Documento su Dio Mio caro Dio, ti chiamo a rispondere sulle cose che hai rivelato e prescritto. Ora che anche il credente ravvisa dubbi sulla Tua veridicità. Tanto che nel suo intimo accoglie il proficuo e scarta l’iniquo. Caro mio Dio, non sono un inquisitore dell’Aldilà, giacché le incongruenze che ti addebito nascono dalla tua stessa Parola. E dunque non potrai etichettarmi di ateismo, perché ateo non sono, né credente di altre religioni. Insigne Dio, so già che tacerai. Sappi, però, che la ragione è in grado di giudicarti sulle umane cose che hai pronunciato. E da tali sostanze sensibili siamo in grado di palpare l’essenza della tua metafisica, sino a toccar con mano i misteri divini un tempo imperscrutabili. Così da comprendere se la tua è muta presenza o semplicemente assenza. 1. Il Decalogo è concepito sulla proibizione Otto comandamenti si fondano sulla logica del divieto, mentre nei restanti due Iddio punisce chi non presta obbedienza. Tale codice negativo è presente anche nel precetto che si ascrive a Dio. Il Signore, nel temere le altre divinità (non avrai altri dèi), osteggia i concorrenti (non ti prostrerai a loro) e minaccia gli uomini (un Dio geloso, che punisce) mostrando implicitamente tutta la sua debolezza. Dove non c’è il diniego c’è tuttavia l’intimazione (onora il padre e la madre): il verbo “onora” è all’imperativo. Quando invece la relazione tra genitori e figli si muove nella saggezza educativa, fiorisce spontaneo il «volersi bene l’un l’altro». Cosicché, l’imperioso “onora” scompare. Ma anche questo comandamento ha un risvolto crudele: chi maledice il padre e la madre sia messo a morte (Mc.7-10). Tra l’altro, Dio non si rende conto che la maleducazione dei figli è il frutto della cattiva educazione da parte dei genitori, in un continuo replicarsi dei comportamenti in cui Dio non vede il punto di fuga per il mutamento. E non vedendolo, “comanda” e “condanna”. Fino a giustificare il brutale castigo come strumento di correzione. Dunque, la primissima legge dei Comandamenti è nell’incurabilità delle malattie sociali. Il resto discende a catena. Non a caso, al di fuori dei precetti passivi, non è previsto alcun percorso propositivo: non esiste, cioè, una scienza della felicità nelle disposizioni testamentarie. Le uniche scienze sociali riguardano gli spiriti indemoniati scacciabili con la preghiera (Mc.929). Il tempo ha inficiato il primato della Tavola delle Leggi. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è, ad esempio, più avanzata del Decalogo, perché apre ai diritti anziché ingiungere di «non fare» ciò che «non va fatto». Più avanzata è addirittura la nostra Carta sui diritti degli animali. Eppure, una dottrina che pretenda d’essere veramente divina dovrebbe svelare le regole della felicità. E invece niente, niente di niente. Va detto, tuttavia, che la visione di Dio espressa nel primo Testamento è in contrasto con quella del secondo. Che il giudizio umano sia mutabile è più che lecito, ma che il pensiero di Dio non sia sempre lo stesso appare incongruente. Pure Gesù se ne accorse e, per eludere il divario tra le due dottrine - con scaltrezza diplomatica –, usò l’espressione “non per abolire, ma per dare compimento”. Pur abolendo e pur cambiando. Per nostra fortuna, anche Dio si è evoluto: da un Dio-padre che entra con violenza nella storia a un Dio-figlio che predica la pace tra gli uomini. In ogni modo, quelle prime Leggi – usando l’espediente «obbedire a Dio per ubbidire alle leggi» – resero l’umanità un po’ meno guerriera. Anche se in realtà furono i padri fondatori della Bibbia che, proclamandosi ministri di Dio, inserirono nelle sacre carte norme più benigne delle precedenti. La festività del sabato, ad esempio, può essere considerata la prima conquista sindacale della storia con l’espediente del riposo consacrato alle fatiche del Signore. Come se l’Eterno avesse bisogno di riposarsi. Ebbene, il vero Dio, il Dio delle idee, sta nella filosofia morale dei primi sacerdoti anonimi, che hanno fatto della metafisica uno splendido strumento di civilizzazione. Servendosi di Dio. Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it II 2. La scelta della povertà è stata una svista Provate a dire a un mendicante: Beato lei! Beato lei che è povero! Io l’ho fatto. Subito dopo posai due monete sul suo piattino. Egli mi guardò come frastornato. E io, quasi a precisare: sono parole di Gesù. O forse lei è ateo? Il mendicante mi guardò ancor più sconcertato, poi rovesciò per terra le monete, sbraitando contro di me. “Beati voi poveri”, recita il secondo Testamento. In verità, Gesù non è riuscito a concepire la ricchezza come valore positivo. Inimmaginabile a quell’epoca, anche dal figlio di Dio. Oggi, invece, è fin troppo evidente che la felicità possa realizzarsi solo in un quadro di sana ricchezza che comprenda i beni materiali e le relazioni affettive. Sull’onda della sacrale povertà, il punto di vista di Cristo si è spinto persino a glorificare il «povero di spirito». In realtà, chi estrinseca una candida e autentica umiltà possiede una grande ricchezza di spirito. Se “la bocca parla dalla pienezza del cuore” significa che quella pienezza contiene una pregiata qualità. Ragion per cui non c’è nulla che appartenga al concetto di povero. L’errore logico commesso da Cristo (e non solo da Lui) sta nel presumere che la bontà è preesistente, per cui è sufficiente aprire l’animo per manifestarla. Confondendo potenzialità con effettività. Come la pietà non è un sentimento innato, così l’angelico spirito non è un impulso naturale, bensì mediato e forgiato dalla ragione: quindi, tutto da creare. Non solo. Se proviamo a congiungere la doppia povertà (materiale e spirituale), l’umiltà del diseredato non è altro che un portamento per suscitare l’altrui pietà. Una movenza, che, pur apparendo benigna e generosa, pur facendo vibrare le corde dell’emozione, non contiene mirabili valori spirituali. Perché plasmata sullo stato della costrizione e sul bisogno di ricevere. Perché, allora, Cristo ha esaltato la povertà? Indubbiamente non c’è un solo fattore, ma tra questi c’è anche la ricompensa del consenso. La folla che seguiva Cristo era soprattutto di “zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati”. E la folla dei poveri invalidi bisognava pure appagarla con l’elogio dei beati. Anche se poi nessuno dei “venerandi poveri” ha mosso un dito contro la condanna a morte. Il Dr. Cristo, muovendosi esclusivamente nel recinto della povertà, ha finito per svigorire persino la nobile carità: l’idea che il povero deve restar sempre povero (la benedetta povertà) infiacchisce l’atto della pietà in un continuo replicarsi senza soluzione. La venerazione di questo modello ha svilito il dono amorevole, che in quanto tale è libero dalla catena della necessità: una delizia d’amore magica e incantevole, pressoché inconcepibile nella tragedia dell’amore cristiano fatta di espiazione e di pene, che aspira ad una vita che si fa sacrificio di sé. O Dio, perché vuoi vederci prostrati sotto questo macigno di tristezza? Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it III Pensi che nella gioia non abbiamo più bisogno te? Oppure pensi che in quella condizione nascono bisogni che tu non sai più soddisfare? In ogni caso, va anche detto che l’elogio del povero ha reso meno amara la stessa povertà. La minaccia dell’inferno ha fatto sì che una piccola parte della ricchezza fosse destinata a fini umanitari, con la leva del perdono/condono che - come sempre - fa bene soprattutto a chi fa male. 3. L’amore cristiano è afflitto e malinconico Nella scala dell'amore, quello di Cristo non sta nel gradino più alto. Egli ha tratto l’ispirazione della sua teoria dalla logica comportamentale delle donne. Quell’invito, apparentemente