Stefano Gatti 9

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Nona lettera del dottor Gianantonio Valli al signor Stefano Gatti
Gentile signor Gatti,
giuro di venire a Lei per l'ultima volta a discorrere della Testolina di Legno (ben altri sono
gli argomenti che ci stanno a cuore, a me come a Lei). Questa volta lo spunto mi è dato dalla
confusione che regna nell'intero cranio dell'Eroico Rotolante, non solo cioè nell'intelletto cosciente
– non lo definirei «razionale» – ma anche nei più oscuri recessi della memoria. La quale prima o
poi, Le assicuro, gli si risveglierà sulla base di circostanziate testimonianze di prima mano, magari
di quel «torvo nelle retrovie» che l'Incauto non ha ancora ben conosciuto. Concludo con
l'increscioso dovere di bacchettare spiritualmente – sottolineo, a scanso di equivoci: spiritualmente,
cioè senza il santo manganello – l'Imprudente.
In primo luogo mi compiaccio con lui per la tiritera, sapiente per quanto sempre stucchevole
– oh, il digrignare del Nostro! – sulla sceneggiata serotina milanese del 20 settembre, quella della
«Siria riscattata dagli antifascisti, dai compagni, dai democratici, dagli antiguerra autentici». Chissà
se «la Siria» ne verrà mai a conoscenza, e quale conforto ne trarrà! E che dramma, che perdita, in
caso contrario! Verosimilmente piccato per i più che blandi rilievi da me formulati sulla sua
persona, l'Innocente Fuorviato, adepto del turpiloquio fin dal mitico «ceffo» usato nei miei riguardi
e per finire al «sofisticato Gianantonio Valli» (sofisticato a me, pensi!, a me che sono il ritratto
dell'ingenuità, del candore, della semplicità! altro che la «prosa che mi onora di prendermi per
bersaglio», ma chi l'ha cercato? ma vada a quel paese!), si ritrae in un – falso – silenzio indignato:
«Ai due attempati avanguardisti, protagonisti della kermesse di Roma traboccante di fascisti, il nero
Pilato e il Valli dall'acconciatura hitleriana, che capeggiano questa campagna non rispondo». Oh
riluttante, oh sensibile, oh anima pia!
Puntualizzo: l'amico, l'eccezionale amico Pilato non era presente a Roma, non vedo quindi,
per lui, né «protagonismo» né «capeggiare». Per quanto riguarda me, Le assicuro che la mia innata
ritrosia non mi permette di capeggiare alcunché. Quanto alla mia «acconciatura hitleriana» il nostro
Führer und Reichskanzler portava la riga a destra, io invece a sinistra... a sinistra, per Dio! e allora
che nazi-acconciatura è, oltretutto senza baffetti chapliniani? Sul non essere poi, almeno finora, calvo
come Lei, signor Gatti, che dire? Scherzi di natura, senza mio merito, una situazione di cui non ho
mai menato vanto. Quanto alle «Brigate Nere di Rodolfo Graziani», altra topica del Rotolante,
come quella, ricorda?, del «Blut und Erde». Le nostre amate formazioni, che il Grimaldi ha il
sacrosanto diritto di giudicare in modo difforme dal mio – siamo pur sempre in democrazia! – si
sarebbero sicuramente risentite ad essere dette strumenti del Maresciallo – personaggio da me non
particolarmente stimato – e non di Sua Eccellenza il segretario del PFR Alessandro Pavolini.
Ma lasciamo tali miserie, veniamo al dunque di questa nona missiva. Per l'ultima volta, è
l'ultima lo giuro, devo però citarLe il Capobassotto (i neretti sono miei): «Del tutto sproporzionato
[sic], alla luce del mio modesto [o pudibondo Grimaldi, e ci credi anche!] ruolo di uno tra i tanti e
più autorevoli demistificatori dell'informazione di regime e dell'uso strumentale del sostegno alla
Siria, dell'antimperialismo e del [sic] antisionismo (con costoro [cioè, con i «nazifascisti»]
tralignato in razzistico antiebraismo), la virulenza degli attacchi contro la mia persona
(classicamente sul piano personale e mai degli argomenti), tipica della pubblicistica fascista da
novant'anni in qua, condotta dai residuati dei Battaglioni del duce battaglioni».
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Ha capito, caro Gatti? il Grimaldi cerca ancora – come del resto tutti gli illetterati, in
particolare di parte sinistra – di distinguere tra «antisionismo» ed «antiebraismo»! In questo
concordo pienamente con Lei e con l'intero Suo clan: non è possibile, né storicamente né
politicamente né ideologicamente né razionalmente (a prescindere da meri e più o meno vani
tatticismi entristi), scindere i due termini. Vale a dire che sionismo ed ebraismo, nonché, aggiungo,
giudaismo, coincidono, sono la medesima cosa. Articolata in valenze differenti quanto articolati
possono essere i punti di vista di uno stesso fenomeno. E mi cito, scusandomi per la lunghezza, da
Holocaustica religio:
● In realtà non riteniamo, al contrario di Gilad Atzmon, che sia possibile scindere l'ideologia giudaica dall'ideologia
"sionista", essendo quest'ultima null'altro che una specifica articolazione, un particolare ramo del tronco della prima. Il
sionismo è superfetazione moderna – quando pure sia possibile considerarlo separatamente dalla matrice giudaica –
peraltro meno pericolosa della matrice. Il vero problema – per i non-ebrei ma anche per gli ebrei, e insomma per l'umanità
tutta – non è infatti il sionismo "in sé e per sé" (laico), ma il giudaismo (religioso). La vera questione non è il nazionalismo,
più o meno limitato e per quanto violento, della Zionfrage, ma l'universalismo, per quanto «morbido», della Judenfrage.
Quanto ai termini golah, «esilio» e galut, «deportazione» o «proscrizione», il termine derivando dal verbo passivo
«essere cacciato», gli ebrei sparsi per il mondo – anzi tutti gli ebrei, compreso il loro «nocciolo duro», gli israeliani, pur
dotati di un territorio e di uno Stato – si considerano sempre degli esiliati dal territorio loro dato da Dio, e non parlano mai
di tefuzah, «dispersione», ma di «esilio». Il termine presuppone, infatti, per Israele non solo una patria e la prospettiva di
un ritorno in essa ma, scrive Ludwig Lewisohn, «la prova più alta e irrefutabile delle sue qualità e del suo destino extrastorici», della sua «oneness, singolarità», «uniqueness, unicità» ed «eternity, eternità» (II), di quelle doti che «contribuiranno a
salvare tutti gli uomini, ovunque siano, dai crimini dell'intolleranza, del nazionalismo bellicoso, della crudeltà e dell'odio
[...] Essere ebreo è essere amico dell'umanità, proclamatore di libertà e di pace» (I). Dalla caduta del Secondo Tempio,
ribadisce lo storico israeliano Yitzhak F. Baer, il popolo ebraico ha considerato il galut «the basic fact of its historical
existence, il fatto fondamentale della propria esistenza storica». Specchio dell'atteggiamento degli ebrei verso il loro destino e concetto centrale nello studio della loro storia, il galut trova, paradossalmente, l'acme e la soluzione nel sionismo.
La diaspora ed Eretz Israel – sottolinea Massimo Giuliani, riprendendo l'analisi sviluppata in particolare da Will
Herberg, direttore della sezione ricerca ed educazione della American Federation of Labor, e Stefano Levi Della Torre –
sono concetti non in contraddizione tra loro (come, aggiungiamo noi, non lo sono l'universalismo e l'individualismo,
branche di una stessa tenaglia a stritolare il mondo reale: i singoli gruppi, i popoli, le nazioni), ma «poli in tensione
dialettica tra loro, quasi due piatti di una bilancia» (Herberg): «Sion non è la patria, ossia la terra dell'origine, ma la terra
della promessa: essa sta all'inizio con Abramo e starà alla fine con l'età messianica, ma nel frattempo l'esistenza ebraica è
duale e in costante dialettica tra Sion e il galut», i quali due aspetti sono fuochi dell'ellisse «di un giudaismo nato
storicamente ed emblematicamente "nel deserto, tra Egitto e Canaan", e da sempre costituitosi in forma non concentrica ma
ellittica in quanto rotante attorno a due fuochi, la terra d'Israele e la diaspora».
Tale aspetto era già stato rilevato, mettendo in bocca a Balaam parole profetiche, da Giuseppe Flavio: «Fortunato
questo popolo cui Dio sta per dare in possesso beni innumerevoli e al quale accorda per sempre come alleata e guida la sua
provvidenza! Certo, non esiste razza umana su cui la vostra virtù e la vostra passione per le occupazioni più nobili e più
pure da crimine non vi concedano di essere superiori, ed è a figli più grandi ancora che lascerete tale eredità, poiché Dio ha
riguardi soltanto per voi tra gli uomini e a voi dà con dovizia di che diventare il popolo più fortunato sotto il sole [...] Voi
basterete al mondo fornendo ad ogni paese abitanti nati dalla vostra razza. Sii perciò fiero, esercito fortunato, di essere la
grande progenie di un unico antenato. Comunque, solo una piccola parte di voi abiterà la terra cananea; il mondo intero,
sappiatelo, si estende davanti a voi come un'abitazione eterna. La maggior parte di voi andrà a vivere nelle isole come sul
continente, più numerosi persino degli astri del cielo. Ma, per quanto numerosi siate, la divinità non si stancherà di darvi in
abbondanza i beni più vari in tempo di pace, la vittoria e il trionfo durante la guerra. Che i figli dei vostri nemici siano
desiderosi di farvi guerra, che ardiscano prendere le armi e venire alle mani con voi! Nessuno infatti se ne tornerà vincitore
o in grado di rallegrare figli e mogli. A tal grado di valore vi innalzerà la provvidenza divina, la quale ha il potere di ridurre
ciò che è di troppo e di supplire a ciò che manca» (Antichità giudaiche IV 114-116).
Ed ancora – tirata d'orecchie ai filosofi! – il medioevale Jehudah ha-Levi: «Dopo di ciò, il Saggio risolse di emigrare
dalla terra dei cazari per andarsene a Gerusalemme, e risentendo molto il re cazaro della separazione da lui, parlò con lui di
questo e gli disse: "Che vai a cercare oggi a Gerusalemme e nella terra di Canaan? La Presenza Divina non si trova più in
quella terra, e la vicinanza di Dio si ottiene in qualunque luogo con il cuore puro e con l'ardente desiderio; perché ti vuoi
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mettere nei pericoli dei deserti, dei mari e dei vari popoli?" [Risposta del] Saggio:"La Presenza Divina visibile faccia a
faccia è quella che manca, poiché essa non si manifesta se non ai profeti o alla moltitudine del popolo grato a Dio, e nel
luogo appropriato ad essa; e questo è quello che aspettiamo, conformemente a quanto disse il profeta: 'Quando il Signore
tornerà a Sion essi [Lo] vedranno faccia a faccia' [Isaia LII 8]; come diciamo nella nostra preghiera: 'Vedano i nostri occhi
il Tuo ritorno a Sion'; però la Presenza Divina occulta, spirituale, sta con ogni israelita che è virtuoso nelle opere, puro di
cuore e d'anima immacolata, di fronte al Dio d'Israele; e la terra di Canaan è dedicata al Dio d'Israele; e le opere non si
perfezionano che in essa"».
