo a Dio che questo avvenimento confermi nella Chiesa la fede, ne
rinfranchi le energie morali, ne ringiovanisca e ne adatti ai bisogni dei tempi le
forme”.
***
Quando poi, il 29 settembre 1963, iniziò il secondo periodo dei lavori
conciliari, affermò con grande passione quale cura si dovesse dare perché il
Signore Gesù Cristo fosse assolutamente al centro della Chiesa, e dunque
anche dell’adesione conciliare. Si espresse così:
“Da dove prenderà l’avvio, venerabili Fratelli, il nostro cammino? E poi che via
si dovrà seguire, se più che alle ragioni appena esposte guardiamo alle leggi divine,
alle quali si dovrà obbedire? Infine, quale traguardo si dovrà prestabilire al nostro
percorso?”. Rispose così: “Queste tre domande, che all’intelletto sono così
elementari ma sono della massima gravità, hanno un’unica risposta, che abbiamo
ritenuto di doverci ribadire in quest’ora solenne e in quest’assemblea e proclamare al
mondo intero che cioè Cristo, diciamo Cristo, è il nostro principio, Cristo è la nostra
guida e la nostra via, Cristo è la nostra speranza e la nostra meta”.
Viene da dire che questo Papa, che aveva preso il nome di Paolo, proprio
come l’apostolo era letteralmente bruciato dall’amore per Cristo. Era questo
amore che doveva abitare il cuore di tutta la Chiesa e a questo doveva
condurre il Concilio.
***
In quel primo giorno nel quale toccò a lui presiedere il Concilio, illustrò la
centralità di Cristo anche facendo riferimento attonito al grande mosaico che si
può ammirare nell’abside della basilica di san Paolo fuori le mura. Cristo rifulge
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nella sua grandiosa maestà di Pantokrator. Vi è rappresentato anche un Papa,
Onorio III. Ma in che modo?
“Quel Pontefice – notò Paolo VI – di proporzioni minuscole e con il corpo
annichilito e prostrato a terra, bacia i piedi di Cristo, che, dominando con la mole
gigantesca, ammantato di maestà come un regale maestro, presiede e benedice la
moltitudine radunata nella Basilica, che è la Chiesa. E questa scena ci sembra
essere riprodotta, non già in un’immagine dipinta sul muro con linee e colori, ma
reale. In questa nostra assemblea, che riconosce Cristo come principio e sorgente
da cui provengono la redenzione umana e la Chiesa; che similmente riconosce la
Chiesa come emanazione terrestre e misteriosa e prolungamento dello stesso
Cristo”.
Ecco: questo è il modo di pensare la Chiesa. E questo è l’animus con il
quale esercitare il ministero nella chiesa.
***
Nel discorso conclusivo del 7 dicembre 1965, Paolo VI, esaminando il
significato religioso del Concilio, sottolineò che esso era stato “vivamente
interessato dallo studio del mondo moderno”.
“Non mai come in questa occasione – disse – la Chiesa ha sentito il bisogno di
conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la
società circostante. Sì, la Chiesa del Concilio si è assai occupata dell’uomo quale
oggi in realtà si presenta. L’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé che… osa dirsi
principio e ragione di ogni realtà. L’uomo fenomenico…; l’uomo tragico…; l’uomo
infelice di sé…; l’uomo pronto a recitare qualsiasi parte; l’uomo cultore della sola
realtà scientifica; l’uomo che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende
qualcosa; l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia…; l’uomo individualista e
l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire;
l’uomo peccatore e l’uomo santo. L’umanesimo laico ha, in certo senso, sfidato il
Concilio. La religione di Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione
dell’uomo che si fa Dio”.
***
Nel dicembre 2005 Benedetto XVI commentò questo discorso svolgendo
un’ampia analisi storica del rapporto tra la Chiesa e l’età moderna. Ricordava
che “si erano formati tre cerchi di domande alle quali dal Concilio si attendeva
una risposta”. Innanzitutto, “occorreva definire in modo nuovo la relazione tra
«fede e scienze moderne»; in secondo luogo, «il rapporto tra Chiesa e Stato
moderno»; in terzo luogo, il rapporto tra fede cristiana e religione del mondo”.
Aggiungeva che si tratta di temi di grande portata e che
“in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva
emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era
manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni
tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la
continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione”.
Concludeva dicendo che “è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a
livelli diversi che consiste la natura della riforma”.
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Mi sembra di trovare l’affermazione di questa natura di riforma della
Chiesa in ciò che Paolo VI, poco più di un mese prima della conclusione del
Concilio, disse rivolgendosi ai Padri:
“Perché siete accorsi alla convocazione di questo Concilio ecumenico? Per
sentir vivere la Chiesa, anzi per farla più intensamente vivere, per scoprire non già gli
anni della sua vecchiaia, ma la giovanile energia della sua perenne vitalità, per
ristabilire fra il tempo e l’opera di Cristo, la Chiesa, un rapporto nuovo, che non
storicizza, non relativizza alle metamorfosi della cultura profana la natura della
Chiesa sempre uguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e l’autentica
tradizione la perfezionò, ma la rende meglio idonea a svolgere nelle rinnovate
condizioni dell’umana società la sua benefica missione? Per questo siete venuti”.
Ecco a che cosa noi ci dobbiamo instancabilmente dedicare anche nella
fase storica nella quale ci troviamo, all’inizio del ventunesimo secolo: far più
intensamente vivere la Chiesa per ristabilire un rapporto nuovo tra l’opera di
Cristo e il cammino dell’uomo. Questa è la sua e la nostra missione.
Giovanni Paolo II: il valore e lo smalto dei testi del Concilio
Lascio la conclusione a Giovanni Paolo II. Nel primo radiomessaggio del
17 ottobre 1978, Giovanni Paolo II parlò del Concilio come di una
“pietra miliare nella storia bimillenaria della Chiesa” e ricordò che occorre “mettersi in
sintonia con il Concilio per attuare praticamente quel che esso ha enunciato”.
Nella Lettera Apostolica “Tertio millennio adveniente” del 1994, mentre
iniziava la preparazione al Giubileo del duemila, invitava a interrogarsi sulla
“ricezione del Concilio”, “questo grande dono dello Spirito alla Chiesa sul finire
del secondo millennio” (n. 36). Poneva quattro domande: sulla Parola di Dio,
sulla liturgia, sull’ecclesiologia della comunione, sullo stile del rapporto tra
Chiesa e mondo.
E infine, nella Lettera Apostolica “Novo millennio ineunte” ha scritto che
“a mano a mano che passano gli anni, quei testi non perdono il loro valore né il loro
smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano
conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del Magistero, all’interno
della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di
additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficato nel secolo
XX: in essa ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che
si apre”.
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Nella “Lettera” recentemente inviata da Benedetto XVI ai Vescovi il
Concilio sta in primo piano. Si chiede l’accettazione di esso e del magistero
post-conciliare dei Papi: “Non si può congelare l’autorità magisteriale della
Chiesa all’anno 1962”. Si chiede, nel medesimo tempo, di tenere conto che “il
Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della chiesa. Chi vuole essere
obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e
non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.
La strada indicata dal Papa sarà la nostra.
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