rivoluzionario, a porgere l’altra guancia è stato preso dalla loro pratica quotidiana. Tuttavia, proprio le donne, nell’assecondare con santa pazienza il marito arrogante, hanno dimostrato che quel nemico, benché amato, quasi mai si trasforma in soggetto amoroso. Quel gesto di compassione misericordiosa acquieta sì i contrasti, ma nella direzione del placare, non del mutare. Per cui, terminato l’armistizio, rispuntano le solite contraddizioni. Di conseguenza, quell’atto di donazione sacrificale, pur auspicando un incantesimo di tenerezza, non libera né può liberare le energie di un amore autentico. Tra l’altro, questa prassi d’amore non può essere esportata dalla relazione interna alle relazioni esterne perché i significati dei due rapporti sono dissimili, sia per finalità che per legame. Gesù, in verità, era convinto che il “volersi bene” potesse nascere in qualsiasi circostanza. Cosa del tutto plausibile, poiché si trattava di un amore che non richiede gioia e piacevolezza. Come quello che spesso legava le mogli ai propri mariti. Peccato, però, che quelle donne non abbiano mai riferito a Dio che il loro amore non era incantevole. Ma forse neanche loro lo sapevano e nel dubbio pensavano a un’innata frigidità femminile. Sfociata, poi, nell’amore decarnalizzato. L'amore cristiano, essendo pertinente al perdono e non alla felicità, non riesce ad emanare profumi di gioia. La sua funzione lo ha reso un mezzo di sopportazione della sofferenza: come l’amore della “Madonna Addolorata” o di Giobbe che ha sempre bisogno dello scenario della iniquità o della tribolazione per santificarsi. Strano a dirsi, ma ciò che manca alla proposta di Gesù, ossia di colui che ha postulato l'amore come verbo onnipresente, è proprio la forza sublime e seducente del desiderio. Di quel desiderio che diviene intreccio gioioso dei tanti benefici collettivi. Come in ogni pensiero alto, anche nella filosofia del cristianesimo sono presenti concetti mirabili. Le parole sant'Agostino, ad esempio: ama e fa’ ciò che vuoi. Ma è dalla logicità di tutti i contenuti che può desumersi se una dottrina è immune da contraddizioni e perciò divinamente ammissibile. Dentro il tema dell’amore, anche il concetto “ama il prossimo tuo come te stesso” non è perfettamente esatto. Non tutti amano se stessi; anzi, molti Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it IV si odiano finendo per odiare anche gli altri. È dunque necessario amarsi per poter amare, per spiccare il volo verso il prossimo. Altrimenti, pur girando l’elica della volontà, l’effetto amore non decolla. Ciò nondimeno, quando Cristo ha estremizzato la sua proposta - amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori - dietro quella frase commovente, purtroppo, si nasconde un atto improduttivo. So già che confutare questo concetto scatenerà lo sdegno dei commiserevoli. Ma è lo sdegno della finzione, perché la forza dell’amore è infruttuosa di fronte all’aggressività criminale o alla cattiveria premeditata. La potenza dell’amore è identica a quella del male, giacché la superiorità non sta nella massa d’urto ma nel contenuto. Migliaia e migliaia di anni di «prove storiche» equivalgono alle «dimostrazioni certe» del metodo galileiano. E i commiserevoli lo sanno. Perché fingere allora? Non è ingannevole sedurre con ammalianti miraggi che cagionano solo illusioni? D’altronde, questi suggestivi paradossi affiorano ogni volta che si passa da un estremo all’altro, da “sia messo a morte” ad “amare il nemico”: gli opposti estremismi di Dio. Ecco, allora, che analizzando l’amore delle donne si nota chiaramente che esse si sono maritate anche con i criminali incalliti, che in famiglia non sono certo angelici. Ecco allora come comprendere il motivo del doppio massimalismo divino, tra il primo e il secondo Testamento. Prima al maschile e poi al femminile. Prima la feroce prepotenza e