Perfezionamento chiarito da Rabbi Isaak Abarbanel, in commento a Isaia IV 2: «Tutti i popoli verranno al monte del
Signore e al Dio di Giacobbe, e saranno assoggettati ai figli d'Israele». E da Maimonide su Sanhedrin 120a: «I giorni del
Messia sono il tempo nel quale gli ebrei saranno ancora signori e torneranno nella Terra d'Israele. Il loro Re sarà grande e
regnerà in Sion [...] Ogni popolo stipulerà la pace con lui e lo servirà. Chi invece gli si opporrà, Dio lo rovinerà e lo consegnerà a lui [...] Ciò insegnano i nostri saggi (Sanhedrin 99a): che tra il questo tempo e il tempo del Messia non vi sarà
differenza se non l'asservimento di ogni nazione». E poi Rabbi Josef Samigo: «Dio ha disperso in miseria i figli d'Israele
fra le nazioni soltanto per questo: perché [tramite loro] le nazioni ricevessero la [Sua] benedizione» (Mikrae kodesh 109,
1), conclusioni riecheggiate dall'anonimo «infame» Protocollo numero 11 dei Savi di Sion: «Per grazia di Dio il Suo
Popolo prediletto fu disperso, ma questa dispersione, che sembrò al mondo la nostra debolezza, dimostrò di essere la nostra
forza, che ci ha ora condotto alla soglia della sovranità universale».
E perché non citare l'altrettanto «infame» Lutero (I)?: «I giudei si comportano in questo modo; mentono con abilità
satanica, latrano furiosamente contro le persone, nonostante il fatto che la loro coscienza si ribelli e li tormenti: è così che
hanno conseguito i loro splendidi trionfi. È per questo che ora risiedono di nuovo nella loro patria, a Gerusalemme, città
dalle mura di cristallo, dai tetti d'oro, dalle piazze ricoperte di zaffiri; i loro bambini gattonano nella porpora e nell'oro;
sono loro, i giudei, i padroni del mondo, e tutti i gentili fanno a gara ad accorrere nella loro città. Tutto questo avviene
ormai da mille e cinquecento anni, come dimostra la nostra stessa epoca. Tutti i gentili accorrono in massa con l'hemdath
(cioè con l'oro e l'argento), grazie al quale si è accresciuta la loro felicità. Adesso i gentili, pur di compiacere i generosi
principi d'Israele, offrono la gola per il sacrificio; adesso regalano loro senza discussioni terre e popoli e tutto quello che
posseggono, così come si chiede nei loro templi, nelle preghiere e negli sputi rivolti contro i maledetti goyim».
E il patriota livornese Francesco Domenico Guerrazzi, che nelle Note autobiografiche, stese nel 1833 nel carcere
elbano di Portoferraio, ammonisce, con espressioni oggi invero desuete ai più, i connazionali sul pericolo rappresentato
dall'elemento giudaico: «Partecipi della natura dei gatti, [gli ebrei] non li ammansisci; nulla con essi giova; l'amicizia non
sentono; ogni loro affetto non oltrepassa la circonferenza dello scudo [...] Passano attraverso i secoli e la gente come l'olio
in acqua: non si confondono. Essi, gli eletti, essi i veri figli di Dio: alla fine verrà l'aspettato Messia, ed allora noi amorrei,
noi amaleciti ben potremo chiamarci avventurosi se ci useranno per somieri. Quando furon dispersi mutarono pelo, non
vizio: di leoni si fecero volpi, e la guerra di sangue convertirono in guerra di frodi».
Similmente franco, del resto, sarebbe stato il «francese» Isidore Loeb: «Le nazioni si riuniranno per andare a porgere i
loro omaggi al popolo di Dio. Tutti i beni delle nazioni passeranno al popolo ebraico, il contenuto dei granai d'Egitto, le
riserve dell'Etiopia gli apparterranno; esse andranno in catene dietro al popolo ebraico, come prigionieri, e gli si
prosteranno dinanzi» (La littérature des pauvres dans la Bible, 1892).
Ed ancora, più soft, l'anonimo autore di The Jewish Question e The Mission of the Jews: «Ma io credo, e dimostrerò,
che l'ideale missione dell'ebreo nei confronti del mondo si compì e si sta compiendo in virtù della sua dispersione sulla
terra [...] Fu per il mirabile disegno della Provvidenza che il popolo d'Israele venne disperso per il mondo, affinché potesse
penetrare del suo spirito l'intera umanità. La razza d'Israele è come una semente nella terra, che a periodi sparisce allo
sguardo umano, sembra dissolta negli elementi che la circondano e non ha più traccia dell'essenza originaria; ma quando
comincia a germinare e a crescere, riprende la propria antica natura, le apparenze che la sfigurano cadono ed essa purifica
gli elementi, trasformandoli secondo la propria essenza e portandoli, passo dopo passo, a più alta crescita. Quando la razza
umana, preparata da cristianesimo e islam, riconoscerà il vero destino della nazione ebraica quale portatrice della luce
divina, onorerà le radici che un tempo considerò con disprezzo; essa crescerà in più stretta unione con lei, diverrà frutto
purificato ed entrerà nel Regno Messianico che è il frutto dell'albero [...] La separatezza degli ebrei fu necessaria affinché
gli insegnamenti dei princìpi morali che essi incarnano restassero compatti e incontaminati nei sommovimenti della storia
dei due ultimi millenni; la loro dispersione per il mondo, d'altro canto, ha reso fisicamente possibile trasmettere il
messaggio [...] Questa è la missione degli ebrei, finché ogni ebreo potrà operare individualmente su ciò che lo circonda.
Ma è una missione che, paradossalmente, gli ebrei hanno, collettivamente, in quanto razza dispersa. È vocazione degli
ebrei facilitare l'umanitarismo internazionale [It is the vocation of the Jews to facilitate international humanitarianism];
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questo faranno e fanno, non per opera dottrinaria di singoli teorici o predicatori, ma per la loro posizione di popolo
disperso che esercita, ed è tenuto ad esercitare, la sua influenza».
Ed egualmente, sempre nel 1894, in una sinagoga berlinese, l'innominato rabbino testimoniatoci da Sigilla Veri alla
voce Hochmut, "Presunzione"... la cara, vecchia chutzpah!: «Israele è sopravvissuto a tutte le nazioni civili del passato, ha
impregnato del proprio spirito l'intera Europa, portato la civiltà contemporanea nel più stretto contatto con Giuda. E Israele
non è ancora al termine della sua opera, deve compiere una missione divina, raccogliere intorno a sé i popoli traviati e
ricondurli al culto della religione giudaica dell'amore», come anche il nominato M. Duschack: «Non per punirli Dio ha
disperso gli ebrei in ogni angolo della terra, ma perché fossero maestri al mondo».
Alquanto più franco, il celebrato poeta sionista e sovietico Chaim Nachmann Bialik (1873-1934) nel poema "Il ruolo
del fuoco" fa comparire un personaggio, «il Terribile», incarnazione dell'essenza più profonda dell'anima ebraica, il quale
dopo la distruzione del Secondo Tempio incita dodici tra fanciulli e fanciulle a disperdersi per il mondo: «Andate tra i
popoli e avvelenate ogni cosa nelle loro maledette case, togliete l'aria con i vostri miasmi; ed ognuno semini ovunque il
seme della decadenza, passo dopo passo! E colga il vostro occhio il giglio più puro dei loro giardini, sicché annerisca e
avvizzisca; e cada il vostro sguardo sul marmo delle loro statue sicché vadano in pezzi! [...] Non dimenticate neppure il
vostro riso, il riso amaro e maledetto, quello che uccide ogni cosa che vive!»
Indubbiamente più pii e inconsciamente più furbi, separati da mezzo millennio, lo «spagnolo» quattrocentesco Chasdai
Crescas, autore di Or Adonai "Luce del Signore": «Fummo esiliati per preparare le nazioni a essere pronte a servire il
Signore alla fine dei giorni. Tutto il travaglio tragico del nostro popolo sarà più che giustificato se, per il nostro ruolo di
missionari dell'umanità, noi aiuteremo a realizzare il Regno dei cieli sulla terra», e l'illustre rabbino riformato Kaufmann
Kohler: «La missione del popolo ebraico è l'unificazione dell'umanità nello spirito della sua verità monoteistica e del suo
lavoro per il diritto e la pace. Israele è il Messia, incessante tormento di Dio tra le nazioni, e il suo compito è aprire il
tempo di una pace universale» (A Guide to Instruction in Judaism, 1900).
Ed ancora l'impaziente vieux-socialiste Ben Gurion: «Gerusalemme non è soltanto la capitale d'Israele e dell'ebraismo
mondiale; con le parole dei profeti, sarà anche la capitale spirituale del mondo» (annuncio Reuter/dpa/AP il 14 dicembre
1949), nonché, azzardoso su Look 16 gennaio 1962: «Ecco come immagino il mondo nel 1987. La Guerra Fredda sarà cosa
del passato. Le pressioni internazionali e il crescente peso degli intellettuali in Russia in favore di una maggiore libertà e la
pressione delle masse per alzare il loro livello di vita porterà a una graduale democratizzazione dell'Unione Sovietica.
Dall'altro lato, la crescente influenza dei lavoratori e dei contadini e il crescente peso degli uomini di scienza trasformeranno gli Stati Uniti in una società del benessere con un'economia pianificata. L'Europa Occidentale e l'Europa Orientale
saranno una federazione di stati autonomi con un regime socialista e democratico. Tranne l'URSS, stato federato eurasiatico, gli altri continenti si uniranno in una unica alleanza mondiale, dotata di una forza di polizia internazionale. Tutti gli
eserciti saranno aboliti e non ci saranno più guerre. A Gerusalemme le Nazioni Unite – le vere Nazioni Unite –
edificheranno un Santuario dei Profeti al servizio dell'unione federale dei continenti [a Shrine of the Prophets to serve the
federated union of all continents]; là siederà la Corte Suprema dell'Umanità, che comporrà ogni controversia e disputa sorta nella federazione dei continenti, come profetizzato da Isaia».
