2.2012V11 - Innovazione e diritto

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Innovazione e Diritto Rivista di Diritto tributario e del lavoro si impegna a procedere alla selezione qualitativa dei materiali
da pubblicare sulla base di una valutazione formalizzata e anonima di cui è responsabile il Comitato scientifico. Tale sistema
di valutazione è coordinato dalla Direzione e si avvale anche di esperti esterni al suddetto Comitato.
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INDICE
Aumentano le imposte, crolla il gettito: ma per comprendere cosa sta accadendo, è
inutile scomodare Laffer
di Raffaele Perrone Capano …...………...……………………………...…..……..… pag.5
Quel che resta del processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale:
lo stato attuale della fiscalità regionale e locale
di Paola Coppola………………………………………………………………… ..
pag.49
Strumenti per la crescita economica: il contratto di rete e la sua disciplina fiscale
di Clelia Buccico……………………..…………………………………………….
pag. 71
Personal Income Tax in the Tax System of the Czech Republic
di Michael Kohajda …………….....……….….………………….…..….………….. pag.100
Il legislatore fiscale finalmente sensibile ai dettami europei: la recente disposizione
in tema di accertamenti IVA e scudo fiscale.
di Roberta Alfano………………………………………………………….. ……… pag.109
Accesso agli atti tributari tra Statuto dei diritti del contribuente ed aperture
giurisprudenziali
di Gabriella De Maio…..…………………………….…………..………………..
pag.124
Note minime in tema di interpretazione del divieto di aiuti di stato in materia fiscale.
di Chiara Fontana………………………………………………………………..…. pag.132
La natura degli impianti fotovoltaici tra le scelte contrattuali e incertezze normative
di Maria Pia Nastri.………………………………………………………....……… pag. 147
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L’applicazione del principio del contraddittorio nella fase istruttoria del
procedimento tributario tra democraticita’ dell’azione amministrativa e limiti
derivanti dall’attivita’ di controllo nella logica di risultato
di Loredana Strianese……………………………………………………………… pag.162
Considerazioni sull’iscrizione d’ipoteca a tutela della riscossione
di Dario Augello……………………………………………………………………pag. 177
IRAP: Spunti ricostruttivi di un percorso indefinito
di Maria Villani………………..…………………………………………
pag. 194
PARTE SECONDA
Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 31 ottobre 2011, n. 105/E
……………………………………………………………………………………. pag.218
Revoca dei benefici fiscali “prima casa” e mancata applicazione delle sanzioni
di Giuseppina Simioli ……………………………………………………………… pag.223
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Aumentano le imposte, cala il gettito, crolla il Pil: ma per comprendere cosa sta
accadendo, è inutile scomodare Laffer
di Raffaele Perone Capano
Abstract
The study aims to analyze the relationship between the new recession that has affected Italy
and the quality of public policies from 2008. After analyzing the effects of government
spending and tax policy during the recession 2008/2009, the work shows the constraints and
critical issues caused by the choice of Berlusconi government to give up the tax reform with
the aim of giving priority to reform federalism. After a careful analysis of legal and
institutional profiles that affect the Italian economy slowing growth, the study critically
analyzes the profiles and quantitative distribution of fiscal policy in recent years, which
highlights the close causal relationship with the recession in place. The recovery of
constitutional guarantees, interpreted in referring to the unity of the financial system, set the
frame for a stable recovery of the Italian economy, based on a tax reform that has centered
on the person, work, the company.
SOMMARIO: 1)Premessa. 2) Alcuni indicatori significativi ai fini dell'analisi degli effetti
della politica tributaria. 3) Il fisco come variabile indipendente, tra aumento delle imposte e
crollo del Pil. 4) Le origini tributarie ( ignorate ) della recessione. 5) I profili giuridici ed
istituzionali della crisi italiana. 6) Il principio di capacità contributiva tra limiti del sindacato
di legittimità e garanzie del sistema.7) Autonomia, decentramento e unità del sistema
finanziario 8) Conclusioni.
1) Premessa
Con un mercato dei derivati la cui dimensione è stimata pari a 10 volte il Pil del pianeta (ma
secondo alcuni osservatori questo dato sarebbe fortemente sottostimato) e una instabilità dei
mercati finanziari che è al tempo stesso effetto ma anche alimento delle difficoltà di molti
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debiti sovrani, tra cui il nostro, con interi sistemi bancari in crisi di liquidità, sottovalutare le
difficoltà in cui si è trovato ad operare il nuovo Governo Monti dopo la liquefazione della
vecchia maggioranza di centro-destra, costituisce
un errore che occorre evitare
accuratamente di commettere.
D'altra parte proprio la consapevolezza dei problemi in cui l'Italia oggi è immersa ed in cui è
costretto a operare il Governo, dovrebbe spingere gli analisti ad una valutazione ben più
scrupolosa delle politiche pubbliche degli ultimi due anni, sulla cui efficacia e soprattutto
sulla cui ineluttabilità è possibile esprimere, con spirito ovviamente costruttivo una serie di
riserve e di critiche argomentate.
Per comprendere quello che è accaduto in Italia nel 2011 occorre ritornare al 2010 e agli
effetti di una ripresa che quantomeno nelle regioni più sviluppate, si collocava intorno al
2%; un dato tutt'altro che disprezzabile rispetto ai principali partner e concorrenti europei,
anche in considerazione del fatto che tra i 2008 e il 2009 l'Italia ha affrontato la recessione
cercando di contenerne al massimo gli effetti sociali diretti e indiretti sull'occupazione,
tuttavia senza ulteriori interventi di sostegno all'economia a carico della finanza pubblica.
A questo dato di per sé significativo occorre aggiungere che a partire dal terzo trimestre
2009 e fino agli inizi del 2011 le esportazioni italiane sono riprese con un tasso di crescita
parallelo a quello della Germania, il che evidenzia specie per le imprese più vocate alle
esportazioni, una chiara capacità di realizzare anche in periodi di crisi elevati recuperi in
termini di competitività, e di conquista di nuovi mercati.
Purtroppo questo è probabilmente il solo elemento positivo che emerge dall'analisi dei
principali indicatori delle politiche pubbliche nel periodo 2009 / 2011. Il sistema di
ammortizzatori sociali vigente, peraltro opportunamente esteso per contenere gli effetti della
recessione sul mondo del lavoro, ha soltanto ritardato gli effetti della crisi sull'occupazione;
mentre l'assenza di politiche pubbliche innovative orientate allo sviluppo, ha condotto a
diffuse ristrutturazioni con guadagni di competitività e perdite di posti di lavoro, tuttora in
atto che hanno riportato la disoccupazione in Italia al livello di oltre 10 anni or sono, con un
tasso a due cifre la cui dinamica negativa non sembra ancora potersi arrestare.
In particolare il carattere regressivo della politica di bilancio che ha caratterizzato il 2010 e si
è ulteriormente aggravato nel 2011, ha avuto effetti particolarmente negativi sulla domanda
interna, sulla quale a partire dall'estate 2011 si è ulteriormente accentuata una politica
tributaria sempre più caotica e meno equilibrata, che è all'origine di una crisi fiscale senza
precedenti, sulla quale occorrerebbe una riflessione attenta, sia per l'alto grado di
prevedibilità di questa crisi, sia per il fatto che alla base vi sono scelte discrezionali di politica
tributaria improvvide, tutt'altro che ineluttabili.
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.
1) Alcuni indicatori significativi ai fini dell'analisi degli effetti della politica tributaria
Prima di esaminare alcuni dati macroeconomici particolarmente significativi ai fini della
comprensione degli effetti della politica tributaria negli ultimi anni, mi sembra opportuno
richiamare alcuni degli indirizzi di politica economica che hanno caratterizzato la politica di
bilancio dal 2009 al 2011. In quel periodo nonostante il peso di una recessione che avrebbe
consigliato di concentrare ogni risorsa su obiettivi di crescita, per minimizzarne gli effetti
negativi sul piano sociale, il governo di centro-destra aveva optato per la stabilizzazione del
sistema tributario, finalizzata a realizzare in un arco di tempo il più ristretto possibile il
federalismo fiscale.
Nasce da questa scelta improvvida, del tutto avulsa dal dato congiunturale, una politica di
bilancio fortemente squilibrata dalla lato delle entrate, testimoniata da un disavanzo nel
2009 e soprattutto nel 2010 inferiore per oltre mezzo punto di Pil rispetto alle previsioni di
bilancio, accompagnata tuttavia da una crescita trainata essenzialmente dalle esportazioni.
Tanto è vero che nel 2010 il Mezzogiorno non è stato neppure sfiorato dalla ripresa, con la
Campania, la regione più popolosa ed industrializzata che ha registrato un ulteriore calo del
Pil di 0,6 punti.
Il mancato apporto alla crescita della domanda interna non è evidentemente casuale ma è
legato alle condizioni di stress fiscale che hanno accompagnato la politica di bilancio a
partire dal 2007, accentuate ulteriormente negli anni 2010/ 2012 .
Politiche che ruotano intorno agli effetti poco meditati della riforma dell'Irpef del 2007, che
ha ribaltato lo schema dell'Ire riformata appena un anno prima ed ha incrementato, senza
alcuna simulazione degli effetti distributivi, il peso della progressività marginale, in
particolare
sui redditi medio bassi, o con carichi familiari.
Basta pensare al sistema delle addizionali regionale e comunale all'Irpef, il cui gettito nel
2012 supererà i 15 miliardi, che, nel passaggio dalle deduzioni alle detrazioni d'imposta,
stabilito nel 2007 dalla riforma Visco, ne ha esteso l’ imponibilità alla no tax area e la family
area, precedentemente esenti, per cogliere un'ulteriore profilo di regressività.
Nella stessa linea di pensiero si inseriscono una serie di innovazioni, estese alle attività di
accertamento, non coordinate al sistema ,solo apparentemente utili ai fini del contrasto
all'evasione, in realtà di scarsa efficacia specie nei confronti di quella più aggressiva e
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pericolosa sotto il profilo quantitativo, ma dagli effetti depressivi certi dal punto di vista
della domanda. Basta andare alle limitazioni nella circolazione degli assegni che non hanno
riscontro in nessun altro paese europeo, che ha moltiplicato gli effetti depressivi della stretta
creditizia.
O alla tracciabilità delle spese, che ha condizionato negativamente la dinamica degli acquisti
di beni di consumo durevole e ha aggravato ulteriormente la crisi del comparto turistico,
sottoposto alla duplice concorrenza di soggiorni di vacanza all'estero, attrattivi in termini di
prezzo e non sottoposti alle limitazioni connesse con la tracciabilità delle relative spese.
Se si prescinde dall'andamento dei consumi natalizi (praticamente in caduta libera in tutti i
comparti con punte del 24% nel settore dei mobili, arredamento ed elettrodomestici), e dal
periodo dei saldi, più influenzati da preoccupazioni di tipo congiunturale, che
significativamente avevano avuto un andamento negativo simile ancorché meno accentuato
nel 2010 (anno in cui il Pil era cresciuto di 1,3 punti), le previsioni sull'andamento
dell'economia italiana nel 2012 formulate a gennaio dal FMI, indicano una recessione
particolarmente elevata( 2,3%) con una coda dello 0,6% nel 2013.
I dati reali sul calo del Pil nell'ultimo trimestre del 2011 (-0,7%) e nel primo del 2012 (-0,8%)
comunicati dall'Istat, confermano aggravata questa tendenza e non lasciano prevedere per il
futuro prossimo nulla di buono, essendo influenzati in modo particolarmente negativo dal
calo della domanda interna e da una accelerazione dell'aumento della disoccupazione,
attestata all'8,9% a dicembre 2011.
A questa panoramica sicuramente non favorevole si può aggiungere che nei primi mesi del
2012 l'incidenza dell'inflazione sui consumi delle famiglie è stata particolarmente significativa
(+4,6%) mentre sempre nello stesso periodo, le promozioni di prezzo nella grande
distribuzione (super store e ipermercati) hanno superato il 30% delle vendite; una boccata di
ossigeno per le famiglie, che tuttavia non offre ulteriori margini di manovra.
Non meno indicativi dati relativi al credito al consumo nei primi mesi del 2012 che
evidenziano una contrazione media del 13% rispetto all'anno precedente. Completa il quadro
un calo dei consumi delle famiglie nel Mezzogiorno intorno al 4,5%, contro una sostanziale
stabilità nel resto d'Italia; una spia ulteriore del carattere regressivo della politica di bilancio
degli ultimi anni, e del fatto che la stretta fiscale abbia pesato relativamente di più nel
Mezzogiorno.
Anche la produzione industriale, che nel 2011 era rimasta praticamente ferma, nei primi
mesi del 2012 ha evidenziato un forte calo praticamente in ogni comparto, con immediati
riflessi sulla disoccupazione, che in poco più di un trimestre ha sfondato il tetto del 10%. Se
confrontiamo questi elementi con le previsioni di crescita che vengono dal resto d'Europa e
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che indicano nel 2012 una contrazione del Pil nell'euro zona di 0,3 punti percentuali ,
determinata essenzialmente dal calo del prodotto interno lordo in Italia e in Spagna, paese
quest'ultimo in condizioni ben più gravi dell'Italia, una riflessione si impone.
Ancora una volta l'Italia è il paese che nella fase discendente del ciclo si comporta peggio,
con un calo del prodotto interno lordo stimato nel 2012 pari quasi al doppio della Spagna,
nonostante un tasso di disoccupazione che e meno della metà di quello spagnolo, un sistema
bancario solido, e nessun effetto collaterale prodotto da bolle speculative. Appare quindi
ragionevole dedicare maggiore attenzione alla qualità e al ruolo giocato dalle politiche
pubbliche sulla crescita italiana nel biennio 2010- 2011, e sulla recessione attuale, per
analizzarne le cause e riflettere su una possibile via di uscita.
In tutti i casi il forte rallentamento dell’economia reale nei principali paesi europei non potrà
non incidere negativamente anche sulla dinamica dell'esportazioni italiane, in quella che
tradizionalmente costituisce la principale area di sbocco per le nostre merci.
Prevedibilmente il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil rimarrà positivo anche
nel -2012; ma mentre in base alle ultime indicazioni della Banca d'Italia il prodotto interno
lordo italiano è ancora inferiore di oltre cinque punti al picco del 2007 e il 2012 contribuirà
ad aggravare questo dato ulteriormente, il reddito reale disponibile pro capite delle famiglie è
diminuito di oltre sette punti, mentre la produzione industriale si è ridotta di un quinto.
Si tratta è bene dirlo, di numeri particolarmente negativi, che non hanno riscontro in nessun
altro paese europeo e che indicano, accanto a difficoltà obiettive che non avrebbe senso
sottovalutare, una serie ulteriore di elementi di criticità che traggono origine dalle scelte
discrezionali che hanno caratterizzato le politiche pubbliche in questi anni.
La cui regressività di fondo, sia dal lato della spesa pubblica sia degli effetti della politica
tributaria è stata fortemente sottovalutata dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni
.L’ ‘evidente assenza di coordinamento tra le politiche di bilancio tese a porre sotto controllo
la dinamica della spesa pubblica, e una politica tributaria priva di equilibrio dal punto di vista
distributivo, ha determinato un effetto sinergico moltiplicativo che ne ha accentuato la
regressività.
Di queste criticità l'esempio più evidente è rappresentato dai profili distributivi assunti
dall'Irpef in seguito alla riforma Visco del 2007, che anche a causa di una struttura
dell'imposta caratterizzata da un addensamento degli effetti della progressività marginale sui
redditi più modesti, ha distribuito su questi ultimi la maggior parte degli incrementi del
gettito dell'Irpef.
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3 ) Il fisco come variabile indipendente ,tra aumento delle imposte e crollo del Pil,
Quale sarà il gettito delle entrate tributarie nel 2012 nessuno è in grado di dire oggi con
certezza. Il governo Monti nel presentare al Parlamento la manovra 2012, caratterizzata da
una legge di stabilità e di bilancio presentata dal precedente esecutivo, affiancata da un
decreto-legge (il cosiddetto salva Italia del 6 dicembre 2011) che comporta maggiori entrate
per circa 32 miliardi di euro, parallelo alla manovra di bilancio, ma privo di qualsiasi
raccordo o coordinamento con quest'ultimo, aveva stimato che l'incremento della pressione
fiscale al 45,4% previsto per il 2012, , avrebbe comportato un calo del prodotto interno
lordo pari a mezzo punto di Pil.
Nel successivo documento di economia e finanza (Def) presentato a giugno dall'esecutivo la
contrazione del Pil veniva indicata nell'1,5%; una previsione, occorre dirlo, purtroppo
irrealistica dato che per effetto del trascinamento acquisito dalla contrazione del Pil nell’
ultimo trimestre del 2011, pari a 0,7% e al calo dello 0,8% registrato nel primo trimestre
2012, la riduzione tendenziale del Pil alla fine del primo trimestre 2012 è già pari a 1,4%.
Non deve quindi sorprendere che al giro di boa del primo quadrimestre di quest'anno le
entrate tributarie abbiano fatto registrare un calo di 3,4 miliardi rispetto alle previsioni. Il
dato di per sé non assumerebbe particolare interesse, se la contrazione del gettito fosse il
frutto del rallentamento dell'economia e non ne rappresentasse invece la principale
concausa.
Lo scopo di queste note è quindi quello di evidenziare che gli effetti indesiderati delle
manovre di finanza pubblica adottate in successione e senza alcun coordinamento tra entrate
e spese a partire dal luglio 2011, dai governi Berlusconi e Monti sono prevalenti, rispetto agli
obiettivi desiderabili di riequilibrio della finanza pubblica, perché distruggono più ricchezza
di quella che dovrebbe essere destinata al pareggio di bilancio e quindi contribuiscono, oltre
ad impoverire l'Italia , a peggiorare il rapporto tra debito pubblico e Pil . Un esito , è bene
dirlo che non trova alcun possibile riferimento all'interno del sistema finanziario regolato
dalla Costituzione; al contrario rappresenta la cartina di tornasole di una profonda crisi
istituzionale.
Si cercherà quindi di mettere in luce come questo risultato, particolarmente negativo per la
nostra comunità, non trovi alcuna copertura ordinamentale né giustificazione determinata
dall'emergenza, che lo renda in qualche modo ineluttabile. Rappresenti al contrario la
prevedibile conclusione del progressivo sfarinamento del nostro sistema istituzionale ed in
particolare del principio di unità del sistema finanziario, garanzia e limite all'esercizio della
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discrezionalità legislativa e al tempo stesso quadro di riferimento entro cui devono essere
regolati, nell'esercizio delle rispettive competenze, i rapporti tra Governo e Parlamento in
campo tributario.
Ovviamente non sono in discussione le scelte di tipo quantitativo operate dall'esecutivo; si
vuole invece sottolineare che gli effetti recessivi della manovra di finanza pubblica messa in
piedi in tutta fretta dal nuovo Governo, senza alcuna analisi dei possibili elementi di criticità,
evidenziano un chiaro aggiramento dei vincoli costituzionali che devono necessariamente
orientare le scelte del legislatore in campo tributario.
A partire dai profili distributivi, che non rappresentano un optional di cui ci si possa liberare
a piacimento, ma costituiscono lo snodo in cui il principio di capacità contributiva incontra e
da effettività al principio di eguaglianza in campo tributario.
A prima vista il calo del gettito dell'Iva e la contrazione dell'Irpef registrate nel primo
semestre 2012 potrebbero essere ricondotte ad un effetto collaterale inevitabile della
recessione. Tuttavia se si analizza con più attenzione la politica di bilancio degli ultimi tre
anni e i riflessi che questa ha determinato dal lato delle imposte, sia sull'economia reale sia
sulle famiglie, si giunge direi inevitabilmente a conclusioni diverse.
La ragione di questa affermazione sta nella particolare caratterizzazione assunta dalla
politica tributaria a partire dalla riforma Visco del 2007, incredibilmente consolidata senza
alcun elemento di riequilibrio o correttivo dal ministro Tremonti nei quattro anni successivi,
e di cui il decreto fiscale di dicembre (il cosiddetto salva Italia) rappresenta un elemento
ulteriore di continuità, a partire dalla caratterizzazione distributiva, il cui carattere regressivo
ne amplifica i profili distorsivi.
Quello che salta agli occhi è l'ulteriore accentuazione dei profili regressivi che caratterizzano
la maggior parte degli incrementi d’ imposta introdotti con il decreto-legge del 6 dicembre
2011.
La conferma della continuità degli indirizzi distributivi assunti dalla politica tributaria negli
ultimi anni, a partire dagli effetti recessivi, non spiega tuttavia come sia stato possibile
giungere ad un esito di questo tipo in una democrazia avanzata, il cui ordinamento
finanziario è caratterizzato da una serie di garanzie di ordine costituzionale , finalizzate
appunto ad impedire esiti di questo tipo.
Per meglio comprendere cosa sia accaduto in questi anni, non serve indicare una data precisa
o individuare un singolo responsabile.
Come cercherò di evidenziare nel corso di queste note la questione fiscale, esplosa con il
precipitare dell'Italia in una nuova fase recessiva, prima di essere politica e tecnica, evidenzia
un irrisolto profilo che definirei prima di tutto di ordine culturale.
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Vi è nella società italiana un diffuso pregiudizio statalista, che considera il nostro sistema
tributario un ottimo modello sotto il profilo distributivo, il cui principale inconveniente è
rappresentato dall'essere largamente evaso e eluso. Questo pregiudizio, probabilmente è
stato favorito dalla relativa facilità con cui in Italia è stato a lungo possibile correggerne
alcuni eccessi distributivi, evadendo le imposte.
Le cui aliquote del resto nel corso degli anni sono state più volte rimodulate in modo da
tener conto dell'evasione. (Il che oltre ad essere fuorviante dal punto di vista giuridico,
evidentemente non migliora la credibilità del sistema)
Il forte aumento della pressione tributaria, registrato nella seconda metà degli anni 90 per
agganciare l'euro, ha almeno in parte rimesso in discussione questo pregiudizio. Ma è solo a
partire dalla legge 80/2003 di delega per la riforma dell'ordinamento tributario dello Stato
che il governo si è posto seriamente il problema di una riforma del sistema tributario ,
finalizzata a rendere l'Italia competitiva dal punto di vista fiscale, con particolare attenzione
alle famiglie e al mondo delle imprese
Con quella legge, è bene dirlo frutto di un lungo e in parte tormentato iter parlamentare, il
governo di centro-destra dell'epoca avviava un ambizioso programma di riforma del sistema
tributario, basato su una profonda revisione delle imposte sul reddito, nella prospettiva di
realizzare successivamente un ampio decentramento fiscale nel segno della riforma federale
dello Stato.
L'obiettivo era quello di ridurre complessivamente la pressione fiscale di alcuni punti,
puntando essenzialmente sulla riforma dell'imposizione sui redditi personali e d'impresa e in
una prospettiva più gradata sulla abolizione dell'Irap; un'imposta che il centrodestra
dall'opposizione aveva contrastato aspramente.
L'idea di fondo alla base del progetto era che la riduzione della pressione sui redditi avrebbe
favorito l'emersione di una quota significativa di imponibili irregolari, sommersi o comunque
evasi o elusi; e che questo esito avrebbe innestato un circolo virtuoso in cui il costo in
termini ridi gettito delle riduzioni fiscali sarebbe stato rapidamente compensato dai maggiori
ricavi collegati all'emersione di maggiori redditi, con riflessi positivi innanzitutto sul gettito
dell’ Iva, la cui diffusa evasione trova appunto alimento nell'eccesso di pressione fiscale sui
redditi.
Il ragionamento occorre dirlo, trovava un suo fondamento logico non tanto nelle idee di
Laffer, secondo cui l'eccesso di fiscalità riduce il rendimento dei sistemi tributari; quanto nel
fatto che la particolare struttura del sistema produttivo italiano, basato su circa 1 milione di
società di capitali e su oltre 6 milioni di partite Iva, offriva ampi margini di recupero in
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termini di emersione di base imponibile, collegata ad una consistente riduzione del prelievo
a partire dei redditi più modesti e medi.
Il forte rallentamento dell'economia dopo l'attentato delle torri gemelle dell'11 settembre
2002, ha in parte condizionato negativamente una prospettiva di riforma dalle caratteristiche
probabilmente un po' troppo ideologiche; ma in buona sostanza alla fine della prima fase di
attuazione della legge delega 80 /2003, il bilancio poteva dirsi senz'altro positivo.
Innanzitutto la pressione fiscale si era ridotta di quasi due punti percentuali.
Nel settore dell'imposizione dei redditi di impresa la nuova imposta sui redditi delle società
di capitali (Ires) aveva infatti determinato, accanto a una modesta riduzione del prelievo
nominale, un forte incremento del gettito che ne avrebbe favorito in prospettiva la
riduzione, seguendo una tendenza diffusa in gran parte dei paesi europei, non soltanto
dell'est.
Un risultato positivo analogo si era realizzato anche nell'Irap con l'introduzione a partire dal
2005 di una deduzione di € 8000 dalla base imponibile applicabile a tutti i soggetti Irap con
non più di cinque dipendenti. Anche la riforma dell'Irpef, di gran lunga più complessa
innanzitutto per ragioni di gettito, attraverso la sostituzione delle detrazioni d'imposta con
deduzioni dall'imponibile, personali (no tax area) e familiari (family area) e l'ampliamento
del primo scaglione, aveva condotto a ricomprendere entro l’ aliquota massima del I°
scaglione pari al 23% oltre i due terzi dei contribuenti italiani. (L’aliquota media è
evidentemente minore)
Come è ovvio in un’imposta complessa e in fase di assestamento, la nuova Irpef (o IRE)
non era priva di qualche incongruenza minore o di qualche piccolo salto di imposta ; ma
nulla che giustificasse una controriforma quale quella inserita nella legge finanziaria 2007 da
Visco e Padoa Schioppa ed approvata in fretta e furia e senza alcun approfondimento dal
Parlamento a colpi di fiducia.
Il frettoloso ritorno al sistema delle detrazioni , questa volta non più in cifra fissa ma
decrescenti, al posto dell’assai più trasparente sistema di deduzioni introdotto dalla legge
80/2003, il dimezzamento del primo scaglione, e il conseguente aumento della progressività
marginale, concentrato peraltro essenzialmente sui redditi medio bassi, non compensato da
un modesto il aumento delle detrazioni personali, ha profondamente mutato i profili
distributivi del tributo : allargando ulteriormente la forbice tra la tassazione dei redditi da
lavoro dipendente (i più onerati da una riforma nata per avvantaggiarli ! ! ) e tutti gli altri.
Un effetto distributivo probabilmente sfuggito al controllo degli stessi proponenti , che ha
ulteriormente accentuato il peso dell'imposta sui redditi personali rispetto all'insieme dei
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principali Paesi nostri concorrenti; aumentando ulteriormente il cuneo fiscale nei redditi da
lavoro dipendente.
In ogni caso una politica tributaria poco equilibrata che assieme all'Irap compromette la
competitività del nostro sistema d'impresa sotto il profilo tributario.
E’ appena il caso di sottolineare che al di là degli eccessi e della visione fortemente
ideologizzata che ha caratterizzato la riforma Visco del 2007, questa ha avuto esiti ben
diversi rispetto alle attese dei proponenti.. Al giro di boa del secondo anno il gettito, non
più influenzato dalla rivalutazione retroattiva degli studi di settore (una decisione politica che
lascia il giurista senza parole) aveva fatto il pieno con i redditi da lavoro dipendente ,+9,9
miliardi rispetto ad un incremento totale del gettito dell'Irpef nel 2008 pari a 11,6 miliardi.
Nello stesso anno il cuneo fiscale secondo le stime della Banca d'Italia si era ulteriormente
allargato ,nonostante il taglio del costo del lavoro dalla base imponibile dell'Irap per oltre 5
miliardi di euro, introdotto l'anno prima.
Un risultato questo tutt'altro che sorprendente data la struttura della nuova Irpef riformata;
ma che deve comunque fare riflettere, perché evidenzia una mancanza di strumenti affidabili
ai fini della valutazione degli effetti quantitativi e distributivi di interventi discrezionali di
politica tributaria, inconcepibile in un grande paese come l'Italia.
Ancora più sorprendente, se possibile, l'assenza di osservazioni e di critiche rispetto agli
effetti di questa politica fiscale tanto ideologicamente orientata, quanto priva di qualità.
Al di là di queste considerazioni tutt'altro che prive di rilievo, vale forse la pena di richiamare
la motivazione di politica tributaria che aveva orientato la riforma dell'Irpef del 2007.
Questa aveva alla base un'idea di fondo: che per poter aumentare il prelievo nelle aree dei
redditi soggetti a dichiarazione, le più esposte al fenomeno dell'evasione, l'unico sistema di
contrasto efficace nel breve periodo fosse quello di combinare insieme un aumento
consistente della progressività marginale dell'Irpef con strumenti di tax compliance il più
possibile automatici, finalizzati alla crescita degli imponibili. (adeguamento degli studi di
settore; redditometro; spesometro; limitazione dell'uso del contante ; ecc.)
L'esperienza degli ultimi anni ha evidenziato i limiti oggettivi di questa visione statalista e
deformata della fiscalità , che in fin dei conti ha preteso di contrastare l'evasione, con misure
che incrementando fortemente la progressività marginale, hanno in teoria favorito ampi
recuperi in termini di gettito, collegati all'emersione di imponibili precedentemente evasi e
elusi.
Un'operazione quindi, occorre rilevarlo, sicuramente illusoria e perdente anche in termini
numerici, in presenza di ampie sacche di economia irregolare e di evasione, perché a
contemporaneamente aumentato la convenienza ad evadere.
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Intendiamoci, lungi da me l'idea (peraltro diffusa) che l'evasione abbia effetti positivi perché
impiega più utilmente una quota della ricchezza nazionale che altrimenti verrebbe dirottata
ad alimentare nuova spesa pubblica improduttiva. O che il fenomeno dell’ evasione più
proterva sia qualcosa che possa lasciare indifferenti.
Quello che è tuttavia certo è che le politiche di contrasto all'evasione, richiedono particolare
attenzione alla struttura delle imposte, che appunto devono essere tali da non favorire
l'evasione nella speranza di contrastarla; né che in assenza di meglio ci si possa acconciare a
cercare di ottenere qualche risultato immediato, attraverso la prevaricazione dei diritti dei
contribuenti.
In ogni caso le misure di contrasto vanno adottate con particolare attenzione alle condizioni
del contesto e più in generale agli effetti economici collaterali che esse possono determinare.
Banalmente si può osservare che se per rendere più difficile l'evasione si mette in piedi uno
stato di polizia fiscale, è indubbio che si potranno registrare risultati positivi in termini di
contenimento del fenomeno; ma gli effetti depressivi di contesto sull'economia potrebbero
essere tali da determinare complessivamente un calo di gettito e una contrazione del Pil. A
parte ogni considerazione circa il degrado della democrazia che uno stato di polizia fiscale
inevitabilmente porta con se.
È esattamente il percorso che l'Italia ha imboccato a partire dal 2006. Avviato con il decreto
Bersani del luglio 2006 questo indirizzo di politica tributaria è stato reso più organico da
Visco a partire dal 2007, con la deduzione di una parte del costo del lavoro dalla base
imponibile dell'Irap per ridurre il cuneo fiscale; con la riforma dell'Irpef , che almeno nelle
intenzioni avrebbe dovuto migliorare la distribuzione del prelievo a favore del lavoro
dipendente; e da ultimo con le misure tese a limitare la circolazione degli assegni e l'impiego
del contante.
Una politica tributaria tanto caratterizzata sotto il profilo ideologico quanto improvvisata nei
suoi effetti distributivi, consolidata inopinatamente dal nuovo governo di centro-destra ed in
particolare dal ministro dell'economia onorevole Tremonti, con il decreto dell'estate 2010
che, concentrando la riscossione nella fase dell'accertamento, privava i contribuenti delle più
elementari garanzie nella fase esecutiva, chiudendo il cerchio della stretta fiscale.
Esattamente l'opposto di quello che sarebbe servito all'Italia nel 2010 non solo per
consolidare la ripresa nelle regioni del Nord ma per estenderla al centro e soprattutto alle
regioni del Mezzogiorno, ancora in piena stagnazione.
Così facendo il ministro dell'economia on. Tremonti , si garantiva la copertura a sinistra, la
cui politica tributaria aveva fatto propria e quindi aveva le mani libere per attuare il
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federalismo fiscale, sacrificando a questo obiettivo politico, ogni risorsa disponibile,
incurante delle priorità legate alla ripresa della crescita economica.
Una politica tributaria miope, inutilmente aggressiva nei confronti dell'insieme della platea
dei contribuenti, messa in atto ignorandone platealmente i diritti e le garanzie costituzionali,
proseguita con un'inconsapevolezza evidente dall'attuale governo, resosi libero da qualsiasi
confronto con altre istituzioni, a partire dal Parlamento ed ormai giunto al prevedibile
traguardo di una recessione imponente, alimentata da clamorosi errori di politica tributaria.
A partire dal controllo della spesa pubblica, in cui è apparsa evidente l'attenzione del
governo a concentrare i tagli nei settori che offrono minore resistenza politica, dalle
retribuzioni del pubblico impiego alle pensioni, senza neppure sfiorare i santuari degli
sprechi che si concentrano negli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione e
nella spesa locale, la cui stabilizzazione è garantita da tagli dei trasferimenti statali
accompagnati da un incremento più che proporzionale dei tributi locali.
Per giungere agli eccessi di una politica tributaria improvvisata e priva di equilibrio sotto il
profilo distributivo, costellata da una serie di pseudo misure di contrasto all'evasione,
ovviamente del tutto inefficaci per colpire l'evasione organizzata di maggiori dimensioni (i
cui benefit finiscono ovviamente all'estero) che nessuno strumento automatico di
accertamento (dallo studio di settore al redditometro fino allo spesometro) sarà in grado di
fare emergere, se non si incide preventivamente e decisamente sulle convenienze ad evadere,
intervenendo sulla struttura delle imposte.
Misure tuttavia particolarmente efficaci per paralizzare una domanda interna già in grave
affanno per una stretta fiscale in atto da tempi ormai immemorabili, per di più caratterizzata
da profili particolarmente regressivi.
Resta in ogni caso il fatto che il continuo incremento del gettito dell'imposta sul reddito
personale sul totale delle entrate tributarie, alimentato dal drenaggio fiscale e da un impianto
dell'Irpef in cui gli effetti della progressività si concentrano in prevalenza sui redditi bassi e
medi, ha ulteriormente accentuato l'incoerenza sotto il profilo distributivo della principale
imposta italiana, compromettendo sempre più il funzionamento dell'intero sistema
tributario.