poi la sottomissione totale. Va anche detto, però, che quando imperava la legge della vendetta e del contrappasso, la proposta dell’amore votivo ha rappresentato uno straordinario passo in avanti. Anche se le donne già lo esternavano come azione, nessuno mai lo aveva espresso sotto forma di teoria. Tuttavia, a venti secoli di distanza, il femminismo ha reclamato un amore «sincero tra uguali», un amore che né il Dio cristiano né quello musulmano avevano ipotizzato, ancorati, com’erano al vecchio modello di madre. Il Corano, infatti, ragiona con lo stesso pensiero biblico: “Sarai sotto la potestà del marito ed egli ti dominerà”. Un concetto considerato legittimo anche dalle donne di allora. Ed è questa l’unica mano femminile che ha agito sulla Bibbia succhiandone il latte passionale. 4. Dio/Amore è teologicamente errato L'amore è il più sublime dei valori umani. Ma Dio, in quanto Assoluto, trascende ogni valore relativo. Finanche il più eccelso. Cristo, invece, nel tentativo di conciliare il finito e l’Infinito, ha unito la vetta della nostra morale al concetto del Metafisico: Dio=amore. Un'incarnazione che, per quanto avvincente, colloca Dio nella sfera del naturale. Quando l'amore raggiunge la sua massima espressione, non affiora la «divina perfezione», bensì l'armonia delle relazioni umane. In altre parole, non contiene alcun segno soprannaturale. Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it V Dunque, Dio=amore, pur plasmando un’immagine spettacolare, è un’equivalenza infondata. Una vera e propria eresia teologica. Tra l’altro, l’idea della palpabilità di Dio – la sua discesa dall’alto – è un’estensione della materialità degli dèi. Rientra in quella visione precedentemente sconfessata e desacralizzata, che, però, riproposta tangibilmente, è apparsa teoricamente divina. L’aggettivo/dio, come sinonimo di magnificenza, è legittimo. Non è follia pretendere il massimo dell’arte, il massimo della conoscenza, il massimo dell’amore. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’Infinito, giacché il nostro momento “più grandioso” non sfiora neppure lontanamente l’essenza innaturale dell’Assoluto. Sebbene appaia paradossale, Jahvé – col suo definirsi “amore” – accredita l’ateismo per la miseria della sua metafisica. Ma se Dio sovrasta il relativo, a quale domanda rispondeva quel nostro desiderio di razionalità di Dio? Sicuramente all’anelito romantico di possedere un Dio/bontà con cui dialogare personalmente. Perché ci sia un qualcuno ad indicarci il «trattato generale delle certezze». E poiché nessun umano può offrire sicurezze, Dio è il primo medicamento balsamico. Costruito in carne e ossa, oltre che in spirito, per le nostre necessità. Di contro, la divinizzazione dell’amore ha reso utopistica la felicità umana, avendo posto l’amore su un punto irraggiungibile. Con la conseguenza di aver cagionato una doppia limitatezza: agli uomini e a Dio. A latere di questo relativismo teologico, c’è un altro elemento che mette in disaccordo il concetto di Dio con il monoteismo puro: il Dio/trinomio (padre/figliolo/spirito santo) è un ibrido di politeismo associato e clonato. È un passo in avanti, se rapportato alla peculiarità umana degli dei, ma ancora tanto lontano sulla via dell’Assoluto. Va anche detto, però, che attraverso l'identità Dio/amore gli uomini hanno ricevuto l'intimazione "divina" di amare. Tuttavia, la prassi del sentimento non può essere ordinata per legge. Laica o religiosa che sia. Se è vero che dalla formazione discende l’emozione, Dio, invece, percorre la strada inversa. Interviene «dopo l’accaduto» tentando di sanare ciò che è quasi insanabile. L'Altissimo ignora il momento formativo, ragion per cui c’è il vuoto pedagogico nella sua Parola. Nonostante ciò, questa volta l’ingiunzione si riferisce all’amore e non ai divieti; stando nel nuovo e non più nel vecchio Testamento. Ma rimane ancora un comando. E quindi permane nella logica del comando. 