Conclusive le considerazioni di Arnold Mandel sull'inscindibile ambivalenza della diaspora: «1. In quanto l'estrema
dispersione rischia di polverizzare la comunità ebraica, essa è l'estremo male, che chiama l'estremo rimedio, perché Israele
non può sparire; 2. Con la molteplice diffusione della diaspora si compie il compito missionario, in quanto tutte le sfere di
civiltà sarebbero diventate terre di missione ebraica». E la missione ordinata da Dio, da sempre oggetto della tradizionale
speculazione rabbinica, viene esaltata anche dal testé detto Rabbi Kaufmann Kohler nella sua opera principale: «God sent
Israel among the nations that it might win a rich harvest of proselytes, Dio inviò Israele tra le nazioni affinché si potesse
ottenere un ricco raccolto di proseliti».
Ancor più, rileva Alexandre Safran, «l'annientamento di Israele anche in Eretz Israel, per quanto lo spazio sia limitato,
è impossibile; prova ne è la presenza ininterrotta degli ebrei in Terra d'Israele, malgrado le difficoltà della loro vita. Quanto
all'estinzione di Israele nel mondo, è esclusa, in ragione stessa della "grazia" "della Dispersione" fisica del popolo ebraico.
Gli ebrei di un paese possono essere distrutti; quelli di un altro espulsi. Ma Israele non sarà "annichilito", perché Dio non
può essere abbattuto [...] Il golah, il galut, l'esilio ebraico è un fenomeno storico unico, perché è unicamente ebraico. Esso
è uno degli aspetti fondamentali della storia d'Israele, storia unica sotto tutti gli aspetti [...] Galut mehaperet avon, "L'esilio
purifica [Israele] dai suoi peccati" [...] In tal modo il galut testimonia della gheullah [come detto in nota 47, "redenzione",
ma anche "salvezza": il termine viene inciso anche sulle monete giudaiche nell'anno 66 e seguenti, scoppiata la rivolta
contro Roma], l'esilio testimonia della redenzione. Il galut non è soltanto il segno ma anche la "causa" della gheullah,
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sottolineano il Maharal [il cinquecentesco rabbino praghese Judah Löw ben Bestalel] e il Keduchat Lévi: HaGalut Hi
HaSsiba LiGheullah [...] Ogni qualvolta agli uomini il galut d'Israele sembrerà la più dura, più vicina sarà allora la
gheullah. In una situazione diasporica inestricabile, confusa, apparentemente senza scampo né speranza, apparirà improvviso il bagliore della redenzione, inatteso; esploderà "saltando", come alla fine della schiavitù egiziana, sopra barriere che
sembravano insuperabili [...] "La radice della gheullah si trova nel galut", scrive il Sefat Emet. Invero, le lettere che
formano la parola gheullah, "salvezza", già sono presenti tra quelle che formano la parola golah, "esilio". Per comporre
gheullah si deve aggiungere una sola lettera, aleph, a quelle che formano il termine golah. Ora, la lettera aleph ha valore
numerico uno».
E al pari del concetto (e della prassi) di diaspora, ambivalente è il concetto (e la prassi) di sionismo. Due ne sono infatti,
a voler usare a tutti i costi acribìa, le varianti: decisamente minoritaria nel gran corpo dell'ebraismo la prima, il piccolosionismo, apparentabile a un nazionalismo più o meno classico; decisamente maggioritaria la seconda, il grandesionismo, moderna incarnazione del filone portante, antichissimo, della più vera ideo-religiosità ebraica (per cui, in questo
secondo senso e a prescindere dall'uso dell'incongruo termine «antisemitismo», ben concordiamo con l'implicita tesi
dell'«italiano» Luciano Ascoli che l'«antisionismo» rappresenta la «fase suprema dell'antisemitismo»). Come riporta Marco
Paganoni, assolutamente chiaro è Claudio Morpurgo, presidente UCEI, in una prolusione alla Scuola Ebraica di Milano:
«Quello sionista [...] è un modo di essere ebrei che risponde a un comandamento che ci viene dalla stessa Torah: quello di
saper abbandonare la tradizione, addirittura di tradirla, nel momento stesso in cui le si vuole assicurare una più vera e
profonda continuità. Il sionismo è nato come una "rivoluzione nella tradizione", l'utopia di far rivivere la tradizione nel
momento stesso in cui la si abbandona: cos'altro è stato, in fondo, il ritorno alla Terra e alla lingua, ricondotte, dall'ambito
religioso, alla vita di tutti i giorni?».
Egualmente Reuven Ravenna: «Come sempre il problema esistenziale dell'uomo ebreo si intreccia strettamente con
quello della sopravvivenza della civiltà, della cultura, della tradizione del popolo d'Israele. Il sionismo, come organizzazione sorta a Basilea nel 1897, fu la sintesi di diverse cause. La delusione dell'emancipazione s'incontrò con la vitalità della
rinascita culturale illuministica, nel senso ebraico, dell'intellighenzia post-ortodossa dei centri dell'Europa Orientale, che da
decenni operava per la laicizzazione della vita ebraica, per la sua modernizzazione, senza rinnegare l'identità specifica delle
masse. Da qui la viva opposizione dell'ortodossia tradizionale contro la nuova "eresia", negazione dell'aspettativa
messianica e dell'ortoprassi e, al lato opposto, l'avversione delle correnti liberali "emancipate", avverse ad ogni
particolarismo, ad ogni "ghetto" volontario tra le genti e tanto meno in una remota provincia dell'impero ottomano. Il
[sionista] laico sostiene ancora oggi che la vittoria del sionismo è stata determinata dalla ripulsa della passività ortodossa,
segno del passato, conditio sine qua non per introdurre il popolo ebraico nel contesto vivo della modernità [...] Il
"religioso", o meglio il sionista religioso, ha dialetticamente armonizzato il paradosso della ricostruzione di Erez Israel ad
opera di elementi tradizionali o antitradizionali, considerandoli "strumenti inconsapevoli" di una volontà trascendente, per
gettare le fondamenta di una casa il cui contenuto, senza dubbio, è stato indicato nella visione profetica della gheullah,
della redenzione di Israele».
Stupida, quindi, è la protesta antisionista che l'alcolizzato Joseph Roth, il «sublime» romanziere cosmopolita «tedesco»,
incapace di comprendere (o di accettare) la profonda strutturazione del concetto di «sionismo» (termine coniato dal
«galiziano-ungherese» Nathan Birnbaum, illustre progenie rabbinica), eleva sulla praghese Die Wahrheit del 30 agosto
1934 in un articolo titolato Der Segen des ewigen Juden - Zur Diskussion "La benedizione dell'eterno ebreo - Una
discussione": «Gli ebrei sono più antichi del concetto di "nazione". Da quando hanno lasciato i ghetti questo fatto è loro
talmente estraneo che hanno perfino tentato, nel sionismo, di darsi anch'essi una "nazionalità" secondo gli esempi moderni
[...] Tra la missione degli ebrei di dare un Dio al mondo, e la loro esigenza di possedere un "proprio paese", è contenuta
un'enorme contraddizione. Non è colpa loro. Il Messia si fa attendere a lungo, e come popolo bisogna assimilarsi alle
forme nazionali degli altri. L'enorme tragedia degli ebrei non consiste solo nel fatto che vengono perseguitati, ma anche nel
fatto che per il momento vedono solo una via di salvezza: diventare miseri come gli altri. Erano stati sparpagliati nel
mondo per diffondere il nome di Dio. Invece hanno dimenticato Dio stesso, e ora devono ritirarsi di nuovo in una
nazionalità geograficamente limitata [...] Ora anche gli ebrei tradiscono il pensiero universale dell'umanità».
Criticato dai confratelli, il Disgregatore ritorna il 6 ottobre con Jedermann ohne Paß - Schlußwort zum "Segen des
ewigen Juden" "Tutti senza passaporto - Conclusioni su 'La benedizione dell'eterno ebreo'": «Sono molto lontano dall'essere un nemico dell'idea sionista. La definii tragica, semplicemente perché soffro al pensiero che un popolo, dal cui grembo
è nato il "pensiero cosmopolita", sia ora costretto a diventare una misera "nazione" con una "patria". Riconosco questa
necessità. Ma la compiango. La compiango esattamente come le altre nazioni, le altre patrie, le altre "zolle". Desidererei
che non ci fossero affatto patrie. Vorrei vedere su questo mondo nient'altro che un'unica "patria", il paese di Dio, padre di
tutti noi, in cui ognuno possa andare in giro o rimanere senza passaporto, senza nome, come più gli piace o come
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corrisponde alla sua natura. È già abbastanza triste che altri popoli formino "patrie" – quanto è ancora più triste, così lo
intendevo, che anche il popolo d'Israele, da cui venne il Salvatore, debba formare una "patria"! [...] Non esiste altra
possibilità se non quella che gli ebrei, che non si assimilano nei loro paesi, e quelli che non vanno in Palestina pur
rimanendo ebrei, diventino i portatori del pensiero di una patria comune. La nostra patria è l'intero mondo [eguale, dopo
mezzo secolo e mille altri Arruolati, il fisico «russo» Andrej Sacharov Nobel-Peace-Prize: «La mia patria è il mondo»].
L'ha detto Gesù Cristo, il figlio di Dio e degli ebrei. Ripeterlo sarebbe il compito più nobile degli ebrei. Non credo che Dio
faccia vivere un popolo per 6000 anni perché alla fine ridiventi, dopo aver ricevuto le Leggi sul Sinai, una "nazione" che
riceva leggi da un professore universitario di giurisprudenza a modo».
Invero, non solo la posizione di Roth non può dirsi antisionista, ma rientra nell'ottica del grande-sionismo o, per dirla
con l'espressione coniata da Georges Batault: «pangiudaismo». E il pangiudaismo considera il sionismo «a Step toward
the Greater Ideal of the Messianic Era, un passo verso il Più Grande Ideale dell'Era Messianica» (Julius Hillel Greenstone), un movimento che ha permesso la realizzazione di un sogno e di una «speranza escatologica», «differente in questa
forma da ogni altro movimento nazionalista, una forza religiosamente ispirata il cui scopo è la conservazione del popolo
ebraico nelle sue caratteristiche integrali» (Lewisohn II), «la più recente manifestazione dell'ideologia messianico/nazionalista del giudaismo» (R. J.Z. Werblowsky, in MacDonald I), la conferma di quella inestricabile «mistura di particolarismo
e universalismo, nazionale e sovrannazionale» che costituisce «la struttura della tribuna da cui parlano [gli ebrei]» (W.