L’ analisi delle conseguenze di questa impostazione di politica tributaria, di cui il meno che si
possa dire è che è vecchia di almeno trent'anni, evidenzia in modo impietoso gli
inconvenienti prodotti da un modello sempre più oneroso di imposizione dei redditi
personali, disattento alla condizione delle famiglie, privo di correttivi di tipo congiunturale,
applicato per di più ad una realtà quale quella italiana, caratterizzata da forti squilibri nella
distribuzione dei redditi sul piano territoriale.
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Una condizione quest'ultima che da sola imporrebbe una tassazione dei redditi personali
molto più moderata, se solo si riflettesse al fatto che in provincia di Bolzano, caratterizzata
storicamente da un tasso di disoccupazione che oscilla intorno alla metà di quella che viene
definita come frizionale in tutti i manuali di economia, è possibile pagare le imposte che si
pagano in provincia di Enna, il cui tasso di disoccupazione è mediamente 10 volte maggiore:
purtroppo non vale il reciproco e la struttura dell'Irpef banalmente ignora il problema.
4 ) Le origini tributarie (ignorate) della recessione
Uno degli elementi più sconcertanti dell'azione di governo in campo tributario negli ultimi
cinque anni è rappresentato dall'assenza di linee guida, che possano far pensare
lontanamente ad un disegno di politica tributaria sia pure in embrione. Emblematica di
questa assenza è l’ indisponibilità da parte del governo di un modello econometrico di
simulazione degli effetti della politica tributaria; non può spiegarsi altrimenti l'incapacità
evidenziata da governi di diverso indirizzo politico a prevedere con sufficiente
approssimazione gli effetti fiscali e distributivi degli interventi discrezionali in campo
tributario che si sono succeduti in Italia negli ultimi anni.
Senza risalire troppo indietro nel tempo, si possono ricordare a questo fine le due manovre
fiscali del 2007 e del 2010, i cui effetti erano concentrati prevalentemente nella seconda parte
dell'anno. Nel 2007 la stretta fiscale attuata da Visco e Padoa-Schioppa per finanziare gli
aumenti della spesa pubblica e il taglio di una quota del cuneo fiscale nell'Irap, pari a quasi 22
miliardi di euro fra il luglio e il dicembre di quell'anno, aveva avuto come conseguenza un
brusco calo del Pil nell'ultimo trimestre 2007, (la crescita era passata in soli tre mesi dal 2%,
all'1,5%) che aveva anticipato una contrazione del Pil di 1,3 punti nel 2008, con una forbice
che andava dallo 09% delle regioni del Nord all’ 1,6% di quelle del Mezzogiorno.
Nel 2010, in un contesto economico meno favorevole un aumento del prelievo di circa 11
miliardi di euro nello stesso periodo, ha prodotto un effetto di freno analogo
sull'andamento dell'economia nel 2011; un segnale eloquente nella sua ripetitività, delle
condizioni di stress che caratterizzano da troppi anni l'ordinamento tributario, anche per i
profili distributivi poco attenti al principio di capacità contributiva che lo caratterizza.
Da ultimo il governo ha rinviato per due anni consecutivi da novembre all'estate successiva
versamenti di imposta per 4 miliardi di euro; un'ulteriore conferma dell’ improvvisazione che
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ha caratterizzato la manovra delle imposte, e di una navigazione a vista che evidenzia
l'assenza di una linea di politica tributaria degna di questo nome !!
È all'interno di questo quadro di riferimento che si inserisce come un fulmine a ciel sereno
l'ultima stima del centro studi della Confindustria sulla recessione in atto , quantificata nel
2012 intorno al 2,4% ed estesa anche al 2013; accompagnata da una pressione fiscale al
45,4% e da un tasso di disoccupazione del 12,4% nel 2013.
Probabilmente si tratta di una stima per difetto, vediamo perché.
In base ai ultimi dati diffusi dall'Istat, nei primi quattro mesi del 2012 l'occupazione nelle
imprese con oltre 250 dipendenti è diminuita del 2, 5% al netto della cassa integrazione, con
numeri particolarmente negativi nell'edilizia, nel settore manifatturiero ed in quello dei
servizi ad esso collegato; l'andamento positivo delle esportazioni conferma che questi dati
negativi sono il frutto del crollo della domanda interna; la flessione dei consumi nello stesso
periodo (6,8%) più ampia di quanto previsto dal centro studi della Confcommercio
conferma in modo impietoso questo dato.
Il punto di partenza per comprendere cosa sta accadendo in Italia dal punto di vista
congiunturale sta nel fatto che l’ FMI che di queste cose se ne intende, è dalla fine del 2011
che prevede per il nostro paese una recessione estesa al 2013, e per il 2012 più o meno delle
stesse dimensioni stimate da Confindustria (2,2%). Quello che ne l’ FMI ne Confindustria
sottolineano con sufficiente enfasi è che mentre il rallentamento dell'economia italiana nella
seconda parte del 2011 ha seguito grosso modo il trend delle altre principali economie
europee, su questo dato congiunturale di per sé non favorevole ,si è innestata a fine 2011
una ulteriore stretta fiscale.
Una manovra quest'ultima, frutto di evidente improvvisazione, che ha avuto un effetto di
freno drammatico anche perché inutile , in assenza di qualsiasi disegno di politica tributaria
degno di questo nome, per di più, in un'economia caratterizzata da cinque anni di stress
fiscale crescente.
Una recessione inquietante, in quanto essenzialmente di origine tributaria, determinata
dall'accentuazione degli squilibri distributivi che hanno caratterizzato le disposizioni a
carattere tributario adottate senza un minimo di equilibrio e coordinamento a partire
dall'estate del 2011. Una recessione che trae origine da un ordinamento tributario
letteralmente impazzito, e quel che è peggio inutile per riportare in equilibrio i conti
nazionali.
Basta pensare all’ ulteriore aumento dell'Iva già stabilito per legge, che scatterà dal 1
settembre e produrrà i suoi effetti nel pieno di una recessione che lo stesso governo Monti
ha provocato, con aumenti di imposte a pioggia privi di senso, proprio perché non inseriti in
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un disegno organico di politica tributaria; ed in cui l'esigenza costituzionalmente garantita di
tener conto dei profili distributivi è semplicemente ignorata.
Una recessione, va sottolineato senza opportunistici mascheramenti di cui il governo porta
tutta intera la responsabilità, anche per aver nascosto agli italiani le dimensioni della crisi che
questo vuoto politico stava determinando.
Non serve consultare un pool di premi Nobel dell'economia per comprendere che se invece
di rinviare l'aumento dell'Iva a settembre, alimentando l'illusione di poter trovare un'entrata
sostitutiva (6 miliardi in quattro mesi!!!) se ne fosse programmato l'aumento dal 1 gennaio
2012, destinando 10 miliardi dei 16 di maggior gettito atteso, al ritorno ad un modello
corretto di Irpef, alleggerita in base allo schema vigente nel 2006, e a una riduzione del peso
dell'Irap a partire dalle realtà minori di impresa e di lavoro autonomo, non solo l'Italia non si
troverebbe in una recessione senza ragione, di cui il meno che si possa dire è che le
dimensioni siano sfuggite al controllo del governo, ma il bilancio in termini di finanza
pubblica sarebbe decisamente diverso.
Basta ritornare agli effetti moltiplicativi sul gettito di tutte le principali imposte tra i 2005 e il
2006, determinato dai 6 miliardi di tagli fiscali mirati operati dal governo Berlusconi con la
finanziaria 2005, (finanziati vale forse la pena ricordarlo non solo con misure una tantum ma
anche con la revisione strutturale degli studi di settore) per poter costruire uno scenario
diverso, credibile in quanto basato su precedenti certi, idoneo a riequilibrare i conti pubblici
attraverso la crescita del Pil.
L'analisi degli effetti sia diretti in termini di aumento del prelievo a livello territoriale, sia
indiretti dal lato della spesa, indica che le politiche di contrasto all'evasione adottate negli
ultimi anni, non hanno non dico contenuto ma neppure scalfito l'evasione più aggressiva, i
cui esiti in termini di disponibilità di risorse sottratte al fisco continuano indisturbati a
prendere la via dell'estero. Mentre ha avuto effetti paralizzanti nei confronti dei redditi
minori, contribuendo per questa via a alimentare ulteriormente la recessione.
Se questa interpretazione appare corretta, e abbiamo indicato una pluralità di elementi che
la confermano, ci si deve domandare come mai il governo di centro-destra succeduto nel
2008 al governo Prodi non sia intervenuto a correggere gli effetti redistributivi fuori
controllo determinati dalla riforma dell'Irpef la del 2007.
Il primo elemento di certezza è rappresentato dal fatto che sicuramente al prof. Tremonti
non sfuggivano gli effetti più distorsivi della riforma Visco; a partire dai dati sulla
distribuzione del maggior prelievo che indicavano nel Mezzogiorno l'area di maggior
concentrazione degli aumenti del gettito tributario, in seguito al forte incremento dei prelievi
decentrati, a partire dalle addizionali locali..
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La stabilizzazione dell'Irpef d'altra parte, rappresentava un ottimo viatico per accelerare il
programma di decentramento finanziario che va sotto il nome di federalismo fiscale.
Un sistema tributario dello Stato in cui l'Irpef da sola sfiora il 50% delle entrate, avrebbe
consentito attraverso le addizionali Irpef (regionale e comunale) di trasferire alle regioni del
Nord, caratterizzate da una maggiore concentrazione dei redditi, una quota più ampia di
risorse, oltretutto soggette a una perequazione soltanto parziale in base ai principi e criteri
direttivi fissati dalla legge delega sul coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario.
Una scelta opportunistica per venire incontro agli interessi della Lega nord; in realtà una
linea miope, perché sacrificava all’interesse politico di trattenere una maggiore quota di
risorse fiscali nelle regioni del Nord, le ragioni ben più impellenti di una politica economica
orientata alla crescita in tutto il paese.
L'aspetto meno convincente di questo processo di decentramento fiscale poco attento ai
profili distributivi e caratterizzato dalla eccessiva compressione dell'autonomia tributaria a
livello locale, si è manifestato in modo chiaro durante la fase di elaborazione e poi di
adozione del decreto delegato sul cosiddetto federalismo regionale; questo decreto, di gran
lunga il più significativo fra tutti quelli adottati in attuazione della legge delega del 2009
evidenzia la profonda contraddizione di un decentramento senza autonomia rispetto alla
conclamata virtù responsabilizzante dell'autonomia tributaria a livello decentrato.
Un'ulteriore conferma a questo indirizzo centralista nell'attuazione del decentramento
finanziario lo si rinviene nelle limitazioni introdotte dal legislatore con il decreto sul
federalismo regionale, che non consentiranno alle regioni con minore capacità fiscale per
abitante di poter ridurre ed in prospettiva giungere alla abolizione dell'Irap, utilizzando per
questo obiettivo l'incremento dell'addizionale regionale all'Irpef.
Conclusivamente sul punto si conferma l'opinione che il governo di centro-destra abbia
piegato all'obiettivo politico del decentramento fiscale, l'esigenza prioritaria per la
maggioranza degli italiani di dare avvio ad una riforma profonda del sistema tributario,
ancorata all'obiettivo di riequilibrare il prelievo tra imposte dirette e indirette per rilanciare lo
sviluppo . Una riforma quindi di ampio respiro, particolarmente impegnativa anche dal
punto di vista delle cifre coinvolte, che non ha mai superato la fase delle promesse elettorali.
Una decisione quella operata dal centro-destra due volte errata. Da un lato è sfuggita la
percezione dell'impossibilità di innestare un decentramento fiscale autonomista nel modello
statalista di imposte sulle persone e sulle imprese ereditato dalla riforma Visco del 2007.
Dall'altro, facendo proprio quel modello di fiscalità fortemente conservatore, ha perso
un'occasione irripetibile per guidare in senso liberale un processo di trasformazione della
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società italiana, non solo indispensabile per superarne i ritardi, ma ormai imposto da eventi
esterni che il governo non è stato fin qui in grado di dominare.
Una riforma per la quale, sia detto per inciso, il centrodestra aveva avuto un ampio mandato
dagli elettori nel 2008, accantonato fin dall'inizio della legislatura dal ministro dell'economia
Tremonti con il Dpef 2008/2012, per giocare esclusivamente la partita del federalismo
fiscale e non essere costretto a confrontarsi con delle scelte impopolari dal punto di vista
distributivo. Il contesto economico internazionale susseguente alla recessione 2008/2009 e
l'instabilità finanziaria che ne era derivata, non consentivano infatti di potere finanziare una
riforma fiscale a debito.
È alla luce di questi obiettivi che va analizzata la politica tributaria del dopo crisi, che ha
caratterizzato il 2010 , ne ha strozzato la ripresa sul nascere e ha posto le basi per la crisi
finanziaria del 2011.
In un precedente articolo su questa rivista ho analizzato nel dettaglio le principali coordinate
che emergono dall'analisi degli interventi a carattere tributario adottati nel corso del 2011 dal
governo Berlusconi Tremonti a partire dal Dl 138/2011, e che possono sintetizzarsi nella
seguente formula: " mascherare l'incapacità politica a riformare gradualmente il fisco, per
assicurare l'incremento di risorse indispensabile a tenere sotto controllo la finanza pubblica e
a rilanciare la crescita, con una stretta nella gestione delle imposte vigenti, caratterizzata
dalla ricerca esasperata di qualsiasi tipo di misura in grado di produrre un incremento del
gettito, accompagnata dalla soppressione insistita delle garanzie che lo Stato di diritto
doverosamente assicura ai contribuenti."
Una linea di politica tributaria statalista, velleitaria ed impotente che ha avvitato l'Italia in una
spirale pericolosissima, alimentata da un cocktail micidiale di aumenti di imposte a pioggia, di
misure che paralizzano l'economia minore, già senza ossigeno per l'assenza di credito, che
bloccano gli investimenti (a partire dalla Fiat che nel 2012 ha tagliato investimenti in Italia
per oltre 1000 miliardi di lire), favorendo la fuga dei capitali all'estero.
E’ all'interno di questo quadro di riferimento in cui sono evidenti le responsabilità del
Ministro dell'economia del governo Berlusconi, pari soltanto alla sua presunzione, e
conseguentemente alla luce di quella politica, che occorre analizzare sinteticamente il
contenuto e gli effetti della manovra di finanza pubblica per il 2012, lungo i due binari
paralleli (e che quindi non solo non si incontrano, ma neppure si parlano) della legge stabilità
e del bilancio lo Stato 2012 e del Dl del 6 dicembre adottato dal governo Monti.
Partendo da quest'ultimo, che non so quanto sia appropriato chiamare salva Italia , visto che
ha precipitato il Paese in una recessione priva di senso, non so se più preoccupante per le
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sue dimensioni, o inquietante perché impoverisce il Paese aggravandone i problemi di
competitività fiscale con il resto del mondo, vediamo di comprendere, se ci sono e quali
siano le linee conduttrici.
L'aspetto più evidente non è tanto il fatto che si sia in presenza di un aumento di imposte a
pioggia, in una situazione difficile non è che ci si possa aspettare qualcosa di molto diverso;
ma che nessuno sia stato sfiorato dal dubbio che la somma di regressività dal lato del
contenimento della spesa, in parte inevitabile, aggiunta a quelle di origine tributaria, adottate
a casaccio avrebbe prodotto un cocktail micidiale.
Insomma quello che lascia senza parole non è tanto l'indifferenza ai profili distributivi, in
cui convivono accanto ad una evidente disprezzo per i principi, un dilettantismo e un’
incompetenza sorprendenti; quanto che il governo non si sia neppure posto il problema
che una stretta fiscale di questo tipo, in assenza di un qualsiasi disegno di politica tributaria,
avrebbe determinato sulla decrescita del Pil effetti ben maggiori rispetto all'obiettivo di
migliorare l'equilibrio dei conti pubblici, che pure è alla base della manovra finanziaria e
tributaria.
A conferma di quanto affermato una sintesi del contenuto fiscale del decreto di dicembre
Dal lato delle maggiori entrate si segnala innanzitutto il fortissimo incremento (e nel caso
delle abitazioni civili spesso il raddoppio) della tassazione immobiliare determinata dal
passaggio dall'Ici all'Imu; la previsione prudenziale è di un aumento del gettito di 11 miliardi
di cui quattro a carico dell'abitazione principale, in precedenza esente dall'Ici. Sempre dal
lato degli enti locali è previsto l'incremento di 1 miliardo del gettito del nuovo tributo
comunale sui rifiuti e i servizi, rispetto ai tributi sostituiti.. Altri 2 miliardi di maggiori entrate
dovrebbero essere garantite dall’ aumento dell'addizionale Irpef a favore delle regioni. In
definitiva queste voci dovrebbero assicurare da sole tra i 14 e i:15 miliardi di euro, di cui
almeno la metà provenienti da imposte ad elevato indice di regressività, i cui effetti sulla
domanda interna non vale neppure la pena di sottolineare.
Ma non basta: l'aumento dell'accisa sui carburanti da autotrazione dovrebbe assicurare
maggiori entrate per altri 6 miliardi e mezzo; ma qui il condizionale è d'obbligo, perché il
calo dei consumi registrato nei primi cinque mesi del 2012 è stato significativo, per cui si
dovrà attendere la fine del 2012 per fare un bilancio preciso dell’incremento del gettito.
D'altra parte le compagnie petrolifere per cercare di sostenere in qualche modo i consumi
hanno aumentato la concorrenza, con campagne proporzionali che potrebbero assorbire
almeno in parte l'onere rappresentato dall'incremento dell'accisa.
Tra i risparmi di spesa che mascherano un aumento dei tributi, emerge il taglio di circa 2
miliardi di euro di trasferimenti al fondo perequativo istituito a favore degli enti locali dei
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territori con minore capacità fiscale per abitante. Qui all’ accentuata regressività delle
addizionali locali all'Irpef, dopo la riforma Visco, si aggiunge la spinta ad un'ulteriore
maggior incremento dei tributi locali nelle aree meno avvantaggiate del paese che
difficilmente potrà essere assorbito da una domanda interna e in fase calante, determinata dal
taglio di circa 2 miliardi del fondo perequativo a favore dei comuni..
.A queste cifre di per sé imponenti occorre giungere altri 3 miliardi provenienti dal
riallineamento dei valori contabili nel sistema bancario, mentre dall'aumento dell'imposta di
bollo sugli strumenti finanziari, sono attesi ulteriori 3 miliardi di euro (una patrimoniale
dissimulata caratterizzata da evidenti indici di regressività.
Ma l'aspetto più sconcertante è rappresentato dall'aumento dell'aliquota ordinaria e
intermedia dell'Iva, dal mese di settembre 2012, che si aggiunge a quello già in vigore
dall'autunno scorso. 5 miliardi di maggior gettito nel 2012 che saliranno a 13 miliardi nel
2013 e a 16,5 miliardi nel 2014. Qui lo statalismo fiscale che domina in Italia da un tempo
immemorabile compie un vero e proprio capolavoro; anziché utilizzare l'aumento dell'Iva in
un'unica soluzione per finanziare l'avvio della riforma dell'Irpef e l'abolizione dell'Irap, una
politica parallela a quella realizzata dalla Germania nel 2008, su cui molti a partire da Visco
avevano all'epoca ironizzato battezzandola come svalutazione competitiva, preferisce
bruciare l'incremento del gettito dell'Iva, deciso nell’autunno 2011 per non incidere sui 1000
rivoli che alimentano il fiume carsico della spesa pubblica improduttiva.
In un precedente articolo avevo già segnalato la singolarità di un decreto-legge fiscale di
queste dimensioni (circa 32 miliardi di euro di maggiori entrate), secondo le stime del
governo, il cui iter parlamentare è stato parallelo alla manovra di bilancio, ma come in
geometria non la intercetta mai; alterandone peraltro direi banalmente i contenuti politici,
economici, distributivi.
Ora, a parte il rilievo di ordine istituzionale, e cioè che avendo trasformato la decretazione
d'urgenza da strumento legislativo straordinario e residuale, nell'unico mezzo attraverso cui il
governo esercita ormai l'iniziativa legislativa, questa prassi abnorme, tollerata non si
comprende perché, ha comportato un ulteriore svuotamento del ruolo del Parlamento, non
occorre spendere troppe parole per segnalare l'impatto negativo di questo modo di
procedere sul controllo della politica di bilancio e degli effetti che questa determina nell'anno
di riferimento.
Sotto questo profilo non vale neppure la pena di ironizzare sulla previsione del governo di
un impatto sul Pil della politica di bilancio pari a -0,5 punti di Pil nel 2012: un dato
moltiplicato per tre con il documento di economia e finanza, DEF dopo appena quattro
mesi. Una questione tuttavia tutt'altro che irrilevante sotto il profilo funzionale, visto che in
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un sistema basato sulla separazione dei poteri un governo che dia nel migliore dei casi i
numeri al lotto, o peggio falsi al Parlamento, prende in realtà in giro gli italiani.
In definitiva l'aspetto più interessante e al tempo stesso preoccupante di queste cifre sta nel
fatto che nonostante un calo del Pil nei primi sei mesi dell'anno molto superiore alle
previsioni attese, (-2,4% secondo il centro studi Confindustria, che si allinea a quelle
formulate precedentemente dal FMI, -2,3% su base annua) occorre constatare che in realtà
gli effetti del decreto legge del 6 dicembre 2011, ad oggi si sono dispiegati solo parzialmente
;il che significa in buona sostanza che nei prossimi mesi quando l'onda di piena degli
incrementi dei tributi locali, a partire dall' IMU si farà sentire con più insistenza, gli effetti
depressivi sul ciclo potrebbero essere ancora più gravi di quelli fin qui previsti.
È da alcuni anni che sottolineo praticamente in solitudine che la cultura ottusamente
statalista che tira le fila di una politica tributaria aggressiva, profondamente iniqua perché
concentrata essenzialmente sulle famiglie a reddito medio e basso e sulle imprese minori, che
ha consunto lo stato di diritto fino a trasformarlo in uno scheletro senza sostanza e privo di
anima, è la principale responsabile della scarsa crescita dell'economia italiana a partire dalla
metà del decennio trascorso, in cui al recupero in quantità e soprattutto alla crescita in valore
delle nostre esportazioni, ha fatto da contraltare una domanda interna sempre più in
sofferenza, per l'eccesso di spesa pubblica improduttiva e soprattutto per i profili distributivi
della politica tributaria.
Per uno dei tanti paradossi che accompagnano ogni giorno la vita dell’ Italia e che
contribuiscono a darne all'estero un'immagine deformata ed incomprensibile, il
deterioramento dell'ordinamento tributario (parlare di sistema offenderebbe l'intelligenza di
chi legge) ha raggiunto un punto di non ritorno innanzitutto dal punto di vista dei profili
giuridici, con la singolare gestione di un Ministro dell'economia e delle finanze, professore
di diritto tributario. Tutto quello che è venuto dopo nel in campo dei tributi, che ovviamente
non può non essere valutato criticamente per gli effetti fuori controllo che sta determinando
sull'economia e sulla società italiana, si pone in rigida continuità, occorre ricordarlo con
quella politica.
Prima di analizzare brevemente i motivi di ordine politico istituzionale che hanno condotto
il nostro Paese in questo incredibile imbuto che ci sta impoverendo senza costrutto, è
interessante richiamare alcuni dati relativi al fabbisogno del primo trimestre del 2012. Questi
indicatori evidenziano in modo impietoso i prevedibili risultati, opposti alle attese del
governo, determinati da una produzione alluvionale di disposizioni a carattere tributario,
che incidendo sulla spesa privata, comportano effetti indiretti sul gettito tributario,
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determinati da un ordinamento tributario fuori controllo, anche per l'assenza di qualsiasi
disegno di politica fiscale.
Nel primo trimestre 2012 il deficit (l'indebitamento netto della pubblica amministrazione in
base alle regole "europee") è passato dal 7% del 2011 all'8%. Nel 2011 il deficit si è attestato
al 3,9% su base annua, contro una previsione per il 2012 del 1,7%; il governo , con il
documento di economia e finanza DEF, ha già elevato questa stima al 2% , che appare a sua
volta irrealistica. L'esecutivo non sembra preoccuparsene, ma una lettura attenta dei dati più
significativi non giustifica alcun ottimismo, anzi.
A parte l'andamento degli interessi sul debito, che certo non sono spinti al ribasso dalla
recessione , che spiega in parte il dato negativo relativo al fabbisogno, il profilo più
preoccupante è rappresentato, all'evidenza dal calo del gettito tributario, indotto dall'eclissi
della politica tributaria, sul quale la manovra fiscale di dicembre ha inciso al momento,
prevalentemente dal lato delle aspettative.
Mentre l'aggregato relativo al fabbisogno di cassa del settore statale, ha evidenziato nel
primo semestre una contrazione di circa 15 miliardi rispetto al 2011, un dato sicuramente
incoraggiante, a cui fa peraltro da contraltare un'ulteriore aumento della spesa decentrata, il
calo del gettito delle imposte dirette (-05%), di quelle indirette (-0,9%) e dei contributi sociali
(-0,4%) rappresenta una spia preoccupante di quello che potrà accadere nei prossimi mesi, in
cui si manifesteranno appieno gli effetti della crescita della pressione fiscale sull'andamento
del Pil.
Una conferma di un'impostazione profondamente errata, per non dire autolesionista della
moltiplicazione di disposizioni a contenuto fiscale, assunte , nell'assoluta latitanza della
politica tributaria; sulla quale il meno che si possa dire è che vi è stata negli ultimi anni
scarsa attenzione da parte della cultura economica e giuridica.
In definitiva quindi, un tema su cui forse converrebbe porre maggiore attenzione, è
rappresentato dall'interrogativo su come sia possibile che, in un quadro istituzionale in cui le
politiche pubbliche sono inquadrate all'interno di schemi rigidi predeterminati per legge e la
cui attuazione è caratterizzata sotto il profilo contenutistico da una pluralità di riserve di
legge , sia stato possibile giungere a una situazione del genere.
Un paradosso in cui il fisco attraverso il continuo incremento dei tributi contribuisce a
distruggere più ricchezza di quella che riesce a incassare, attraverso il maggior gettito atteso
da una produzione continua di norme tributarie, assunte al di fuori di una qualsiasi linea che
somigli a una politica tributaria, ed i cui effetti per conseguenza appaiono completamente
fuori controllo.
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La risposta è abbastanza semplice: non solo la politica tributaria è stata caratterizzata negli
ultimi anni da particolare disattenzione ai profili distributivi, che ne hanno moltiplicato gli
effetti depressivi sulla domanda interna.
Anche la politica della spesa, caratterizzata da tagli diffusi nel settore delle retribuzioni
pubbliche e delle pensioni, (le spese in conto capitale si sono ridotte dell'inizio dell'anno del
40%) ha avuto effetti dello stesso segno, la cui combinazione ha prodotto inevitabilmente
effetti sinergici moltiplicativi dal lato della crescita. Il che spiega, perché il contenuto
recessivo della manovra finanziaria e fiscale del 2011 abbia avuto una funzione ed una
spinta amplificata; sotto questo profilo il cosiddetto carattere tecnico del governo non ne
attenua evidentemente le responsabilità, anzi.
5 ) I profili giuridici e istituzionali della crisi italiana
L'aspetto forse più sorprendente per un giurista che tra cinquant'anni proverà ad analizzare
le politiche pubbliche italiane a cavallo tra la fine del primo decennio di questo secolo e
l'avvio del secondo , sarà sicuramente il constatare come la cultura giuridica italiana sia stata
in questa fase storica praticamente assente; a parte un dibattito confuso su un possibile
assetto federalista dello Stato, su cui, si è cominciato riflettere seriamente solo dopo la
riforma del titolo quinto della Costituzione: in pratica a cose fatte.
In buona sostanza il dibattito giuridico, quando c'è stato, si è mosso al rimorchio di una
politica, che a destra si è dimostrata incapace di esprimere una cultura di governo;
evidenziando a oltre settant'anni di distanza il carattere tragico della fine dello stato liberale e
dell'esperienza fascista, che non può essere semplicisticamente rimossa. La sinistra invece ha
messo in luce un conservatorismo diffuso, incapace di interpretare in chiave riformista le
trasformazioni epocali che, a partire dalla rivoluzione tecnologica hanno caratterizzato la
società contemporanea nell'ultimo quarto di secolo.
I riflessi di questa crisi si ritrovano a destra nell'uso propagandistico, sostanzialmente
illusionista, del tema della fiscalità; mentre l'incapacità della sinistra di interpretare la crisi
fiscale ha contribuito a farla degenerare in una eclissi profonda non soltanto dello stato
sociale, ma dello stato come istituzione. Su questo tema sono di particolare interesse le
recentissime riflessioni di uno storico autorevole quale Lucio Cafagna .
La trasformazione continua in cui siamo immersi spesso senza neppure accorgercene, che ha
coinvolto le istituzioni, le relazioni internazionali, lo sviluppo economico, le organizzazioni
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sociali, per finire alle abitudini di vita , ai rapporti di genere, al costume, la cui percezione
spesso ci sfugge anche quando ci investe direttamente, obbliga quantomeno a riflettere.
L'immobilismo che ha caratterizzato il diritto in questa lunga stagione ha trovato un terreno
fertile sul piano delle istituzioni, nella incapacità di guidarne l'ammodernamento all'interno di
un quadro di principi e di regole condivisi, capace di coniugare insieme la necessità di avere
una organizzazione della società competitiva, con la tutela dei diritti individuali.
Questi ultimi, spinti dalle trasformazioni sociali e dall'evoluzione dell'economia, tendono
direi inevitabilmente, a trasformarsi almeno in parte per adattarsi ai cambiamenti, ma certo
non possono essere semplicisticamente pretermessi o peggio ignorati.
Un esempio emblematico di questo atteggiamento è rappresentato dall'impegno profuso dal
governo Monti con la riforma del mercato del lavoro, che ha barattato qualche maggiore
flessibilità in uscita, con quelle introdotte dopo un lungo confronto parlamentare, con la
legge Biagi, finalizzate ad aumentare l'occupazione.
Con il risultato che anziché ricercare un diverso e possibilmente più equilibrato rapporto tra
flessibilità, retribuzione e diritti, si è introdotto un ennesimo sbarramento alla creazione di
nuova occupazione. Aumentando gli oneri contributivi a carico di tutte le figure contrattuali
caratterizzate da flessibilità nei rapporti di lavoro diversi da quelli a tempo indeterminato, si
è data un'ulteriore conferma alla regola tutta italiana che per fare un passo avanti occorre
prima compierne due indietro !
Se si analizza attraverso la chiave di lettura del diritto tributario il particolare momento che
attraversa il nostro Paese, con istituzioni paralizzate e un governo che dialoga con se stesso
senza dover rispondere a nessuno delle proprie scelte, basta soffermarsi sul dato fattuale
che, mentre aumentano le imposte, cala il gettito tributario e crolla il prodotto interno lordo,
per rendersi conto in quale misura la crisi investa direttamente il nostro settore disciplinare.
Vediamo perché.
Ho riportato nella prima parte di queste note una serie di elementi che attengono sia
all'evoluzione dell'economia italiana dal secondo semestre del 2011 ad oggi, sia, molto
sinteticamente e per grandi linee agli interventi che hanno caratterizzato le politiche
pubbliche nel nostro paese in questo stesso periodo, per offrire un punto di osservazione è
un quadro di riferimento più ampio all'attenzione del giurista.
Un primo elemento di riflessione non può non venire dal fatto che mentre nella recessione
del 2008/2009, l'andamento dell'economia italiana era stato parallelo a quello dell'altra
grande economia manifatturiera europea, quella tedesca, gli effetti di questa nuova crisi
finanziaria evidenziano un crollo del Pil in Italia, che non ha riscontro in nessun altro paese
europeo.
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La Spagna, nel pieno di una crisi economica reale, con un tasso di disoccupazione che
coinvolge un quarto della popolazione, con un sistema bancario che ha avuto bisogno per
restare in piedi di aiuti per 100 miliardi di euro, e con gli effetti dell'esplosione della bolla
speculativa immobiliare, registrerà nel 2012 un calo del Pil tra la metà e un terzo rispetto al
dato italiano.
Non sfugge che l'Italia è condizionata da un debito pubblico molto maggiore di quello
tedesco o francese; e che questo si ripercuote inevitabilmente in termini di aumentate
difficoltà a gestire la politica di bilancio in periodi di instabilità finanziaria.
Tuttavia l’incrocio dei dati sull'andamento dell'economia, con particolare riguardo alla
dinamica dei consumi e più in generale della domanda interna, con gli effetti della
produzione alluvionale di norme tributarie che ha caratterizzato il 2011 (se ne contano
mediamente due al giorno) è da questo punto di vista illuminante.
Evidenzia, accanto a difficoltà obiettive che nessuno sottovaluta, un approccio inaccettabile
alla fiscalità che va sottolineato con fermezza, perché anziché contribuire a tenere sotto
controllo una situazione difficile dal punto di vista degli equilibri di bilancio , ne ha
alimentato in modo sconsiderato le criticità, con misure improvvisate, adottate per pure
ragioni di facciata.
Un esempio illuminante viene dal nuovo regime fiscale introdotto per colpire i possessori di
imbarcazioni da diporto, considerati in base alla lunghezza del mezzo, più facoltosi. Bene,
com'è ovvio, i proprietari con maggiori disponibilità economiche si sono spostati all'estero,
mentre il settore dei servizi ha visto crollare il volume di affari di oltre il 30%, con una
perdita prudenziale pari a 600 miliardi di lire. Dal punto di vista del gettito complessivo
quindi l'operazione è fiscalmente in perdita!!!
Ma lo statalismo fiscale che ad occhi bendati, taglieggiando salari , stipendi, pensioni e
consumi primari ci ha infilato tutti in una recessione non so se più grave per dimensioni o
più stupida per inutilità, si sente a posto con la propria visione del sociale !
Cercherò quindi di mettere in evidenza, senza pretese di esaustività una serie di elementi
istituzionali e giuridici che, in combinazione tra loro, hanno contribuito ad alimentare questa
situazione di instabilità della finanza pubblica, i cui rischi in termini di avvitamento, tra
aumento delle imposte e crollo del Pil, sembrano essere finalmente percepiti dal governo,
che, con colpevole ritardo ha cominciato ad adottare alcune misure di contenimento
strutturale della spesa pubblica.
Si tratta all'evidenza di un segnale positivo il cui esito dipende ovviamente dalle decisioni di
merito; da questo punto di vista il precedente della conduzione della politica tributaria, che
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pure rappresenta un elemento centrale per analizzare e comprendere le dinamiche che sono
alla base di questa singolare recessione italiana, non è certo incoraggiante.