5. La cosmologia di Dio non collima con la scienza La logica del creato e l’ordine dell’universo non corrispondono alla descrizione del suo Creatore. Neppure la geometria della Terra. Ma se Dio è verità, perché l’ha snaturata? E soprattutto, qual era il sottostante disegno di Dio? Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it VI In realtà, Dio aveva assoluto bisogno di quella Genesi per accreditarsi come divinità. Se avesse spiegato la storia dell’universo con l’evoluzione, pur avocando a sé il punto di partenza, avrebbe perso il titolo di “Creatore del cielo e della terra”. Di conseguenza, avrebbe ottenuto solo qualche «osanna» e un po’ di «reverenza». L’accreditamento di Dio girava «innanzitutto» sul fulcro del creato, per cui bisognava costruire una creazione nella quale era necessario un costruttore. Qui sta il retroscena della cicogna biblica: l’uso politico della scienza prima ancora dell’inesattezza scientifica. La creazione ad uso e beneficio del suo Creatore. Lo stesso discorso vale per l’alleanza con il popolo d’Israele, che ha posto Gerusalemme al centro del cosmo biblico. Una rappresentazione anch’essa errata, ma utile come epicentro teologico per assegnare agli Ebrei un ruolo sacrale ed eletto. D’altro canto, era Dio alla ricerca di un popolo che lo potesse adorare, non era quel popolo alla ricerca di un Dio. E a questo popolo bisognava assegnargli quantomeno una collocazione geografica privilegiata. Per poi raccogliere la dovuta devozione. Dunque, a prescindere che Dio fosse o non fosse onnisciente, ci troviamo di fronte a un impianto cosmologico creato a tavolino. Una forzatura tutta politica, nell’alta politica teologica. La bugia ha conseguito la gloria fino a quando la Parola di Dio era inoppugnabile perché non sottoponibile a prove, fin quando la scienza era un’opinione. Poi, anche quest’artifizio si è rivelato effimero. A Dio, adesso, è rimasto solo un piccolo ruolo nella prima essenza della fluttuazione. In quel nulla che diviene contenuto, in quel soffiare che muove senza toccare e senza guidare. Tuttavia, un inizio senza un iniziante appare ancor più affascinante rispetto al solito iniziatore che deve dar fuoco al propulsore. Perché escludere dalla scienza il paradossale se già la quantistica è antiintuitiva? E poi, se l’Infinito è ascentifico, appare più coerente ipotizzare che non ci sia legame con la natura. Un salto che rompe ogni affinità con il logico e il razionale. Un infinito coerentemente indefinibile, anziché un Dio moderatamente finito, tutto logico e concepibile. In ogni modo, pur supponendo che Dio sia stato il creatore dell’universo, c’è un quesito che lo riguarda ad personam: il punto di rottura tra il nulla e l’inizio del finito. Perché Dio ha interrotto l’eterno nulla? Perché l’immutabile Dio, a un certo punto, ha cambiato idea? Qualunque sia la risposta si è aperto un punto finito nell’Infinito, introducendo un prima e un dopo. Uno strappo nell’immutabile Assoluto. 6. L’anima è un finito che diviene infinito L’anima assomiglia a una semiretta: ha origine da un punto finito e datato e poi diviene immortale. Un esemplare di «eterno futuro» che nasce dal concreto, riproducibile a catena e diverso in ogni singolarità. Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it VII Non è la filiera dell’anima, ma il filo conduttore tratto dal magistero cattolico secondo cui “l’anima è creata da Dio ex nihilo, immediatamente al concepimento. Non preesiste ab æterno, ma diviene eterna successivamente alla sua origine”. Dunque, se in un punto spaziale e temporale potesse sorgere un eterno futuro, anche il concetto di Infinito entrerebbe in crisi. Per almeno due motivi: l’Infinito perderebbe unicità e si aprirebbe una biforcazione tra l’eterno del “fu” e l’eterno del “sarà”. O meglio, ci sarebbero due eternità