Gunther Plaut), poiché «per il vero cabbalista Sion non è un mero frammento di terra fisica, ma è la realtà mistica vista
nelle immagini spirituali di un Nuovo Cielo e di una Nuova Terra, come vuole l'Apocalisse cristiana [...] "Sion fu ed è per
gli ebrei il simbolo del futuro che abbraccia non solo loro ma l'intera umanità. In tale senso ultranazionale va intesa anche
la supplica per il ritorno a Sion elevata nelle nostre preghiere, nelle quali perciò essa ha un legittimo posto" [...] Il sionismo
è un messianismo calato nell'elemento profano-politico, un movimento di redenzione secolarizzato» (Ludwig Thieben), per
il quale «si tratta di creare un mondo degno di Dio; quando avremo creato un mondo senza sfruttamento e senza violenza,
cioè un mondo etico, a quel punto Dio arriverà a vivere tra il popolo. Questo è per me il concetto più radicale
dell'ebraismo, a livello politico, ed è anche un'interpretazione radicale del concetto di Sion, in cui Sion non è un territorio: è
appunto questo stato, questa condizione di armonia sociale che permette una vita spirituale tra la gente» (l'attore Hanon
Reznikov ad Amedeo Bertolo).
Il piccolo-sionismo, definito da Batault «sionismo onesto» (invero, all'epoca non avevamo ancora assistito al feroce
terrorismo antipalestinese, né alle sue menzogne, del 1947-48 e seguenti), viene da lui contrapposto all'«internazionalismo
ebraico mascherato da sionismo» o giudaismo messianico, «imperialismo ideologico che vuole asservire il mondo ai valori
giudaici». Tale corrente minoritaria, fatta propria dai gruppi più virulenti dell'estremismo ebraico «di destra» quali l'Irgun e
il Lehi, viene detto maccabismo da Gedalja Ben Elieser. L'inglese Ivor Benson lo definisce giustamente «una forma di
giudaismo talmudico trasformata in uno sciovinistico nazionalismo secolarizzato, privo del fattore religioso tranne che per
l'uso che se ne può fare nella moderna guerra politica».
Avversari del sionismo, e comunque ininfluenti sul corpus magnum dell'ebraismo, sono quegli aspri critici (come il
detto Rabbi Joseph Dov Ber Ha-Levy Soloveitchik di Brisk e il lubavitcher Rabbi Shalom Baer Schneersohn) che non solo
riprendono le tesi anti-herzliane formulate a fine Ottocento dai Protestrabbiner, ma arrivano a canzonare gli avelei Jerusalajim, gli «afflitti di Gerusalemme» (gli avelei Sion di Isaia LXI 3), ebrei ispirati da idee mistico-messianiche dediti al
lamento per la distruzione del Tempio e alla preghiera per la redenzione di Sion. Del tutto marginali, folkloristicamente
serbati ad autoprova di tolleranza dal 98% dell'ebraismo, sono inoltre i veri antisionisti, e cioè, da un lato:
1. gli israeliani Uri Avnery (dopo ripetuti episodi di intimidazione, percosse e lancio di bombe nella sede del suo
quotidiano Haolam Hazeh, veri e propri tentativi di assassinio vengono compiuti a Tel Aviv il 24 marzo 1974 e 18
dicembre 1975 da Eliahu Galili) e Michel Warshawski (uno degli attivisti per i diritti umani più sinceri, quarantennale
fautore di una «vera» pace coi palestinesi),
2. il trentacinquenne Yosef Hanan Cohen, moglie e quattro figli, immigrato dagli USA nel 1998, che nel 2001 non solo
abbandona il partito Shas "Partito Nazionale Religioso", si converte all'Islam mutando il nome in Yusef Hatab e si
trasferisce dal Negev nel quartiere arabo di Gerusalemme, ma dichiara, quanto alla seconda intifada (nata il 28 settembre
2000 dalla strage di palestinesi innescata dalla provocatoria passeggiata di Sharon-the-Butcher sulla Spianata delle
Moschee, la protesta viene contrastata coi mezzi più duri, comprese granate a frammentazione sparate da carri armati e
pallottole dum-dum; secondo l'Agence France Presse, al 19 aprile 2006 i morti sono 3918 palestinesi, dei quali 650 sotto i
17 anni e 230 donne, 1037 israeliani, con un rapporto quindi 3,8 a uno, peraltro ancora contenuto, visto che nella prima
Intifada era stato 10 a 1, e 75 altri): «Non abbiamo altra via, se non quella dei kamikaze. Gli ebrei devono lasciare la nostra
terra. E Osama bin Laden è il musulmano numero uno al mondo», e
3. diverse schegge sinistre, e dall'altro gli adepti di alcuni gruppi ultraortodossi... tutti peraltro fidenti nell'Immaginario
shoaico al pari dei più radicali sinistri e dei più accesi sionisti:
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4. i Naturei Karta (negli anni Novanta, ministro del palestinese Yasser Arafat per le Questioni Ebraiche è Rabbi
Moshe Hirsh, il «rabbino scandaloso» della «setta della vergogna» che, s'indigna nel gennaio 2003 Ambre Bendayan su
Israel Magazine - Le premier mensuel israelien en langue française, non solo si oppone «ferocemente» all'esistenza di
Israele, ne brucia le bandiere e collabora alle più diverse associazioni anti-israeliane, ma giudica la Shoah «il risultato del
sionismo e la punizione per lo stabilimento degli ebrei in Palestina»),
5. i Satmar (il cui caporabbino Moshe Teitelbaum, figlio dell'antisionista Rabbi Yoel della transilvana Satu Mare
(oloscampato, questi, da Budapest a Bergen-Belsen indi in Svizzera ad opera del sionista Rudolf Kasztner), dopo essere
sbarcato a Tel Aviv ed avere maledetto Israele nel giugno 1994, dichiara nell’agosto che «gli ebrei hanno sempre vissuto in
pace nel mondo arabo. È il sionismo che provoca e semina i germi della violenza da settant'anni»),
6. i Netivoth Shalom (il cui segretario Yitzhak Frankenthal nell'aprile 1995 si oppone all'illegale ingrandimento delle
illegali colonie nei Territori Occupati),
7. gli altrettanto isolazionisti Edah Haredit,
8. diversi gruppi e personaggi ortodossi nei più vari paesi, come Moishe Arye Friedman, caporabbino a Vienna, dotato
di antenati caporabbini in Austria da quattro secoli e di padre nato a Stoccarda, che alla National-Zeitung del 7 giugno
2002 dichiara candido che «i sionisti operano contro la tradizionale identità ebraica, rappresentata dalla religione. Per il
sionismo non sono importanti Dio e il giudaismo, ma una "razza pura" e il nazismo, per la qual cosa l'ebraismo non
sionista dovrebbe sparire. Quanto ai palestinesi il sionismo esita nel fascismo e nell'apartheid» (nel dicembre 2006
parteciperà, con qualche confratello «inglese», al primo convegno sull'Olocausto a Teheran), ed infine
9. tutti quei minori gruppuscoli ultraortodossi che protestano contro Israele alzando cartelli con le scritte «Zionists Are
NOT Jews, Jews Are NOT Zionists» e «The Real Jewish People Will NEVER Recognize The Zionist State» (considerando
all'«estremissima destra» irriducibile al sionismo i Satmar e all'«estrema destra» più accomodante i Lubavitch, tra questi
due poli maggiori si pongono gli hassidici di Belz, Gher, Vinniza, etc., che nei confronti di Israele praticano una politica
variamente improntata ad un fondamentale pragmatismo).
Scesi a compromessi con l'Entità «Sionista» sono invece gli antisionisti religiosi dell'Agudat Israel, ai quali il governo
«laico» garantisce un sostegno finanziario e organizzativo massiccio per le scuole talmudiche e per altre loro istituzioni,
l'esenzione dal servizio militare e altri diritti; dopo una progressiva sionistizzazione culminata nel 1988, hanno addirittura
abbandonato la primitiva prospettiva antisionista i potenti Chabad-Lubavitch dello zaddik-messia Menachem Mendel
Schneerson (l'impero chabadico che raccoglie nel mondo 300.000 seguaci raggruppati in 1600 centri religiosi e sociali,
governati da 3000 schluchim, «emissari», con un bilancio annuo di mezzo miliardo di dollari, cinquecento miliardi di lire),
che sono giunti al punto di ritenere che l'origine dello Stato di Israele rappresenta «l'inizio della salvezza».
Infine, delle duecento maggiori organizzazioni ebraiche americane si permettono di criticare Israele solo due: la Breira
("Alternativa", in ebraico; gruppo fondato nell'ottobre 1973 da ebrei di Washington e New York, che non raggiunge i 1500
membri, primi esponenti il critico letteraio Irving Howe, il «noted Jewish leftist» Arthur Waskow e i rabbini Arnold Jakob
Wolf, David Wolf Silverman, Max Ticktin, David Saperstein, Balfour Brickner, presidente della Union of American
Hebrew Congregations Interfaith, ed infine l'ex «tedesco» Joachim Prinz, presidente del World Council of Jewish
Organizations) e la New Jewish Agenda (fondata nel 1980, «ben» 700 membri). Per tali posizioni esse vengono non solo
tacciate di «antisemitismo», emarginate ed espulse dall'organizzazione delle comunità ebraiche, ma viene proibito a ogni
«vero» ebreo di intrattenere rapporti personali coi loro affiliati (Mark Bruzonsky, giornalista tra i più obiettivi sulla
repressione antipalestinese, giunge a scrivere: «Nessun ebreo al mondo potrà trovare riparo dalla vendetta brutale se avrà
riferito secondo verità e franchezza ciò che ha visto coi suoi occhi [delle violenze israeliane]»).