L'eclissi della politica tributaria riceve un'ulteriore conferma dalla promessa del rinvio
dell'aumento dell'Iva, che semplici ragioni di buon senso avrebbero dovuto collegare ad una
riforma incisiva del sistema tributario, offrendo una parte delle risorse (le altre sono state già
bruciate dall'aumento dell'Iva dell'autunno scorso) necessarie per liberare l'economia italiana
dal nodo scorsoio dell'Irap che la sta soffocando e riformare profondamente Irpef.
Basta sfogliare la legge delega sulla riforma del sistema tributario dello Stato, ereditata dal
precedente Governo, il cui vuoto propositivo innanzitutto in termini culturali lascia
sgomenti, per rendersi conto di quanto sia sottovalutata oggi in Italia la questione tributaria;
ridotta dal governo e da lobbyes interessate che controllano i mezzi di informazione, a
partire dai principali quotidiani , ad una banale vicenda di controllo dell'evasione fiscale.
Una comoda fuga dalla realtà tanto più grave in quanto viene alimentata con modalità
demagogiche anche da alcuni Ministri che dimostrano di non avere la più pallida idea di
quanto questo ordinamento tributario squilibrato, inefficiente, inutilmente aggressivo, che
soffoca il lavoro, le imprese, le famiglie, sia direttamente responsabile dell'evasione.
La quale, è bene dirlo ha assunto modalità ben più sofisticate di quelle di 10 o 20 anni or
sono e, non a caso , appena assume dimensioni di qualche rilievo, continua ad agire
indisturbata; mentre l'economia minore, a partire dalle famiglie è paralizzata dall'idea
veramente geniale che l'evasione non la si controlla a monte, riducendo la convenienza ad
evadere, riformando le principali imposte ed organizzando un efficiente sistema di controlli,
ma la si contrasta a valle facendola emergere attraverso il controllo delle spese.
Un autentico capolavoro di uno statalismo sempre più cieco e sempre più illiberale, che
pretende di occuparsi "della vita degli altri", nell'illusione che uno stato di polizia fiscale
possa sostituirsi al principio costituzionale che vede nel consenso all'imposta il DNA di ogni
Stato a base democratica.
Incredibile punto di arrivo del cinismo con cui il Ministro dell'economia del governo
Berlusconi ha sottratto al governo e al Parlamento gli indirizzi e le scelte in campo tributario
e le ha trasferite all'Agenzia delle entrate, che ormai non si limita ad accertare e riscuotere le
imposte, ma si è improvvisata legislatore e interviene sulla struttura delle imposte
adattandola alle proprie esigenze!
Per cercare di comprendere le ragioni che hanno determinato nel corso degli anni una
sempre più evidente crisi del diritto nel settore delle imposte, vale la pena di ricordare che il
diritto come qualsiasi costruzione meccanica, non è una congerie di elementi diversi
assemblati insieme casualmente, ma un sistema logico accompagnato dal principio dei vasi
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comunicanti; il che equivale a dire che il diritto è un sistema inevitabilmente complesso,
tuttavia accompagnato da una logica unitaria.
Se si parte da questo dato, appare evidente il limite di una riforma costituzionale quale quella
del titolo V° della seconda parte della Costituzione, che ha coltivato l'illusione che bastasse
realizzare il più ampio decentramento legislativo dallo Stato alle regioni, per rendere più
moderno ed efficiente il nostro ordinamento costituzionale.
Il risultato di questo percorso improvvido è stata semplicemente l’ eclissi della funzione
parlamentare, con tutto quello di negativo che un processo del genere inevitabilmente porta
con sé, in termini di garanzie per i cittadini.
È fuori dubbio che il punto di maggior sofferenza nella crisi istituzionale italiana, tragga
origine dalla riforma del titolo V° della Costituzione. Un percorso fortemente condizionato
da motivazioni di tipo politico contingente, in cui si evidenzia in tutta la sua negatività
l'assenza di un disegno razionale di riforma dell'ordinamento statuale, che non si risolva
soltanto nel trasferimento di funzioni e di risorse crescenti dallo Stato centrale alle diverse
regioni, semplicemente bypassando i comuni, elemento centrale di qualsiasi processo di
decentramento efficiente.
Uno schema istituzionale che sostituisce alla centralità del Parlamento e al bilanciamento dei
poteri intorno a cui ruota l'ordinamento repubblicano, un nuovo quadro di rapporti tra
Stato e sistema delle autonomie, in cui il principio di unità della finanza pubblica, centrale
nella Costituzione del 1948, e riaffermato anche nel testo novellato, viene di fatto annullato
dalle dimensioni qualitative e quantitative che caratterizzano il nuovo decentramento
autonomista . .
Se si ripercorrono nel loro concreto divenire i principi che regolano nella prima parte della
costituzione l'unità della finanza pubblica, appaiono evidenti la natura e i limiti che
caratterizzano il rapporto tra l'ordinamento finanziario dello Stato e il sistema delle
autonomie. Limiti finalizzati ad assicurare unità al governo della finanza pubblica: unità
tanto più necessaria in un ordinamento in cui l'appartenenza all'area dell'euro ha sottratto al
governo nazionale il controllo della politica monetaria
Questo quadro di riferimento unitario nella riforma del titolo V° della Costituzione viene se
non ignorato . rimesso in discussione, non tanto dalla formulazione dell'articolo 119 cos. nel
testo novellato, in cui la funzione unitaria, emerge con sufficiente chiarezza. L'elemento
disgregante in questo modello è rappresentato a mio parere dall'eccesso di funzioni
trasferite, che a sua volta comporta problemi praticamente insormontabili per assicurarne il
finanziamento, attraverso l'impiego di strumenti fiscali pienamente inseriti all'interno del
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principio di unità della finanza pubblica e al tempo stesso caratterizzati, quanto meno
potenzialmente in senso autonomistico.
Questo schema contraddittorio, a partire da quest'anno ha visto prendere avvio un
modello di decentramento fiscale regionale e locale profondamente condizionato da una
serie di scelte del legislatore statale, che vanno ben al di la dell'esigenza di assicurare, anche
attraverso la spesa decentrata, l'unità della finanza pubblica.
Scelte il cui coronamento è rappresentato da un progetto di riforma del sistema tributario
dello Stato nel quale non solo non vi è traccia di quali siano le esigenze e gli obiettivi di
una riforma del sistema tributario oggi; ma in cui il problema del raccordo tra l'ordinamento
tributario dello Stato e il sistema delle autonomie è semplicemente rimosso.
Una riforma quindi al tempo stesso inutile e dannosa.
Non deve quindi stupire che in questa nebbia di rapporti tra Stato e sistema delle autonomie,
sia sotto il profilo del controllo della spesa sia della responsabilità nella gestione e nella
manovra dei tributi, l'effetto dell'insieme delle misure fiscali decise nel 2011, dirette ad
aumentare il gettito, o finalizzate ad assicurarne un più puntuale adempimento attraverso il
controllo della spesa, abbia determinato, per l'evidente assenza di un disegno unitario o
almeno di un coordinamento degli effetti distributivi, una recessione non solo grave per le
dimensioni, ma pericolosissima per gli evidenti rischi di avvitamento che comporta.
Il tutto è aggravato dal fatto che la politica tributaria, il cui ruolo è finalmente reso evidente
dalla recessione che ha provocato e continua ad alimentare, è stata completamente sottratta
dal governo al controllo parlamentare e delegata nelle scelte e nei contenuti all'Agenzia delle
entrate.
Appare quindi in tutta la sua urgenza la necessità di recuperare una visione sistematica della
finanza pubblica, quale quella indicata nella prima parte della Costituzione, nella quale il
profilo unitario non solo non rappresenta un limite allo sviluppo di un articolato sistema di
autonomie, ma ne costituisce l'indispensabile cornice.
6) Il principio di capacità contributiva tra limiti del sindacato di legittimità e garanzie del
sistema
Il quadro delle autonomie che emerge dalla lettura della prima parte della Costituzione, a
partire dall'articolo 5, non è con ogni evidenza un modello rigido; quello che il costituente ha
voluto assicurare è un’ esigenza di pluralismo che non si presta ad essere inquadrata in uno
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schema predefinito. Costituisce piuttosto la cornice all'interno della quale la molteplicità dei
centri di entrata e di spesa realizza in concreto la propria autonomia, ciascuno secondo le
proprie funzioni e competenze, in modo da assicurare l'unità del sistema finanziario.
Unità che trova il suo fondamento in una pluralità di riserve di legge finalizzate a dare
effettività al principio di eguaglianza: dall'articolo 23 in tema di prestazioni patrimoniali
imposte ; all'articolo 41 che assicura la libertà di iniziativa economica, disciplina la funzione
di intervento dello Stato in campo economico, esercita attraverso la legge poteri di indirizzo
e coordinamento delle attività economiche pubbliche e private, finalizzati ad assicurarne la
funzione sociale; ed infine il principio di capacità contributiva (articolo 53 ) che costituisce
il principale asse intorno a cui ruota la chiamata generale a concorrere alla spesa pubblica, in
armonia con i principi di solidarietà e eguaglianza di fatto.
Se si analizza l'andamento dell'economia nel corso di questa legislatura, e lo si pone in
rapporto con gli indirizzi che hanno caratterizzato le politiche pubbliche a partire dalla
riforma del titolo V° della Costituzione, appare chiaro il distacco di quanto sta accadendo,
rispetto ai principi intorno ai quali ruota il governo della finanza pubblica, primo fra tutti
quello dell'unità del sistema finanziario.
Una prima constatazione si riferisce al corretto esercizio della riserva di legge in campo
tributario; il problema non riguarda tanto il rispetto formale della garanzia costituzionale,
quanto il fatto che da alcuni anni a questa parte si è assistito a una vera e propria escalation
nell'utilizzazione della decretazione di urgenza; divenuta ormai l'unica fonte legislativa
attraverso cui il governo emana disposizioni, non soltanto a carattere tributario.
Il problema all'evidenza non è di tipo formale: la questione giuridica che qui viene
richiamata, non è rappresentata soltanto da un eccesso nell'utilizzazione del decreto-legge, a
cui siamo ormai abituati da tempo; si riferisce piuttosto al fatto che il decreto-legge sia
diventato l'unico strumento giuridico impiegato nella produzione di norme tributarie. Certo,
formalmente il decreto-legge è uno dei mezzi attraverso cui può essere attuata una riserva di
legge.
Ma qui nel terreno accidentato della finanza pubblica, non si tratta di prendere atto che la
decretazione d'urgenza, per la sua intrinseca immediatezza costituisca per il governo uno
comodo strumento
rispetto ai condizionamenti che il controllo parlamentare
inevitabilmente porta con sé. Si tratta invece di constatare che la compressione del ruolo del
Parlamento in campo tributario ha degradato la separazione dei poteri fino a trasformarla in
confusione del potere di spendere, con quello di imporre i tributi ; il che spiega come una
banale manovra di riequilibrio dei conti pubblici, possa degenerare in una spirale recessiva
fuori controllo.
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L'eclissi della funzione garantistica della riserva di legge, non poteva non incidere sull'altro
pilastro fondante in tema di finanza pubblica: quello della capacità contributiva. Qui non si
comprende bene se sia stata una parte della dottrina ad offrire giustificazioni sempre meno
plausibili a una giurisprudenza costituzionale paralizzata dalla preoccupazione di assicurare la
tutela di una inesistente "ragion fiscale", intesa come un privilegio.
O se sia stata la giurisprudenza stessa della Corte a diffondere e consolidare una visione
della capacità contributiva in cui la dilatazione della discrezionalità legislativa può condurre
in qualche caso ad un esito sostanzialmente tautologico .
In base a questa concezione non sarebbe la sussistenza in fatto della capacità contributiva a
legittimare l'esercizio della potestà legislativa in campo tributario; sarebbe invece il
legislatore, attraverso la scelta dei criteri di riparto a individuare la capacità contributiva e a
definirne i profili contenutistici; con il solo vincolo di assicurare la coerenza del sistema.
Intendiamoci, l’ intuizione che accanto ai tradizionali indici di capacità contributiva, se ne
potessero individuarne di nuovi altrettanto ragionevoli in termini di ripartizione del concorso
di ciascuno alla spesa pubblica, in quanto espressivi in forme nuove, di realtà economiche
che evidenziano attitudine alla contribuzione, mi sembra una evoluzione positiva del
concetto di capacità contributiva, che non ne mette in discussione il profilo garantista.
In questo senso, il contributo significativo in tema di giustificazione dell'imposizione
ambientale, di un giurista che non disdegna per altri aspetti di considerarsi un tradizionalista ,
quale Gianfranco Gaffuri in tema di imposizione ambientale, è illuminante.
Da un punto di vista più generale, un punto debole di questa ricostruzione per altri versi
convincente, che in qualche caso ha spinto l'amministrazione finanziaria a ricondurre
all'unità due concetti, quali la capacità contributiva e i criteri di riparto che è opportuno
sottolinearlo, non sono sinonimi, sta nel degradare il profilo garantista della capacità
contributiva, indiscutibile in quanto esplicitazione in campo tributario del principio di
uguaglianza sostanziale, ad una generica esigenza di coerenza del sistema.
Conseguentemente il controllo di legittimità delle norme tributarie, alla luce dell'articolo
53,cos. rientrerebbe nei ristretti confini del sindacato di ragionevolezza delle norme
tributarie, che non sempre appare giustiziabile sotto il profilo della legittimità costituzionale,
per la sua indeterminatezza.
Intendiamoci, anche in Germania, la cui Costituzione non conosce un principio analogo a
quello di capacità contributiva, espresso nell'articolo 53 cos., il controllo di legittimità
avviene in base al principio di eguaglianza e quindi in buona sostanza si risolve in un
sindacato sulla ragionevolezza. Ma l'assenza di un limite specifico quale quello espresso
nell'articolo 53 della Costituzione italiana, e la possibilità di dichiarare la incostituzionalità
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differita di una disposizione a carattere fiscale, hanno consentito al Tribunale costituzionale
tedesco, nell'esercizio del controllo di legittimità, opportunità che ad oggi, non sono offerte
alla nostra Corte costituzionale.
Di qui la difficoltà di mettere in discussione una serie di scelte del legislatore, in cui
l'esercizio della discrezionalità costituisce talvolta il mezzo per dare una copertura di
legittimità a disposizioni fiscali quantomeno discutibili, se non, spesso palesemente
illegittime.
Da questo punto di vista le polemiche che ruotano intorno alle diverse interpretazioni del
principio di capacità contributiva, su cui periodicamente si divide la dottrina, mi lasciano
piuttosto freddo. Innanzitutto perché se guardo alla giurisprudenza costituzionale con quel
minimo di curiosità che dovrebbe caratterizzare chiunque provi interesse all'evoluzione del
nostro sistema giuridico, non mi pare proprio che in altri campi del diritto, a cominciare da
quello penale, in cui è in gioco il valore della libertà personale, il quadro offerto dalla
giurisprudenza costituzionale sia meno orientato dalle condizioni di contesto e sia quindi più
convincente.
Se invece analizziamo l'evoluzione della dottrina tributarista sul punto, quanto meno in
tempi recenti, non vedo contributi significativi, cioè non generici o semplicemente ripetitivi
o declamatori, a parte i due recenti volumi di Bergonzini, che indicano una prospettiva
sicuramente originale, che invita a riflettere, rispetto alla necessità di ricostruire (e il
problema purtroppo non riguarda solo il diritto tributario) un sistema di garanzie, la cui
evaporazione è in parte effetto ma anche causa della disgregazione istituzionale in atto.
Sotto questo profilo l'osservazione di Francesco Tesauro circa l'inutilità di infilare come il
prezzemolo nell'esame di ogni norma tributaria che appare inopportuna, un profilo di
incostituzionalità, mi sembra un invito al realismo e alla concretezza. Basta pensare al
tema dell'abuso del diritto in cui una parte della dottrina ha preteso di giustificare dietro lo
schermo della certezza del diritto situazioni palesemente indifendibili come quelle relative ad
operazioni più o meno sofisticate di dividend washing o stripping, inopponibili al fisco ad
una semplice lettura del codice civile, per comprendere che l'idea di applicare all'abuso del
diritto un apparato sanzionatorio costruito per contrastare le frodi fiscali, non costituisce una
deviazione degli schemi interpretativi ordinari, ma è piuttosto il risultato di troppe distrazioni
e silenzi anche da parte nostra.
Per non parlare della sconcertante vicenda delle sanzioni penali inserite nella delega fiscale
in tema di elusione, con una formulazione del tutto generica che ignora almeno tre articoli
della Costituzione ( 3, 25,41), pare su suggerimento del Quirinale; per finire con il condono
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mascherato dell'estate 2010, targato Tremonti, che ha fatto risparmiare indebitamente molti
miliardi di imposte dovute, a poche decine di contribuenti privilegiati.
Credo invece più utile per la dottrina tributarista confrontarsi sulla evoluzione dei sistemi
fiscali contemporanei, che rendono ormai illusorio ed evanescente ogni tentativo più o meno
concertato di scaricare su altri che non siano gli individui, il costo finale della tassazione e
delle politiche pubbliche. E qui di critiche all'ultima Irpef in fase di assestamento, derivata
dalla delega del 2003, ne ricordo parecchie; mentre sugli effetti della riforma Visco del 2007
caratterizzata da abuso di elementi di illusione finanziaria e da regressività diffuse, con profili
di illegittimità evidenti, il silenzio è stato cosmico anche da parte dei giuristi.
Parole altrettanto nette andrebbero espresse nei confronti dell'Irap in cui la pur evidente
illegittimità prodotta dall’ indeducibilità del tributo, specie per i contribuenti assoggettati
all'Irpef, rappresenta sotto il profilo economico e distributivo un vizio tutto sommato
veniale rispetto all'incompatibilità strutturale dell'Irap con il principio di tutela della
concorrenza, stabilito dal diritto nazionale ed europeo.
Penso quindi, al di là di polemiche che appaiono talvolta stizzite e quindi inevitabilmente
sterili, che sia compito della dottrina tributarista, di evidenziare con rigore l'esigenza di un
forte coordinamento tra la politica tributaria (ad oggi inesistente) e gli interventi dal lato della
spesa, tesi alla razionalizzazione, ai risparmi gestionali e al suo contenimento strutturale,
attento ai principi di capacità contributiva e di eguaglianza. Se si parte da questa prospettiva,
porre attenzione ad una fiscalità che assicuri stabilità ai conti pubblici, senza perdere di vista
il ruolo centrale che essa assume, per assecondare un processo di riequilibrio dei costi dello
Stato sociale, senza vanificarlo di fatto, esprime nella sua essenza una lettura forse non
tradizionale, ma non per questo meno garantista del principio di capacità contributiva.
Un richiamo quindi ai principi costituzionali distributivi che sono alla base del governo della
finanza pubblica, di cui la recessione italiana evidenzia l'insostituibilità, al fine di correggere
gli effetti depressivi sinergici sul Pil di aumenti delle imposte e tagli di spese decisi
ignorandone i profili distributivi e i relativi vincoli. Sempre dal punto di vista distributivo e
guardando oltre l'emergenza, occorre segnalare l'urgenza di colmare il vuoto in termini di
coordinamento che caratterizza l'avvio del federalismo fiscale.
Che le politiche di decentramento finanziario e tributario comportino maggiori oneri per i
territori caratterizzati da minore capacità fiscale per abitante, costituisce un dato strutturale
ed è, in una certa misura, l’ inevitabile prezzo di un processo di decentramento
autonomistico responsabilizzante. Ma non vi è alcuna ragione per accentuare questa
tendenza con politiche nazionali , finanziarie e tributarie strutturalmente regressive. In
definitiva in uno Stato democratico le ragioni del fisco e quelle dei contribuenti devono
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necessariamente coesistere, ed è compito della dottrina favorire questo processo di osmosi
tra autorità e consenso, alla luce dei principi di solidarietà e di eguaglianza. Se ci si basa su
queste considerazioni appare in tutta la sua urgenza la necessità di recuperare una visione
unitaria del sistema finanziario conforme a Costituzione, sia nel rapporto tra entrate e spese
sia in quello tra i diversi livelli di governo.
Ritornando ai profili garantisti insiti nel principio di capacità contributiva, e all'urgenza di
darvi effettività, un utile esercizio potrebbe essere quello di esplorare i nuovi indirizzi della
giurisprudenza costituzionale, caratterizzati dall'impiego sempre più diffuso delle sentenze
interpretative, in prevalenza di rigetto. Ove correttamente orientata dall'ordinanza di
rimessione, una interpretazione adeguatrice delle norme sottoposte all’ esame della Corte,
potrebbe consentire di evidenziare gli effetti irragionevoli di determinate norme tributarie,
quali ad esempio l'indeducibilità dell'Irap dalle imposte sui redditi, senza una pronuncia
formale di incostituzionalità, almeno nei termini e con gli effetti tradizionali che le sono
propri.
La Corte costituzionale potrebbe ad esempio nel caso dell'Irap confermare la legittimità del
tributo, e la compatibilità con la Costituzione di un'imposta sul valore aggiunto che adotti lo
schema dell'Irap. Tuttavia il carattere unitario della disciplina dell'imposta rispetto a realtà
intrinsecamente diverse quali le attività d'impresa e di lavoro autonomo, non consente di
pervenire ad un'interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni relative
all'indeducibilità dell'Irap da quelle sui redditi, regolata dalla legge istitutiva con modalità
comuni, in quanto, come è noto determinano effetti diversi.
In questo schema di ragionamento la dichiarata incompatibilità del regime delle
indeducibilità con una interpretazione della legge istitutiva dell'Irap conforme a Costituzione,
potrebbe concludersi con una declaratoria di incostituzionalità di principio dell'indeducibilità
dell'Irap dalle imposte sui redditi, i cui effetti opererebbero a partire dal nuovo anno
finanziario. Una soluzione certamente eccezionale, giustificata tuttavia dalle particolari
caratteristiche strutturali del tributo e quindi solo in apparentemente extra ordinem.
D'altra parte, questo profilo va sottolineato, l’ irretroattività degli effetti della decisione non
inciderebbe direttamente sui diritti dei singoli, comunque tenuti all'imposta; la declaratoria di
incostituzionalità infatti si riferirebbe solo a una modalità applicativa, di cui la Corte
costituzionale può ben rilevare l'irragionevolezza, ma, proprio per la pluralità di opzioni
possibili, non è nelle condizioni giuridiche per potersi sostituire al legislatore nel
bilanciamento dei diversi interessi in gioco.
D'altra parte, è bene sottolinearlo, la scienza economica ha evidenziato che l'opzione tra
deducibilità e indeducibilità rappresenta una scelta politica collegata alla definizione
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dell'aliquota, maggiore in caso di deducibilità e viceversa; il che equivale a dire che
nell'eventualità di una declaratoria di illegittimità dell’ indeducibilità, per incompatibilità con i
principi di capacità contributiva e di eguaglianza, i contribuenti non possono
ragionevolmente vantare alcun diritto al rimborso del surplus di imposta sui redditi versata
negli anni precedenti. Il legislatore infatti nel determinare l'aliquota dell'Irap aveva
ovviamente tenuto conto dell'opzione relativa all'indeducibilità dalle imposte sui redditi. In
questo caso quindi l'irretroattività degli effetti della declaratoria di incostituzionalità
risponderebbe a precise ragioni di razionalità giuridica e non solo di opportunità.
La declaratoria di illegittimità differita collegata a una sentenza interpretativa, da un lato
supererebbe il problema delle sentenze monitorie che la Corte considera con particolare
sfavore dopo che il legislatore ha dimostrato più volte di ignorarne i moniti. Dall'altro
sgombrando il terreno da effetti retroattivi e possibili rimborsi, lascerebbe al legislatore la
responsabilità di definire nella successiva legge di bilancio i nuovi profili distributivi, nel
rispetto delle linee fissate dalla stessa Corte.
Si giungerebbe così, per altra via ad un effetto non dissimile rispetto a quelle pronunce di
incostituzionalità differita, adottate dal Tribunale costituzionale in Germania, che
consentono di evitare gli effetti retroattivi di una pronuncia di incostituzionalità, che in molti
casi, non è solo un problema di costi, ma di legittimità di eventuali rimborsi.
La sentenza interpretativa assumerebbe quindi il ruolo di veicolo per evidenziare un
percorso che vincoli il legislatore ad adeguare la normativa vigente ai principi evidenziati
dalla Corte Costituzionale nella propria giurisprudenza interpretativa; evitando di scaricare
sulla Corte costituzionale il problema di sostituire al bilanciamento di interessi definito dal
legislatore, ritenuto incompatibile con una interpretazione delle disposizioni conforme a
Costituzione, con un diverso bilanciamento, la cui definizione non può non essere rimessa
allo stesso al legislatore.
Una soluzione quindi che superi, in qualche modo aggirandolo, il problema degli effetti
retroattivi delle sentenze di accoglimento, che rappresenta ormai, almeno in Italia un
ostacolo quasi insormontabile rispetto all'esigenza sempre più avvertita di recuperare un
profilo garantista al sindacato di legittimità in campo tributario.
7) Autonomia, decentramento e unità del sistema finanziario
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L’ eclissi del principio di capacità contributiva almeno nella percezione espressa dal
legislatore negli ultimi anni, ha inevitabilmente portato con se anche la crisi dei profili
distributivi delle imposte, che spiega in parte gli effetti recessivi della moltiplicazione di
misure a carattere impositivo assunte a casaccio, senza la minima preoccupazione di
valutarne gli effetti a strascico o a cascata che dir si voglia.
Tuttavia la crisi da bulimia fiscale in cui siamo ormai immersi, mette in luce un altro valore
costituzionale di cui si è persa traccia: la funzione di intervento dello Stato nelle attività
economiche, il cui carattere garantista rispetto alla libertà di iniziativa economica e
all'esercizio delle connesse attività, assicurato dalla riserva di legge, si è via via perduto
nell'arco di un ventennio, dietro lo schermo di un liberismo di facciata, intriso di statalismo
fino ai limiti dell'irresponsabilità.
L'unità del sistema finanziario, non è quindi una formula vuota, né uno strumento
centralista. Trova infatti nell'articolo 41 della Costituzione il pilastro che collega idealmente
la garanzia della riserva di legge in tema di prestazioni patrimoniali imposte, con il principio
di capacità contributiva che ne regola i profili distributivi, alla luce del principio di
uguaglianza. Da questo punto di vista, il recupero del concetto di unità del sistema
finanziario, costituisce non solo un indispensabile vincolo di sistema per realizzare
l’equilibrio strutturale di lungo periodo della nostra finanza pubblica, statale e decentrata.
Rappresenta anche la pietra d'angolo per realizzare il coordinamento della politica della
spesa, il cui contenimento deve essere finalizzato a garantire un elevato tasso di crescita
economica ,con la politica tributaria, la cui gli eclissi dura ormai da anni, confusa all'evidenza
con l'aumento a pioggia dei tributi.
Coordinamento purtroppo sottovalutato dalla politica di bilancio e del tutto assente
nell'insieme delle misure di entrata e di spesa adottate dal 2011 ad oggi per contrastare
l'emergenza finanziaria. Con il risultato di aver precipitato il Paese in una duplice trappola:
da un lato le politiche pubbliche hanno prodotto un crollo del Pil, in buona sostanza una
distruzione di ricchezza ben maggiore delle risorse che la macchina fiscale è stata, o sarà in
grado di recuperare, attraverso la grandine di aumenti a pioggia dei tributi. Dall'altro la
recessione, mettendo a rischio la capacità dell'Italia di sostenere il debito, tiene sotto scacco
il nostro debito pubblico, con tassi di interesse che palesemente non consentiranno di
realizzare il pareggio di bilancio nei prossimi anni.
Una situazione resa più delicata dal conformismo interessato che accompagna la politica del
governo, di cui vi è un ampio campionario nel sostegno incondizionato e acritico offerto a
Monti dai principali quotidiani di proprietà di industrie e banche, di cui alcuni editorialisti
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sono anche consulenti del governo, che dipingono il Presidente del consiglio come il
salvatore della patria in guerra.
La mia conclusione ragionata e preoccupata a un tempo, suffragata dai contenuti e dagli
effetti delle politiche pubbliche dell'ultimo anno, specie quella tributaria, che ho cercato di
descrivere in queste note nei tratti essenziali, è che al contrario il governo per molti versi
brancoli nel buio. E sia prigioniero dei tanti luoghi comuni che caratterizzano lo statalismo
di potere che in Italia ha tradizioni antiche e che lo stesso governo Monti ha contribuito per
opportunismo ad alimentare.
Si pensi da ultimo al contrasto alla corruzione che è alimentata da uno statalismo sempre
più invasivo e più cieco, di cui vi è un aggiornato e variegato campionario nell'azione del
governo, che si illude per l'ennesima volta di ridimensionare , con pene più severe.
Si guardi ancora al tema complesso dell'evasione, affrontato con un mix di semplicismo e
demagogia, che si è preteso di contrastare con misure che paralizzano le attività minori
lasciando indisturbata l'evasione più aggressiva, i cui proventi finiscono immancabilmente
all'estero, neppure sfiorata dall'azione del governo. Perdendo di vista che l'evasione in Italia
è strutturale e trae origine sia nell'articolazione interna alle principali imposte sia in modelli
totalizzanti di ritenute alla fonte che incentivano la corresponsione di una parte del salario
fuori busta nelle imprese minori. (In cui tuttavia si concentrano vale forse la pena ricordarlo,
oltre i due terzi degli occupati)
L'aspetto francamente più sconcertante, che evidenzia l'assenza di una qualsiasi linea
nell'azione del governo in campo tributario, salvo una stretta continuità con gli indirizzi di
politica fiscale adottati da Visco nel 2007 (che una linea di politica tributaria tuttavia la aveva)
ed accentuati dal suo successore all'economia e alle finanze nel governo Berlusconi, lo si
ritrova nei contenuti della delega al governo sulla riforma tributaria. Una delega che, dopo
l'anticipazione deformata dell'Imu, e l'adozione dell’ACE , che non è un nuovo tipo di
candeggina, ma una misura agevolativa dai costi indefiniti, finalizzata alla ricapitalizzazione
delle imprese (prevalentemente medio grandi), entrambe introdotte con il decreto legge del 6
dicembre, si riduce ad aprire qualche ulteriore piccolo rivolo di maggiori entrate.
In questo contesto parlare di riforma tributaria per quel che resta del progetto di legge
delega, sembra francamente eccessivo; ma quello che suscita stupore è che intorno a questo
nulla il governo chieda un parere al FMI, richiamando il precedente della riforma del bilancio
del 2007 sulla quale l'allora ministro dell'economia Padoa-Schioppa aveva appunto richiesto
l'opinione del Fondo monetario. Una realtà completamente diversa, dal contenuto
prevalentemente tecnico, che non può essere confusa con una riforma tributaria, i cui
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indirizzi non possono che essere il risultato di un confronto e di un dialogo tra Governo e
Parlamento , in cui non vi è spazio per altri soggetti.
Che governi di diverso indirizzo politico abbiano cercato nell'ultimo decennio di spostare il
baricentro del potere in campo tributario dal Parlamento al Governo è comprensibile; anche
se l'esperienza ci dice che gli effetti sono stati tutt'altro che virtuosi. Ma che il governo
Monti chieda al FMI, di dettare le linee della riforma tributaria , ha in sé qualcosa di
inverosimile che supera qualsiasi immaginazione. Quello che l'Italia avrebbe dovuto fare, a
partire dalla legge finanziaria per il 2010, nel settore delle imposte è semplice, oserei dire
banale. Utilizzare il gettito prodotto da un aumento consistente dell'Iva e delle altre
principali accise, seguendo il precedente della Germania del 2008, per ritornare con qualche
correttivo tecnico minore, allo schema di Irpef vigente nel 2006 e realizzare una
redistribuzione del prelievo a favore dei redditi minori, specie da lavoro.
Integrando questa linea di politica tributaria con una consistente riduzione dell'Irap, a
partire dai redditi da lavoro e da quelli d'impresa minore. Un anticipo di un percorso
riformatore teso a sopprimere definitivamente, nell'arco di qualche anno, questo tributo
anomalo che premia contro ogni principio giuridico interno ed europeo le importazioni a
danno delle produzioni nazionali. In buona sostanza un mix di interventi a favore del lavoro
e delle famiglie finalizzato a rilanciare la domanda interna; che utilizza la riduzione del cuneo
fiscale e l'abolizione definitiva dell'Irap nel settore privato per rendere più competitivo il
sistema fiscale.
Una linea, è bene dirlo, che attuata con gradualità e finanziata con risorse reali, come hanno
ampiamente dimostrato i 6 miliardi di riduzioni fiscali decise con la finanziaria 2005, seguiti
da 38 miliardi di maggiori entrate l'anno successivo, avrebbe rapidamente migliorato i saldi di
bilancio, senza precipitare l'Italia in una recessione frutto di uno statalismo senza senso.
Immaginare che vi possa essere al di fuori dell'Italia una istituzione o un gruppo di esperti,
che dell'Italia conoscono poco o nulla, in grado di indicare in modo non generico un
percorso riformatore capace di ridurre il peso delle imposte sui redditi di famiglie e imprese
aumentando il gettito, rappresenta un esercizio d pura i fantasia.
L'obiettivo politico che l'iniziativa del governo lascia intravedere in filigrana, è invece quello
di utilizzare il paravento a buon mercato dell’ FMI per coprire i propri errori di politica
tributaria, ormai evidenti, con un avallo autorevole che ne evidenzi l'ineluttabilità delle scelte
e per conseguenza assolva il governo dai propri errori: consentendo di persistervi!
8) Conclusioni
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Nella prima parte di questo lavoro ho cercato di mettere insieme un’ampia serie di dati,
talvolta anche eterogenei, con l'obiettivo di evidenziare che se per l'Italia il 2010 ha
rappresentato l'anno delle occasioni perdute, il 2011 può essere definito a pieno titolo quello
degli errori a cascata ad impatto crescente.
Errori che hanno nella politica tributaria il principale crocevia e punto di snodo.
Il titolo di queste note evoca la curva di Laffer, l'economista che ai tempi di Reagan aveva
ispirato la politica di riduzioni fiscali di quella Presidenza. Gli esiti di quella politica furono
controversi perché in quegli stessi anni il disavanzo degli Stati Uniti aumentò in maniera
consistente; in realtà la crescita del deficit fu dovuta ad altre ragioni, in particolare allo scudo
spaziale e alla politica di riarmo di Reagan, che contribuì non poco al crollo dell'impero
sovietico.