parallele: la prima - di Dio - perenne nel passato e nel futuro e la seconda – delle tante anime – perenni nel futuro post-concepimento. Di sicuro, una favola sull’Infinito. Ma l’anomalia dell’anima non finisce qui. Pur sorgendo libera, col rapporto sponsale diviene vincolata. L’indissolubilità del matrimonio impone l’eterno gemellaggio delle due anime, che magari hanno convissuto poco felicemente su questa terra. Di conseguenza, se c’è stato errore – umanamente sempre possibile -, il presente trascina con sé il futuro; le circostanze mortali predominano sull’immortale. Altro che sventura, sarebbe una perpetua sciagura! Quando nella Bibbia affiorano incongruenze (brani di difficile interpretazione) giunge in soccorso l’Esegesi, un vero e proprio smacchiatore delle improprietà bibliche, che introduce significati alle assenze e insinua concetti allegorici negli errori. Facendo diventare esatto ciò che è esplicitamente sbagliato. Ma se è vero che l'Onnisciente conosce il futuro, Egli, al momento dell’ispirazione già aveva cognizione se la Scrittura interpretava correttamente il suo pensiero. Configurerebbe un doppio errore di Dio supporre che Egli abbia tralasciato di emendare un testo inesatto sapendolo tale. D’altro canto, è anche il linguaggio della parabola che consente di attribuire molteplici significati, anche profondamente diversi da quelli che l’autore intende esprimere. Ma come tutti gli smacchiatori, anche l’Esegesi ha lasciato un alone sui passi che riguardano l’anima, imbrattandoli ancora di più. Qual è, dunque, il motivo di tanta attenzione per l’anima? L’adesione alla religione è motivata soprattutto dalla speranza nella vita dopo la morte: il Dio dei morti che agisce sulla mente dei vivi. E pur di assicurarsi il consenso, pur di lusingare la nostra angelica farfalla, l’umana fantasia ha svolazzato oltre l’inventiva di Dio. Nell’ispirato testo, infatti, l’affresco dell’anima è a malapena abbozzato. Tanto che neppure Dio sapeva cosa fosse. Eppure, a forza di guardare solo nell’aldilà, l’aldiquà è stato svuotato di portento. Al punto che la certezza più certa di Dio, la morte, fra meno di qualche secolo potrà morire. E allora ciò che è stato impossibile a Dio sarà possibile agli uomini. E allora, giunti al bivio, sarà l’anima immortale a perire. 7. Il peccato originale ha avuto origine da Dio Il movente del peccato originale è stato «il voler conoscere». Un desiderio che non è un peccato. Anzi. Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it VIII Ma se la morale di Dio è inoppugnabile e la storia del creato è veritiera, perché Dio ha proibito il sapere? Il verbo “temere” ricorre spesso nella Bibbia, nell’accezione dell’essere “timorati di Dio al cospetto di Dio”, perché Iddio reclamava una devozione fatta di soggezione. In questo caso, però, Egli temeva il sapere degli uomini avendo costruito il punto di vista divino su una cosmologia artificiosa. Cosicché, la non-verità dell’una (la scienza dell’universo) avrebbe tolto il coperchio anche all’altra (la verità di Dio). Sant’Agostino aveva perciò ragione di affermare che “Dio si conosce meglio nell'ignoranza”. In effetti, Dio, per tener sigillato il tesoro del suo sapere, aveva dichiarato imperscrutabile ogni verità della natura, così da rendere vano qualunque tentativo di conoscere. Se il sapere allontana da Dio, meglio il felicemente incolto, meglio l’esaltazione dell’ignoranza. Giacché la scalata alle grandi spiegazioni avrebbe condotto gli uomini a scoprire i veri segreti della natura, del tutto discordanti da quelli svelati da Dio. E dalla “natura creata” ai “misteri del Creatore” il passo è breve. Dunque, il vero peccato d’origine – quello occulto e primordiale – sta in Dio che, per impedire il riscontro sulla “verità svelata”, ha rovesciato la colpa sull’intera umanità con l’artificio di un falso peccato. Per giunta non espiabile. Ma