Tra i critici ebrei del sionismo – in particolare del nazionalismo feroce per quanto «limitato» predicato dal piccolosionismo – si annoverano anche:
il deputato californiano Julius Kahn, che il 5 marzo 1919 indirizza sul NY Times una Protest to President Wilson
against Zionist State; i rabbini Judah Magnes ed Elmer Berger, il secondo cofondatore dell'American Council for Judaism
e presidente di "Alternativa al sionismo"; lo storico Alfred M. Lilienthal jr, padre del termine Holocaustomania; il giornalista del Washington Post Richard Cohen; il semiologo Noam Avrom Chomsky (in realtà, rileva Jeffrey Blankfort II,
sionista e critico più della Casa Bianca che di Israele); il businessman Harry Katz; l'avvocato liberal Mark Lane, contestatore della tesi ufficiale sull'assassinio di JFK; lo studioso Nabeel Abraham; Israel Shahak, nato Himmelstaub a Varsavia
nel 1933, internato decenne a Bergen Belsen ed ex comunista in Polonia, sterminazionista, docente di Chimica Organica
all'Università Ebraica di Gerusalemme e presidente della Israel League for Human and Civil Rights (nel 1973 la casamadre newyorkese International League for Human Rights, che ha sempre ignorato le migliaia di violazioni dei diritti
umani compiute dall'Entità Ebraica, vota, con motivazioni pretestuose, l'espulsione di Shahak; contro lo studioso, blacklisted in particolare da ADL e AIPAC, vengono inoltre ribadite numerose fatwa giudaiche di boicottaggio); il giornalista e
saggista Israel Adam Shamir (cattolicizzato; nel novembre 2005 l'editore francese del suo L'autre visage d'Israël, che
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presenta «gli ebrei» come «dominateurs du monde, padroni del mondo», attivi nel quadro di una «terza guerra mondiale»,
viene dannato a tre mesi di carcere condizionali, 10.000 euro d'ammenda, 12.000 di danni-interessi e 1500 di spese di
giustizia da versare alla LICRA, che l'aveva denunciato per «incitamento all'odio razziale», e all'obbligo di ritirare l'opera
dai punti vendita nell'arco di trenta giorni, sotto pena di pagare ulteriori 100 euro per ogni esemplare rimasto in circolazione);
lo storico Norman Finkelstein, insegnante volontario in una comunità palestinese, espulso da Israele e perseguitato
negli USA, fustigatore della fantastoria goldhageniana e dell'Olo-industria; il pubblicista Jack Bernstein; il giornalista
Maurice Jacoby; il comunista Hyman Lumar, direttore del periodico ufficiale del PCUSA Jewish Affairs; l'ex leader
sessantottino avvocato William Moses Kunstler; Robert Steinhorn, capo del Progressive Labor Party, successore degli
SDS Students for a Democratic Society; il trotzkista Jakob Taut dell'israeliano Matzpen "Il compasso" (scheggia staccatasi
nel 1962 dal prosovietico Maki, discreditata nel 1972 dall'arresto di sei israeliani e arabi, membri della maoista "Alleanza
Rivoluzionaria Comunista" e spie per la Siria); i comunisti israeliani Meir Wilner e Avram Levenbron (il figlio di
Levenbron, Rami Livne, membro del kibbutz Kfar Shmuel, viene arrestato nel 1974 col compagno Mali Lerman per avere
spiato per conto dei servizi siriani); l'avvocatessa Felitsia Langer, difensore di palestinesi; l'antropologo Claude LéviStrauss, nipote di rabbino (è per lui che Maurice Szafran parla, quanto agli ebrei antisionisti, di «position ultra-minoritaire
parmi les juifs»); l'altrettanto «francese» René Raindorf, oloscampato auschwitziano e membro della Fondazione Auschwitz; la giornalista israeliana Cordelia Edvardson, madre Halbjüdin e padre ebreo, bimba oloscampata auschwitziana, «un
personaggio controverso in Israele a causa delle sue esplicite posizioni in favore delle cause palestinesi» (Daniel Silver);
qualche originale ultrasinistro quale il «francese» Tony Lévy, fondatore di un "Comitato degli Studenti Ebrei
Antisionisti" dopo la Guerra dei Sei Giorni e fratello del big boss sessantottino Benny Lévy, l'ateo Michel Rachline, Ilan
Halevy, marxista che lascia Israele nel 1976 per entrare nell'OLP, e il detto trotzkista Warshawski, figlio del Gran Rabbino
di Strasburgo, corrispondente per l'agenzia francese Alternative, condannato nel novembre 1989 per filopalestinismo; il
politologo «francese» Maxime Rodinson; il transfuga mossadico Victor Ostrovsky, per il quale (erroneamente) «il giudaismo è eterno, il sionismo un episodio». Citiamo inoltre, Jimmy Warburg, della nota famiglia di banchieri, che nel novembre 1959 biasima, alla congregazione Mishkan Israel di New Haven, la politica del pugno di ferro di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi: avendo infranto il tacito codice secondo cui i diasporici possono dissentire da Israele solo in privato,
viene insultato quale filoarabo e traditore.
Tra i più lucidi avversari ebrei del sionismo comunque inteso è l'«apostata» Abraham Gurewitsch, membro dei
Knaanim, un gruppo che si definisce Jewish World Organization for truth, liberty, honour, justice and peace "Organizzazione Mondiale Ebraica per la verità, la libertà, l'onore, la giustizia e la pace". Indignato per l'aggressività razzistica
dimostrata contro i tedeschi dai confratelli dopo la «campagna delle svastiche» scatenata da Natale 1959 a metà febbraio
1960 (ottocentotrentatré atti di «antisemitismo»: imbrattamento di muri con svastiche, violazione di cimiteri, danni a proprietà ebraiche, etc. scatenati a Colonia e nell'intera Renania da assoldati della Stasi/KGB agli ordini del generale sovietico
Agayanz della Sezione Dezinformacija), l'antisionista, dopo avere rilevato l'improprietà semantica del termine «antisemita», va al cuore della Judenfrage:
«L'antigiudaismo nacque nel momento in cui il capo del nostro popolo, il rabbino Moshe, o meglio Mosè, gli diede, davanti al monte Sinai e in circostanze oltremodo misteriose [unter ganz mysteriösen Umständen] – metodi noti a tutti i capi
religiosi e ancor oggi usuali presso gli sciamani negri – il Decalogo (asseret ha-diwrot, i Dieci Comandamenti, nucleo
della Legge ebraica rivelata sul Sinai) e poi la Torah, martellando e rimartellando nel cervello del nostro popolo [und ihm
immer wieder einhämmerte] il concetto che era il Popolo Scelto dall'Unico Dio [...] Resta da chiedersi se gli fossero chiare
le conseguenze di quella fede, che vincolò all'obbedienza il nostro popolo e ci condusse, per prima cosa e senza
provocazione, a sferrare il primo attacco contro l'umanità. In tal modo estromettendoci dalla famiglia delle nazioni. Un
fatto è in ogni caso assodato: da allora il pregiudizio contro le altre nazioni impedì al nostro popolo di stringere rapporti di
umana fiducia e amicizia con gli altri popoli [in menschlich vertraute, freundschaftliche Beziehungen zu anderen Völkern
zu treten]. A dispetto di ogni dato scientifico sul divenire umano, la fede nell'elezione e nella pretesa di dominio mondiale
si è mantenuta intatta nel nostro popolo fino ad oggi. Ancor oggi centinaia di migliaia di membri del nostro popolo
ripetono nelle preghiere: Ato bochartonu mi kol ho om, Tu, Dio, ci hai scelto tra tutti i popoli [...] Il nostro popolo,
saldamente radicato nella fede discesa da Mosè, restò perseverante fino ad oggi [...] Noi ebrei ci siamo separati dai membri
dei popoli che ci hanno ospitato, abbiamo vissuto secondo i nostri peculiari costumi, costituito in tal modo un popolo
all'interno del popolo che ci ospitava o, per dir meglio, uno Stato nello Stato. La reazione del popolo che ci ospitava fu
quindi di evitarci, anzi, perfino di odiarci. Cominciarono allora a farsi avanti il pensiero sionista e la nostalgia di Sion. Il
pensiero sionista divenne realtà con l'organizzazione mondiale chiamata Sionismo, fondata al primo Congresso del nostro
popolo a Basilea nel 1897. Tale organizzazione mondiale, che aveva mete solo politiche, fu integrata in senso religioso dai
nostri ortodossi, recependoli nell'organizzazione. Ora la pretesa di dominio mondiale può realizzarsi attraverso la politica,
l'economia e la religione. Così la pensano i sionisti, ma non noi Knaanim. Noi rigettiamo il sionismo con la sua brama di
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potere; perché il sionismo non è che il becchino del nostro popolo [...] All'inizio il sionismo fu un fatto razziale, ma oggi,
come fattore economico, non lo è più. Nelle sue file ci sono oggi anche non-ebrei [...] Oggi questi non-ebrei sono i fautori
e gli usufruttuari del piano sionista. Sostenere il piano sionista è la premessa per essere accettati [...] Noi, ebrei
lungimiranti, vediamo che tale piano non apporterà alcun vantaggio alla massa del nostro popolo, che esso è un crimine
contro tutti i popoli e che mai giungerà a compimento, in quanto contrario alle leggi naturali e basato unicamente sulla
furbizia, l'ipocrisia e la violenza [da er naturwidrig und nur auf List, Heuchelei und Gewalt aufgebaut ist]».
«Coloro che, facenti parte del nostro o degli altri popoli, ci hanno seguito fin qui» – continua Gurewitsch – «devono
riconoscere che l'universo è retto da tutt'altre leggi che non quelle imposte dal Talmud e dalla Torah [...] l'Essere dell'universo non è un dio personale come ci ha insegnato Mosè e come acriticamente hanno ripetuto i popoli cristiani. È l'Essere
di tutti gli esseri, l'Anima di tutti gli esseri, è in noi e vive in ogni cosa; in breve, l'intero Universo nella sua Totalità è Dio!
È infinito ed eterno. Dopo approfonditi studi anche noi Knaanim l'abbiamo compreso. Ora, il mondo dirà che è
impossibile, che in ogni campo filosofico, scientifico, etc. gli ebrei sono troppo stupidi e che possono solo copiare ciò che
altri hanno indicato. Tale atteggiamento sarebbe però un pregiudizio, equivalente alla divinizzazione razziale (idea di
elezione) del nostro popolo, che vive ancor oggi; perché ancor oggi, come dicemmo, il nostro popolo si tiene all'idea che
siano state create due categorie di esseri umani, l'una, la prediletta, nata con gli speroni del dominatore – la nostra – e l'altra
nata con la sella, per farci da serva [als die Knechte und die Diener für uns]».