La domanda che dobbiamo dunque porci, seguendo lo schema di Laffer, secondo cui oltre
un certo limite se si aumenta l'aliquota dell'imposta sul reddito il gettito diminuisce, mentre
nella situazione inversa le riduzioni mirate delle imposte sul reddito determinano un
incremento del gettito, è se la curva di Laffer possa applicarsi in concreto alla situazione
italiana.
.Se l'ipotesi fosse plausibile vorrebbe dire che la tesi di un economista liberista che aveva
teorizzato gli effetti positivi sul gettito delle riduzioni d'imposta, potrebbe venire utilizzata
per giustificare le conseguenze delle misure fiscali avviate da Tremonti e consolidate dal
governo Monti, che hanno precipitato l'Italia in una recessione fuori controllo,
legittimandone l'azione.
Tuttavia in questo caso i conti non tornano, vediamo perché.
Nello schema proposto da Laffer viene indicata una relazione diretta tra la riduzione delle
imposte sui redditi e l'aumento del gettito complessivo; il che equivale a dire che un eccesso
di aumento del prelievo può determinare una consistente riduzione del gettito,
compromettendo l'efficacia della manovra dal punto di vista degli equilibri di bilancio.
Tuttavia è bene sottolinearlo, la curva di Laffer non evidenzia alcuna relazione diretta tra
aumento delle imposte e calo del prodotto interno lordo; un'ipotesi questa del tutto anomala
all'interno di uno schema corretto di politica fiscale , che ove si verifichi evidenzia
impietosamente una serie di errori nella conduzione della politica tributaria, responsabili sia
del calo del gettito sia del crollo del Pil.
Conclusivamente quindi il teorema di Laffer non offre argomenti che possono essere
utilizzati in Italia per giustificare gli effetti di una serie di aumenti di imposte a pioggia,
assunti senza un minimo di organicità e chiarezza di obiettivi; trascurandone gli effetti
distributivi negativi, sinergici rispetto alle misure di contenimento della spesa pubblica, che
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ignora i principi elementari di ogni moderno sistema tributario, a partire da quello di
eguaglianza sostanziale.
Purtroppo l'instabilità finanziaria che investe l'Europa, pur avendo origini esterne è ormai
interna alle sue istituzioni, che si stanno mostrando inidonee a dare stabilità all'area dell'euro
divenuto proprio per questo l'area di elezione per scorribande finanziarie speculative.
Questa situazione che va ormai avanti per inerzia da un paio d'anni sta mettendo in luce, in
tempi di crisi planetaria l’evidente insostenibilità di una moneta unica, priva di istituzioni che
assicurino una politica monetaria comune. Sotto questo profilo, l'esperienza della crisi greca,
di quella portoghese, delle gravi difficoltà spagnole e anche delle nostre, pone in risalto
quantomeno una condizione di stallo, imposta dalla Germania, che ove non contrastata,
innanzitutto con politiche interne credibili, rischia di travolgere con l'euro la stessa
costruzione europea.
Non è questa la sede per affrontare l'insieme di profili economici, istituzionali, politici,
giuridici, sociali che rappresentano, accavallati come in un caleidoscopio impazzito, le
diverse sfaccettature della crisi europea.
Per le quali sia detto per inciso non avrei neppure le necessarie competenze.
Mi limito quindi a sottolineare che non può essere revocato in dubbio che il punto nodale
della crisi europea sia giuridico; nel senso che il carattere monco delle istituzioni economiche
e monetarie nell'area dell'euro ha effetti , produce vincoli e determina condizionamenti
molto più profondi rispetto alle limitazioni di sovranità imposte dalla cornice giuridico
istituzionale che attende al funzionamento del Mercato unico.
In buona sostanza il Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea vincola gli Stati
membri al rispetto di una serie di principi e di regole finalizzati a garantire in concreto
l'esercizio delle libertà fondamentali e il corretto funzionamento del Mercato unico.
L 'euro al contrario si muove all'interno di un modello in cui, a partire dalla recessione del
2009, i differenziali nei tassi di interesse dei debiti sovrani espressi in euro , appaiono
largamente condizionati dalle scelte di politica nazionale di un solo paese, la Germania, le cui
decisioni influenzano quelle di tutti gli altri.
Di qui, una variabilità nei tassi di interesse molto più orientata dal quadro generale dell'area
dell'euro, rispetto alle condizioni economiche dei diversi Stati il cui debito pubblico è
espresso in euro. Questa situazione di instabilità dei tassi di interesse dei debiti sovrani,
fortemente condizionata dalla politica di bilancio della Germania, rappresenta una
condizione ideale per la speculazione finanziaria, che di volta in volta, con operazioni di
arbitraggio tra titoli di debito pubblico diversi, espressi in euro realizza guadagni consistenti
praticamente senza rischio.
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Una situazione che il più delle volte non rispecchia le condizioni reali dell'economia dei
singoli Stati; che tuttavia comporta riflessi sulla concorrenza, sulla libertà di movimento di
capitali, e sulla crescita, ben più distorsivi delle violazioni delle regole europee, che i singoli
Stati possono essere di volta in volta tentati di adottare, per obiettivi di politica nazionale.
Che è compito delle Istituzioni europee, Commissione e Corte di giustizia europea in primis
di contrastare e sanzionare.
La Banca Centrale europea al contrario, non ha alcun potere per garantire nell'area dell'euro
una politica monetaria e di bilancio comuni; una politica autonoma, nell'interesse di tutta la
zona euro che tuteli i singoli stati membri, sia da attacchi speculativi che ne minino la
stabilità interna, sia dai riflessi distorsivi che la politica nazionale di uno o più a stati della
zona euro coordinati fra loro, può determinare nei confronti di altri paesi appartenenti alla
moneta unica. Incidendo indirettamente sul corretto funzionamento del Mercato unico
europeo.
L'idea che la moneta unica possa trasformarsi in una gabbia in cui le imprese italiane siano
costrette ad indebitarsi a tassi più che doppi rispetto alle concorrenti tedesche, pur
utilizzando la stessa moneta, per le decisioni e le scelte di un solo paese, e che il costo di
questa concorrenza che deforma il Mercato Unico fino a trasformarlo in una trappola, debba
essere scaricato sui contribuenti italiani, ha in sé qualcosa di irragionevole che rischia,
mettendone in discussione addirittura i presupposti, di travolgere non solo la moneta unica
ma le istituzioni europee nel loro insieme.
Nasce da questa constatazione la critica alle politiche pubbliche italiane degli ultimi due anni,
che anziché assicurare la stabilità dei conti pubblici attraverso la crescita, si è illusa di poter
tranquillizzare i mercati con una austerità suicida, preoccupata solo di compiacere la politica
di bilancio della Germania.
Una linea di politica fiscale regressiva, che anziché garantire stabilità produce macerie; che
palesemente non consentirà di realizzare un equilibrio di medio periodo della finanza
pubblica perché induce una recessione che distrugge più ricchezza di quella che lo Stato è in
grado di ricavare attraverso l'aumento delle imposte. Una politica di bilancio quindi
inutilmente recessiva, ed in contraddizione con la necessità di una gestione rigorosa della
finanza pubblica orientata alla crescita. .La sola possibile per stabilizzare il debito pubblico,
e sottrarlo alle aggressioni della speculazione finanziaria.
La distanza siderale che divide questo obiettivo dalle politiche di emergenza e di austerità
poco meditate, adottate prima dal governo Berlusconi e ora da quello presieduto dal
senatore Monti, indica le difficoltà in cui siamo immersi. Difficoltà che origina dal fatto che
il governo Berlusconi aveva completamente ignorato la componente tributaria che aveva
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anticipato al 2008 la recessione del 2009, ed ha dato avvio, ad un'escalation nell'aumento
delle imposte insensato.
Per avere un'idea di quali siano stati gli effetti quantitativi di questa politica, ci viene in aiuto
un recentissimo studio de Il Sole 24 Ore , secondo cui nell'arco di meno di quattro anni la
finanza pubblica ha condotto a riduzioni di spesa pari a 132 miliardi affiancate da 178
miliardi di maggiori entrate, soffocando la ripresa nel 2010 , senza mettere in sicurezza i
conti pubblici.
Una politica tributaria lontana anni luce dalle esigenze dell’Italia, che ha paralizzato la spesa
delle fasce più favorite della popolazione per timore dei controlli fiscali sulla spesa ,
testimoniata dal crollo dell'acquisto di beni di consumo durevole, tra cui primeggia il dato
negativo delle auto, e della compravendita degli immobili.
Completa il quadro la compressione insensata dei redditi minori, stretti tra riduzioni della
spesa che spesso li coinvolgono direttamente, e la moltiplicazione di aumenti di tributi
regressivi ad ampio spettro. La recessione che ci sta impoverendo è il frutto di questa non
politica tributaria miope, priva di idee e di qualità, che invece di impegnare l'Italia ad uno
sforzo comune per rilanciare la crescita, è alla disperata ricerca del tesoro dell'evasione, e
affida il raggiungimento di questo obiettivo ad una fiscalità avvitata su se stessa, ormai fuori
controllo. Una ricchezza nascosta di cui spesso si favoleggia, che certamente esiste, ma di cui
dopo la generalizzazione dei meccanismi di tracciabilità, ovviamente, almeno in Italia non vi
è più traccia .
Una politica tributaria che ruota intorno ad una concezione statalista dei rapporti tra cittadini
e istituzioni che non ha confronto in Europa, che si riflette sull'organizzazione sociale e su
una struttura della società, sedimentata nell'arco di un trentennio, che incontra difficoltà
crescenti a confrontarsi e a competere con la realtà europea, basata sulla diffusione delle
libertà, ed evidenzia una deviazione statalista dai risvolti culturali prima ancora che politici
tuttora irrisolta.
Uno statalismo che esprime un ceto benestante, vicino al potere quando non ne è una
emanazione diretta, intriso di moralismo, che non comprende e guarda con sufficienza
quando non con disprezzo quest'Italia che non gli piace e dalla quale si sente estraneo. Senza
comprendere che questa realtà complessa è lo specchio che riflette almeno in parte ciascuno
di noi; che deve necessariamente trasformarsi per cogliere le sfide in cui siamo immersi,
cercando di non lasciare nessuno indietro.
Un dirigismo miope che anziché alimentare la crescita, favorendo attraverso un uso accorto
della politica tributaria l'emersione e il consolidamento di una quota crescente dell'economia
irregolare, che è bene ricordarlo vive in simbiosi, integrata con quella regolare, sta risolvendo
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il fenomeno dell'economia irregolare e dell'evasione alla radice, con una contrazione del Pil
che non ha eguali in Europa, che colpisce senza distinzioni sia l'economia regolare sia quella
sommersa. Uno statalismo strabico che anziché puntare sul consolidamento della ripresa,
nel 2010, ha preferito giocare "a Monopoli con il federalismo," riuscendo a conti fatti a
distruggere nella recessione 2008 / 2009 oltre 100 miliardi di euro; e che nella nuova fase
recessiva 2012 /2013, si appresta, con il governo Monti a farne sparire un'altra cinquantina.
Senza considerare gli effetti di queste politiche sull'economia sommersa o irregolare
difficilmente quantificabili.
Ritornando al tema dei tributi, la conclusione di questa analisi riconduce direi di necessità al
punto da cui siamo partiti; l'evidenza di una crisi che investe l'insieme dei rapporti
istituzionali , di cui il meno che si possa dire è che vi sia scarsa consapevolezza, che ruota
intorno allo sfaldamento della funzione parlamentare, e allo svuotamento delle garanzie
costituzionali che tengono insieme i rapporti tra le diverse istituzioni.
La marginalità che ha investito da troppi anni la fiscalità, che la crisi
ha contribuito ad amplificare e a ribaltare attraverso i suoi effetti negativi sulla nostra
disciplina, mettendone a rischio l'utilità e quindi la stessa funzione, obbliga ad una riflessione
più ampia, che non può non coinvolgere i nostri studi.
Occorre ripartire con umiltà dalla rilettura dei principi, con la consapevolezza che nessuno
può chiamarsi fuori da una crisi che ci coinvolge tutti come cittadini prima
ancora che come studiosi. Non possiamo più trascurare nulla, perché tutto si tiene. Va
quindi ripensato il ruolo dei tributi, a partire dai profili distributivi, che è essenzialmente un
problema giuridico, perché attiene all'effettiva attuazione del principio di uguaglianza; della
loro gestione; dei rapporti tra amministrazione finanziaria, contribuenti e giurisdizione; delle
garanzie e dei limiti che devono circondare, sia l'esercizio della discrezionalità sia lo
svolgimento dell'azione amministrativa; riportando al centro della vicenda tributaria il diritto.
In conclusione occorre guardare con attenzione agli sviluppi del diritto europeo e alla
giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui lettura delle libertà fondamentali si ispira
all'esigenza di tenere unito il più grande mercato del pianeta, assicurando le condizioni
perché questo possa funzionare correttamente.. Giurisprudenza che nell'essenziale, evidenzia
sempre più attenzione ai diritti dei cittadini europei in termini di parità di trattamento, e alla
loro effettiva tutela, attraverso l'uso accorto dei principi di proporzionalità e eguaglianza.
In questo senso l'unità del sistema finanziario, di cui ho cercato di offrire una ricostruzione
aperta alle nuove sfide dell'economia mondializzata, ma non per questo disattenta ai diritti
dei cittadini contribuenti, rappresenta una chiave interpretativa meritevole di
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approfondimento per ricondurre le politiche pubbliche ed in particolare quella tributaria nel
grande alveo della Costituzione.
Rammentando in buona sostanza che l'unità del sistema finanziario rappresenta il filo
conduttore comune il cui rispetto consente di assicurare l'eguaglianza di fatto, nel concreto
divenire dell'agire politico . Eguaglianza che dà pienezza di contenuti alle politiche
finanziarie di entrata e di spesa, che hanno come destinatari ultimi i cittadini.
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Quel che resta del processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale:
lo stato attuale della fiscalità regionale e locale
di Paola Coppola
ABSTRACT
Fiscal federalism is analyzed both after the publication of almost all decrees and after the
recent variations adopted to tackle the actual financial and economic crisis. The regional and
local financial autonomy, that is the aim of the federal reform is, however, only a semblance:
everything is in fact still being ruled by the laws of the central Government, while all other
government’s levels are totally powerless. The result is a set of rules, which does not comply
with the aim of the reform of Title V of our Constitution and with the cooperative federal
model. This situation might create major risks in terms of equality for citizens and regions,
also in violation of the national law and of the European principles.
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Cosa è successo con la legge delega sul federalismo fiscale: alcuni spunti
critici di riflessione: a) Sul doppio livello di spese connesse all’esercizio delle funzioni di Regioni ed EE.LL.;
b) Sulla determinazione dei costi e fabbisogni standard dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni
fondamentali di Regioni ed Enti Locali; c) Sul principio di territorialità quale modalità di attribuzione di
risorse alle autonomie regionali; d) Sul divieto di aumenti della pressione fiscale complessiva “anche nella fase
transitoria” - 3. Il nuovo fisco regionale secondo il D.Lgs. n. 68 del 6 maggio 2011: una sintesi delle
principali novità e correzioni - 4. Il nuovo fisco municipale di cui al D.Lgs. n. 23 del 23 aprile 2011 e
successive modificazioni ed integrazioni: il “restyling” dei tributi locali - 5. Le alternative possibili
all’aumento del livello di tassazione per coprire il deficit di autonomia di Regioni ed EE.LL e la probabile
violazione del principio dell’accountability.
1. Premessa
Provo a fare il punto sul processo di attuazione della legge delega sul federalismo
fiscale; tema che occupa da più di due anni lo scenario politico nazionale e che torna
quotidianamente alla ribalta, soprattutto in tempi come questi in cui viene annunciata
nuovamente una “riforma fiscale nazionale”, ed in cui vengono ribaditi con determinazione
i desiderata di imprese e cittadini di fronte alla attuale situazione di crisi economica e
finanziaria, specie nei territori in deficit di sviluppo come quelli del Mezzogiorno.
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Per valutare, in sintesi, gli effetti del processo in corso, che più che “federalista” è di
“decentramento” fiscale, come è a tutti noto, vanno inquadrate le ragioni di fondo di questa
scelta.
Quanto a quelle ideologiche, occorre rifarsi al principio di sussidiarietà, già sancito a
livello comunitario dall’art. 5 del Trattato per regolare i rapporti tra l’Unione e gli Stati
membri, che trova diretta applicazione nel nostro ordinamento nell’ art. 118, comma 1 della
Cost. ogni qualvolta le azioni e le funzioni amministrative di spettanza dall’ente territoriale
più vicino ai cittadini e, dunque, del Comune possano essere meglio realizzati dagli organi e
gli enti territoriali superiori (e, quindi, secondo la sequenza indicata all’art. 114 della Cost.,
dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni ed infine dallo Stato). In questo caso,
si parla, com’è noto, di sussidiarietà verticale per distinguerla da quella orizzontale che regola
l’intervento pubblico nei confronti dell’iniziativa privata quando sono i privati o le libere
associazioni a non essere in grado di soddisfare efficacemente interessi meritevoli di tutela
(art. 118 Cost., comma 4)1.
Bisogna valutare più attentamente, però, le ragioni politiche del fenomeno che, sin
dal lontano 2001, anno in cui è stata attuata la Riforma del Titolo V della Parte II della
Costituzione, sono dirette a “riempire di contenuto” l’art. 119 al fine di dotare i vari enti
di governo di autonomia di entrata e di spesa “in armonia con la Costituzione e secondo i
principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Certo è che se vi fossero entrate pubbliche sufficienti a garantire al meglio i servizi
del territorio più vicino ai cittadini avremmo trovato la soluzione al problema del giusto
equilibrio tra la finanza pubblica ed assetti istituzionali. Il problema è però quello di capire,
dopo l’emanazione di quasi tutti i decreti di attuazione della delega, e dopo le modifiche
E’ opinione comune e diffusa quella secondo cui il federalismo amministrativo attuato nell’ambito della
riforma Bassanini con la legge delega del 15 marzo 1997, n. 59 che individua per la prima volta i principi guida
per il conferimento delle funzioni ha anticipato ciò che si è realizzato con la Riforma del Titolo V della
Costituzione, avvenuta con la L. 18 ottobre 2001, n. 3. Sul federalismo amministrativo, si v., in ult. M.
CLARICH, Federalismo fiscale e federalismo amministrativo, in Gior. Dir. Amm., 2012, 105 e seg. Per i più recenti
contributi sul tema del federalismo fiscale, v R. PIGNATONE, Principi fondamentali per il coordinamento del sistema
tributario e ricorso alla delega legislativa in materia di federalismo fiscale, in www.federalismi.it, 2011, ed i riferimenti
bibliografici ivi riportati; P. L. MATTA, Il federalismo fiscale: realtà o utopia?, in Riv. Giur. del Mezzogiorno, 2011, 723
e seg; G. MARONGIU, Il c.d. federalismo fiscale tra ambizioni, progetti e realtà., in Dir. Prat. Trib., 2011, 219 e seg; F.
AMATUCCI, Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, Torino, Giappichelli, 2010; G. MURARO, Dal federalismo alla
riforma fiscale, in Rass. Trib., 2010, 1657 e seg; L. DEGRASSI, Federalismo fiscale. Il problema della collaborazione StatoRegioni - Fiscal federalism. The issue of the cooperation between state and regions, in Il diritto dell'economia, 2010, 227 e seg;
R. BIN, Verso il federalismo fiscale o ritorno al 1865?, in Le Regioni, 2010, 721 e seg..; E. DE MITA, Le basi costituzionali
del “federalismo fiscale”, Milano, 2009, ID, La lunga marcia del procedimento per delega: enti locali, difficoltà del Parlamento,
assenza dei principi e criteri direttivi richiesti, in Boll. Trib., 2010, 661 e seg.; C. TUCCIARELLI, La legge n. 42/2009: oltre
l'attuazione del federalismo fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2010, 61 e seg..; G. BIZIOLI, Profili ricostruttivi dell’autonomia
tributaria delle regioni e degli enti locali derivante dalla legge delega in materia di “federalismo fiscale, in Fin. loc., 2009, 13 e
seg.
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correttive ed integrative dell’attuale “Governo tecnico”, di quali e quante effettive risorse
(da entrate tributarie) detti enti possono oggi disporre, su quali presupposti impositivi dette
entrate possono essere applicate, chi produce reddito o detiene patrimonio da sottoporre a
tassazione in un dato territorio e se i diversi enti di governo equiordinati ex art. 114 della
Cost. possano effettivamente “stabilire ed applicare tributi propri” per raggiungere
l’obiettivo dell’ “ottimizzazione” delle funzioni loro assegnate secondo il disegno tracciato
dal processo federalista in corso, senza che vengano a prodursi effetti distorsivi sui territori
e/o sull’eguaglianza tra cittadini.
2. Cosa è successo con la legge delega sul federalismo fiscale: alcuni spunti critici di riflessione: a) Sul
doppio livello di spese connesse all’esercizio delle funzioni di Regioni ed EE.LL.
Con la legge delega del 5 maggio 2009, n. 42 sono stati declinati i principi direttivi
per guidare l’attuazione del federalismo fiscale. Il nuovo sistema ormai quasi concluso (già
otto decreti sono stati emanati )2 che, a detta di molti, rappresenterebbe in sede politica “una
svolta epocale nel sistema di finanza pubblica” appare, in realtà, ad oggi più che una
rivoluzione, una “rassegnazione” delle entrate tributarie statali, avendo ad oggetto, come si
vedrà, quelle sino ad oggi istituite dallo Stato.
Secondo uno dei fondamentali principi direttivi della legge delega vanno soppressi i
trasferimenti delle entrate dallo Stato alle Regioni e quelli dalle Regioni ai Comuni e alle
Province ed “assegnate” risorse (statali, quindi, per la quota dominante) ai vari livelli di
governo3. La vera novità della riforma in corso sta nel fatto che il livello delle entrate
“riassegnato” a ciascun ente intermedio dovrà essere determinato non più in base alla spesa
In realtà, secondo la legge delega, il Governo avrebbe dovuto emanare uno o più decreti legislativi entro
ventiquattro mesi dalla data della sua entrata in vigore, e, quindi, entro il 21 maggio 2011, ed avrebbe potuto
provvedere in altri due anni per l’adozione dei decreti legislativi correttivi ed integrativi. Il Consiglio dei
Ministri ha approvato il 14 aprile 2011 un disegno di legge con la previsione di una proroga di sei mesi per
l’adozione dei decreti legislativi e il termine di tre anni per la predisposizione dei decreti correttivi ed integrativi.
Ad oggi risultano emanati, nell’ordine, il D.Lgs. n. 85 approvato il 28 maggio 2010 sul cd. federalismo
demaniale, per un approfondimento del quale ci si permette di rinviare al mio: Il federalismo demaniale: lo schema di
D.Lgs. in corso di approvazione. Molte ombre, poca luce, in www.innovazionediritto.it, nonché a A. GRECO, Il
federalismo demaniale, in Il Diritto della Regione, 2010, 15 e seg.. il D.lgs. n. 156 approvato il 17 settembre 2010
relativo all’ordinamento transitorio di Roma capitale; il D.Lgs. n. 216 approvato il 26 novembre 2010 sui
fabbisogni standard degli Enti locali; il D.Lgs. n. 23 approvato, dopo un travagliato iter, in via definitiva, il 14
marzo 2011; il D.Lgs. n. 68 approvato il 12 maggio 2011; il D.Lgs. n. 88 del 31 maggio 2011 sulla rimozione
squilibri territoriali; il D.Lgs. n. 118 del 23 Giugno 2011 sull’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi
di bilancio delle Regioni e degli enti locali; il D.Lgs. n. 149 del 6 settembre 2011 sui meccanismi sanzionatori e
premiali relativi a Regioni, Province e Comuni. In corso di approvazione risulta il decreto contenente ulteriori
disposizioni in materia di ordinamento di Roma Capitale.
3 Art. 8, comma 1, lett. h), L. n. 42/2009.
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storica, ma in base al fabbisogno necessario a coprire l’esercizio ordinario delle funzioni
secondo due parametri corrispondenti ad una duplice classificazione delle spese.
Entrando nel dettaglio, per le Regioni le entrate andranno stabilite in ragione delle
risorse necessarie a finanziare:
1) le spese connesse alle cd. prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all’art. 117,
comma 2, lett. m), della Cost. e cioè quelle i cui “livelli essenziali” devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale (c.d. Spese LEP, relative alla sanità, l’assistenza, l’istruzione, ed il
trasporto). Per queste spese, le Regioni potranno contare sui tributi propri e derivati4, sulle
addizionali, sulla compartecipazione regionale all’IVA, e su quote specifiche (della prima
parte) del fondo perequativo alimentato sempre dalla compartecipazione all’IVA. Il
finanziamento di queste spese avverrà, però, solo dopo aver proceduto alla definizione dei
costi standard dei servizi erogabili (art. 8, comma 1, lett. a) e c), L. n. 42/2009);
2) le spese relative ad “altre funzioni” (le cd. Spese Libere, diverse da quelle associate ai
LEP) andranno finanziate, invece, senza essere standardizzate, con le fonti di entrata
rappresentate dal gettito dei tributi regionali (propri, derivati e addizionali) parametrato al
gettito dell’addizionale regionale Irpef. Anche per queste spese si prevede una copertura con
le quote (della seconda parte) del fondo perequativo alimentato, questa volta,
dall’addizionale IRPEF e centrato sulla cd. “capacità fiscale per abitante”. Ai sensi dell’art. 9,
comma 1, lett. g), L. n. 42/2009, solo le Regioni con una capacità fiscale per abitante
inferiore alla media nazionale, riceveranno “un sussidio positivo” dal fondo secondo un
coefficiente perequativo parziale finanziato in parte dalle Regioni che si trovano in situazione
opposta (e, quindi, quelle più ricche e che presentano una capacità fiscale per abitante
superiore alla media nazionale) e per il residuo, dallo Stato centrale con l’addizionale IRPEF;
3) le spese straordinarie o speciali che possono riguardare tutte le funzioni, saranno
finanziate, infine, dai contributi speciali dello Stato e dell’Unione europea, e non da tributi.
Anche per gli Enti Locali è stata prevista, in linea di principio, una doppia
classificazione delle spese distinte in quelle “riconducili alle funzioni fondamentali di cui
all’art. 117, comma 2, lett. p) della Cost.”, individuate dalla legge statale, e in quelle riferite
“alle altre funzioni”, ed è stata, del pari, prevista la ripartizione di fondi perequativi.
Per i Comuni, le spese delle funzioni fondamentali, mediante stima dei fabbisogni
standard, dovrebbero essere finanziate integralmente con la compartecipazione all’IVA,
all’IRPEF e attraverso i tributi riferibili all’imposizione immobiliare (ad esclusione
Com’è noto, per tributi propri regionali si intendono quelli istituiti e regolati interamente dalla Regione che ne
individua gli elementi essenziali; i tributi derivati, sono invece quelli istituiti e regolati dalla legge statale che
delimita spazi di autonomia entro i quali Regioni possono stabilire elementi della relativa disciplina.
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dell’abitazione principale, secondo la legge delega ex art. 12, comma 1, lett. b), L. n.
42/2009); per le Province, il finanziamento dovrebbe essere assicurato dal gettito dei tributi
connessi al trasporto su gomma e dalla compartecipazione “ad un tributo erariale”(art. 12,
comma 1, lett. c), L. n. 42/2009) oltre che da una quota del fondo perequativo, a sua volta
alimentato da un ulteriore fondo che trae risorse dalla fiscalità erariale.
Per le spese relative alle funzioni non fondamentali, il finanziamento dovrà essere
assicurato, invece, dai tributi propri5, dalla compartecipazione al gettito di tributi regionali e
statali, nonché da altra quota del fondo perequativo basato sulla “capacità fiscale per
abitante” (art. 11, comma 1, lett. c), L. n. 42/2009). Per queste spese non è prevista, dunque,
nè la standardizzazione, né il finanziamento integrale.
Si ritornerà su questa articolazione delle fonti di entrata e di spesa degli enti
decentrati. Per ora può anticiparsi che il sistema ideato per assegnare “autonomia di
entrata e di spesa” a ciascun livello di governo, si manifesta complesso ed incerto per le
difficoltà di individuazione delle diverse entrate, comprese quelle riferite ai fondi di
perequazione e rimane sostanzialmente un sistema incentrato su fonti statali, comprese
quelle “derivate” non più in via diretta ma attraverso fondi perequativi, formati, anch’essi,
da entrate\ erariali, con scarsa, se non assente, flessibilità e manovrabilità degli elementi del
tributo in linea teorica delegati all’ente di riferimento.
In ogni caso, il sistema non sembra essere in linea con l’art. 119 della Cost., e con i
principi di uguaglianza e dell’eguale soddisfacimento di diritti sociali nello Stato, oltre che
E’ pacifico che per tributi propri degli enti locali debbano intendersi quelli cd. derivati, ossia tributi individuati
da leggi statali o regionali che l’Ente locale potrebbe, dunque, istituire ed applicare, ovviamente con atto
regolamentare. Sulla questione dell’autonomia tributaria garantita dall’art. 119 della cost. a Comuni, Province e
Città metropolitane, diversamente da quella garantita alle Regioni: F. TESAURO, Le basi costituzionali della fiscalità
regionale e locale, in Fin. loc., 2005, 3.1.; M. BASILAVECCHIA, La fiscalità di sostegno nella prospettiva federalista, in
Corr.trib., 2009, 985 e seg. ; L. DEL FEDERICO, Il rapporto tra principi del sistema tributario statale e principi fondamentali
di coordinamento, in V. FICARI (a cura di), L’autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali tra Corte costituzionale
(sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega. Milano, 2009;
E. DELLA VALLE, Il c.d. federalismo fiscale nell’ottica del tributarista: nihil sub sole novi, 2010, in
www.costituzionalismo.it. Per la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze nn. 296/2003, 297/2003,
311/2003, 241/2004), nel sistema delineato dal nuovo Titolo V della Costituzione, un tributo è “proprio” solo
se è il frutto dell’esercizio di una potestà normativa autonoma, e risultano irrilevanti circostanze quali
l’attribuzione all’ente del gettito, la potestà di accertamento e di riscossione, così come il potere di intervenire
sull’aliquota. Sulla questione delle relazioni tra legislazione regionale e potestà normativa locale si rinvia alla
sentenza n. 102 del 2008 della Corte Costituzionale che esclude che possa esistere una riserva di competenza
regolamentare sugli aspetti del prelievo non coperti da riserva di legge ex art. 23 della Cost. e che ha chiarito
l’obbligo di osservanza dei principi fondamentali di coordinamento contenuto nell’art. 119 che vanno ricondotti alla
coerenza e l’omogeneità con il sistema tributario nel suo complesso. Sulla questione dei principi di
coordinamento, P. RUSSO- G. FRANSONI, Coordinamento del sistema tributario, in Rass. Trib., 2010, 1575 e seg.; .
PIGNATONE, Principi fondamentali per il coordinamento del sistema tributario, cit., 36 e seg.
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dell’unità nazionale, per le disparità di trattamento che vengono a generarsi tra cittadini e per
l’ abbassamento del livello di prestazioni pubbliche fruibili, in via di principio, dai singoli6.
Si noti, infatti, che, mentre l’art. 119 Cost., comma 4 sancisce espressamente che
regioni ed enti locali debbano finanziare “integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”
con le risorse di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo (e, cioè con tributi propri, con
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, e col ricorso ad un
fondo perequativo), con la legge 42/2009 si crea “in modo innovativo”, un doppio livello
di spese connesso alle funzioni attribuite: le cd. spese LEP e le cd. spese Libere, a loro
volta, parametrate non più ai costi sostenuti (su base storica), ma a costi standard
determinati in ragione del livello sufficiente ad assicurare il finanziamento (totale) della
spesa corrispondente all’esercizio di una data funzione (almeno) in una regione o in un ente
territoriale; ove il gettito sarà insufficiente, dovrà farsi ricorso al fondo perequativo.
In questo modo i livelli di prestazione da finanziare “integralmente” (associati alle
spese LEP) non saranno, dunque, più quelli effettivi, variabili da regione a regione, ma solo
quelli attraverso cui si realizzeranno “determinati obiettivi” che dipenderanno, a loro volta,
dalla definizione del “ fabbisogno standard”.
Per le spese Libere associate alle funzioni “non essenziali” o “non fondamentali”, del
pari, non si prevede un sistema di finanziamento integrale e le risorse necessarie alla loro
copertura dipenderanno, in definitiva, dalla capacità finanziaria e gestionale, oltre che di
progettazione, degli enti di riferimento.
b) Sulla determinazione dei costi e fabbisogni standard dei livelli essenziali delle prestazioni e delle
funzioni fondamentali di Regioni ed Enti Locali.
Il problema sta, dunque, a monte del sistema di finanziamento degli enti di governo,
e riguarda proprio la “scelta politica” che è stata fatta nel ricorrere a criteri standardizzati per
l’individuazione del costo e del fabbisogno delle funzioni (sul modello già sperimentato da anni
dei costi sanitari); scelta che potrebbe anch’essa far sorgere questioni di costituzionalità, a
cominciare dal fatto che, essendo stata rimessa ai decreti legislativi, si è finito, di fatto, ad
attribuire al Governo il potere di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni che, invece, ai
La dicotomia tra spese e funzioni essenziali non appare, del resto, in armonia nemmeno con il diritto
comunitario che ha abbandonato il criterio di distinzione tra servizi pubblici essenziali e non essenziali, per
passare alla distinzione nelle categorie di servizi tra quelli di interesse economico generale e quelli di interesse
generale. Sul tema, tra i più recenti, v. F. DONATI, La regolazione dei servizi d'interesse economico generale. I servizi di
interesse economico generale: prospettive di evoluzione del modello regolatorio europeo, in Diritto dell'Unione Europea, 2010, 195
e seg., nonchè F. MERUSI, Lo schema della regolazione dei servizi di interesse economico generale, in Dir. Amm., 2010, 313
e seg.
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sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Cost. e dell’art. 20, ult. comma. della stessa L. n.
42/2009 sarebbe stato compito proprio del legislatore e, dunque, del Parlamento7.
Ora, pur assumendo in linea di principio, che l’esercizio delle funzioni essenziali
possa essere efficacemente parametrato ad un dato “livello standard di efficienza”, non
possono
essere trascurate
le conseguenze che derivano dalla reale ed ampia
diversificazione dei costi delle funzioni presso ciascun ente intermedio, soprattutto in uno
Stato, come l'Italia, dove tante sono le differenze, diversità e diseguaglianze interregionali.