c’è un’altra insensatezza commessa da Dio: il peccato di due antenati (se peccato era) non può ricadere sull’intera specie. Non è plausibile che uno sbaglio soggettivo diventi collettivo, non è accettabile il passaggio della responsabilità da una generazione all’altra. È una concezione tribale, rozza di certo, non dignitosa per Dio! Tra l’altro, se ragionassimo per assurdo, supponendo teologicamente legittimo il principio della colpa discendente e ascendente, questa si trasmetterebbe sino all’artefice dei due procreatori; ossia all’Essere supremo. Dobbiamo dunque supporre che si tratti di un lapsus divino. Malauguratamente per Dio, già nel Decalogo Egli riversa la colpa dei padri sulle novelle generazioni. E per divina ammissione lo ripete varie volte: un peccato reiterato. E allora, altro che lapsus divino! Qui siamo davanti a un vero e proprio lapsus freudiano. Or dunque, dov’è la magnificenza di questo Dio? Dov’è la sua natura divina? Aspettando il terzo Testamento Il natale di Cristo non è valso a rinnovare l'umanità. Non c’è stato alcun effetto salvifico. Se c’è, dov’è? Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it IX Forse, l’ultima tentazione del cristianesimo sarà il Terzo testamento. L’Antico è già vecchio, il Nuovo è diventato antico e ora occorre una più fresca novella. Con la venuta dello Spirito Santo (Gv.16-13) sarebbe possibile annunciare una morale più evoluta con cui superare le datate antinomie. Seguendo il principio del “non per abolire ma per dare compimento”, pur abolendo e pur modificando. D’altro canto, se il Padre e il Figliuolo hanno già rivelato, perché precludere la rivelazione allo Spirito Santo? Tra l’altro, l’oracolo è già stato profetato nel lascito di Cristo. E adesso cadrebbe a pennello. Purtroppo o per fortuna, questo fatato evento non appare credibile nel nostro tempo. Eppure, nelle segrete stanze, dove i cervelli sono svegli, qualcuno già ci sta pensando. Quelli che guardando oltre l’orizzonte hanno già avvistato il pendio della dottrina. Nel crinale del monte degli Ulivi. Addio mio vecchio Dio, porto a compimento questa missiva con una deduzione che affiora lampante: la Bibbia è un romanzo sconsacrato perché Dio è profano. Ma Dio, in realtà, non ha mai ingannato nessuno perché, pur stando nel retroscena, era anch’Egli un attore nella commedia della serietà teologica. Non è l’alibi ai sette peccati divini (racchiusi nei sette Sigilli dell’Apocalisse). Nella sala della regia, Dio non è mai entrato. Ci sono entrati, invece, in costume da sacerdote, gli intellettuali della filosofia morale, facendo della religione l’uccello messaggero che il vento della domanda ha fatto trasvolare sulla storia. Fino a quando un intellettuale organico, folgorato dal suo credo, è entrato in scena da attore a viso aperto. Lode a quei sacerdoti, lode a quei pensatori. Che altri ne giungano nel tempo di questo sonno. Mio povero Dio, tutto questo non lo comprenderai mai, convinto come sei di aver fatto qualcosa di grande. Ciò nondimeno, un altro Dio infranto non dimostra nulla contro l’Infinito. E dunque, la questione dell’Infinito resta. Ma è tutt’altra questione. E allora, che ne sarà di Dio? Che ne sarà di questo dio piccolo piccolo? Sia pietà per l’eroe, che il vento della storia sta già portando via. Dal fronte della Terra Nel 46milionesimo secolo dalla formazione del pianeta In quell’incasinata baia denominata Napoli Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it X Alfredo Alì [email protected] Non sono un docente, né uno scrittore, tantomeno un politico di professione. Semplicemente, uno spazzaturaio. I due universi Quello di Dio Un particolare dell’Universo: M51 Galassia Vortice Pubblicazione su EDIZIONE INTERNET 2005 Su internet www.utopia.it l’elenco delle 400 antinomie bibiche divise in 10 argomenti Sette contraddizioni in sette princìpi del cristianesimo - Utopia.it XI