Già un trentennio prima, del resto, l'inglese Howard Chamberlain, convertito al giudaismo ed esponente dei BritishIsrael, aveva impostato nelle sue più vere coordinate il problema «sionismo», aspetto ideo-politico che sarebbe riduttivo e
scorretto identificare con una qualche forma di più o meno limitato e più o meno ragionevole «nazionalismo ebraico» –
invero, al contrario del nazionalismo goyish, che ha sempre rivendicato ai propri popoli solo la loro terra, i «nazionalisti»
ebraici rivendicano il potere non solo sul «loro» paese, ma sull'intero mondo – e che andrebbe, al contrario, identificato
come una forma naturalistica di giudaismo: «Niente può più impedire il ritorno del Popolo di Dio in Palestina. Con tale
ritorno del Popolo Eletto, col ripristino della Terra Promessa, in altre parole con il sionismo, si apriranno i tempi messianici
e ogni nazione sarà benedetta attraverso Israele, che diverrà la sede del governo mondiale teocratico e messianico dei nuovi
tempi» (Du Christianisme au Judaïsme, 1933) e «A ben vedere il sionismo è l'inizio dell'istituzione del Regno di Dio,
poiché dalla Palestina, dove sarà fondato il Regno di Dio, s'irradierà la luce nel mondo intero. Allora Gerusalemme diverrà
la capitale del mondo, quando il Tempio dell'Eterno e il Trono di Davide saranno di nuovo riuniti per non separarsi mai
più. Il Tempio s'innalzerà sul monte Sion e diverrà casa di preghiera per tutti i popoli, e il principe della Casa di Davide
regnerà su Israele e sul mondo intero» (Ce que les Juifs peuvent donner à l'humanité, 1934).
In parallelo, il nazionalsocialista Heinz Riecke (numerazione nostra): «1. Anche l'ebraismo d'impronta sionista non può
essere paragonato ad un qualunque popolo sedentario inquadrato in una formazione statuale, 2. in quanto esso non accetta
di confinare il proprio interesse alle questioni dell'ebraismo, ma vuole al contempo esercitare il proprio potere e la propria
signoria anche sugli ebrei diasporici, sulla vita cioè dei popoli che ospitano tali ebrei. Inoltre l'ebraismo sionista non si
limita 3. a consigliare a quegli ebrei che dopo la partenza di gran parte dei confratelli restano tra i popoli che li ospitano, di
ritrarsi dalla vita pubblica di quei popoli, ma predica anzi una dottrina nella quale si raccomanda "di affermare le idee
ebraiche in tutto il mondo", benché proprio le dichiarazioni sioniste nel corso della Grande Guerra e del dopoguerra
tedesco abbiano dimostrato che 4. i sionisti, in virtù del loro atteggiamento sionista di "non-neutralità" hanno costituito una
minaccia durante la guerra e 5. con la loro richiesta di "tendenze e partiti socialisti e pacifisti" hanno cercato di suggellare
per sempre l'impotenza della Germania, da essi salutata con gioia. Questo riassunto delle tendenze politicamente distruttive
del sionismo ci fa concludere che 6. l'organizzazione sionista mondiale è la più vasta organizzazione dell'ebraismo e
vieppiù lo diventerà a causa del crescente antisemitismo, un'organizzazione che attraverso la Jewish Agency è al contempo
in stretto contatto con ogni altra organizzazione dell'ebraismo non-sionista e con esse forma un tutt'unico. Anche solo tali
punti, particolarmente l'ultimo, devono indurre anche coloro che non vogliono misurarsi con problematiche razziali a
concludere che oggi, dopo che con l'ubiquitaria crescita dell'antisemitismo si è reso necessario concentrare in un solo e
delimitato territorio gli ebrei emigranti, occorre anche giungere all'esclusione totale degli ebrei dalla vita politica dei popoli
che li ospitano [auch die Ausscheidung der Juden aus dem politischen Leben der Wirtsvölker vollzogen werden muß]».
E alla stessa conclusione, per quanto incompiutamente, giunge oggi il detto Jack Bernstein: se il giudaismo è
certamente una religione, «il sionismo è un movimento politico nato soprattutto per opera di ebrei askenaziti dell'Europa
Orientale, che per secoli sono stati le forze propulsive del comunismo e del socialismo. La meta ultima dei sionisti è un
Unico Governo Mondiale controllato dai sionisti e dall'Alta Finanza ebraica internazionale, da essi orientata» (in CarlFriedrich Berg, volume sequestrato dal GROD presso la casa editrice e distrutto).
In parallelo a Gurewitsch, Chamberlain, Riecke, Bernstein e ad ogni altro antisionista più o meno lucido, Shmuel
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Eisenstadt rileva che Israele rappresenta «un centro geografico, un simbolo di retaggio comune e di solidarietà accettato da
vasti settori del popolo ebraico, anzi l'unico, o comunque il principale, elemento comune a tutto il popolo ebraico o alla
maggior parte di esso. In modo non sempre facile, anzi spesso con grande ambivalenza, Israele rappresenta inoltre un
punto focale centrale dell'identità collettiva ebraica. Soprattutto negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta, Israele ha
costituito in molte comunità una componente centrale e all'inizio assai nuova e potente della "religione civile" ebraica. È
diventato il punto d'incontro naturale della maggioranza delle organizzazioni ebraiche, una sorta di luogo deputato alle riunioni di famiglia e agli eventi collettivi, e sono ormai pochissime le organizzazioni della vita comunitaria ebraica che non
hanno un qualche legame con Israele».
Cosa già avvertita, il 13 gennaio 1946 nel proprio Diario, dal deputato laburista inglese Richard Crossman, ardente
filosionista, dirigente della propaganda antitedesca alla BBC, attivo nello staff di Eisenhower ad Algeri e direttore del
fabiano The New Statesman, in seguito curatore di «Il Dio che è fallito - Sei testimonianze sul comunismo»: «I sionisti
sono terribili [...] sono radicalmente anti-inglesi e hanno apertamente organizzato [in tal senso] pressoché tutti gli ebrei
americani e l'intera stampa» e ancor più dal confratello Maurice Hartt, deputato liberale canadese subentrante allo spione
comunista Fred Rose, nel discorso al Parlamento di Montreal il 3 maggio 1948: «I do not differentiate between Zionists
and Jews; they are one and the same. Those who want to introduce that note of division are simply not doing justice to this
subject. Those who call themselves Zionists are the active leaders of a group that want to see the Jews have a Jewish
homeland, Non faccio differenza tra sionisti ed ebrei; sono una ed una sola cosa. Quelli che cercano di fare distinzioni fra
le due cose non rendono, semplicemente, giustizia alla questione. Coloro che si autodefiniscono sionisti non sono che i
capi attivi di un gruppo che vuole assicurare agli ebrei una patria ebraica».
Ad assicurare all'intervistatore russo la simbiosi, spesso addirittura inconscia, tra ebraismo e sionismo, è, nota
Aleksandr Solzenicyn, anche Norman Podhoretz (direttore di Commentary, mensile ufficiale dell'American Jewish
Committee) in "Gli ebrei nel mondo moderno", 1985: «Gli ebrei, ovunque nel mondo si trovino, talora persino con loro
stesso stupore, si sentono personalmente legati al destino di Israele [...] Se, Dio non voglia, Israele dovesse venire distrutto,
scomparirebbero anche gli ebrei in ogni altro paese. Non so perché sia così, ma gli ebrei non sopravviverebbero ad un
secondo colpo mortale in questo secolo». «Il 95% degli ebrei di Francia» – aggiunge dall'altro lato dell'oceano un
ventennio dopo, il 1 giugno 2002, il «filosofo» Alain Finkielkraut su Le Monde, scagliandosi contro i critici della sempre
più feroce repressione antipalestinese – «sono sionisti, nel senso che hanno una solidarietà di destino con Israele. Mettere
al bando dall'umanità questo Stato in quanto fascista o nazista vuol dire escludere, sotto la maschera dell'antirazzismo, tutti
coloro che, in quanto ebrei, lo sostengono».
Ed egualmente, in prima pagina sul Corriere della Sera, il liberale filoebraico Piero Ostellino, ex direttore del
quotidiano: «A me pare che il modo migliore di celebrare il "Giorno del Ricordo" consista nel non lasciare mai Israele solo
di fronte a chi si propone di distruggerlo. Mi pare consista, cioè, nell'evitare di distinguere fra ebrei e Israele, fra il popolo
israeliano e i suoi governi [...] La distinzione fra ebrei e Israele, fra popolo e governo israeliani, è politicamente corretta e
moralmente accettabile? Penso proprio di no. La distinzione implica, infatti, la negazione morale delle ragioni stesse della
nascita dello Stato di Israele, il disconoscimento politico della sua legittimazione internazionale e del suo carattere democratico interno e, infine, della legittimità del suo governo [...] Da qualsiasi parte la si guardi, la distinzione fra ebrei e
Israele, fra governo e popolo israeliani, finisce con essere un modo moralmente e politicamente ambiguo di prendere le
distanze da Israele, e da ciò che esso rappresenta per l'intera umanità, con la scusa di prenderle dal suo governo».
Ed egualmente Robert Wistrich, docente di storia ebraica all'Università Ebraica di Gerusalemme: «Nell'ultimo mezzo
secolo l'esistenza di Israele ha chiaramente svolto la funzione di catalizzatore dell'identità ebraica e di innegabile nocciolo
della coesione e della continuità ebraiche. In un mondo che si fa progressivamente centrifugo, Israele è la forza centripeta
che più opera per l'unità degli ebrei. Ciò avviene non solo per via della sicurezza e della libertà di cui è simbolo, ma anche
perché ha sviluppato un'economia autosufficiente [cosa assolutamente falsa, come anche riconosciuto, tra gli altri, da
Roger Garaudy e Maurice Jacoby], una cultura e una identità collettiva di nuovo genere».
O l'ex «russo» Nathan Sharanskij, ministro israeliano per gli Affari della Diaspora, intervistato il 17 luglio 2003 dalla
Jüdische Allgemeine (organo dello Zentralrat der Juden in Deutschland, settimanale fondato nel 1947 da Karl Marx, già
funzionario della weimariana Deutsche Demokratische Partei, quale AJW Allgemeine Jüdische Wochenzeitung der Juden
in Deutschland, titolo mutato dal 2002): «Del resto, gli ebrei d'Israele e della Diaspora sono una sola famiglia. [Gli ebrei
nella Diapora] si rallegrano se noi ci rallegriamo, soffrono, se noi soffriamo. Questo legame va salvaguardato e rafforzato».
Ancora più chiaro nello spazzar via ogni cavillo, rivendicando il diritto ad esercitare una «doppia fedeltà» – ma è davvero
doppia, o non piuttosto un'unica eterna fedeltà all'ebraismo? – era stato, sull'AJW il 5 maggio 1994, il presidente dello
Zentralrat Ignatz Bubis: «Noi ebrei non possiamo essere sionisti, dobbiamo essere sionisti! È un imperativo del cuore e
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della ragione [...] L'amore per Sion e per i sionisti non ci impedisce [comunque] di vivere in Germania e a tal proposito non
mi faccio certo dei problemi [und ich habe dabei kein schlechtes Gewissen]».