Come è stato già efficacemente segnalato dalla dottrina che si è occupata della
vicenda8, se il costo standard è, infatti, la risultante di una media dei costi sostenuti nelle
diverse regioni per la produzione di un dato servizio, è vero anche che il valore ottenuto non
può considerarsi necessariamente rappresentativo di un servizio prodotto attraverso una
gestione efficiente. Se il servizio prodotto è di scarsa qualità, verrà a crearsi un sistema in cui
le prestazioni relative a diritti civili e sociali (si pensi, per tutte, a ciò che si verifica per la
spesa sanitaria) potrebbero arrestarsi su livelli qualitativi più bassi rispetto alle reali
possibilità con gravi conseguenze sulla qualità e livello di vita dei cittadini. A ben vedere,
invero, anche per le funzioni essenziali e per quelle fondamentali ( lettt. m) o e p) del cit. art.
117 della Cost) non vi sarà un finanziamento integrale, ma un finanziamento “limitato ai
livelli essenziali” che esse vanno a soddisfare, che rimane ancora oggi di incerta individuazione
e classificazione.
Pure in relazione al fabbisogno standard potrebbero manifestarsi macroscopiche
diseguaglianze: detto fabbisogno, infatti, non sembra potersi utilmente individuare
unicamente in ragione della “capacità fiscale per abitante” di un dato territorio, come
imposto dalla legge n. 42/2009, ma dovrebbe dipendere dalla valutazione delle differenze
geografiche o strutturali della Regione di riferimento, della diversa qualità della vita dei
E’ ovvio che la radice del problema sta già nella dicotomia prevista dall’art. 117, comma 2, lett. m) della Cost.
e, quindi, nella riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che realizza una gerarchia tra servizi pubblici
locali di serie A e serie B non contemplata dall’art. 119 della Cost. Sull’argomento G. FERRARA, A proposito del
federalismo fiscale. Sulla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, in www.costituzionalismo.it, 5 e seg.; C. DE
FIORES, Note critiche al federalismo fiscale, in www.costituzionalismo.it.
8 Sul punto, v. N. DIRINDIN, Fabbisogni e costi standard in sanità: limiti e meriti di una proposta conservativa, in Ragiusan,
2011, 66 e seg.; F. PALLANTE, I diritti sociali tra federalismo e principio di eguaglianza sostanziale - Social Rights between
Federalism and the Principle of Substantial Equality, in Dir. Pubb. 2011, 249 e seg; F. SAITTO, La legge delega sul
"federalismo fiscale": i livelli essenziali delle prestazioni come misura economica dell'eguaglianza, in Giur. Cost., 2010, 2817 e
seg; A. SABBADINI – A. STRUSI, Quale approccio al costo standard per l'avvio della riforma federalista?, in Diritto della
Regione, 2010 pag. 45 e seg.; A. ZANARDI (a cura di), Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale,
Bologna, 2006 ed in ult., A. ZANARDI, Dalla determinazione dei fabbisogni standard al disegno del sistema perequativo dei
Comuni, Short note n. 1, 2012, www.econpubblica.unibocconi.it.
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cittadini residenti e del diverso livello di sviluppo economico e sociale del territorio 9. Ad
analoga capacità fiscale dei cittadini di più Regioni non corrisponde certo un uguale
soddisfacimento dei diritti fondamentali legati all’erogazione di un dato servizio pubblico.
Ecco perché sarebbe stato necessario contemperare tale criterio con coefficienti di
ponderazione, quali il fabbisogno oggettivo di spesa in un dato territorio, o la qualità dei servizi
pubblici locali erogabili ai cittadini10. Ecco perché sarebbe stato forse necessario definire
dapprima i compiti di ciascun livello intermedio di governo e successivamente declinare la
struttura di finanziamento delle spese necessarie allo svolgimento degli stessi11.
Per adesso il decreto emanato “sui costi e fabbisogni standard dei Comuni,
Province e Città Metropolitane” (D.Lgs. n. 216 del 26 novembre 2010) si è posto come
obiettivo “il graduale, ma non definitivo superamento della spesa storica”. Il decreto nulla
precisa in ordine alla metodologia da seguire in concreto per individuare detti fabbisogni,
delegandola alla società per gli Studi di Settore (SOSE SPA)12 e si è limitato a prevedere che
la determinazione dei predetti fabbisogni avvenga per gradi13: nel 2011 per un terzo delle
funzioni fondamentali, da adottarsi con gradualità nel triennio 2012-2014, mentre per i due
terzi nel successivo triennio 2013-2015. Per l’intero insieme delle funzioni fondamentali
dovrebbe attendersi il 2013, sempre con la previsione dell’entrata a regime del processo nel
triennio successivo. In attesa dell’approvazione del “Codice delle Autonomie”, da tempo atteso,
La determinazione del fabbisogno finanziario necessario per assicurare a tutti i cittadini italiani i livelli
essenziali di assistenza (LEA) è un’operazione molto complessa anche per l’eterogeneità dei criteri contabili
adottati dalle Regioni. Per una disamina della complessità del processo di armonizzazione, si rinvia a A.
URICCHIO, La nuova disciplina della contabilità pubblica nella prospettiva del federalismo fiscale, in Riv. Trib. loc., 2010, 251
e seg.; A. GIORDANO, Verso l'armonizzazione del sistema tributario: tra gli obiettivi del legislatore e la babele dei sistemi
contabili sub-statali. in Trib. loc. reg., 2010, 40 e seg,
10 C. DE FIORES, Note critiche al federalismo fiscale, op e loc. cit.
11 Si ricorda che il “Codice delle Autonomie” non è stato ancora definitivamente approvato. Del resto, già
secondo M.S. GIANNINI, In principio sono le funzioni, in Amm. Civ. 1959, 24 al centro dell’analisi sulla prima
riforma globale della pubblica amministrazione si sarebbero dovute collocare “le funzioni” e la loro allocazione
tra i diversi livelli di governo.
12
La SOSE SPA potrà avvalersi dell’ Istituto per la finanza e per l’economia locale (IFEL), nonchè dell'ISTAT
in questa sua attività.
13 Secondo A. ZANARDI, op. e loc cit., risulta che la SOSE SPA abbia ad oggi affrontato le tecniche di
determinazione dei fabbisogni standard applicate al comparto della Polizia locale, procedendo con questionari e
poi con tecniche econometriche per definire il livello del fabbisogno standard per ciascun Comune che, per la
funzione considerata, è stato ricavato utilizzando i valori della spesa standard stimati per ripartire un
ammontare complessivo di risorse finanziarie che corrisponde, in questa fase iniziale, con la spesa storica
totale per assicurare l’invarianza delle risorse. La complessità del modello e la molteplicità di finalità che il
legislatore si è proposto, portano l’Autore a ritenere per ora impossibile condurre un processo di
standardizzazione basato sulla valutazione analitica di quantità e costi standard (che presupporrebbe la
conoscenza delle quantità di servizio offerto, dei prezzi dei fattori produttivi e di una qualche misura del livello
qualitativo) ed a concludere che con il lavoro sino ad ora svolto si sia messo in atto un mero meccanismo di
riparto di un fondo complessivo la cui dimensione risulta decisa ex ante a livello nazionale.
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le funzioni considerate come fondamentali sono quelle già indicate come tali all’art. 21,
comma 3 della L. n. 42/2009.
c) Sul principio di territorialità quale modalità di attribuzione di risorse alle autonomie regionali.
Altre criticità dipendono dell’applicazione generalizzata a tutte le entrate regionali
del cd. “principio di territorialità”, secondo altro principio direttivo della legge delega.
Ai sensi del cit. art. 7 della L. n. 42/2009 le modalità di attribuzione alle Regioni del
gettito dei tributi regionali derivati e delle compartecipazioni ai tributi erariali dovranno
tenere conto, in particolare: 1) “del luogo di consumo”, per i tributi aventi quale presupposto i
consumi; 2) della localizzazione dei cespiti, per i tributi basati sul patrimonio; 3) del luogo di
prestazione del lavoro, per i tributi basati sulla produzione; 4) della residenza del percettore, per i
tributi riferiti ai redditi delle persone fisiche.
Il principio non appare in armonia con l’art. 119 della Cost. che limita la
territorialità, secondo quanto indicato al comma 3, alle sole “compartecipazioni al gettito di
tributi erariali” affinchè ogni Regione abbia diritto ad una quota della ricchezza che produce
ed in cui non c’è alcun “allargamento” ai tributi regionali derivati, come risulta invece
indicato nell’art. 7, comma 1, lett. d) della L. n. 42/2009. L’ “ampliamento” del principio di
territorialità sembra poi disattendere, più che enfatizzare, il fine della responsabilizzazione
degli amministratori che, com’è noto, viene considerato, sul piano politico, “altro obiettivo”
del processo federalista in corso, e potrebbe apparire non conforme ai principi di
solidarietà e di uguaglianza per le asimmetrie che ne potranno derivare.
Quel che è certo è che il principio di territorialità non è di facile attuazione
soprattutto se analizzato con riguardo alla principale imposta sui consumi qual è l’IVA,
risultando veramente complesso collegare la percentuale di gettito regionale “al luogo del
consumo” del bene o servizio del fruitore finale anche per le implicazioni che derivano
dall’entrata in vigore delle nuove regole sulla territorialità delle prestazioni di servizi ex
D.Lgs. 11 febbraio 2010, n. 18.
Ove l’oggetto del consumo sia un servizio, la legge delega consente di prendere in
considerazione il luogo del “domicilio fiscale del fruitore finale”, ma nulla dispone ove
l’oggetto del consumo sia un bene materiale. Tant’è che un chiarimento si è avuto solo con il
D.Lgs. n. 68 del 6 maggio 2011 che all’art. 4, comma 3, fa comprendere che per il luogo
del consumo debba considerarsi il luogo in cui “avviene la cessione dei beni” e non, quindi, il
luogo dove il bene è consumato. Si noti ancora che per effetto di un’altra regola IVA che
vale per le Regioni a Statuto speciale (in cui “il luogo di riscossione” è identificato con
quello in cui si trova l’ufficio delle entrate di appartenenza del contribuente che versa l’IVA
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all’erario, a nulla rilevando il domicilio fiscale del fruitore), potrebbero sorgere conflitti di
interpretazione nella situazione in cui consumatore finale e prestatore del servizio risiedano,
rispettivamente in una regione a statuto ordinario ed in una a statuto speciale.
d) Sul divieto di aumenti della pressione fiscale complessiva“anche nella fase transitoria”.
Altro importante principio della delega è quello dell’attuazione del federalismo fiscale
“senza produrre aumenti della pressione fiscale complessiva anche nel corso della fase transitoria” (art. 28 ,
comma 2, lett. b) della cit. L. n. 42/2009); principio che risulta ad oggi radicalmente
smentito dai provvedimenti d’urgenza adottati in detta fase transitoria dal Governo, oltre
che dall’attuale Governo “tecnico” per fronteggiare la crisi economica che hanno portato ad
“anticipare” l’entrata in vigore di talune norme contenute nei decreti legislativi già approvati,
determinando, come si vedrà, un coacervo di disposizioni di difficile lettura e
comprensibilità.
Occorrerebbe affrontare, almeno su questo aspetto, la questione dell’ eccesso di
delega in cui potrebbero essere incorse le norme che, di recente, hanno portato a sicuri
aumenti di fiscalità regionale e locale senza la coeva riduzione delle imposte erariali in
violazione dell’art. 76 della Cost.14; così come dovrebbe essere valutata in sede politica la
possibile tenuta di detto principio quando andrà a regime il progetto federalista
considerando le attuali linee di programmazione economica del Paese15. Principio direttivo
che, si badi bene, intende riferirsi in ogni caso al livello della pressione fiscale “del totale
Italia” e non di quello delle singole Regioni, Province o Comuni ove i cittadini residenti
potrebbero, dunque, risultare destinatari di prelievi differenziati che in ogni caso potrebbero
risultare non tollerati dai principi fondamentali dell’ordinamento interno e di quello
comunitario.
14 Secondo la Corte Cost., sentenza n. 54 del 2007 e n. 230 del 2010 in caso di delega: “… il sindacato di
costituzionalità sulla delega legislativa postula che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma
delegante si esplichi attraverso il confronto tra due processi ermeneutici paralleli: l'uno relativo alle norme che
determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complesso di norme
in cui si collocano e delle ragioni e finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l'altro relativo alle
norme introdotte dal legislatore delegato.
15 Senza dire poi che, la genericità ed insufficienza dei contenuti della delega ed il continuo rinvio al
legislatore delegato, potrebbe far avanzare il dubbio di una non piena conformità della legge alla Costituzione
per “difetto di delega”, come sostenuto secondo parte della dottrina. Sul punto, R. Perez., I tributi delle regioni, in
AA.VV., La legge delega sul federalismo fiscale, Giornale di diritto amministrativo, 2009, 817. Sull’ampia disamina delle
criticità riscontrabili nell’uso della delega legislativa con riferimento alla L. n. 42/2009, si rinvia a R.
PIGNATONE, op. cit., 17 e ss. e agli ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali ivi indicati.
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3. Il nuovo “fisco regionale” secondo il D.Lgs. n. 68 del 6 maggio 2011: una sintesi delle principali
novità e correzioni.
Con il D.Lgs. 68 del 6 maggio 2011 sono entrate in vigore le norme per assicurare
autonomia finanziaria alle regioni a statuto ordinario e alle province, oltre che per la
determinazione dei “costi e fabbisogni standard nel settore sanitario”16.
A decorrere dal 2013, in particolare, andranno soppressi i trasferimenti statali di
parte corrente “con carattere di generalità e permanenza” destinati all’esercizio delle
competenze regionali, nonché i trasferimenti in conto capitale, ove non finanziati tramite il
ricorso all’indebitamento, ivi compresi quelli finalizzati all’esercizio delle funzioni da parte
delle Province e Comuni, nonchè abolita la compartecipazione regionale all’ accisa sulla
benzina (artt. 7 e 8, comma 4, D.Lgs. n. 68/2010).
Nel sistema delle fonti regionali viene conferita assoluta centralità all’addizionale
regionale IRPEF che andrà, come si diceva, "rideterminata”, a partire dal 2013, "in modo da
assicurare al complesso delle Regioni a statuto ordinario gettito equivalente”17. A ciascuna
Regione a statuto ordinario spetterà, inoltre, una compartecipazione al gettito dell’IVA (art.
4, del cit. DL n. 68/2011) che per il periodo 2011-2012 dovrebbe rimanere quella in essere
(aliquota del 44%), mentre dal 2013 dipenderà da un adeguamento da adottarsi “in
conformità con il principio di territorialità” che, come si è visto, dovrà tener conto “del
luogo di consumo” e, quindi, del luogo in cui avviene la cessione dei beni o la prestazione di
Sui costi e fabbisogni standard nella sanità i rinvia al paper di E. CARUSO – N. DIRINDIN, Costi e fabbisogni
standard nel settore sanitario:le ambiguità del decreto legislativo n. 68 del 2011, Ottobre 2011, che mette in evidenza il
rischio che l’architettura del decreto delegato n. 68/2011 possa comportare che l’ammontare delle risorse
destinate al Ssn possa risultare determinato non in relazione ai Lea e ai vincoli di finanza pubblica, ma ai
risultati di metodologie di stima dei costi standard molto approssimative e parziali e che risultino, di fatto,
finanziate le inefficienze nella fornitura delle prestazioni sanitarie già in essere facendole gravare su chi le
produce. Per consultare il lavoro, http://www.espanet-italia.net/conferenza2011/edocs1/sess%2020/20caruso-dirindin.pdf.
17 Cfr. art. 2, DL n. 68/20112010 come modificato dall’art. 30, comma 3, lett.a), DL. n. 201/2011. Detta
determinazione avverrà con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro
dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo e con il Ministro per i
rapporti con le regioni, e dovrà essere adottato entro un anno dalla data di entrata in vigore del Dl 68/2011,
sentita la "Conferenza Stato-Regioni", e previo parere delle Commissioni della Camera dei Deputati e del
Senato della Repubblica competenti per i profili di carattere finanziario. Si aggiunga che all’aliquota base
dell’addizionale, in origine fissata nella misura dello 0,9%, ed ora maggiorata nella misura dell’1,23% ad opera
del cit. DL n. 201/2011, applicabile già per il 2011, e fino alla sua “rideterminazione” che dovrebbe avvenire a
decorrere dal 2013, dovrebbero aggiungersi le percentuali indicate, per ora, nel comma 1 dell’art. 6, alle lett. a)
b) e c), DL n. 68 cit., e, dunque, le maggiorazioni dello 0,5% per gli anni 2012 e 2013, dell’1,1% per l’anno
2014 e del 2,1% per l’anno 2015. Fino al 31.12.2011 rimangono ferme le aliquote vigenti, anche se superiori
alla aliquota base (dello 1,23%), salva la facoltà delle regioni di deliberare la loro eventuale riduzione fino a
detta aliquota base.
16
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servizi. In caso di cessione di immobili, dovrà farsi riferimento, invece, alla loro
ubicazione18.
Per quanto riguarda i tributi propri derivati (e, quindi, l’IRAP, le addizionali regionali
e gli altri tributi minori), occorre riferirsi agli artt. 5, 6 e 7 del decreto in commento.
Per l'IRAP, ciascuna Regione a statuto ordinario potrà prevedere una graduale
“riduzione delle aliquote, fino ad azzerarle” (art. 5, comma 1) e disporre deduzioni dalla
base imponibile “nel rispetto della normativa dell'Unione europea e degli orientamenti
giurisprudenziali della Corte di giustizia dell'Unione europea”, rimanendo fermo in ogni caso
il potere di variazione di un punto percentuale dell'aliquota19 . Non potrà essere disposta,
tuttavia, alcuna riduzione IRAP se la Regione dispone una maggiorazione di addizionale
regionale superiore allo 0,50% (art. 5, comma 3, DL n. 68 cit.); e ciò, ovviamente, per
evitare di spostare il carico fiscale dalle imprese alle famiglie. Il decreto chiarisce inoltre
che l’eventuale riduzione di aliquote IRAP, fino all’ azzeramento, sarà ad esclusivo carico del
bilancio della Regione e non comporterà “alcuna forma di compensazione con fondi
perequativi di cui al succ. art. 15” (art. 5, comma 2, DL n. 68 cit.); e ciò per scongiurare il
rischio di far ritenere selettiva, e quindi, vietata, la misura agevolativa20.
Per quanto concerne l’addizionale IRPEF, le Regioni, sempre con risorse a loro
carico e dal 2013, potranno “disporre aliquote differenziate in misura variabile per scaglioni
di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalla legge statale” (art. 6, comma 4, DL n. 68 cit.),
anche se non potranno applicare maggiorazioni di addizionali superiori allo 0,5% nel primo
scaglione21. Esse potranno prevedere, inoltre, detrazioni in favore della famiglia o, in
alternativa, in caso di incapienza di dette detrazioni dall’IRPEF dovuta, anche su base
familiare, altre misure di sostegno economico diretto ( art. 6, comma 5, DL n.68 cit.). Al
fine di attuare il principio di sussidiarietà orizzontale, le Regioni potranno disporre anche
Al fine di tenere conto della “peculiarità” dell’imposta IVA, al cit. art. 4, DL n. 68/2010 si è anche precisato
che i dati delle dichiarazioni fiscali e quelli desunti da altre fonti in possesso dell’Anagrafe tributaria saranno
rielaborati per tener conto, ai fini del principio di territorialità, degli acquisti di beni e servizi effettuati da
soggetti passivi con IVA indetraibile e “da soggetti pubblici e privati assimilabili” e da consumatori finali.
Anche per l’attuazione di dette regole di riparto, assai complesse come si è già sottolineato, dovrà aspettarsi ,
quindi, l’emanazione di apposito DPCM cui andrà allegata una relazione tecnica concernente “le conseguenze
di carattere finanziario derivanti dall’attuazione del principio di territorialità”.
19 Come indicato all’art. 16, comma 3, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
20 Sulle condizioni declinate dalla giurisprudenza comunitaria per escludere la selettività delle agevolazioni
adottate dalle regioni nel perseguimento di politiche di sostegno, cfr., infra, par. 7.
21 Da notare che, nell’ultima versione del decreto è sparita la precedente previsione del divieto di aliquote
differenziate di addizionale “per dipendenti e pensionati con redditi fino ai primi 2 scaglioni di imponibile
(15.000 e 29.000 euro)”. Il che, in definitiva, avrebbe voluto significare che, per la prima volta, nel sistema
tributario nazionale, il prelievo IRPEF sarebbe dipeso della natura del reddito prodotto (il solo lavoro dipendente,
compreso quello da pensione) e non dal solo ammontare prodotto (con sicura violazione del principio di capacità
contributiva di cui all'articolo 53 della Costruzione).
18
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detrazioni dall’addizionale in luogo dell’erogazione di sussidi, voucher, buoni servizio ed
altra misura di sostegno statale previste dalla legislazione regionale (art. 6, comma 6, DL n.
68 cit.).
Da notare che l’opportunità di graduare il prelievo abbassando la pressione fiscale
per esigenze legate alla composizione e ai redditi delle famiglie e allo status sociale dei
cittadini residenti rimangono sospese per le Regioni in deficit sanitario impegnate nei piano
di rientro (Campania, Lazio, Molise e Calabria) per le quali resteranno, dunque, ancora fermi
gli automatismi di blocco delle aliquote al massimo livello disposti dal legislatore nazionale
che già, attualmente, gravano oltre la misura massima, sui soli cittadini ivi residenti (art. 6,
comma 9, DL n. 68 cit.).
Agli aumenti delle addizionali regionali sarebbe dovuta corrispondere, come si è già
considerato, una contestuale riduzione delle aliquote dell’ IRPEF (art. 28, L. n. 42/90);
circostanza, che, invece, non si è verificata. Ciò che è certo, per ora, è che sarà ancora
applicata la disciplina relativa all’IRPEF vigente (ex art. 2, comma 2, DL n. 68 cit.) e che,
molto probabilmente, ove non venisse raggiunto l’equilibrio della manovra straordinaria in
corso, potrebbe essere disposto un aumento delle aliquote IRPEF marginali più elevate di
due (tre) punti percentuali.
Le altre risorse regionali derivano dal riparto del fondo perequativo che è alimentato
in modo differente a seconda che si tratti di finanziare spese LEP e spese Libere ( art. 15,
D.Lgs. n. 68/2011), commi 5 e 7). Per le spese collegate alle funzioni riferite ai LEP22, il
fondo perequativo sarà implementato col gettito prodotto dalla compartecipazione al gettito
dell’IVA in modo che venga garantito il finanziamento “integrale” delle stesse23; per la parte
delle spese libere destinata al finanziamento delle “altre funzioni” (non collegate ai LEP) il
fondo perequativo andrà costituito, invece, da una quota del gettito dell’addizionale
regionale all’IRPEF. Nessuna perequazione è data alle regioni in cui il gettito pro-capite
supera quello medio del complesso delle regioni ordinarie; per le altre regioni, il cui gettito
pro-capite è inferiore a quello medio, la quota del fondo perequativo andrà, infine,
Individuate dall’art. 14, comma 1, del D.Lgs. n. 68/2011 nelle spese per sanità, assistenza, istruzione e
trasporto pubblico locale, con riferimento alla sola spesa capitale, oltre che in quelle deriveranno da ulteriori
materie che saranno individuate come disposto dall’art. 20, comma 2 della L. n. 42/2009.
23 E, quindi, come si è già chiarito, il finanziamento del fabbisogno standard individuato per la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni secondo costi standard (comma 5 dell’art. 15). Nella fase transitoria e,
quindi, a partire dal 2013 e per il primo anno di funzionamento del fondo perequativo, si continueranno a
computare le suddette spese LEP in base ai valori di spesa storica e, per quanto si legge nel testo del cit.
comma 5 dell’art. 15 “ dei costi standard, ove stabiliti; nei successivi quattro anni le suddette spese dovranno
“convergere” verso i costi standard.
22
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determinata in modo da “ridurre, ma non annullare” le differenze di capacità fiscale esistenti
tra i territori24.
Completano le fonti regionali, gli interventi speciali, finanziati con contributi speciali
dal bilancio dello Stato, con i finanziamenti della UE e con cofinanziamenti nazionali
previsti all’art. 119 della Cost. (comma 5) e le entrate derivanti dal patrimonio proprio
costituito fondamentalmente da beni immobili (comma 6), nonché le risorse cui la Regione
potrà accedere attraverso l’indebitamento destinato a finanziare, tuttavia, le sole spese di
investimento e non quelle correnti (comma 7)25. Le Regioni potranno, infine, “trasformare”
in tributi propri regionali altri tributi minori26 , ferma la facoltà di sopprimerli e fermo
restando che ad esse spetteranno gli altri tributi ancora riconosciuti dalla legislazione vigente
alla data di entrata in vigore del DL n. 68/2011.
Rispetto alle proclamazioni avanzate sul piano politico all’epoca della delega,
l’autonomia finanziaria delle Regioni emersa in sede delegata risulta, in definitiva, assai
limitata perchè “compressa” dall’incidenza della fonte statale che è arrivata a disciplinare
ogni elemento costitutivo dei tributi “derivati” e che trova come limite, per i tributi “propri”
(strictu sensu), l’ individuazione di “presupposti non assoggettati ad imposizione da legge dello
Stato statale” (operazione, come è noto, molto difficile, vista la globalità dei presupposti
impositivi statali)27.
Il principio di perequazione delle differenti capacità fiscali dovrà essere applicato, secondo l’art. 15, comma
7, D.Lgs. n. 68/2010 in modo da ridurre le differenze “in misura non inferiore al 75 per cento”, tra i territori
con diversa capacità fiscale per abitante senza alternarne la graduatoria in termini di capacità fiscale per
abitante.
25 Ad ogni Regione spetteranno, inoltre, entrate proprie nella misura convenzionalmente stabilita nel riparto
delle disponibilità finanziarie per il servizio sanitario nazionale per l’anno 2010 (art. 15, comma 1).
26 Trattasi della tassa per l'abilitazione all'esercizio professionale, l'imposta regionale sulle concessioni statali
dei beni del demanio marittimo, l'imposta regionale sulle concessioni statali per l'occupazione e l'uso dei beni
del patrimonio indisponibile, la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche regionali, le tasse sulle
concessioni regionali, l'imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili, di cui all'art. 190 del R.D. 31 agosto
1933, n. 1592, all'art. 121 del DPR 24 luglio 1977, n. 616, agli artt. 1, 5 e 6 del DL 5 ottobre 1993, n. 400,
convertito, con modificazioni, dalla L. 4 dicembre 1993, n. 494, all'art. 2, 5 e 3 della L.16 maggio 1970, n. 281,
agli artt. da 90 a 95 della L. 21 novembre 2000, n. 342.
27 Come indicato all’art. 7, comma 1, lett. b), n. 3 della L. n. 42/2009. Sull’argomento, tra i contributi più
recenti, v. A. FEDELE, Federalismo fiscale e riserva di legge , in Rass. Trib., 2010, 1525 e seg.; L. PERRONE, I tributi
regionali propri derivati, in Rass. Trib., 2010, 1597 e seg.; FICARI, Conclusioni: il cammino dei tributi propri verso i decreti
legislativi delegati, in Riv. Dir. Trib., 2010, 89 e seg.; D. STEVANATO, I "tributi propri" delle Regioni nella legge delega sul
federalismo fiscale, in Dir. Prat. Trib., 2010, 395 e seg., M. BASILAVECCHIA, Fisco delle Regioni e vincoli costituzionali,
in Corr. Trib., 2011, 1920 e seg. Sull’autonomia di enti e regioni, dopo la Riforma del Titolo V, tra i principali
contributi, v. P. GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nell’art 119: un economista di fronte alla nuova costituzione, Le
Regioni, 2001, 1426; F. GALLO, Federalismo fiscale e ripartizione delle basi imponibili tra Stato, Regioni ed Enti locali, in
Rass. trib, 2002, 2007 e seg; F. MOSCHETTI, Federalismo e procedimento di applicazione del tributo: occasione per un
confronto fra diverse culture, in Riv. dir. trib., 2002, 227 e seg.; C. FREGNI, Riforma del Titolo V della Costituzione e
federalismo fiscale, in Rass. trib. 2005, 683 e seg.
24
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Si aggiunga che in base alle nuove regole, solo le Regioni più virtuose, ovvero quelle
con sufficienti risorse, saranno in grado di sfruttare l'opportunità di graduare la misura dei
tributi derivati e migliorare il livello della pressione fiscale delle imprese e dei cittadini ivi
residenti. Le altre, in deficit di risorse, saranno costrette a tenere al massimo livello le
addizionali regionali che, se vanno oltre l’aumento base dello 0,50%, non consentiranno
alcuna facoltà di riduzione dell’IRAP. Il che, evidentemente, porterà a disparità di
trattamento nei livelli di tassazione dei redditi e delle attività produttive dei soggetti passivi
in dipendenza del luogo di residenza, con probabile deviazione del sistema dal modello di
federalismo cooperativo e solidaristico coerente con l’impianto costituzionale verso un
modello di tipo competitivo. Sembra superfluo sottolineare che il principio di capacità
contributiva, alla base dell’ordinamento dello Stato unitario, imporrebbe il concorso alle
spese pubbliche nel rispetto della congruità, ragionevolezza, solidarietà e parità di
trattamento per i titolari della medesima fonte e medesimo ammontare reddituale,
prescindere dal luogo in cui, malauguratamente, alcuni si trovino a risiedere stabilmente.
a
4. Il nuovo fisco municipale di cui al D.Lgs. n. 23 del 23 aprile 2011 e successive modificazioni ed
integrazioni: il “restyling “ dei tributi locali.
Per i Comuni, la soppressione dei trasferimenti regionali di parte corrente destinati al
finanziamento delle funzioni vede, come conseguenza, sul lato delle entrate, l’ assegnazione
dei tributi propri e la previsione d’una compartecipazione al gettito dei tributi erariali
(IRPEF ed IVA28) oltre che d’una compartecipazione al gettito dei tributi o
compartecipazioni regionali (ove istituiti).
I Comuni potranno incrementare, in particolare, le aliquote delle addizionali (sino ad
oggi bloccate allo 0,4%) e prevedere “l’istituzione” di nuovi tributi (e, quindi, di quelli
derivati) legati essenzialmente alla fiscalità immobiliare29. Essi avranno a disposizione un più
ampio ventaglio di ipotesi in cui potranno essere istituite tasse di scopo.
La lettura del decreto non è agevole, per la previsione di un lungo periodo transitorio
(fino al 2017) nel corso del quale alcune diposizioni entreranno in vigore30 e per le
L’aliquota IVA è stata stabilita con il DPCM del 17 giugno 2011 nella misura, attualmente, del 2,58%, ma
che, in ogni caso, dovrà rimanere stabilita, sempre per effetto di una scelta politica fatta con legge statale, nel
rispetto dei saldi di finanza pubblica, in misura finanziariamente equivalente alla compartecipazione del 2 % al
gettito dell'imposta sul reddito delle persone fisiche.
29 E, quindi, dell’IMU principale, al posto dell’ICI e dell’IRPEF sui redditi fondiari, tranne che sugli agrari che
restano dello Stato, dell’IMU secondaria, della cedolare secca sugli affitti. Sul tema, v. L. SALVINI, Federalismo
fiscale e tassazione degli immobili, in Rass. Trib., 2010, 1607 e seg;
30 Comprese quelle di recente emanate il DL n. 201 del 6 dicembre 2011, così come in ult. modificato dal DL
n. 16 del 2 marzo 2012, conv. con modif. con la L. n. 44 del 26 aprile 2012. Per un analisi dei diversi recenti
28
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modifiche ed integrazioni di fine dicembre 2011 che si sono rese necessarie per fronteggiare
la crisi economica finanziaria che ha portato l’attuale Governo tecnico a chiedere agli stessi
EE.LL di concorrere con proprie risorse alla manovra.
Di qui il “restyling” delle norme di attuazione del fisco municipale, con disposizioni
che, come si vedrà, riducono anch’esse la portata autonomistica del federalismo fiscale31.
Il decreto n. 23/2011 individua innanzitutto le entrate dei Comuni in quelle riferibili
al possesso o trasferimento degli immobili ubicati nel territorio e, quindi, individua come
fonti il gettito delle imposte di registro, bollo, ipotecarie e catastali, ed i tributi speciali
catastali (art. 2). Aggiunge, come entrate “proprie”, la cedolare secca (art. 3), l’imposta di
soggiorno destinata a finanziare interventi in materia di turismo (art. 4)32, l’addizionale
comunale (art. 5), l’imposta di scopo, che potrà finanziare l’intero progetto e non più solo
una quota dell’opera pubblica da realizzare (art. 6) 33, oltre che l’IMU, sia principale che
secondaria (artt. 7, 8 e 9) in sostituzione dell’ICI.
La spettanza del gettito ai Comuni dei tributi di cui si discute non sarà integrale ma
avverrà per quota che, già per il 2011, è del 30% per i tributi riferiti agli immobili ubicati sul
territorio, e globale per la sola IRPEF sui redditi fondiari (ad esclusione del reddito agrario),
come indicato all’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2011. Il gettito della cedolare secca andrà, del pari,
devoluto per quota che, per ora, è stata fissata al 21,7% per il 2011 ed al 21,6% per il
2012, salva diversa determinazione che dipenderà da un futuro decreto ministeriale (art. 3,
D.Lgs. n. 23/2011).
Per le modifiche di fine dicembre 2011, inoltre, la disciplina dell’IMU principale è
stata “anticipata” in via sperimentale, già a decorrere dall’anno 2012, in tutti i Comuni del
territorio nazionale fino al 2014 “in base agli articoli 8 e 9 del D.Lgs n. 23/2011 in quanto
compatibili” (art. 13, comma 1, del cit. DL 201/2011)34; con lo stesso decreto è stata
provvedimenti modificativi, si v. N. NITTI, Il federalismo fiscale e le disposizioni dettate dalla "Manovra Monti", in
Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2012, 187 e seg.
31 Per analoghe considerazioni, v. M. BASILAVECCHIA, Il fisco municipale rispetta i vincoli costituzionali, in Corr. Trib.,
2011, 1106, A. LA SCALA, La nuova autonomia tributaria dei Comuni, in Inn. Dir. in
www.innovazionediritto.unina.it, 2011, 3 e seg.
32 Sulla quale, si v. L. LOVECCHIO, Proposte correttive per "service tax" comunale e imposta di soggiorno, in Corr. Trib.,
2011 3756 e seg.; M. LOGOZZO, Il federalismo fiscale: prospettive della legge n. 42/2009 e autonomia finanziaria degli enti
locali, in Boll. Trib., 2011, 820 e seg.; A. LA SCALA, op. cit., 11 e seg.