«Doppia fedeltà» mistificata anche dai termini «doppia nazionalità», «doppia solidarietà» e «doppia anima», limpidamente documentati da Ostrovsky (I) e da Seymour Hersh, come anche dalla double solidarité di Batault, dalla divided
allegiance e psychical expatriation "fedeltà divisa" ed "espatrio psichico" di Lewisohn, dalla dual loyalty "doppia lealtà" di
Rabbi Maybaum, dalle divided loyalties "lealtà divise" di Arrigo Levi (IV), dalle multiple loyalties "lealtà multiple" di
Diana Pinto (I), dalla dual allegiance "doppia fedeltà" di Hilaire Belloc e del businessman «canadese» Ben Dunkelman,
dalla dual morality "doppia moralità" e dual set of ethics – an altruistic one for themselves and a predatory one for
Gentiles "due specie di morale, una altruistica per se stessi e una di sfruttamento verso i non-ebrei" di David Duke, dalla
mehrfache Solidarität "solidarietà multipla" di Erwin Schmidl, dal lirico «duplice sguardo» di Amos Luzzatto. Come
infine, con espressione più rozza ma certo più chiara, dal «piede in due scarpe». E a chiarire il concetto ai goyim – altro
che la furbesca «retorica del "nemico interno"» mistificata dall'«italiano» Furio Jesi! – sono infatti Rabbi Agus, che
rivendica «non il vecchio spauracchio [old bugaboo] della "doppia lealtà"», tante volte avanzata, ma «una singolare,
metastorica lealtà a Israele, una mistica che trascende tutte le lealtà nazionali», Simon Snopkowski, presidente della
Israelitische Kultusgemeinde "Comunità religiosa israelitica" bavarese, nel settembre 2001 sul n.86 del suo bollettino:
«Noi tutti, esiliati, volgiamo lo sguardo alla Terra d'Israele, nostra antichissima patria, oggetto dei nostri pensieri quotidiani
e meta di ogni nostra nostalgia [...] Quando si tratta dell'esistenza dello Stato di Israele, noi ebrei di tutto il mondo
sorgiamo a sua difesa come un sol uomo, anche se siamo dispersi in ogni parte del mondo», e il successore di Bubis, Paul
Spiegel, sulla Jüdische Allgemeine del 14 febbraio 2002: «Jeder Jude auf dieser Welt, wenn er seine Wurzeln ernst nimmt,
ist ein "Botschafter" Israels, Ogni ebreo al mondo, se considera seriamente le proprie radici, è un "ambasciatore" di Israele». Di rimbalzo, aveva riportato il 1 febbraio 2001 lo stesso periodico, «in una dichiarazione alla Diaspora il ministro
degli esteri israeliano ha affermato che Israele è determinato a difendere l'esistenza di ogni ebreo al mondo»; «Zion als
zuverlässiche Rückversicherungspolice, Israele come affidabile polizza riassicurativa», titola Rafael Seligmann, 28 luglio
2003.
Se, stando a un sondaggio compiuto dall'American Jewish Committee (vedi Moment, giugno 1995), il 29% degli American Jews si considera sionista e il 64 si sente «legato» a Israele, secondo un'indagine di poco più vecchia è l'80% a
considerare l'eventuale distruzione delle strutture statuali israeliane – alle quali, ben più che la riduttiva formula di Entità
Sionista, cara ad ogni intellettuale sinistro, conviene quella di Entità Ebraica – come la più grande, personale tragedia nella
propria vita: «Israele» – continua Wistrich – «è divenuto la maggior componente dell'identità ebraica americana e
influenza ogni aspetto della vita ebraica, compreso lo stesso giudaismo [...] Israele dà loro una ragione per continuare a
identificarsi come ebrei. A torto o a ragione essi pensano che le critiche allo Stato ebraico, in America o altrove, siano
motivate dall'antisemitismo e non da considerazioni di realpolitik» (un solo esempio: mentre, riporta Moment nel dicembre
1994, la percentuale degli israeliani che approvano la retrocessione del Golan alla Siria è del 32,5, essa precipita al 3 per gli
ebrei americani).
Tesi del lettore Enrico Misrachi in una lettera al Grande Confrère sul Corriere della Sera, 23 marzo 2002: «Caro
[Paolo] Mieli, mi riferisco alla lettera di due lettori romani chiaramente antiisraeliani, ma secondo loro non antisemiti.
Molte persone, o in malafede o per somma ignoranza storica, fingono di non capire o non capiscono che Israele, piaccia o
non piaccia, è il cuore dell'ebraismo che a sua volta, sempre piaccia o non piaccia, vanta su quella terra sacrosanti e
indiscutibili diritti storici, legali e morali, che nessuno in buona fede può negare».
Tesi che afferma, sicuro, anche il caporabbi «polacco» David Schaumann, preside della scuola ebraica di Milano, presidente della Federazione Sionistica Italiana e infaticabile supporter del cattolicesimo postconciliare: «L'ebreo non può non
sentirsi sionista, giacché ebraismo e sionismo costituiscono una medesima realtà».
Affermazione, questa di Schaumann, anticipata dal prussiano Rabbi Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874), invocante la
formazione di insediamenti ebraici in Eretz Israel quale premessa della redenzione divina mondiale, e nel 1969 da Saul
Spiro nel saggio The Ideas of Zion, compreso in Fundamentals of Judaism: «Il sionismo fu non solo artefice della
restaurazione dello Stato d'Israele, fu anche artefice del rinvigorimento della vita ebraica nella Diaspora, della rinascita
della creatività letteraria e di una rinnovata identificazione degli ebrei col giudaismo e con la sua civiltà. Fu Herzl, il capo
politico, ad affermare che "il sionismo è il ritorno degli ebrei al giudaismo, prima di essere il ritorno degli ebrei alla loro
terra" [...] Recentemente [Ben Gurion] ha detto: "Le sofferenze del popolo ebraico nella diaspora, economiche, politiche o
culturali che fossero, sono state un fattore che ha potentemente spinto all'immigrazione nella Terra d'Israele, ma fu soltanto
la visione messianica che rese fruttifero tale fattore e lo guidò a creare lo Stato. Ciò che ha assicurato la sopravvivenza del
popolo ebraico attraverso le generazioni e l'ha condotto a creare lo Stato è la visione messianica dei profeti d'Israele. Lo
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Stato d'Israele è uno strumento per la realizzazione di tale visione messianica". Cos'è allora Sion? È un concetto nazionale
connesso non tanto con un popolo quanto con una particolare terra e con un particolare luogo santo di questa terra, Sion
[...] Sion e il popolo ebraico sono inseparabili. Sion è una parte essenziale del nostro credo religioso e del nostro retaggio
storico, e l'unità dell'intero Israele ci fa porre Sion "al primo posto nei nostri pensieri"».
Concetto riecheggiato da Amos Wilder, il 3 ottobre 1979: «There is an inseparable link between God's People, Law
and Land, C'è un legame indissolubile tra il Popolo di Dio, la Legge e la Terra»; terra d'Israele spiritualizzata, simbolo di
un ordine ideale sia in questo mondo concreto sia nel soprannaturale Mondo Avvenire, e perciò «imperativo territorialeteologico», il più forte di ogni epoca e popolo: «La Terra nella storia divenne una speranza per un ordine di là della storia.
Quanto lungi si spingerà la Terra come simbolo di un ordine trascendente, mentre la promessa del territorio verrà assorbita,
e perciò annullata, nella brama della futura "età che verrà" e "nuova creazione"?» (in W.D. Davies).
L'inscindibilità teorica e pratica di ebraismo e sionismo viene sostenuta anche dal duo Prager/Telushkin: «Un attacco
al concetto di elezione ebraica [come quello portato da certi "antisionisti"] non è un attacco al sionismo: l'elezione non
gioca alcun ruolo nel sionismo. È invece la dottrina fondamentale del giudaismo [...] Mentre l'antisemitismo della Sinistra
indossa generalmente la maschera dell'antisionismo, le pubblicazioni antiebraiche della Destra Fascista solitamente ammettono la propria ostilità nei confronti degli ebrei, giudicando correttamente il sionismo come una manifestazione del giudaismo» (i Naturei Karta, punzecchiano, «sono rappresentativi degli ebrei come le sette quacchere lo sono dei cristiani»).
Affermazioni, queste di Schaumann, Wilder, Davies e Prager/Telushkin, anticipate nell'agosto 1971 dal gran
conservatore (poi aggressivo neocon) Podhoretz: «Ora, è perfettamente vero che l'antisionismo non è necessariamente
antisemitismo. Ma è anche vero, temo, che la distinzione fra i due è spesso invisibile al nudo occhio ebraico, e che
l'antisionismo è servito a legittimare l'aperta manifestazione di una buona quantità di antisemitismo che sarebbe altrimenti
rimasta schiacciata dal tabù contro l'antisemitismo che ha prevalso nella vita pubblica americana dai tempi di Hitler fino,
all'incirca, alla Guerra dei Sei Giorni».
Affermazioni, tutte queste, giustamente ribadite nel 1997 dal caporione Riccardo Pacifici, fatto poi portavoce e
addirittura vicepresidente e poi presidente della Comunità romana: «La mancata conoscenza del mondo ebraico provoca
errori di valutazione sul sionismo, che non è solo un movimento politico di cui gli ebrei possono decidere se far parte o no.
Il sionismo è nell'ebraismo sin dalla nascita; sionismo è pregare tre volte al giorno verso Sion (la collina su cui sorge
Gerusalemme) così come fa ogni ebreo laico od osservante da duemila anni; sionismo significa che quando si celebra un
matrimonio lo sposo reciti alla fine della cerimonia, rompendo il bicchiere con il tacco, "se mi dimentico di te Gerusalemme si secchi la mia mano destra"; sionismo è recitare la sera del Seder di Pesach (cena pasquale) "L'anno prossimo a
Gerusalemme"; sionismo è anche morire ed essere sepolto come vuole la tradizione con il corpo rivolto verso Sion. Ecco
perché essere antisionisti significa essere antisemiti».
E tritamente ri-ribadite nel novembre 2003 da Leone Paserman, presidente della Comunità romana, dopo che il
sondaggio Eurobarometro commissionato alla EOS-Gallup Europa dalla Commissione Europea («Per ciascuno dei
seguenti paesi dite se, secondo voi, rappresenta una minaccia per la pace nel mondo») ha indicato al primo posto Israele
con una quota del 59% (dal 74 dell'Olanda al 48 dell'Italia, passando per il 65 della Germania e il 55 della Francia; secondi
gli USA col 53%, pari merito con le «canaglie» Corea del Nord e Iran): l'ebraismo è in allarme per «una nuova e crescente
forma di antisemitismo e antisionismo, che sono la stessa cosa [...] La classe politica europea, i governi, i partiti, gli
opinion-leader dovrebbero fermarsi a fare un esame di coscienza. Perché la demonizzazione di Israele avvenuta in questi
ultimi anni sta producendo esiti veramente scioccanti. L'Europa ha già visto la Shoah, l'orrore che si perpetrava nell'indifferenza, nell'acquiescenza o con la collaborazione della popolazione. Adesso bisogna in tutti i modi impedire un
ritorno agli anni Trenta».