33 Sull’imposta di scopo e la relativa introduzione nell’ordinamento nazionale, v. L. TOSI, La fiscalità delle città
d’arte., il caso del Comune di Venezia, Padova, 2009, 60 e seg.; L. DEL FEDERICO, Imposta di scopo, compartecipazioni,
addizionali e poteri regolamentari., in Trib. Loc. e Reg., 2008, pag. 206 e seg.; G. SALANITRO, Prime riflessioni
sull'imposta di scopo per il finanziamento di opere pubbliche, in Riv. Dir. Trib., 2007, pag. 1115 e seg.; A. LA SCALA, op.
cit., 17 e seg.
34 Da notare che il rinvio contenuto nel cit. DL. n. 201/2011 al cit. D.Lgs. n. 23/2011 che, a sua volta, rimanda
all’originario D.Lgs. n. 504/93 istitutivo dell’ICI contribuisce a delineare un quadro normativo di riferimento
incerto e confuso. A conferma delle molteplici difficoltà applicative basti considerare ciò che avviene con
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disposta la devoluzione del 50% dell’imposta all’Erario (art. 13, comma 11, DL n.
201/2011).
E’ stato istituito, inoltre, il “tributo comunale sui rifiuti e sui servizi” (art.
14, DL n. 201 cit.) che dovrà sostituire dal 2013 le vigenti Tarsu, Tariffa di igiene ambientale
e Tariffa integrata ambientale. Con proprio regolamento, i Comuni più virtuosi potranno
applicare una tariffa avente natura di corrispettivo in luogo del tributo ove riescano a
predisporre “sistemi di misurazione puntuale della quantità dei rifiuti conferiti al servizio
pubblico”.
Ai Comuni spettano altre entrate che dipenderanno dalla loro capacità di contrastare
il fenomeno dell’evasione fiscale. Secondo questa ratio vanno lette le norme che prevedono
l’innalzamento dal 33% al 50% della quota di spettanza dei Comuni per la loro
partecipazione all’attività di accertamento, ex art. 43 del DPR n. 600/73 (art. 2, comma 10 e
11)35e l’introito delle sanzioni, quadruplicate, per le violazioni commesse sui contratti di fitto
non registrati (art. 2, comma 12)36. Per le Province, è stato previsto, in linea generale, il
finanziamento mediante un’imposizione legata a tributi il cui presupposto è collegato al
trasporto su gomma.
Concorreranno alla copertura delle spese, infine, le quote del fondo perequativo
istituito per il finanziamento di quelle sostenute per le funzioni fondamentali
(standardizzate) che per il finanziamento delle “altre funzioni” (non standardizzate). Il
D.Lgs. n. 23/2011, anziché definire detto fondo, ha istituito un “Fondo sperimentale di
riequilibrio” (art. 2, comma 3) destinato ad essere alimentato, per un periodo transitorio (per
riferimento all’abitazione principale che, secondo il cit. DL n. 201/2011 rientra appieno nell’ambito applicativo
dell’IMU e che, invece, dovrebbe essere esclusa dall’imposizione, a partire dal 2015, secondo il cit. D.Lgs. n.
23/2011 che, a sua volta, dipende dall’originario impianto del D.Lgs. n. 504/93. Si aggiunga che, l’ art. 13 del
cit. DL n. 201/2011, al comma 14, lett. c) ha soppresso il comma 4 del cit. art. 9 del D.Lgs. n. 23/2011 che
prevedeva che l’IMU principale venisse corrisposta secondo le modalità stabilite dal Comune. Di qui, la
possibilità, dunque, che l’imposta municipale propria venga ancora stabilita con legge statale, in evidente
controtendenza alle istanze federaliste alla base del nuovo impianto normativo.
35 Questione sulla quale ho svolto considerazioni critiche considerando le innovazioni apportate al sistema
della riscossione dei principali tributi statali giacchè la predetta quota del 50% potrà essere attribuita ai
Comuni “in via provvisoria, anche in relazione alle somme riscosse a titolo non definitivo” e quindi sugli
accertamenti già esecutivi ex art. 29 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 per il cui approfondimento si rinvia al
mio: La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di ragionevolezza e coerenza
interna, in Rass. Trib., 2011, 1435 e seg.
36 Val la pena di segnalare, al riguardo, le
più che fondate perplessità che emergono nella valutazione
dell’incidenza dell’illecito fiscale commesso in caso di mancata registrazione del contratto di locazione in
ambito civilistico per gli effetti che ne derivano sulla determinazione del canone e delle condizioni contrattuali,
che potrebbero suscitare dubbi sulla proporzionalità ed adeguatezza della norma fiscale, come evidenziato da :
M. BASILAVECCHIA, Il fisco municipale, op. loc .cit.. Sull’argomento, v. C. SACCHETTO, La partecipazione dei
Comuni all’accertamento e riscossione dei tributi erariali, in Federlaismo fiscale ed autonomia degli enti territoriali, AA.VV (a
cura di A. La SCALA), Torino, Giappichelli, 2010, 33 e seg.
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ora fissato al 2017), dalle compartecipazioni ai gettiti dei tributi (statali) “riassegnati” ai
Comuni37. Il successivo DL n. 201/2011 ha anche ridotto detta assegnazione (art. 28).
Per quanto indicato, il Comune resta destinatario del gettito dei tributi statali o
derivati, con ridotta manovrabilità sugli elementi del tributo a sua disposizione che, al più,
potrà riguardare i Comuni più virtuosi e con maggiore “capacità fiscale” del territorio di
riferimento. Inoltre, la perequazione, così come risulta disciplinata, potrebbe non essere in
grado di assolvere la sua funzione risultando più un sostegno a favore delle aree disagiate
del Paese, che uno strumento di rimozione degli squilibri economici e sociali tra territori.
Nei casi di mancata copertura perequativa totale delle funzioni, gli enti locali si
troveranno, del resto, nell’impossibilità tecnica di trovare risorse aggiuntive non potendo
essi, com’è noto, provvedere ad istituire tributi propri (strictu sensu). Il Comune (o la
Provincia), pertanto, dovrebbe attivarsi presso la Regione o lo Stato per chiedere
l’istituzione di un nuovo tributo, con tutte le difficoltà legate alle diversità politiche, culturali
e di contesto che a volte esistono tra i diversi attori istituzionali.
L’autonomia degli enti locali resta, come si verifica per quella regionale, assai
contenuta; essa mantiene un connotato di finanza derivata anche per quel che concerne la
perequazione e risulta definita “dall’alto” in ogni suo aspetto, compresa la fase
dell’attuazione del prelievo se si considera che, l’art. 3, comma 4, del cit. D.Lgs. n. 23/2001
rinvia per la liquidazione, accertamento e riscossione e rimborso dei tributi locali alle
disposizioni previste in materia di imposte sui redditi. Nel decreto n. 23/2001 nulla viene
disposto, infine, in materia di coordinamento tra Regioni ed enti locali e lo Stato rimane
l’esclusivo soggetto di riferimento nei rapporti con l’ente locale.
5. Le alternative possibili all’aumento del livello di tassazione per coprire il deficit di autonomia di
Regioni ed EE.LL. e la probabile violazione del principio dell’accountability.
Un’alternativa possibile all’aumento della pressione fiscale locale ed alla mancanza di
una vera autonomia finanziaria da parte degli enti locali potrebbe consistere, da un lato, al
più ampio ricorso a forme di esternalizzazione dei servizi resi o di privatizzazione
(sostanziale) con il conferimento dei beni e risorse dell’attività pubblica dismessa ad
operatori privati. Tema che occupa lo scenario politico da decenni e che vede coinvolti gli
Di qui la previsione che, fino al 2013, il 30% di detto Fondo di riequilibrio venga ripartito tra i Comuni in
base al numero dei residenti e che, una volta detratto detto 30%, almeno il 20% venga assegnato ai Comuni che
svolgono funzioni fondamentali in forma associata (art. 2, comma 7, D.Lgs. n. 23/2011). Le modalità di
alimentazione e di riparto di detto Fondo sperimentale di riequilibrio, nonché le quote del gettito dei tributi di
cui al comma 1 dell’art. 2 riassegnati ai Comuni sono state stabilite con DM del 21 giugno 2011 e DM 4 maggio
2012.
37
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attori istituzionali alla ricerca del giusto equilibrio tra il rispetto dei principi costituzionali
della sussidiarietà orizzontale e dell’efficacia ed efficienza dell’agire pubblico e l’adozione di
un sistema di idonee garanzie per ovviare ad una compressione delle sfere giuridiche dei
diritti tutelati della collettività di riferimento.
Altra possibilità di reperimento di entrate (non tributarie) dipenderà dalla dismissione
del patrimonio immobiliare; altro tema di rilevante complessità operativa ed organizzativa,
reso ancor più delicato dall’entrata in vigore delle nuove norme sul cd. federalismo
demaniale (D.Lgs. n. 85 del 2010).
Resta l’altro aspetto da valutare che solo accenno in questa sede, che è quello
collegato al tema della “fiscalità di vantaggio” che, secondo la legge delega n. 42/2009,
potrebbe rappresentare altro rimedio, oltre che un’opportunità, per colmare situazioni di
deficit di sviluppo di alcuni territori, ed in particolare di quelli meridionali, ma che occorre
affrontare con molto rigore per una serie di limiti che emergono, com’è noto, sul piano della
legislazione domestica dall’ordinamento comunitario38.
E’ inutile dire che sarebbe più che auspicabile la progettazione da parte di ciascun
livello di governo di una politica fiscale in chiave incentivante, in cui, cioè, la leva fiscale vada
utilizzata, anche a livello decentrato, per accrescere il livello di competitività delle imprese o
il sostegno di determinati settori; pertanto è sicuramente apprezzabile l’indirizzo politico di
far convergere il riconoscimento di agevolazioni fiscali all’iniziativa privata nell’interesse
della collettività39.
Il punto è che tutto ciò dovrebbe avvenire nel rispetto degli stringenti vincoli posti
dal Trattato UE che presuppongono che non vengano ad alterarsi, attraverso la concessione
di aiuti di Stato, i livelli di tassazione “per talune imprese e per talune produzioni” di uno
Stato membro secondo quanto imposto dall’ art. 107 TFUE 40. La possibilità di attuare
politiche incentivanti con manovre sulle aliquote, detrazioni differenziate, esenzioni,
deduzioni dall’imponibile dei tributi propri e derivati rimane subordinata al fatto che la
Sul tema si rinvia, per approfondimenti, a L. DEL FEDERICO, La fiscalità di vantaggio degli enti territoriali fra
decisioni politiche e limiti comunitari, in Trib. loc. e reg., 2011, 40 e seg. Sull’uso della leva fiscale per finalità di
sviluppo, sia consentito rinviare al mio scritto: Nuove forme agevolative: la sperimentazione italiana di Zone Franche
Urbane, in AA. VV. Agevolazioni fiscali e aiuti di stato, a cura di M. INGROSSO E G. TESAURO, 2009, Napoli, 573 e
seg.
39 Come è avvenuto, ad es. con la detassazione dei microprogetti di arredo urbano “operati dalle società civile nello
spirito della sussidiarietà”, di cui all’art. 23 del DL 185/2008, o la promozione, mediante il riconoscimento di
deduzioni/detrazioni, di comportamenti virtuosi dei contribuenti come potrebbe avvenire con i cd. tributi
ambientali
40 Sulla fiscalità di sostegno attraverso la valorizzazione della giurisprudenza comunitaria e sul ruolo non
marginale che potrebbero avere le autonomie locali in materia: M. BASILAVECCHIA, La fiscalità di sostegno nella
prospettiva federalista, in Corr. Trib., 2009, 983 e seg.
38
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legislazione statale di riferimento conceda all’ente sub statale dotato di potestà impositiva, e
quindi, alla Regione, quel grado di autonomia istituzionale, decisionale e finanziaria che è stata
ritenuta idonea, com’è noto, ad evitare che la misura adottata presenti i caratteri della
selettività e che sia, quindi, vietata41.
Ora se è vero che questi caratteri potrebbero essere presenti in modello di
federalismo cooperativo o solidaristico, quale dovrebbe essere quello di derivazione dalla
riforma del Titolo V della Costituzione in cui le Regioni italiane possono ritenersi un
territorio “indipendente” rispetto allo Stato di appartenenza42, non è detto che essi siano
ancora riscontrabili dopo l’emanazione dei decreti delegati e l’adozione dei più recenti
interventi normativi correttivi.
Rispetto alla legge delega sono intervenute, infatti, tali e tante modifiche,
rimodulazioni, anticipazioni e slittamenti delle norme delegate e si è manifestato tanto
“centrismo” nelle politiche del legislatore statale che si è arrivati a comprimere gli spazi di
autonomia finanziaria degli enti di governo con la conseguenza che essi potrebbero trovarsi
ad incorrere in violazioni di norme comunitarie sia nell’ “istituzione” di tributi propri (e/o
derivati), che nei procedimenti adottati per l’esercizio della loro funzione impositiva ed
essere, per questo motivo, tenuti ad obblighi di restituzione o di risarcimento, ferma
restando, peraltro, la responsabilità dello Stato verso l’Unione. Rimane, ad oggi pacifico,
secondo i principi di diritto internazionale e la stessa giurisprudenza UE43, che lo Stato sia
41 Tanto si ricava dalla nota sentenza della Corte di Giustizia del 6 settembre 2006, causa C-88/03 (caso
Azzorre) che riconosce nella presenza dei predetti caratteri dell’autonomia istituzionale, decisionale e
finanziaria la possibilità che una data agevolazione conservi la natura di una misura a carattere generale pur
nel più ristretto territorio di riferimento. Da notare che i predetti caratteri dell’autonomia non vengono meno
ove la legislazione di riferimento preveda la presenza di meccanismi perequativi o l’assegnazione di fondi che
non abbiano carattere compensativo, per quanto poi affermato nella sentenza della Corte dell’11 settembre
2008, cause riunite C-428-436/06. Sul test di autonomia elaborato dalla Corte di Giustizia con riferimento al
modello di federalismo fiscale c.d. asimmetrico v. A. CARINCI, I vincoli comunitari all’autonomia tributaria degli enti
territoriali sub statali, in V. FICARI (a cura di), L’autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali tra Corte costituzionale
(sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega, cit.. Sui vincoli comunitari nell’autonomia di
regioni ed enti locali, v. A. DI PIETRO, Federalismo e devoluzione nella recente riforma costituzionale: profili fiscali,
in Rass. trib., 2006, 245; A. FANTOZZI, I rapporti tra” ordinamento comunitario e autonomia finanziaria degli enti
territoriali, in Dir. e prat. trib. int., 2008,.1037; C. SACCHETTO, Federalismo fiscale tra modelli esteri e
vincoli
comunitari, in Riv. it. dir. pubb. com., 1998, pag. 645; FICHERA, Aiuti di stato e paesi Baschi, in Dir. e prat. trib. int.,
2002, 425. L. DEL FEDERICO, Agevolazioni fiscali nazionali ed aiuti
di stato, tra principi costituzionali ed
ordinamento comunitario, in Riv. di dir. int. trib., 2006, 19; F. AMATUCCI, L’impatto dei principi comunitari sulla
nuova fiscalità locale, in AA.VV. I principi costituzionali e comunitari del federalismo fiscale, Torino, 2008, 40.
42 La misura potrebbe non essere considerata selettiva ove venga o adottate da un ente sub statale dotato di
uno Statuto politico ed amministrativo distinto dal Governo centrale, e quando venga deliberata con un
procedimento che prevede l’intervento dello Stato e le conseguenze di detta misura non vengano compensate
da sovvenzioni o contributi trasferiti dallo Stato o da altre regioni, dovendo le conseguenze economiche e
finanziarie rimanere in via esclusiva sull’ente sub- statale.
43 Tra le ultime, Corte di Giustizia 14.1.1988, C-227- 230/85.
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l’unico interlocutore responsabile in ipotesi di violazioni di regole comunitarie,
indipendentemente dalla organizzazione interna che si è dato44.
Dovrebbe farsi ancora un’altra riflessione che trae spunto dall’ ormai indiscussa
prevalenza delle fonti normative dell’Unione su quelle interne che, grazie alla più recente
interpretazione fornita dalla stessa Corte Costituzionale sono norme “cogenti e
sovraordinate alle leggi ordinarie per il tramite degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.” (sent.
28 gennaio 2010, n. 28), quando si affrontano temi come quelli coinvolti nel processo
federalista in corso che riguardano i diritti civili, i diritti fondamentali, il ruolo delle Regioni, ed il
ruolo dei giudici nazionali tenuti, come si ricava dall’ indirizzo prevalente, a disapplicare le
norme che si appalesano in contrasto con le fonti europee. Di tutto questo dovrebbe farsi
carico il legislatore statale soprattutto quando intende, come sta facendo, portare a termine,
un processo di riforma che coinvolge il ruolo, i poteri e le funzioni dei livelli intermedi di
governo iniziato quando il sistema delle fonti di riferimento non andava ancora
considerato secondo una dimensione unitaria europea45.
Un’ultima considerazione va riferita alla cd. accountability..
Sarebbe da tutti auspicabile che le scelte pubbliche orientate all’uso di capitali privati
nell’interesse del bene comune, pur se attuate attraverso l’uso strumentale della leva fiscale,
avvenissero con la piena assunzione di responsabilità da parte degli amministratori che
accettassero, in definitiva, di “render conto” delle proprie azioni e dei risultati raggiunti ai
propri elettori.
Rimanendo l’attuale “nuovo” sistema delle autonomie di regioni ed enti locali,
incentrato fondamentalmente su tributi erariali (e quindi, su tributi derivati), comprese
addizionali regionali e/o comunali, oltre che su forme di compartecipazione al gettito di
tributi erariali (IVA ed IRPEF) e sul fondo perequativo a sua volta finanziato da tributi
erariali, non soltanto si è venuto a creare un vulnus nell’impianto federalista che vorrebbe
che il livello delle entrate dei vari enti di governo venisse in qualche modo determinato, in
periferia, piuttosto che al centro, ma viene anche a “spezzarsi” quel collegamento tra
elettori/contribuenti – eletti che rappresenta, come viene sostenuto sul piano politico, l’altro
aspetto qualificante del progetto federalista.
Il ricorso al principio di territorialità allargato ai tributi regionali ( e non soltanto alle
compartecipazioni, come è richiesto dall’art. 119, comma 3 della Cost.), porta, a ben
44 Per l’approfondimento degli effetti comunitari collegati al federalismo fiscale e per i riferimenti bibliografici
ivi contenuti si rinvia a R. MICELI, Federalismo fiscale e responsabilità comunitaria degli enti territoriali: riflessioni e
prospettive, in Rass. Trib., 2010, 1671 e ss.
45 Sul punto, v. A. CELOTTO, La dimensione europea delle fonti del diritto, in www.federlaismi.it, 2012 che
ripercorre l’evoluzione del giudice costituzionale sull’argomento.
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riflettere, ad un paradosso e cioè al fatto che gli enti decentrati più virtuosi si troveranno ad
avere maggiori disponibilità di risorse grazie alla quantità di tributi riscuotibili sul proprio
territorio (per effetto della rilevanza del luogo di consumo, o per effetto della soggettività
tributaria di coloro che detengono in un dato territorio beni immobili, pur non essendo
residenti) grazie alla “produttività” e “affidabilità fiscale” dei cittadini/contribuenti che
transitano in quel dato territorio, senza subire le conseguenze negative legate all’esercizio
del potere impositivo o di riscossione che continua a rimanere dello Stato centrale, e senza
che si determini, dunque, l’assunzione di alcuna responsabilità diretta verso l’elettorato di
riferimento.
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Strumenti per la crescita economica: il contratto di rete e la sua disciplina fiscale
di Clelia Buccico
Abstract - With network contract of enterprises the legislator has wanted, in a phase of
economic crisis, to offer a tool of raising for the enterprises, able to adapt from a side the
necessity to work in collaboration approves the elevated qualitative standards required by the
market and the elevated cost of the technological innovation and, from the other the strong
individualism of the economic operators of our Country. Such new tool, if from a side has
been welcomed with enthusiasm by the economic operators, from the other one has been
criticized, since the beginning, from the doctrine.
The doctrine, in fact, also recognizing her sure potentialities of the new juridical tool, has
underlined the limits of the normative discipline.
The study will look for, delineated the normative picture of reference, to underline, with
particular reference to the fiscal profiles, if elements of difficulty persist for the real and
concrete application of the contracts of net and accordingly for the realization of the
objectives that the legislator is preset with their introduction.
SOMMARIO: 1.Premessa; 2. Quadro normativo di riferimento; 2.1La compatibilità del
contratto di rete con la disciplina in tema di concorrenza; 3. Definizione e natura del contratto di rete;
4. Il contenuto del contratto e la disciplina della pubblicità; 5. L'estensione alle reti di
imprese della disciplina in tema di "distretti produttivi"; 6. L’ agevolazione fiscale per i
contratti di rete; 6.1. Il contenuto e fruizione dell’agevolazione; 6.2. Cause di revoca; 6.3. Il problema
della soggettività;; 7. Il decreto sviluppo e le reti d’impresa nei distretti turistici; 7.1. Ritorna il
dubbio sulla soggettività delle reti; 8. L’Aiuto alla crescita economia e le reti: cenni; 9. Conclusioni.
1. Premessa - Con il contratto di rete di imprese, introdotto nel nostro ordinamento dal
cd. "Decreto Incentivi"46 ed oggetto di un importante ripensamento normativo con la cd.
“Manovra d'estate”, il legislatore ha voluto, in una congiuntura di profonda crisi economica,
offrire uno strumento di rilancio per le imprese, capace di contemperare da un lato la
necessità di lavorare in sinergia e collaborazione visti gli elevati standard qualitativi richiesti
In precedenza previsto dall’art.6-bis del DL n.112/2008 poi abrogato dall’art.1, co.2, L.n.99/2009.
L’articolsanciva che, con decreto del MISE di concerto con il MEF avrebbe dovuto essere individuata la forma
giuridica delle reti di imprese. Tale disposizione estendeva alle reti così individuate i benefici previsti a favore
dei distretti industriali dalla legge finanziaria 2006.
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dal mercato e l'elevato costo dell'innovazione tecnologica e, dall’altro lo spiccato
individualismo degli operatori economici del nostro Paese47.
Nell'intento del legislatore48, il contratto di rete dovrebbe rappresentare un’innovativa
forma di aggregazione fra imprenditori, anche di piccole e medie dimensioni, dislocati anche
in ambiti geografici diversi ed indipendentemente dalla loro struttura giuridica, in virtù della
quale, unendo sforzi economici e risorse patrimoniali, i partecipanti potrebbero conseguire
obiettivi di sviluppo e crescita imprenditoriale non facilmente raggiungibili operando
individualmente49.
La promozione dell’aggregazione tra imprese50 anche attraverso il sostegno alle reti
d’impresa è stato sancito anche dai principi generali disciplinati dall’art.2, comma 1, lett. n)
della Legge 180 dell’11 novembre 2011 (c.d. Statuto delle imprese), ciò in linea con il
contesto europeo in cui emerge la necessità di favorire la contendibilità dei mercati mediante
politiche pubbliche d’incentivazione in favore delle piccole e medie imprese51.
Tale nuovo strumento, se da un lato è stato accolto con entusiasmo dagli operatori
economici52, dall’altro è stato criticato, sin dall'inizio, dalla dottrina53.
“Diverse tipologie di «collaborazione» ed «integrazione» tra imprese, soprattutto medio-piccole, sfuggono
alle rigidità di una predeterminazione legislativa e questo ha provocato continui stop and go di interventi
annunciati e poi mai andati a regime, a partire dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266, che introdusse i «distretti
produttivi» con un regime di «fiscalità di distretto». Tale regime avrebbe dovuto attuarsi attraverso appositi
decreti ministeriali, che non hanno mai visto la luce; con il D.L. 25 giugno 2008, n. 112 è stato abbandonato il
modello dei distretti per accogliere quello delle «reti di imprese»; con il D.L. 10 febbraio 2009, n. 5 è stato
disciplinato il «contratto di rete», estendendo a questo le disposizioni del 2005 relative alla fiscalità dei distretti”
cfr T.TASSANI, A.GIOVANARDI e RL, Agevolazioni ai partecipanti alle reti d’impresa e simmetrie del sistema fiscale in
“Dialoghi Tributari" n. 6 del 2011.
48 Nella relazione al decreto si legge: “Al fine di promuovere lo sviluppo del sistema delle imprese
attraverso azioni di rete che ne rafforzino le misure organizzative, l’integrazione per filiera, lo scambio e
la diffusione delle migliori tecnologie, lo sviluppo di servizi di sostegno e forme di collaborazione tra realtà
produttive ….coesi nello sviluppo unitario di politiche industriali, anche al fine di migliorare la presenza nei
mercati internazionali”.
49 P.IAMICELI, "Il contratto di rete tra percorsi di crescita e prospettive di finanziamento", in "I Contratti", 2009.
50 La collaborazione tra imprese è un fenomeno che in Italia risale agli inizi dello scorso secolo. La dottrina
economica, infatti, già negli anni trenta del novecento aveva sottolineato come tra le imprese possano
intervenire una molteplicità di accordi con l’obiettivo di conseguire condizioni di economicità mediante la
riduzione dei coti. Cfr. tra gli altri F.VITO, I sindacati industriali. Contratti e gruppi, Milano, 1932.
51 Cfr la Carta Europea dei diritti per le piccole e medie imprese (Small Business Act) come revisionata
“Review of the Small business ACT for Europe, Brussels 23.2.2011, Com (2011)78 final.
52 Confindustria ha istituito una apposita Agenzia confederale, denominata "Reteimpresa", che si propone
di diffondere, soprattutto fra le piccole e medie imprese, l'utilizzo del contratto di rete come strumento per le
aggregazioni fra imprese, con cui possano essere affrontati più efficacemente i processi di
internazionalizzazione e di innovazione industriale.
53 F. CAFAGGI "Il contratto di rete: uno strumento per la crescita?", in www.nelmerito.com., 24 aprile 2009, il
quale elenca "le perplessità legate ad un testo normativo assai imperfetto avente gravi carenze". Ma anche
F.CAFAGGI-P.IAMICELLI, "Contratto di rete. Inizia una nuova stagione di riforme?", in Obbl. Contr, 2009, 7, i quali
affermano che "in genere le forme giuridiche attuali non offrirebbero alle imprese risposte adeguate per le reti
di imprese". Ancora M.R. MAUGERI, "Reti di impresa e contratto di rete", in I Contratti, 2009,10, la quale ribadisce
47
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Quest’ultima, infatti, pur riconoscendo le indubbie potenzialità del nuovo strumento
giuridico, ha evidenziato la lacunosità ed i limiti della disciplina normativa. Partendo da tali
premesse si cercherà, una volta delineato il quadro normativo di riferimento, di evidenziare,
con particolare riferimento ai profili fiscali, se persistono elementi di criticità per l’effettiva e
concreta applicazione dei contratti di rete e di conseguenza per la realizzazione degli obiettivi
che il legislatore si è prefissato con la loro introduzione.
2. Quadro normativo di riferimento - Il legislatore che ha introdotto il contratto di rete ha
dedicato alla sua nozione ed alla disciplina alcuni commi dell'articolo 3 del Decreto Incentivi
(DL n.5/2009)54, e precisamente nel comma 4-ter ha previsto la definizione, il contenuto
contrattuale e la forma; nel comma 4-quater ha inserito la disciplina della relativa
pubblicità;nel comma 4-quinquies ha previsto l'estensione alle reti di imprese della disciplina
agevolativa in tema di "distretti produttivi".55.
Con la cd. “Manovra d'estate” (D.L. 78/201056) il legislatore ha profondamente riformato
e modificato il contratto di rete di cui ai commi 4-ter e seguenti dell’art. 3 del D.L. 5/2009,
dedicando alle Reti di Imprese l’art. 42, rubricato appunto “Reti di imprese”.
Va rilevato che le prime versioni della norma in commento non contenevano alcuna
disposizione agevolativa di carattere fiscale57.
Solo con l’art. 42 del D.L. 78/2010, come modificato in sede di conversione, sono state
introdotte disposizioni di carattere fiscale in tema di contratto di rete. Tali disposizioni non
che "la nuova disciplina si dimostra insoddisfacente sotto molti profili", molto confusa ed anche lacunosa. Da
ricordare infine F. MACARIO, "Il contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo", in I Contratti, 2009, 10, il
quale afferma che l'intervento legislativo in esame ha "destato subito perplessità e preoccupazioni tra gli
studiosi del tema, in quanto la prevalenza della prospettiva contrattualistica, non ha soltanto ignorato la realtà
dell'impresa e dell'attività, ma ha provocato un effetto quasi di chiusura del legislatore rispetto alla realtà socioeconomica, artificialmente e arbitrariamente ridotta appunto al detto contratto di rete".
54 Convertito nella Legge 9 aprile 2009 n. 33, modificata ed integrata con la Legge 23 luglio 2009 n. 99
(rubricata "Disposizioni per lo sviluppo e l'in-ternazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di
energia").
55 I “Distretti Produttivi” (forme giuridiche di “addensamento” di imprese in determinati settori e in un
determinato ambito geografico) sono disciplinati dall'articolo 1 commi 366 e seguenti della Legge 2005/266
cosi' come modificato dal D.L. 112/2008 e, da ultimo, dalla Legge 122/2010.
56 Convertito nella legge n.122/2010.
57 Il comma 4-quinquies del citato art. 3 del D.L. 5/2009, a seguito della conversione, non conteneva alcuna
disposizione di carattere fiscale prevedendo esclusivamente l’applicabilità delle agevolazioni “amministrative” di
cui alla lettera b) dell’articolo 1, comma 368, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 8c.d. Finanziaria 2006), ma
non quelle fiscali di cui alla precedente lettera a). Nelle successive formulazioni, il comma 4 quinquies è stato
modificato fino a ricomprendere le lettere b), c) e d) dell’articolo 1, comma 368, della legge 23 dicembre 2005,
n. 266, ma non la lettera a). Inoltre, la “ricognizione” delle procedure agevolative di cui al comma 4 ter1 era
limitata esclusivamente alle materie indicate dal comma 4 ter, lettera e), ultimo periodo, tra le quali non è
possibile ricomprendere quella fiscale.
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sono state trasfuse nel testo dell’art. 3 del D.L. 5/2009, e figurano in seno all’art. 42 citato, e
precisamente ai commi da 2-quater a 2-septies.
Anche nel testo originario dell’art. 42, non era prevista alcuna specifica misura fiscale
agevolativa ma, esclusivamente la previsione di futuri “vantaggi fiscali” alle imprese che
fossero state “riconosciute” come appartenenti alla “rete” e le modalità di riconoscimento
della partecipazione al contratto e l’individuazione dei “vantaggi fiscali” erano demandate a
provvedimenti normativi secondari da approvarsi successivamente.
Con la conversione, invece, il legislatore ha stabilito l’entità e la natura dell’agevolazione
fiscale connessa alla partecipazione delle imprese ai contratti di rete, istituendo in favore
delle imprese che sottoscrivono o aderiscono ad un contratto di rete e ad un programma
comune una misura agevolativa che consiste in una sospensione d’imposta sulla quota di utili
accantonati in un’apposita riserva.58
Il legislatore ha però subordinato l’entrata in vigore dell’agevolazione fiscale
all’autorizzazione della Commissione Europea, all’emanazione di un decreto ministeriale che
individui gli organismi abilitati ad asseverare il programma comune di rete e a un
provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che stabilisca i criteri e le modalità di attuazione
dell’agevolazione.
Il decreto che ha individuato i requisiti degli organismi che possono asseverare il
programma comune è stato emanato il 25 febbraio 2011. Successivamente il Direttore
dell’Agenzia delle Entrate ha emesso il 14 aprile 2011, il provvedimento prot. n.
2011/34839, con il quale vengono fornite le istruzioni per l’invio della comunicazione del
possesso dei requisiti per il rilascio dell’asseverazione del programma di rete da parte degli
organismi deputati e, in attuazione della previsione dell’emanazione di un provvedimento
per i criteri e le modalità di attuazione dell’agevolazione, sempre il 14 aprile 2011 il Direttore
dell’Agenzia ha approvato il provvedimento prot. n. 2011/31139, che contiene le istruzioni
per la compilazione e l’invio della comunicazione al fine di usufruire del vantaggio fiscale e il
provvedimento prot. n. 2011/54949 che disciplina la trasmissione dei dati relativi
all’asseverazione del programma di rete. Del decreto e dei provvedimenti se ne parlerà nel
prosieguo dell’analisi. Ora ci soffermeremo sulla compatibilità del contratto di rete con la
disciplina comunitaria in tema di concorrenza.
58 Il comma 2 dell'articolo 42 (è il primo nella numerazione dell'articolo, essendo stato il comma 1.
soppresso) dispone, inoltre, che "Alle imprese appartenenti ad una delle reti di imprese riconosciute ai sensi dei
commi successivi competono vantaggi fiscali, amministrativi e finanziari, nonché la possibilità di stipulare
convenzioni con l'A.B.I. nei termini definiti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai
sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988 entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in
vigore del presente decreto".
74
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2.1. La compatibilità del contratto di rete con la disciplina in tema di concorrenza – Come anticipato,
il legislatore ha previsto che per usufruire dell’agevolazione fiscale bisognava avere
l’autorizzazione della Commissione Europea. Il contratto di rete, infatti, può, a talune
condizioni, presentare profili di dubbia compatibilità con la disciplina comunitaria in tema di
concorrenza59.
Il primo profilo è che il contratto di rete, introducendo misure volte a fornire sostegno
finanziario alle imprese, potrebbe rappresentare un aiuto di Stato contravvenendo, quindi, al
divieto previsto dall'art. 107 TFUE, secondo cui "sono incompatibili con il mercato comune
[..]gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali […]che, favorendo talune
imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza".
Sul punto la Commissione Europea, con decisione del 26 gennaio 2011, C(2010)8939
def.60, ha affermato che la misura in esame non costituisce aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107
par.1, del trattato TFUE, tenuto conto del fatto che la rete di imprese non ha personalità
giuridica autonoma e che il sostegno alle imprese, introdotto dallo Stato italiano con il
contratto di rete, consistente in una sospensione di imposta concessa alle società, che
partecipano ad una rete di imprese, sulla quota di utili accantonata ad apposita riserva per la
realizzazione della rete di imprese, non è una misura settoriale, perché prescinde dall’ambito
di attività, dalla dimensione delle imprese, né prevede limiti di localizzazione territoriale61.