Di conserva il suo portavoce Pacifici, rigettando l'idea che gli ebrei possano essere ancora ritenuti responsabili «di tutti
i mali del mondo» (invero, di «tutti» nessuno l'ha mai preteso): «È incredibile che l'Europa nata dalle ceneri della Shoah e
resuscitata all'indomani della Seconda Guerra Mondiale grazie ai valori di libertà e democrazia possa aver consentito di
commissionare un sondaggio di questo genere».
Ecco infine, nel marzo 2004, il sermone in Campidoglio del settantaseienne Elie Wiesel – compartecipi il sinistro
Walter Veltroni sindaco di Roma e il viceprimoministro «postfascista» Gianfranco Fini, attorniati dall'ambasciatore
israeliano Ehud Gol, dal caporabbino Riccardo Di Segni e dal presidente della Comunità romana Paserman – innalzante la
Medaglia d'oro al Valor Civile ricevuta dal quirinalizio Carlo Azeglio Ciampi: «Il mostro è tornato qui tra noi nuovamente
[...] Le comunità ebraiche europee tornano a vivere nella paura [...] C'è un pericolo morale per l'umanità e lo potete vedere
nella crescita del fenomeno antisemita, nelle sue nuove forme contro Israele, cuore del popolo ebraico. Viene oggi condotta
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una campagna infamante, utilizzando le stesse parole che usiamo noi. L'antisemitismo è odio, che produce altro odio. Chi
odia, odia se stesso e tutti, si distrugge [...] Celebrare significa inventare punti di riferimento. Bisognerebbe ricordare ogni
minuto, altrimenti la memoria rischia di essere sopraffatta dal quotidiano, dalle sfide e dalle avventure della vita».
E l'equivalenza ebraismo/sionismo è tanto vera sia nelle idealità che nella pratica, che nessun ebreo al mondo,
individuo o gruppo organizzato che sia, manifesta perplessità – come del resto nessun individuo o governo goyish – contro
l'incredibile arroganza dell'emendamento al codice penale varato dalla Knesset il 23 agosto 1994 ed entrato in vigore giusto
un anno dopo. L'emendamento, c'illumina – sul quadrimestrale geopolitico liMes e non sui media a larga diffusione – il
confrère Emanuele Ottolenghi, «stabilisce che chiunque nel mondo commetta un reato contro un ebreo per il solo fatto che
è ebreo – quindi reato di antisemitismo – è punibile in Israele, dove può essere estradato e processato. L'emendamento
stabilisce un principio importante: non solo la giurisdizione israeliana, in determinati casi, si estende anche oltre confine,
ma essa tutela cittadini non israeliani. La logica alla base di questo emendamento è che ogni ebreo nel mondo è
potenzialmente un cittadino israeliano, e che un reato commesso per motivi di antisemitismo è un reato contro il popolo di
Israele, che lo Stato può quindi punire. Dire popolo d'Israele non è per altro lo stesso che dire popolo israeliano. Le due
espressioni rappresentano due realtà diverse. La prima è quella della collettività del popolo ebraico, composto da ebrei
residenti in tutto il mondo, cittadini di molti paesi, tra cui Israele. La seconda è invece l'insieme dei cittadini israeliani,
molti dei quali, ma non tutti, ebrei».
Chiarissima l'eterna doppiezza, quella ideale/pratica doppiezza che da sempre e in cangiante maniera distingue i
Primogeniti: «Sulla carta d'identità, alla voce nazionalità (leom) l'individuo risulta ebreo, arabo, druso, circasso o beduino,
ma mai israeliano. Il termine israeliano appare solo sui passaporti come cittadinanza (ezrachut). La ragione di ciò è che
Israele nasce come stato degli ebrei e per gli ebrei che sono dispersi nel mondo, e viene concepito sin dall'inizio come Stato
nazionale del popolo ebraico. Essendo d'altronde uno Stato democratico, esso concede cittadinanza e diritti alle minoranze
non ebraiche presenti sul territorio nazionale. Si trovano allora a vivere in Israele cittadini israeliani che non condividono il
comune patrimonio storico e religioso degli ebrei, patrimonio che è uno dei motivi fondanti lo Stato. Al contempo vivono
al di fuori d'Israele persone che condividono quel patrimonio ma che israeliani non sono [...] Come conseguenza, questa
sorta di equivoco permanente, per cui i due termini ebreo e israeliano [o, con sinistro linguaggio: ebreo e sionista] sono
inestricabilmente collegati fino a confondersi senza mai completamente coincidere, domina la realtà politica, giuridica e
sociale d'Israele» (e, completeremmo, degli ebrei diasporici nella quasi totalità).
Concetti pienamente coerenti con l'orgogliosa rivendicazione di Vladimir Jabotinsky: «Noi sionisti non ci consideriamo
un partito, bensì i portavoce dell'intero popolo ebraico» (gennaio 1906). Nonché con la definizione della Palestina-nonancora-Israele data dal nazionalsocialista Giselher Wirsing: «Vatikan des Weltjudentums, Vaticano dell'ebraismo
internazionale».
Ma l'eterna questione dei rapporti tra sionismo ed ebraismo è ben altrimenti sviscerata da molti non-ebrei, e
segnatamente dai pretesi anticonformisti della sinistra rivoluzionaria. Esempio tipico di tale posizione è quanto sostenuto
dagli estensori di Sionismo e Medio Oriente a proposito dei «cialtroni più o meno illustri che nella stampa democraticoborghese si adoperano per ribadire la calunniosa identificazione dell'antisionismo con l'antisemitismo e che in tal modo,
finendo per aumentare la confusione esistente, pervengono al bel risultato di conferire un'apparenza di plausibilità alla tesi
antisemita secondo cui il sionismo sarebbe solo un'espressione tattica dell'ebraismo [...] antisionismo e antisemitismo sono
e rimangono, in sé, cose assolutamente diverse, checché blateri la propaganda sionista, ribaldamente impegnata ad
accreditare un'assurda e menzognera identificazione dell'uno con l'altro». Ed egualmente l'«anticonformista» ed «anomalo»
Costanzo Preve, che definisce non solo «scorretta» ma «addirittura blasfema» «l'equazione [...] fra ebraismo e sionismo».
Imbevuti di purissimo verbo marx-leninista, tali ultrasinistri ci sembrano in realtà talmudicamente dèditi, più che a
documentarsi sull'essenza del giudaismo sfogliandone i testi e compulsando le innumeri analisi compiute in passato dagli
studiosi sia non-ebrei che anti-ebrei, a forzare il percorso politico-storico dell'ebraismo negli schemi materialisti – invero
alquanto riduttivi – costruiti a metà Ottocento dal mancato rabbino di Treviri e ribattuti mezzo secolo dopo dal mancato
rabbino di Simbirsk. Non è infatti necessario essere «in preda al peggiore oscurantismo» per concordare – a parte il termine
«antisemita» – col «filosofo» Vladimir Jankélévitch (l'antisionismo come «permesso di essere democraticamente antisemita»), coi sentimenti della stragrande maggioranza degli ebrei di ogni tempo, coi giudizi dati in proposito dal mainstream
dell'ebraismo, con la sostanza dell'intera ideostoria giudaica e con la sua bimillenaria, mai mentita aspirazione sia alla
Terra Promessa («l'idea base del sionismo, la sovranità ebraica sulla terra di Israele, è centrale nella tradizione ebraica»,
riconosce J.J. Goldberg) sia alla guida dell'Unico Mondo. Non è necessario aderire a questa o a quella posizione nonebraica o anti-ebraica, sia essa ideo-spiritual-sentimentale o «bassamente» socio-economica e politico-materiale, per
concordare con la quasi totalità degli ebrei nel rilevare la sostanziale convergenza del sionismo – altro che «espressione
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tattica»! – con l'ebraismo lato sensu.
Quanto alla tesi che «in sé» antisionismo e «antisemitismo» debbano essere considerate cose «assolutamente
diverse», o che vada assolutamente respinto – in quanto invenzione propagandistica con cui Israele «tenta di
controbilanciare gli effetti che la sua nefanda politica, nefanda da sempre, e non a far data dall'ascesa al potere di questo o
quel macellaio, magari insignito del Nobel per la pace, produce sull'opinione pubblica mondiale» – «il fraudolento luogo
comune che dipinge l'antisionismo come la forma moderna dell'antisemitismo» (il nostro stimato amico, marxista ed
olorevisionista, Cesare Saletta III), tale tesi potrà forse essere accetta agli adepti della Ragion Pura, e unicamente da loro,
vaganti nell'iperuranio della più astratta concettistica.
Tanto dovevo a Lei ed ai nostri lettori. La ringrazio per la condivisione del mio pensiero.
Cuveglio, 25 settembre 2012
P.S. Così il Rotolante ha insultato – sapendo o non sapendo di mentire è la stessa cosa – l'onesto
storico e mio fraterno amico Paolo Sensini: «Poi uno, torvo nelle retrovie, che nella mia stessa
delegazione si aggirava per la Libia vestito come un tennista degli anni ’30, per poi trarne un libro
di cui in rete si evidenziò la scopiazzatura parola per parola di brani di un altro saggio (di Claudio
Moffa). Ne potete vedere l’effigie nel sito del forzanuovista palermitano Filippo Pilato, dove figura
come colonna dell’informazione sulla Siria (vi figurava anche un’incauta Correggia, fino a quando
non le è stata segnalata l’incongruenza). Venuto a spiare la fine di un paradossale monopolio
nazifascista sulla solidarietà con la Siria? Venuto per diffondere balle sul sottoscritto di cui, non
avendone condiviso l’esperienza sotto i successivi [sic!, ma finissimo Rotolante, basta questo
aggettivo ad autosputtanarti!] bombardamenti Nato in Libia e non avendone visto la
documentazione nei film, narra che le bombe se le inventava. Miserie. Peccato che con simile
soggetto Marinella Correggia, brava demistificatrice delle menzogne di guerra Nato, abbia voluto
scambiare conversari intensi dando di spalle dal palco da dove si succedevano gli interventi che
dicevano di Siria, di genocidi, di sofferenze e di lotte nostre e loro, da Monti a Obama, dalla falcidie
operaia alle stragi mercenarie. Una caduta di rigore, di gusto».
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