Il secondo profilo è la compatibilità dello strumento del contratto di rete con la disciplina
anticoncorrenziale. Sul punto la Commissione Europea, sempre nella decisione C(2010)8939
def., ha osservato che l’aver negato la natura di aiuto di Stato alla misura rappresentata dal
contratto di rete, non pregiudica l’applicazione dell’art. 101 del TFUE alla medesima misura.
L’art.101 del TFUE, come noto, detta le regole applicabili alle imprese consistenti nel
divieto di intese che recano pregiudizi alla concorrenza e stabilisce che sono “incompatibili
con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni
di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati
membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco
della concorrenza all' interno del mercato interno”.
A tal proposito si rammenta che con Comunicazione 2011/C-11/0162 la Commissione ha
precisato che il fatto che le autorità pubbliche incoraggino un accordo di cooperazione
artt. da 101 a 107 TFUE.
Come previsto ai sensi dell’art. 108 TFUE.
61 Punti da 21 a 25 della decisione della Commissione.
62 Linee direttrici sull’applicabilità dell’art.101 TFUE agli accordi di cooperazione orizzontale.
59
60
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orizzontale non significa che l’accordo sia, per ciò solo, ammissibile ai sensi dell’art. 101
TFUE. Inoltre, l’opportunità di valutare la compatibilità tra contratto di rete e disciplina
anticoncorrenziale, si ravvisa anche alla luce del Regolamento (UE) n. 1217/2010
concernente l’inapplicabilità dell’art.101, paragrafo 1 del TFUE a talune categorie di accordi
aventi ad oggetto la ricerca e lo sviluppo di prodotti conformemente al paragrafo tre dello
stesso articolo63.
Sulla base di tali premesse l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con il
provvedimento n. 22362 del 16 maggio 2011, sulla base della normativa interna e
comunitaria, si è occupata del contratto di reti di imprese.
L’Autorità osserva che, per quanto condivisibile nella ratio e nelle finalità di carattere
generale, l’istituto del contratto di rete non può, tuttavia, costituire una deroga ai principi
della libera concorrenza e del mercato che, come pacificamente riconosciuto, hanno
rilevanza costituzionale ed informano in maniera trasversale tutto l’ordinamento.
A questo proposito, risulta evidente che, così come disciplinate dall’articolo 3 del decreto
legge n. 5/2009, le reti di imprese risultano idonee ad essere qualificate come possibili intese
ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 287/9064 e dell’articolo 101 TFUE. Quanto ai requisiti
soggettivi, i contratti di rete interessano, infatti, due o più imprese; quanto ai requisiti
oggettivi, le reti costituiscono una forma di coordinamento delle condotte commerciali delle
imprese aderenti, anche mediante lo scambio di informazioni o di prestazioni di natura
industriale, commerciale, tecnica o tecnologica. Come noto, tali condotte possono risultare
idonee a produrre effetti anticoncorrenziali, laddove incidano direttamente sulle normali
dinamiche competitive, alternando le spontanee logiche del mercato.
L’Autorità osserva che, specie in un momento di particolare crisi economica, la
concorrenza rappresenta uno strumento privilegiato ed efficace di crescita del mercato, in
quanto, per sua stessa natura, essa è finalizzata ad accrescere il benessere di consumatori,
L’articolo 101, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non è applicabile
agli accordi in materia di ricerca e sviluppo (R&S). A norma del regolamento (CEE) n. 2821/71, tuttavia, il
presente regolamento prevede un’esenzione per gli accordi R&S che contengono disposizioni correlate alla
cessione o alla concessione in licenza di diritti di proprietà immateriale per eseguire attività comuni di ricerca e
sviluppo, attività di ricerca e sviluppo a pagamento o attività di sfruttamento comune, a condizione che tali
disposizioni non costituiscano l’oggetto principale degli accordi in oggetto, ma siano invece direttamente
collegate e necessarie all’esecuzione degli stessi. Il regolamento esenta per categoria le attività di sfruttamento
comune dei risultati delle attività R&S eseguite dalle parti ai sensi del regolamento.
64 L’ art. 2, della L. n. 287/1990 recita: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra
imprese nonchè le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di
consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.
Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in
maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte
rilevante..omissis…Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.
63
76
2/2012
ottimizzando i fattori della produzione e incidendo positivamente sullo sviluppo
tecnologico. In questo contesto, qualsiasi forma di collaborazione tra imprese può risultare
davvero efficiente soltanto se attuata in senso pro-concorrenziale e non, invece, per eludere
le regole antitrust.
Affinché l’istituto del contratto di rete possa essere ritenuto compatibile con i principi e le
leggi in materia antitrust, è necessario, pertanto, che l’accordo risulti effettivamente inteso ad
accrescere la capacità innovativa e la competitività delle imprese aderenti e non costituisca,
invece, uno strumento finalizzato a costituire indebite posizioni di vantaggio, in violazione
della normativa antitrust, ma anche della stessa ratio dell’istituto.
L’Autorità ricorda, a questo proposito, che possono essere considerati compatibili con la
disciplina sulla concorrenza quegli accordi che determinano un miglioramento dell’efficienza
economica e favoriscono la concorrenza nella misura in cui sono suscettibili di ridurre la
duplicazione delle attività di ricerca e sviluppo, di stimolare l’innovazione in settori ed ambiti
laddove non sarebbe altrimenti possibile, di agevolare la diffusione delle tecnologie e di
promuovere la concorrenza sui mercati2. Viceversa, devono essere considerati incompatibili
con la disciplina antitrust quegli accordi che producono, in ultima istanza, effetti
anticoncorrenziali, consistenti, ad esempio, nella spartizione del mercato, nel coordinamento
dei comportamenti di prezzo, nell’adozione di condotte escludenti.
Nello stipulare il contratto di rete è auspicabile che le imprese aderenti individuino
chiaramente l’oggetto della cooperazione in modo che le ragioni dell’adesione siano ispirate a
finalità pro-competitive.
Quanto poi alla portata restrittiva dei contratti di rete, essa dipende da una serie di
circostanze che devono essere valutate caso per caso, alla luce delle dimensioni delle imprese
interessate, del tipo di condotta posta in essere e dalle caratteristiche del mercato di
riferimento. A questo proposito, per ciò che concerne in particolare le imprese piccole e
medie (PMI), l’Autorità sottolinea che la ridotta dimensione delle imprese aderenti alla rete
non costituisce una presunzione di conformità alla legge antitrust, specie nel caso di
restrizioni particolarmente gravi (cc.dd. hardcore restrictions).
In conclusione, l’Autorità ritiene che, per le ragioni sopra esposte, l’istituto del contratto
di rete possa essere ritenuto compatibile con i principi e le leggi in materia antitrust soltanto
laddove esso sia chiaramente inteso ad accrescere la capacità innovativa e la competitività
delle imprese aderenti, e non invece ad alterare le normali dinamiche concorrenziali presenti
nel mercato.
Del resto, l’Autorità sottolinea che, per potere essere realmente qualificato come
strumento finalizzato al superamento della crisi economica conformemente alla ratio
77
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dell’intervento legislativo, il contratto di rete debba necessariamente essere configurato e
realizzato in senso pro-concorrenziale e con finalità pro-competitive, in conformità e nel
rispetto delle regole antitrust, così da risultare idoneo, in ultima istanza, a migliorare le
condizioni di efficienza e di sviluppo del mercato.
3. Definizione e natura del contratto di rete – Sino a ora sono certamente esistite forme
di collaborazione di imprese realizzate con lo strumento contrattuale, ma il legislatore
sembra ora aver inteso introdurre un nuovo modello di contratto “tra” imprese.
Il contratto di rete viene definito come lo strumento giuridico con il quale “più
imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la
propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato ed a tal fine si obbligano,
sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti
predeterminati attinenti all'esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni
o prestazioni di natura industriale, com-merciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad
esercitare in comune una o più attività rientranti nell'oggetto della propria impresa.” 65.
Da una prima lettura, la definizione offerta dal legislatore risulta alquanto generica.
Infatti, per quanto riguarda i requisiti soggettivi richiesti, si è limitato ad individuare nella
figura dell’imprenditore colui che può aderire al contratto di rete66.
Partecipanti alla rete possono essere tutte le imprese, sia individuali che collettive, senza
limiti di dimensioni, senza vincoli di localizzazione territoriale e/o tipologia di affare. Si
tratta di un contratto a “struttura aperta” al quale, pertanto, possono aderire imprese diverse
da quelle che hanno in origine dato vita alla rete, secondo modalità di adesione
predeterminate e stabilite nel contratto medesimo.
Ne discende, inoltre, la possibilità di ricorrere al contratto di rete per creare collegamenti
tra imprese, sia in linea orizzontale cioè tra operatori attivi nel medesimo segmento della
filiera, sia in linea verticale cioè tra soggetti appartenenti a segmenti diversi).
Il legislatore ha poi introdotto una importante innovazione in ordine al contenuto
dell'accordo fra imprenditori. Il comma 4-ter dell'articolo 3 del D.L.5/2009, nella sua
originaria formulazione, disponeva infatti che le imprese partecipanti alla rete dovessero
esercitare in comune “una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali”.
Accogliendo le critiche della dottrina nel nuovo testo di legge sono state introdotte due
importanti modifiche.
65
66
Cfr art.3, comma 4-ter, DL5/2009.
P. IAMICELI, "Il contratto di rete tra percorsi di crescita e prospettive di finanziamento", in I Contratti, 2009,10.
78
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Innanzitutto, le attività svolte dalle imprese possono, ma non debbono necessariamente,
rientrare nei rispettivi oggetti. E’ quindi ora possibile, stante l'ampio tenore letterale della
norma, che il contratto di rete regolamenti forme di collaborazione fra imprese
prescindendo da qualsiasi verifica circa l'attinenza, la complementarietà o la sussidiarietà
delle attività svolte da ciascun partecipante. In altre parole, le imprese possono costruire fra
loro una rete anche se operano in settori assolutamente differenti e senza alcun apparente
punto di contatto.
Parimenti, è stato eliminato ogni riferimento alla natura “economica” dell'attività svolta in
rete. Ciò rappresenta una importante innovazione, perchè consente di impiegare il contratto
di rete come strumento per gestire, sviluppare e coordinare anche attività di ricerca e di
studio, e quindi attività che non abbiano immediati riflessi economici. L'unica limitazione è
che dette attività siano svolte da imprenditori e che quindi vengano poi applicate dai
partecipanti alla rete nei rispettivi processi produttivi o distributivi.
Il nuovo intervento normativo ha evidenziato, poi, il carattere causale del contratto di
rete - peraltro già presente nella norma previgente - aprendo la definizione del contratto con
la indicazione del suo scopo.
Scopo del contratto di rete è quello di accrescere e migliorare, sia a livello di singolo
imprenditore che di collettività intesa quali soggetti facenti parte della rete, la capacità
innovativa e la competitività sul mercato.
Per raggiungere detti obiettivi, sono previste varie forme di collaborazione e interazione
tra le realtà imprenditoriali coinvolte anche se si deve sottolineare come, rispetto alla
formulazione originaria, l’attuale sia più dettagliata e circoscritta. Infatti, se nella prima
versione, quella del D.L. n. 5/2009, era richiesto un generico “esercizio in comune di una o
più attività economiche rientranti nei propri oggetti sociali”, l’attuale versione individua,
fermo restando la necessità di un programma comune di rete, le attività in una
collaborazione con una forma e un ambito predefinito, comunque attinente al normale
esercizio delle imprese coinvolte; uno scambio di informazioni e/o prestazioni di natura
industriale, commerciale, tecnica o tecnologica; un generico esercizio in comune di una o più
attività che comunque debbono rientrare nell’oggetto sociale delle imprese coinvolte.
Ne discende che, se la creazione di valore è il dato di partenza per cui il legislatore
favorisce la rete di imprese, il contratto deve dimostrare che questo è l’esito di
un’interdipendenza e di una strategia che, opportunamente coordinata mediante la variabile
giuridica, assicuri anche che tale dato sia reale.
A tal punto è utile soffermarsi, anche se brevemente, sulla natura giuridica del contratto.
79
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Se in passato, prima delle ultime modifiche normative, la dottrina si è divisa sulla natura
giuridica del contratto di rete che è stato definito quale «contratto transtipico», destinato ad
essere impiegato per funzioni diverse; quale tipo di consorzio; quale mero «contratto di
collaborazione»67, oggi sembra chiara la riconducibilità dello stesso ai contratti plurilaterali
con comunione di scopo e non a quelli a prestazioni corrispettive, anche se permangono le
incertezze della ricostruzione teorica vista l’ eterogeneità di contenuti che il contratto di rete
può avere e quindi dalla estrema flessibilità del modello giuridico, lasciato in gran parte alle
scelte di autonomia negoziale68.
Si ritiene che si tratti di un contratto a contenuto obbligatorio 69 e ciò appare confermato
dalla nuova disciplina di legge, che pare aver voluto estremizzare la natura “contrattuale”
della rete prevedendo come possibili e non più come necessari quegli elementi (la istituzione
di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato della gestione
dell'esecuzione del contratto o di parte di esso) che potevano far pensare alla rete come ad
un ente personificato o comunque dotato di una qualche soggettività70.
Che il contratto di rete sia plurilaterale si evince anche dal testo legislativo novellato. Con
disposizione di rinvio avente necessaria applicazione, il legislatore considera che, ai fini della
disciplina dello scioglimento del contratto, quale che sia la causa, debba farsi riferimento al
regime codicistico relativo ai contratti plurilaterali (con comunione di scopo)71.
E’ evidente che il legislatore ha voluto individuare con la rete un nuovo modello
organizzativo72, complementare ed alternativo tanto al modello societario, che ad altri
modelli di aggregazione “non personalizzati”, già previsti e disciplinati dal nostro
F. CAFAGGI, in AA.VV., "Reti d'imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per il diritto ed economia",
Bologna 2004; successivamente, in AA.VV., "Corporate governance, networks e innovazione", F.CAFAGGI, Padova,
2005. Da ultimo F. CAFAGGI E P. IAMICELLI (a cura di), "Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa.
Riflessioni da una ricerca sul campo", Bologna, 2007.
68 A tal proposito cfr T. TASSANI, op.ult.cit. secondo il quale “Il contenuto del contratto di rete può essere
diversissimo, spaziando dallo scambio di informazioni industriali, commerciali, tecniche o tecnologiche, fino
allo scambio di prestazioni e all’esercizio in comune una o più attività inerenti alle proprie imprese.
Già da queste considerazioni, emerge molto chiaramente come non possa parlarsi di un contratto di rete
ma di più contratti di rete, che potranno assumere natura ed effetti differenti, coerentemente con il maggiore o
minore grado di integrazione scelto dalle imprese”.
69 E. BRIGANTI, “La nuova legge sui “contratti di rete” fra le imprese: osservazioni e spunti”, in Notariato, 2010, 2
70 C. CAMARDI, "Dalle reti di imprese al contratto di rete nella recente prospettiva legislativa", in I Contratti, 2009,
10.
71 In quanto contratto plurilaterale, la sua disciplina risiede all’art. 1332 cod. civ., sotto il profilo della
modalità di conclusione dell’accordo, agli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 cod. civ. per quanto attiene ai profili
patologici, ossia alle conseguenze dell’invalidità o della risoluzione del rapporto tra un’impresa e la rete. L’art.
1420 cod. civ. definisce il campo di applicazione di tale combinato ai «contratti con più di due parti, in cui le
prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune»; le disposizioni nel loro
complesso riferiscono di un criterio guida ispirato al principio di conservazione del contratto dinanzi
all’eventualità della sua invalidazione o risoluzione unilaterale.
72 F.MACARIO, "Il contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo",in I Contratti, 2009, 10.
67
80
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ordinamento ma diversi dal contratto in parola, in quanto o connotati da una forte valenza
territoriale e geografica (quali i “Distretti produttivi”) o in quanto legati all'esecuzione di una
specifica iniziativa economica (quali le Associazioni Temporanee di Impresa, per le quali la
normativa prevede una durata limitata al compimento dell'operazione in comune a cui è tesa
o ai consorzi73).
La specificità dello strumento deve ovviamente essere ricercata nel profilo causale e
programmatico della fattispecie in esame, nonché nel fatto che la disciplina della rete si
rivolge alla considerazione della partecipazione di ciascuna impresa nell’ambito di un
coordinamento di attività con altre imprese. Insomma, ciò che differenzia la rete di imprese
è il fatto che essa nasce su un’esigenza di ordine strettamente economico essendo il suo
scopo accrescere le potenzialità tecnologiche e competitive di ciascuna impresa.
4. Il contenuto del contratto e la disciplina della pubblicità - Come molti contratti anche il
contratto di rete si presenta a contenuto predeterminato. Ciò nel senso che il legislatore ha
dettato un’ampia cornice entro cui l’autonomia privata degli imprenditori può esercitarsi
come meglio crede.
Occorre distinguere tra contenuto necessario e facoltativo del contratto di rete. Quanto al
primo, gli elementi sono il nome, la ditta, la ragione sociale o la denominazione sociale di
ogni partecipante per originaria sottoscrizione del contratto o per adesione successiva74;
l’indicazione degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità
competitiva dei partecipanti e le modalità concordate tra le stesse per misurare
l’avanzamento verso tali obiettivi; la durata del contratto, le modalità di adesione degli altri
imprenditori, nonché le ipotesi di recesso anticipato e condizioni di esercizio del relativo
diritto come contenuto eventuale; le regole di assunzione delle decisioni dei partecipanti su
ogni materia o aspetto di interesse comune che fuoriesce dall’ambito delle competenze
Per associazione temporanea di imprese si intende il sistema a cui le imprese ricorrono per partecipare a
gare d’appalto quando non possiedono le categorie richieste nel bando, caratterizzato da un rapporto di
mandato con rappresentanza, gratuito ed irrevocabile, conferito collettivamente all’impresa “capogruppo” (cfr.
T.A.R. Reggio Calabria sez. I, 10 dicembre 2009, n. 1197).
Il consorzio è invece il contratto con il quale due o più imprenditori “istituiscono un’organizzazione per la
disciplina e lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” (art. 2602 c.c.).
È evidente, dunque, che la differenza formale di tali forme di cooperazione imprenditoriale risieda nello
specifico “scopo” dell’aggregazione fra le imprese partecipanti e nell’assenza, sia nel raggruppamento
temporaneo di imprese sia nel consorzio, di un programma comune duraturo non limitato al compimento di
un affare specifico o alla disciplina delle “fasi” della rispettiva impresa.
74 E’ requisito soggettivo necessario per la partecipazione ad un contratto di rete la qualifica di
“imprenditore”. Si prescinde invece da qualsiasi altra connotazione dimensionale, geografica, di struttura
giuridica. Non è più richiesto che le attività esercitate con la rete abbiano contenuto “economico”, né è più
richiesto come necessario che dette attività rientrino “nei rispettivi oggetti sociali”.
73
81
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dell’organo comune se istituito; nonché nel caso il contratto preveda la modificabilità a
maggioranza del programma di rete, le regole relative all’assunzione delle decisioni
modificative.
Elemento fondamentale è poi la definizione di un programma di rete75 che deve
contenere l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascun partecipante, le
modalità di realizzazione dello scopo comune. Nel programma comune può essere prevista
l’istituzione di un fondo patrimoniale comune, in tal caso bisognerà indicare la misura e i
criteri di valutazione dei conferimenti iniziali e degli eventuali contributi successivi
che ciascun partecipante si obbliga a versare al fondo nonché le regole di gestione del fondo
medesimo”. La norma precisa altresì che “se consentito dal programma, l’esecuzione del
conferimento può avvenire anche mediante apporto di un patrimonio destinato costituito
ai sensi dell’articolo 2447-bis, primo comma, lettera a), del codice civile…;”76.
Altro elemento facoltativo, oltre al fondo patrimoniale è l’istituzione dell’organo comune
incaricato dell’esecuzione del programma o di uno o più fasi di esso. In tal caso bisognerà
indicare il nome, la ditta, la ragione o la denominazione sociale del soggetto prescelto per
svolgere tale ufficio; i poteri di gestione e di rappresentanza; le regole relative alla sua
sostituzione durante la vigenza del contratto;
Il punto di decisa rottura con la previgente normativa si ha in ordine alle “le modalità di
realizzazione dello scopo comune”. Nella normativa previgente, come noto, l'elemento
imprescindibile per la realizzazione del programma di rete era costituito dalla necessaria
istituzione di “un fondo patrimoniale comune”. Vi era inscindibilità fra contratto di rete ed
elemento patrimoniale: esso non era in alcun modo sostituibile o surrogabile77.
Il legislatore della riforma, invece, come detto, non ha ritenuto indispensabile, per
qualsiasi forma di rete, la previsione di un patrimonio comune, ritenendola probabilmente
La sua descrizione deve essere particolarmente accorta (il che non vuol dire dettagliata, in ogni suo
aspetto, come si evince dal termine “enunciazione”), posto che è proprio su questa parte che si concentra il
giudizio di asseverazione.
76 Il richiamo alla disciplina prevista in ambito societario, per come effettuato, non sembra tale da poter
ipotizzare spazi di applicazione estensiva dell’istituto a ipotesi non contemplate nella disciplina richiamata: così,
soltanto imprenditori strutturati nella forma della società per azioni potranno optare per i patrimoni destinati, e
nei limiti indicati del 10 per cento del patrimonio netto (art. 2447-bis), e per lo svolgimento (solo) di uno
specifico affare, che per di più non sia attinente a attività riservate in base alle leggi speciali. Cfr. A.
GENTILI,,”Il contratto di rete dopo la l. n. 122 del 2010”, in I contratti, 2011, 6, pag. 627.
77 Questa necessaria componente patrimoniale del contratto di rete, che lo rendeva del tutto innovativo
rispetto ad altri tipi di collaborazione “contrattuale” (quali, ad esempio, l'A.T.I., i contratti di sub-fornitura, il
franchising), era stata prevista dal legislatore mutuando l'esperienza dei consorzi con attività esterna, al duplice
fine di consolidare da un lato, la serietà dell'impegno assunto mediante l'adesione al programma di rete e
dall'altro, allo scopo di dotare l'organizzazione, in corso di esecuzione del programma, di mezzi economici
senza dover ricorrere alla sistematica contribuzione da parte degli aderenti.
75
82
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non vitale per quelle ipotesi nelle quali le imprese si siano obbligate a “collaborare” o a
“scambiarsi informazioni o prestazioni”.
Considerato, inoltre, il formale ampliamento della gamma delle attività che i soggetti
partecipanti alla rete possono obbligarsi a svolgere in comune, che contempla adesso
espressamente anche la previsione di attività puramente “interne”78, si è probabilmente
voluto ipotizzare la non obbligatorietà della previsione di un patrimonio comune
(perlomeno) tutte le volte che non fosse immaginata nel programma di rete la necessità di
rivolgere gli effetti dell’esercizio dell’attività comune all’esterno, verso il patrimonio di
soggetti terzi estranei alla rete stessa79.
In questi casi, il contratto di rete potrà prevedere il versamento da parte dei partecipanti
di contributi (secondo criteri prestabiliti) che potranno venire richiesti volta per volta per lo
svolgimento di singole operazioni o in relazione a specifiche esigenze, dall’organo comune
(se nominato), ovvero dal rappresentate o dai rappresentanti (mandatari) indicati, ma che
non formeranno il patrimonio comune80.
Occorre precisare,però, che se è innegabile il carattere soltanto facoltativo della
previsione del fondo comune e dell’organo comune, è peraltro anche vero che la mancata
previsione del fondo comune fa venire meno una condizione primaria perché possano essere
applicate alla stessa rete le agevolazioni fiscali.
Ma andiamo avanti nell’analisi. Il contratto deve essere redatto per atto pubblico o per
scrittura privata autenticata; inoltre, ai sensi del comma 4-quater, “è soggetto a iscrizione nella
sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante e l’efficacia del
contratto inizia a decorrere da quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte a
carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari”.
Per quanto riguarda la prima parte della norma si sottolinea che non avendo la rete una
sede propria, una propria denominazione né una propria soggettività (su punto diffusamente
dopo), il legislatore non ha potuto indicare una diversa modalità per l'attuazione della
pubblicità del contratto. Nemmeno la nuova formulazione della norma risolve quindi la
difficoltà di ordine pratico circa la impossibilità di rintracciare nel Registro delle Imprese un
contratto di rete qualora siano sconosciute le sedi delle imprese che vi partecipano.
attività di semplice collaborazione o di scambio fra le imprese partecipanti.
P. IAMICELI, cit., pag. 66 e segg.
80 Ne consegue che i profili di responsabilità (qualora immaginabili) di tale attività svolta in adempimento
del programma di rete saranno di spettanza dei singoli patrimoni dei partecipanti alla rete, secondo gli schemi e
le regole comuni che ruotano attorno al principio della responsabilità patrimoniale del debitore, giusto il
disposto dell’art. 2740 cod. civ.
78
79
83
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Più problematica è invece la seconda parte, del tutto nuova, della norma. Nella vigenza
del vecchio testo di legge, si riteneva pacificamente che la iscrizione del contratto di rete nel
Registro delle Imprese avesse il valore di mera “pubblicità notizia”.
Il testo attuale, con formulazione non proprio felicissima, pare invece voler subordinare
l'efficacia stessa del contratto all’ esecuzione dell'ultima iscrizione nel Registro delle Imprese,
senza peraltro precisare se l'esecuzione di detta pubblicità ne condizioni l'efficacia nei
confronti dei terzi (pubblicità dichiarativa) o financo fra le parti contraenti (con efficacia
addirittura costitutiva).
Nonostante l'ambiguo tenore letterale della norma, non si può pensare che il legislatore
abbia voluto attribuire alla pubblicità del contratto di rete efficacia costitutiva. E ciò, a tacer
d'altro, è confermato dal fatto che la nuova normativa richiede l'utilizzo della forma dell'atto
pubblico o della scrittura privata autenticata, non per la validità del contratto ma solo “ai fini
degli adempimenti pubblicitari di cui al comma 4-quater”.
Si aggiunga comunque che tale previsione riveste particolare importanza in quanto, solo
con l’esecuzione di tutte le iscrizioni previste decorre l’efficacia del contratto di rete.
L’inciso “sottoscrittori originari” conferma la possibilità di allargare, in un secondo
tempo, la rete di impresa ad altri soggetti interessati, previa eventuale modifica dei requisiti
minimi richiesti dal legislatore per la validità.
Occorre così distinguere la posizione di coloro che aderiscono a una rete esistente
rispetto ai sottoscrittori originari. L’iscrizione di coloro che aderiscono successivamente ha
efficacia dichiarativa.
In ossequio a quanto previsto dall’art. 2193 cod. civ., laddove tale iscrizione non sia
avvenuta, l’adesione alla rete non potrà essere opposta ai terzi, a meno che non si provi che i
terzi ne abbiano avuto conoscenza. Rispetto ai secondi, la legge instaura uno stretto legame
tra forma - adempimento pubblicitario - effetti del contratto posto che questi ultimi
decorrono «dal momento in cui è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte a carico di
tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari».
L’iscrizione nel Registro delle Imprese può essere inteso come un onere in capo a
ciascuna impresa necessario a perfezionare, nell’interesse appunto della singola impresa, il
ciclo formativo della fattispecie.Del resto, è imprecisa la stessa formulazione legislativa
laddove condiziona all’adempimento pubblicitario l’efficacia dell’intero contratto, mentre è
evidente che l’efficacia obbligatoria del contratto inizia dalla stipula. Prescrivendo appunto
che l’iscrizione solo di alcuni dei sottoscrittori originari preclude l’efficacia del contratto nei
confronti di tutti, la legge ha voluto unicamente disincentivare comportamenti opportunistici
84
2/2012
(per esempio, usufruire in maniera impropria di vantaggi fiscali), oltre che incentivare
l’istituzionalizzazione delle reti esistenti.
Ciò premesso, non pare che tale disposizione debba leggersi quale deroga alla regola
generale in materia di pubblicità commerciale prevista dall’art. 2193 cod. civ., che attribuisce
all’esecuzione dell’iscrizione un’efficacia di tipo dichiarativo.
I fatti che si intende dichiarare all’esterno, e gli effetti connessi di opponibilità, possono
essere perciò vari. Anzitutto, laddove si scelga di dotare la rete di una governance strutturata o
di un patrimonio destinato, l’iscrizione nel registro delle imprese appare propedeutica a
realizzare i meccanismi di separazione patrimoniale e di imputazione della relativa
responsabilità al fondo destinato; quanto poi all’adesione alla rete di un’impresa, questa pare
essenzialmente propedeutica a dare rilevanza esterna a tutti i fatti per i quali occorre che
siano prescritte le relative iscrizioni pubblicitarie.
Infine, si deve collegare l’esigenza di pubblicità della partecipazione di un’impresa a una
rete in quanto essa costituisce il titolo per accedere a determinati effetti che la legge
attribuisce all’adesione verso tale forma di coordinamento.
5. L'estensione alle reti di imprese della disciplina in tema di "distretti produttivi" - L’art.
3, comma 4-quinquies, del D.L. n. 5/2009, con la tecnica del rinvio, estende ai soggetti
appartenenti ad una rete di imprese i vantaggi amministrativi, finanziari e per la ricerca e
sviluppo previsti dall’art. 1, comma 368 lett.b), c) e d), della L. 23 dicembre 2005, n. 266
(Finanziaria 2006) per i distretti produttivi. Se ne evince che l’elemento caratterizzante del
modello normativo proposto è quello della costituzione, dal punto di vista formale e
normativo, di “reti” di imprese operanti all’interno di ambiti determinati, i cd. distretti
produttivi.
È importante sottolineare come tali previsioni non abbiano ancora trovato applicazione,
in quanto non sono state emanate le relative norme di attuazione.
Con tale norma si richiama l’istituto dei c.d. “distretti produttivi” costituti quali libere
aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale con l’obiettivo
di accrescere lo sviluppo delle aree e dei settori di riferimento, di migliorare l’efficienza
nell’organizzazione e nella produzione, secondo principi di sussidiarietà verticale ed
orizzontale,anche individuando modalità di collaborazione con le associazioni
imprenditoriali81.
Tradizionalmente i distretti industriali sono legati ad un territorio e costituiscono un unicum sociale oltre
che economico. In essi è presente un’elevata concentrazione di imprese industriali legate da specializzazione
produttiva, di piccole e medie dimensioni, e una peculiare organizzazione interna. Sono stati disciplinati dalla
81
85
2/2012
Per quanto riguarda i vantaggi di natura amministrativa le imprese collegate con il
contratto di rete potranno intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni e con gli
enti pubblici, anche economici, ovvero dare avvio presso gli stessi a procedimenti
amministrativi per il tramite della rete di cui esse fanno parte.
In tal caso, le domande, richieste, istanze, ovvero qualunque altro atto idoneo ad avviare
ed eseguire il rapporto ovvero il procedimento amministrativo, ivi incluse, relativamente a
quest’ultimo, le fasi partecipative del procedimento, qualora espressamente formati
nell’interesse delle imprese aderenti alla rete si intendono senz’altro riferiti, quanto agli
effetti, alle medesime imprese.
Qualora, poi, la rete dichiari altresì di aver verificato, nei riguardi delle imprese aderenti, la
sussistenza dei presupposti, ovvero dei requisiti, anche di legittimazione, necessari, sulla base
delle leggi vigenti, per l’avvio del procedimento amministrativo e per la partecipazione allo
stesso, nonché per la sua conclusione con atto formale ovvero con effetto finale favorevole
alle imprese aderenti, ciò consentirà alle pubbliche amministrazioni ed agli enti pubblici di
provvedere senza altro accertamento nei riguardi di tutte le imprese aderenti. A tal scopo le
reti potranno anche accedere, sulla base di apposita convenzione, alle banche dati formate e
detenute dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti pubblici.
Al fine, poi, di facilitare l’accesso ai contributi erogati a qualunque titolo sulla base di leggi
regionali, nazionali e di disposizioni comunitarie, le imprese che aderiscono alle reti
potranno presentare le relative istanze ed avviare i relativi procedimenti amministrativi,anche
mediante un unico procedimento collettivo, per il tramite dei distretti o delle reti medesime,
che forniranno consulenza ed assistenza alle imprese stesse e che potranno, qualora le
imprese siano in possesso dei requisiti per l’accesso ai citati contributi, certificarne il diritto.
Le reti potranno, altresì, in tema di agevolazioni di carattere finanziario, provvedere, ove
necessario, a stipulare apposite convenzioni,anche di tipo collettivo con gli istituti di credito
e gli intermediari finanziari, volte alla prestazione della garanzia per l’ammontare della quota
dei contributi soggetti a rimborso. Le reti, infine, avranno la facoltà di stipulare, per conto
delle imprese negozi di diritto privato secondo le norme in materia di mandato di cui agli
artt. 1703 e segg. c.c..
Infine, per quanto attiene la ricerca e lo sviluppo è previsto, al fine di accrescere la
competitività delle Pmi, la costituzione dell’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per
legislazione statale (art.36 Legge 5 ottobre 1991, n.317), sia regionale a seguito della riforma del Titolo V della
Costituzione. La Finanziaria 2006, poi, se da un lato ha affiancato ai distretti territoriali quelli funzionali, non
legati ad una specifica comunità territoriale, dall’altro ha reso i distretti una “peculiare figura soggettiva”. Cfr
sentenza della Corte Costituzionale, 11 maggio 2007, n.165.
86
2/2012
l’innovazione avente lo scopo di “promuovere l’integrazione fra il sistema della ricerca ed il
sistema produttivo attraverso l’individuazione, valorizzazione e diffusione di nuove
conoscenze, tecnologie, brevetti e applicazioni industriali prodotti su scala nazionale ed
internazionale”.
6. L’ agevolazione fiscale per i contratti di rete – Le agevolazioni fiscali delle reti
d’impresa sono regolate, come anticipato, dai commi da 2-quater a 2- septies dell’art.42 del
D.L. n.78/2010 e sono illustrati dalla Circolare n.15/E del 14 aprile 2011.
L’articolo 42, comma 2-quater,
del
decreto sancisce che sono beneficiarie
dell’agevolazione le “imprese che sottoscrivono o aderiscono a un contratto di rete”.
Possono quindi accedere all’agevolazione sia le imprese che hanno originariamente
sottoscritto un contratto di rete, sia le imprese che hanno aderito a un contratto di rete già
esistente, indipendentemente dalla forma giuridica, dalle dimensioni aziendali, dalla tipologia
di attività svolta o dal settore economico di riferimento, nonché dalla localizzazione
territoriale.
In particolare, la Circolare n.15/E per quest’ultimo profilo, sottolinea che sono ammesse
sia le imprese residenti, sia le stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di imprese
non residenti.
Il comma 2-quater, primo periodo, del decreto considera agevolabile una quota degli utili
dell’esercizio “destinati dalle imprese … al fondo patrimoniale comune o al patrimonio
destinato all’affare … se accantonati ad apposita riserva”. Tale quota degli utili delle imprese
partecipanti alla rete di impresa, sino al periodo di imposta in corso al 31dicembre 2012,
infatti, non concorrerà alla formazione del reddito imponibile dell’impresa stessa, se
destinata alla realizzazione, entro l’esercizio successivo, degli investimenti previsti dal
programma comune di rete. Viene inoltre previsto che gli utili concorrono alla formazione
del reddito nell’esercizio in cui la riserva è utilizzata per scopi diversi dalla copertura della
perdita di esercizio ovvero in cui viene meno l’adesione al contratto di rete.
Si sottolinea che il programma comune di rete deve avere ottenuto la preventiva
asseverazione da parte degli organismi abilitati “espressione dell’associazionismo
imprenditoriale muniti di requisiti previsti con il decreto del Ministero dell’economia e delle
finanze del 25 febbraio 2011 il quale ha stabilito che “sono abilitati a rilasciare
l’asseverazione del programma gli organismi espressi dalle Confederazione di rappresentanza
datoriale rappresentative a livello nazionale presenti nel Consiglio Nazionale dell’Economia
87
2/2012
e del Lavoro82, espressioni di interessi generali di una pluralità di categorie e territori”.
L’asseverazione, come precisato sia dalla circ. n. 4/E del 15 febbraio 2011 che dalla circ. n.
15/E del 14 aprile 2011, comporta la verifica preventiva della sussistenza, nel caso specifico,
degli elementi propri del contratto di rete e dei relativi requisiti da partecipazione in capo alle
imprese sottoscrittrici. L’asseverazione costituisce un elemento di importanza fondamentale
per la valida sussistenza del contratto di rete, tanto che l’art. 1, comma 2, del D.M. 25
febbraio 2011, ne attribuisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione, da
parte delle singole imprese, dell’esistenza dei requisiti richiesti per poter accedere
all’agevolazione fiscale.
L’asseverazione, come precisato dalla circ. n. 15/E più volte citata, non esime tuttavia le
imprese aderenti al contratto dal “realizzare gli altri presupposti previsti dalla norma per
accedere all’agevolazione”.
Ai sensi di quanto stabilito dall’art. 4, comma 3, del D.M. 25 febbraio 2011, “gli
organismi abilitati sono tenuti a comunicare all’Agenzia delle Entrate, trasmettendo i dati
relativi alle imprese aderenti alla rete il cui programma comune ha ottenuto l’asseverazione”.
Questa comunicazione, secondo quanto previsto è poi attestata entro trenta giorni dalla
richiesta di rilascio dell’organo comune per l’esecuzione del contratto di rete ovvero del
rappresentante della rete risultante dalla stipula dello stesso contratto83.
L’articolo 42, comma 2-quater dispone inoltre che l’Agenzia delle entrate, avvalendosi
dei propri poteri di accertamento e di controllo, “vigila sui contratti di rete e sulla
realizzazione degli investimenti che hanno dato accesso all’agevolazione, revocando i
benefici indebitamente fruiti”.
L’articolo 6 del D.M. 25 febbraio 2011 ha poi specificato che l’Agenzia delle entrate,
nell’ambito dell’ordinaria attività di controllo, “può effettuare tra l’altro: a) la verifica
formale dell’avvenuta asseverazione del programma, anche mediante riscontro presso gli
organismi di asseverazione; b) la verifica della imputazione a riserva degli utili in
sospensione di imposta e dei relativi successivi utilizzi; c) la vigilanza sulla realizzazione
Ai sensi della Legge 30 dicembre 1986, n. 836.
L'Agenzia delle Entrate con la risoluzione 12 settembre 2011, n. 89/E, ha offerto più tempo per avvalersi
del regime di sospensione d'imposta, tenendo conto dei tempi tecnici necessari per valutare meglio il
programma comuneprecisando che, per il primo anno di applicazione dell'agevolazione, le imprese in rete
possono avvalersi del regime di sospensione d'imposta anche nell'ipotesi in cui l'asseverazione del programma
di rete sia ricevuta dopo il 30 settembre 2011. Ciò a patto che l'avvenuta asseverazione fosse stata comunicata
all'organo comune per l'esecuzione del contratto della rete ovvero al rappresentante della rete risultante dalla
stipula dello stesso contratto entro il 31 dicembre 2011. È rimasto fermo invece al 30 settembre 2011 il termine
per la stipula del contratto di rete e la relativa iscrizione nel registro delle imprese.
82
83
88
2/2012
degli investimenti che hanno dato accesso all’agevolazione anche in collaborazione con gli
organismi di asseverazione in base a specifici accordi”.
Tenuto conto del meccanismo applicativo dell’agevolazione, nonché delle specifiche
attività di controllo previste, assumerà particolare rilievo il coinvolgimento degli organismi
abilitati al rilascio dell’asseverazione del programma di rete, anche in relazione alla vigilanza
da effettuare sulla realizzazione degli investimenti che hanno dato accesso all’agevolazione.
L’agevolazione si può fruire, così, solo se si realizzano i presupposti previsti dalla norma:
adesione al contratto di rete; accantonamento e destinazione dell’utile dell’esercizio;
asseverazione del programma di rete.
6.1. Contenuto e fruizione dell’agevolazione- L’incentivo consiste, come anticipato, in una
sospensione d’imposta - cioè in una momentanea esclusione dal calcolo del reddito
imponibile - della quota degli utili d’esercizio accantonata in un’apposita riserva del bilancio,
denominata con riferimento alla legge istitutiva dell’agevolazione in esame, di cui viene data
informazione in nota integrativa (solo dai soggetti tenuti per legge alla sua redazione),
distinta dalle altre eventuali riserve presenti nel patrimonio netto, e destinata alla
realizzazione degli investimenti previsti dal programma comune di rete84, preventivamente
asseverato. Gli imprenditori individuali e le società di persone in regime di contabilità
semplificata debbono provvedere ad integrare le scritture contabili con un apposito
prospetto da cui risultino la destinazione a riserva dell’utile d’esercizio e le vicende della
riserva stessa.
Il beneficio in questione per espressa disposizione normativa spetta esclusivamente a
condizione che gli utili accantonati nella riserva siano destinati al fondo patrimoniale
comune o al patrimonio destinato all’affare ex art. 2447-bis, comma 1, lett. a) c.c. per
realizzare entro l’esercizio successivo a quello in cui è stata assunta la delibera di
accantonamento gli investimenti previsti dal programma di rete85.
L'Agenzia delle Entrate86 ha chiarito che gli investimenti (spese) del programma di rete
possono consistere nell'assunzione dei costi per l'acquisto o l'utilizzo di beni (strumentali e
non) e/o servizi e nell'assunzione dei costi per l'utilizzo del personale.
84 Come specificato dalla Circ. 15/E del 16 aprile 2011, parag.2.2. “si ritiene che la disposizione
richiamata, essendo inserita nel corpo della norma istitutiva dell’agevolazione, non introduca obblighi
civilistici generalizzati, ma si applichi alle sole imprese che intendano accedere all’agevolazione fiscale”.
85 Sul patrimonio destinato amplius G. MOSCO; Frammenti ricostruttivi sul contratto di rete, in Giurisprudenza
Commerciale, 2010, 846ss.
86 Cfr. parag 3.1. Circ.15/E/2011
89
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Ha ritenuto compresi anche i costi relativi a beni, servizi e personale messi a disposizione
da parte delle imprese aderenti (ad es. ore lavoro del personale tecnico dedicato allo sviluppo
di una ricerca nell'interesse comune della rete) precisando che in tal caso rileva il costo
figurativo relativo all'effettivo impiego di detti beni servizi e personale per la realizzazione
degli investimenti, dimostrato con adeguata documentazione amministrativa e contabile.
Ovviamente, non si richiede che tutti gli obiettivi del contratto di rete siano realizzati, ma
solo che gli utili destinati al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare
vengano effettivamente impegnati entro l’esercizio successivo per la realizzazione di tali
obiettivi. Ciò comporta necessariamente che, in seno al contratto siano dettagliatamente
individuati tali obiettivi.
La norma è diretta a tutelare l’interesse a che gli utili per i quali è accordato il beneficio
della sospensione da imposizione siano realmente investiti come previsto dal programma
comune di rete e pone, per tale riscontro, il termine dell’esercizio successivo.
Al riguardo, si precisa che il termine si riferisce all’esercizio successivo a quello in cui
è assunta la delibera di accantonamento degli utili dell’esercizio e non a quello di
maturazione degli utili accantonati 87.
Sotto il profilo temporale, l’agevolazione si applica agli utili d’esercizio accantonati
ad apposita riserva a partire dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2010 e fino al
periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2012. Ciò si desume dalla previsione del
comma 2-quinquies che impone la fruizione dell’agevolazione nei limiti degli stanziamenti
previsti per gli anni 2011, 2012 e 2013, e dal riferimento fatto dal comma 2-quater al
periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2012 quale ultimo periodo di imposta
agevolabile.
Il beneficio fiscale spetta poi entro il limite di un milione di euro, per singola impresa e
singolo anno d’imposta. Pertanto, se un’impresa decidesse di partecipare a più contratti di
rete e di destinare ad investimento utili, investendo più di un milione nel complesso, ovvero
di investire un importo superiore a tale cifra in presenza di unico contratto di rete,
l’agevolazione potrebbe operare solo ed esclusivamente entro il limite del milione di euro. Si
deve pertanto ritenere che le quote eccedenti di utili destinati alla realizzazione
dell’investimento, in quanto non fruiscono dell’agevolazione, non sono soggette ad alcun
vincolo specifico derivante dalla normativa fiscale.
87
M. CEDRO, “Profilo fiscale del contratto di rete”,in Rassegna Tributaria, 2011, pag. 1163.
90
2/2012
Conseguentemente, l’importo agevolabile non potrà comunque eccedere il limite di
un milione di euro per periodo di imposta, anche nell’ipotesi in cui un’impresa consegua e
accantoni a riserva utili di esercizio per un ammontare superiore a detto limite88.
La norma istituisce, così, un regime di sospensione di imposta sugli utili
dell’esercizio, al netto delle imposte di competenza, accantonati ad apposita riserva,
attuato per effetto di una variazione in diminuzione della base imponibile del reddito di
impresa relativo al periodo di imposta cui si riferiscono gli utili stessi.
L’agevolazione opera ai fini delle imposte sui redditi (IRPEF e IRES) e delle relative
addizionali regionali e comunali, con esclusione quindi dell’IRAP e, in base alle
previsioni del comma 2-quinquies, può essere fruita “esclusivamente” in sede di
versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta relativo
all’esercizio cui si riferiscono gli utili accantonati, senza incidere sul calcolo degli acconti
dovuti per il medesimo periodo di riferimento.
Allo stesso modo, gli acconti dovuti per il periodo d’imposta successivo devono essere
determinati secondo le modalità ordinarie, al lordo dell’agevolazione, assumendo, cioè,
come imposta del periodo precedente quella che si sarebbe applicata in assenza delle
disposizioni agevolative.
Gli eventuali versamenti in acconto, che risultassero eccedenti al momento di
determinazione del saldo per effetto dell’applicazione del regime di sospensione di
imposta, generano per il contribuente un credito IRPEF/IRES utilizzabile secondo le
modalità ordinarie.
L’agevolazione può essere fruita nel limite complessivo di 20milioni di euro per il 2011 e
di 14 milioni di euro rispettivamente per il 2012 e il 2013 esclusivamente, come detto, in
sede di versamento del saldo delle imposte sui redditi. di conseguenza quanti più sono i
richiedenti aventi diritto tanto inferiore è il beneficio per ciascuna impresa, in quanto il
risparmio fiscale viene ridotto proporzionalmente nel caso di superamento del detto
plafond89.
Per ottenere il beneficio fiscale le imprese interessate devono presentare una
comunicazione all’Agenzia delle Entrate90 contenente l’indicazione della quota di utili
Ciò non esclude, ovviamente, dal punto di vista civilistico, una destinazione d'importo superiore.
Il che potrà determinare responsabilità a carico di chi ottenga l'agevolazione senza averne titolo e a carico
della pubblica amministrazione nel caso di negligente od omesso controllo.
90 Il modello comunicativo Reti è stato approvato dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate il 14 aprile 2011
con protocollo n.2011/31139. L’importo massimo iscrivibile è di un milione di euro. Il risparmio d’imposta è
in funzione del soggetto e della fiscalità diretta cui soggiace. In particolare: Per i soggetti Ires: deve essere
indicato l’importo scaturente dall’applicazione dell’aliquota Ires del 27,5% all’accantonamento eseguito. Per gli
imprenditori individuali: l’importo sarà dato dalla differenza tra l’Irpef relativa al solo reddito di impresa
88
89
91
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accantonati e l’indicazione del risparmio d’imposta corrispondente all’accantonamento;
stante quanto sopra detto a proposito del plafond tale comunicazione ha sostanzialmente un
effetto prenotativo. La trasmissione deve essere effettuata telematicamente, direttamente o
tramite un intermediario abilitato ad Entratel, utilizzando il software “AgevolazioneReti”.
6.2. Cause di revoca – Il legislatore ha poi previsto dei vincoli sugli utili detassati al fine di
evitare che siano utilizzati per scopi diversi da quelli per i quali sono stati destinati e per
evitare che la stipula di un contratto di rete sia esclusivamente finalizzata all’ottenimento del
beneficio fiscale. La norma infatti, come anticipato, sancisce che qualora la riserva sia
utilizzata per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio, ovvero nei casi in cui viene
meno l’adesione al contratto di rete, gli utili accantonati (e che avevano beneficiato della
esenzione) concorrono alla formazione del reddito.
In particolare con riferimento allo scioglimento del vincolo contrattuale si deve ritenere
che, ai fini della fruizione del beneficio fiscale, il vincolo associativo debba permanere per
tutta la durata stabilita nel contratto di rete. La locuzione utilizzata dal legislatore “venir
meno dell’adesione al contratto di rete” consente di affermare che la naturale scadenza del
contratto non comporti la decadenza dall’agevolazione, che invece deriva dal venir meno
dell’adesione per recesso dell’impresa partecipante o per scioglimento consensuale del
contratto con effetti nei confronti di tutti i sottoscrittori. L’obiettivo perseguito dalla
norma è l’effettivo completamento del programma comune di rete asseverato e, quindi,
solo in mancanza di tale completamento il venir meno dell’adesione al contratto di rete
provoca il termine del regime di sospensione di imposta.
determinata al lordo ed al netto dell’agevolazione. In caso di perdita, il risparmio di imposta è calcolato
applicando le aliquote Irpef all’utile accantonato. Per le società di persone e di capitali in regime di trasparenza
fiscale: si iscriverà la sommatoria delle minori imposte dovute da tutti i soci, determinate secondo le modalità
per gli imprenditori individuali.
Per la determinazione del risparmio relativo alle addizionali regionali, all’importo accantonato a riserva si
applica l’aliquota dello 0,9% o se maggiore, quella deliberata dalla regione di appartenenza, mentre per la
comunale si dovrà sempre fare riferimento all’aliquota deliberata dal comune.
Con lo stesso provvedimento del Direttore dell’Agenzia con il quale è stato approvato il modello di
comunicazione contenente i dati del risparmio d’imposta (mod. RETI), con le relative istruzioni è stato anche
stabilito al punto 4 che l’Agenzia delle Entrate determini la percentuale massima del risparmio d’imposta
spettante sulla base del “rapporto fra l’ammontare delle risorse stanziate e l’ammontare del risparmio d’imposta
complessivamente richiesto”. A seguito del provvedimento dell’Agenzia delle Entrate n. prot. 2011/81521
pubblicato il 14 giugno 2011 in relazione al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2010 la percentuale
massima di risparmio d’imposta che compete alle imprese che hanno aderito ad un contratto di rete e che
hanno accantonato una parte degli utili è pari al 75,3733%.
Tale limite è certamente un disincentivo anche in considerazione del fatto che per il 2012 e per il 2013 il
limite per fruire dell’agevolazione è abbassato a 14 milioni di euro e in considerazione che ci sarà un
incremento della richiesta.
92
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Al verificarsi dell’evento interruttivo del regime di sospensione di imposta, le imprese
dovranno far concorrere l’utile accantonato a riserva alla formazione del reddito di impresa
del periodo di imposta in cui si è verificato l’evento stesso.
Scatterà la revoca dell’agevolazione anche se si utilizza la riserva per scopi diversi dalla
copertura di perdite d’esercizio. Infatti, come ben chiaro nel testo normativo, la riserva può
essere utilizzata esclusivamente per la copertura di perdite.
L’agevolazione potrà considerarsi definitivamente acquisita, trasformandosi da
“sospensione” in “esenzione”, solo nel momento in cui, completato il programma previsto
nel contratto, la riserva venga utilizzata a copertura delle perdite d’esercizio.
Un differente utilizzo della riserva comporterà sempre la perdita dell’agevolazione, e la
conseguente tassazione degli utili oggetto della sospensione.
Si aggiunga che l’utilizzo della riserva per la copertura di perdite di esercizio prima del
completamento del programma comune di rete non fa venir meno, di per sé, il regime
di sospensione di imposta. Quest’ultimo terminerà solo nell’ipotesi in cui viene meno
l’adesione al contratto di rete in mancanza del completamento del programma comune di
rete91.
6.3. Il problema della soggettività - Un dei problema riguarda la rilevanza o meno ai fini
reddituali del contratto di rete quale autonomo soggetto di imposta o meno.
Se è vero che il legislatore ha avuto molta cura a evitare che, anche in via meramente
interpretativa, si possa identificare un nuovo soggetto giuridico nella rete posto che tutta la
visione del fenomeno è
spostata sul contratto che “ciascun” partecipante stipula con ciascuno dei partecipanti alla
rete, è’ vero anche che la soggettività non è oggetto di attribuzione legale ma di
riconoscimento da parte dell’ordinamento.
Le conseguenze dell’attribuzione o meno di soggettività alle reti dal punto di vista fiscale
non è di poco conto.
Se come ribadito anche dalla prassi 92 l’adesione al contratto di rete non comporta
l’estinzione, né la modificazione della soggettività tributaria delle imprese partecipanti e la
F. MARIOTTI, “Detassazione destinata agli utili destinati al fondo patrimoniale comune per incentivare le reti
d’impresa”, in Corr. Trib., 2011, pag. 954.
92 L’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 4/E del 15 febbraio 2011 ha precisato come “l’adesione al contratto
di rete non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività tributaria delle imprese che aderiscono
all’accordo in questione, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso”.
Parimenti con la ris. n. 70/E del 30 giugno 2011, l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto, fermo restando
l’esclusione di soggettività tributaria incapo alle reti d’imprese, la possibilità per le medesime di richiedere
l’attribuzione del codice fiscale qualora le imprese partecipanti ne facciano specifica istanza ai fini operativi.
91
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rete non è dotata di soggettività giuridica, ne deriva che la rete non è nemmeno “soggetto
tributario” (sebbene non sia affatto scontata la coincidenza fra la soggettività civilistica e
quella passiva tributaria ai fini delle imposte sul reddito) e quindi gli atti, i beni, i diritti e gli
obblighi nascenti dal contratto sono riferibili, pro quota, ai singoli partecipanti come fosse
una comunione e, in particolare, le fatture di acquisto dei beni mobili acquistati in rete vanno
intestate a tutte le imprese partecipanti pro quota così come pro quota vanno imputate le
quote di ammortamento dei cespiti.
Se, invece, contrariamente si ritiene che con il contratto di rete i partecipanti danno vita
ad un autonomo soggetto di diritto questo ha autonoma capacità contributiva ed è soggetto
passivo di imposta.
La normativa in materia di contratti di rete è poco dettagliata e non esaustiva: il legislatore
ha preferito infatti lasciare all’autonomia delle singole imprese partecipanti la
regolamentazione dei rapporti che la rete può intrattenere con i propri membri e con i terzi.
Non si comprende pertanto come si possa sostenere che il contratto di rete non possa mai
dar luogo ad un “soggetto” autonomo, dal punto di vista tributario, rispetto alle imprese
partecipanti. Invero, solo dall’esame dell’atto costitutivo della rete (ossia, dal contratto) sarà
possibile stabilire se ed in che modo l’autonomia gestionale demandata all’organo comune,
unitamente all’eventuale presenza di un patrimonio comune, possa integrare i requisiti
richiesti dall’art. 73 del T.U.I.R. perché si sia in presenza di un autonomo soggetto passivo
dell’IRES93.
L’indagine, al fine di stabilire se sorga, a seguito del contratto di rete, un nuovo soggetto
passivo, va condotta caso per caso. Potranno stipularsi contratti di rete che non danno luogo
a soggetti autonomi dalle imprese partecipanti e contratti dai quali nasce un nuovo soggetto,
identificabile nella “rete”. In particolare rimarcando la flessibilità dell’assetto negoziale vi
possono essere quindi reti che ben difficilmente potrebbero essere considerate prive di
soggettività, altre invece che indiscutibilmente non riescono ad acquisire autonoma rilevanza
soggettiva rispetto ai partecipanti al contratto.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, il codice fiscale può essere attribuito in base all’art. 2 del D.P.R. n. 605/1973,
“secondo cui possono essere iscritte all’Anagrafe Tributaria le organizzazioni di persone o di beni prive di
personalità giuridica” tra le quali rientrano appunto le reti d’imprese
93 L’art. 73 T.U.I.R. dispone che sono soggetti all’imposta sul reddito delle società (IRES), tra l’altro, le
associazioni non riconosciute, i consorzi e “le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei
confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo”, ne consegue che se
dal contratto di rete emerge un organo di gestione dotato di poteri rilevanti e un patrimonio comune allora
rientriamo nell’ambito di applicazione dell’art.73 del Tuir verificandosi il presupposto in modo “autonomo e
unitario”.
94
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Sulla base di quanto detto non appare corretto sostenere, così come viene fatto
dall’Agenzia delle Entrate, che in capo alle reti d’impresa non possa mai riconoscersi una
soggettività tributaria.
Il legislatore tributario forse ha negato la soggettività tributaria destinando l’agevolazione
agli aderenti alla rete per ragioni di semplicità e certezza e perché la sussistenza di
un’autonoma soggettività in capo alla rete non avrebbe reso possibile il giudizio di
compatibilità del provvedimento con il diritto comunitari in quanto una misura agevolativa
che venisse limitata ai fondi con responsabilità separata costituiti in rete potrebbe essere
considerata selettiva e quindi posta in violazione del divieto di aiuti di Stato94.
Forse, però, come ha giustamente affermato la dottrina95 “le battaglie di principio sulla
soggettività servono a poco e rischiano di essere fuorvianti; l’unica soggettività nelle scienze
sociali è quella degli individui, che nascono, crescono e muoiono; le istituzioni - comprese le
reti di impresa - derivano sempre da accordi tra individui, da regimi giuridici su cui sono
possibili infinite graduali sfumature…”.
7. Il decreto sviluppo e le reti d’impresa nei distretti turistici – Le reti di impresa possono
essere costituite anche dalle imprese facenti parti dei Distretti turistici istituiti dall'art. 3,
comma 4 del Decreto Sviluppo (D.L. 70/2011)96.
In particolare l’art. 3 del D.L. n. 70/2011 prevede che, con apposito D.P.C.M., possano
essere costituiti nei territori costieri, su richiesta delle imprese interessate che operano
nel settore e che operano nei medesimi e previa intesa con le Regioni, i distretti turistici
con gli obiettivi di riqualificare e rilanciare l’offerta turistica a livello nazionale e
internazionale, di accrescere lo sviluppo delle aree e dei settori del Distretto, di migliorare
l’efficienza nell’organizzazione e nella produzione dei servizi, di assicurare garanzie e
certezze giuridiche alle imprese che vi operano con particolare riferimento alle opportunità
di investimento, di accesso al credito, di semplificazione e celerità nei rapporti con le
pubbliche amministrazioni. A tal fine per i suddetti distretti sono previste agevolazioni
fiscali, amministrative e finanziarie.
Le imprese dei distretti, solo se costituite in rete ai sensi dell’art. 2, comma 4-ter, del D.L.
n.5/2009, possono fruire delle disposizioni agevolative in materia amministrativa,
94
RL, Reti d’impresa e logiche di sistema, in T.TASSANI A.GIOVANARDI e RL, cit.
RL, Reti d’impresa e logiche di sistema, in T.TASSANI A.GIOVANARDI e RL, cit.
Convertito in legge 106/2011 che ha peraltro, ha modificato la norma originaria, limitando la tipologia di
Distretti in "turistici" rispetto all'originario "turistico-alberghieri". Il Dl 70/2001 è stato a sua volta modificato
dalla legge 183/2011.
95
96
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finanziaria, per la ricerca e sviluppo di cui all’art. 1, comma 368, lettere b), c) e d) della
L. 23 dicembre 2005, n. 266, previa autorizzazione del Ministero dello sviluppo
economico97.
Le agevolazioni fiscali di cui alla lettera a) della citata norma, invece, possono applicarsi,
su richiesta, anche nel caso in cui le suddette imprese non siano costituite in rete.
In particolare le imprese appartenenti ai distretti possono optare per la tassazione unitaria
"di distretto" ai fini IRES. L'opzione è vincolante per tre anni. I distretti possono
preventivamente concordare con l'Agenzia delle Entrate il volume delle imposte sui redditi
da versare in ciascun esercizio, in base a parametri oggettivi determinati previa consultazione
con le categorie interessate. La ripartizione del carico tributario è rimessa al distretto, e viene
effettuata in base a criteri di trasparenza e parità di trattamento98. Infine i distretti turistici
costituiscono zone “a burocrazia zero” ai sensi dell’art. 43 del D.L. 31 maggio 2010, n. 7899.
7.1. Ritorna il dubbio sulla soggettività delle reti - Giova osservare che il legislatore ha sancito
che alle imprese dei Distretti “ancorché non costituite in rete, si applicano comunque su
richiesta, le disposizioni agevolative in materia fiscale di cu all’art.1, comma 368, lettera a)”
della L.266/2005. Se ne desume che anche se costituite in rete secondo il DL 5/2009
potranno fruire di tali agevolazioni fiscali. Allora risorge il dubbio della soggettività ai fini
fiscali. Vediamo perché.
Se analizziamo la normativa e la mutuiamo per le reti se ne desume che:
Per talia agevolazioni si rimanda al parag.5.
R. PERTICARI - Spiagge e distretti turistici, Guida agli Enti Locali, Il Sole 24 ore n. 22 del 28.5.11,E.
BRODI “Commento a Coordinamento tra imprese e contratto di rete: primi passi del legislatore”, in I Contratti, 2009,
IPSOA.
99 Con il decreto legge 31 maggio 2010 n. 78 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e competitività economica” , convertito in legge n.122 del 30 luglio 2010 all’art 43 viene disposta la
creazione di Zone a burocrazie zero (Zbz). La norma disciplina le cosiddette “zone a burocrazia zero” da
istituire, nel rispetto del principio di sussidiarietà e dell’art.118 della Cost., in area non soggette a vincolo, con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze,
di concerto con il Ministro dell’Interno. In tali zone le nuove iniziative produttive godranno di alcuni
vantaggi legati alla semplificazione delle attività procedimentali necessarie per il loro insediamento. In
particolare, i provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto avviati
su istanza di parte, fatta eccezione per quelli di natura tributaria, di pubblica sicurezza e di incolumità
pubblica sono adottati in via esclusiva da un Commissario di Governo che vi provvede, ove occorrente,
previa convocazione di apposite Conferenze di servizio di cui alla legge n.241/1990. Qualora entro 30 giorni
dall’avvio del procedimento non verrà emanato alcun provvedimento, quest’ultimo si intende adottato a
favore del richiedente. Si tratta sostanzialmente dell’introduzione, per tale fattispecie, del meccanismo del
silenzio-assenso. La norma sancisce anche che nella realizzazione ed attuazione dei piani di presidio e
sicurezza del territorio, le Prefetture assicurano priorità assoluta alle iniziative da assumere negli ambiti
territoriali in cui insistono le zone in questione.
97
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1) le imprese che fanno parte della rete possono esercitare, congiuntamente un’opzione
per la tassazione unitaria del reddito ai fini Ires;
2) la rete, a seguito dell’opzione da parte delle imprese ad esse aderenti, acquista la
qualifica fiscale di soggetto passivo Ires;
3) le reti, qualificate fiscalmente come soggetti Ires, sono soggette alle norme fiscali
relative alla tassazione di gruppo di imprese residenti (c.d. consolidato nazionale):
4) il reddito imponibile, ai fini Ires, della rete è dato dalla somma algebrica dei redditi
disponibili delle imprese facenti parte della stessa rete che hanno optato,
contestualmente, per la tassazione unitaria di gruppo;
5) le reti d’impresa possono concordare in via preventiva e vincolante con l'Agenzia
delle entrate, per la durata di almeno un triennio, il volume delle imposte dirette di
competenza delle imprese appartenenti da versare in ciascun esercizio, avuto
riguardo alla natura, tipologia ed entità delle imprese stesse, alla loro attitudine alla
contribuzione e ad altri parametri oggettivi, determinati anche su base presuntiva;
6) non concorrono a formare la base imponibile in quanto escluse le somme percepite o
versate tra le imprese appartenenti alla rete in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o
attribuiti;
7) le reti d’impresa possono concordare in via preventiva e vincolante per la durata di
almeno un triennio, il volume dei tributi, contributi ed altre somme da versare per ciascun
anno da parte di ogni impresa facente parte della rete;
8) i tributi, i contributi e le altre somme da versare, se la rete ha optato per la tassazione
unitaria, sono determinate in cifra annuale per la rete nel suo complesso.
Dato atto di tutte le possibilità concesse dalla norma in commento alle imprese all’interno
di una rete, è bene però sottolineare i limiti della norma che, per molti versi, appare ancora
troppo generica nella sua formulazione con il serio rischio di presentare profili di dubbia
compatibilità con le disposizioni comunitarie contravvenendo al divieto di aiuti di stato.
Forse il legislatore avrebbe dovuto assimilare la normativa dei Distretti produttivi ai
Distretti turistici senza porre il vincolo della creazioni di contratti di rete per le agevolazioni
amministrative e finanziarie e estendendo le agevolazioni fiscali ai soli Distretti turistici e non
anche a quelli che costituiscono il contratto di rete.
8. L’Aiuto alla crescita economia e le reti:cenni – L’Aiuto alla crescita economica (ACE),
è la nuova deduzione dal reddito d'impresa tassabile ai fini IRES e IRPEF introdotta dall'art.
97
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1 del Decreto Monti (D.L. n. 2012011)100 e disciplinato dal DM 14 marzo 2012, allo scopo di
incentivare la capitalizzazione delle imprese, favorendone al tempo stesso, la crescita
economica101.
La finalità della nuova previsione normativa è quella di una maggiore neutralità, nel senso
del perseguimento di un maggior equilibrio nel trattamento fiscale delle diverse fonti di
finanziamento delle imprese, nella consapevolezza dello squilibrio esistente tra
indebitamento e finanziamento con capitale proprio. L'obiettivo è, quindi, quello di una
maggiore capitalizzazione e del rafforzamento patrimoniale delle imprese mediante la
riduzione del carico fiscale sul costo del capitale proprio.
In particolare, l’Aiuto alla crescita economica si concretizza, a partire dal periodo
d’imposta 2011, in una variazione in diminuzione dal reddito d’impresa di un ammontare
pari al tre per cento dell’incremento di capitale proprio rispetto a quello di riferimento alla
chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010, rappresentato dal patrimonio netto di
bilancio al netto dell’utile del medesimo esercizio.
È bene rammentare che non tutti gli incrementi di capitale assumono rilievo ai fini in
discorso. In via generale, risultano agevolabili i conferimenti in denaro (che rilevano dalla
data di versamento) e gli utili accantonati a riserva con esclusione della quota destinata a
riserve non disponibili, che rilevano dall’inizio dell’esercizio in cui sono accantonati.
Come si evince dalla relazione di accompagnamento al decreto del 14 marzo 2012 sono
rilevanti agli effetti del beneficio le riserve in sospensione di imposta per le reti d’impresa, a
nulla rilevando che l’accantonamento a riserva degli utili sia finanziato all’ottenimento di un
regime in sospensione ai fini delle imposte sui redditi.
L’incremento rilevante deve essere considerato al netto di alcune variazioni in
diminuzione che rilevano dall’inizio dell’esercizio in cui si verificano: si tratta delle riduzioni
di patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo effettuata, ai soci; degli acquisti di
partecipazioni in società controllate; degli acquisti di azienda o di rami d’azienda.
9. Conclusioni - In conclusione, non può che riconoscersi al contratto di rete la capacità
di incidere positivamente nel processo di crescita delle piccole-medie imprese.
La forte pressione competitiva sul sistema imprenditoriale accentuata dalla crisi possono
essere affrontate proprio con le reti di imprese, la cui costituzione risulta fondamentale per le
Convertito con modificazioni in L. 22 dicembre 2011, n. 214.
È del tutto evidente come l’agevolazione, che presenta analogie con la vecchia Dual income tax (D.Lgs.
18 dicembre 1997, n. 466), sia finalizzata a contrastare la cronica sottocapitalizzazione delle imprese italiane,
anche alla luce delle disposizioni recate dagli accordi c.d. di Basilea II e Basilea III.
100
101
98
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imprese di minore dimensione che hanno difficoltà strutturali legate a deficit di gestione e di
capacità tecniche oltre agli ostacoli rappresentati da carenze di mercato in settori quali la
ricerca, il credito, l’innovazione, l’ambiente102.
Le politiche agevolative fiscali previste dalla legislazione vigente nel caso di stipulazione
di contratti di rete, potranno essere utili ad abbassare,almeno in parte, il “gap” esistente tra le
piccole imprese italiane e le imprese, per lo più multinazionali, operanti nel mercato globale.
Dall’analisi condotta emerge come l’agevolazione sia a sostegno degli investimenti che le
imprese devono realizzare per perseguire lo scopo del contratto: cioè «accrescere,
individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività
sul mercato.
Tuttavia, pur avendo enucleato il fine dell’agevolazione, il quadro normativo risulta
incompleto e lascia aperti alcuni spazi di incertezza interpretativa. Una lettura formale, solo
per fare alcuni esempi, porterebbe a ritenere che l’accantonamento in apposita riserva degli
utili destinati al fondo patrimoniale comune sia una facoltà per l’impresa e non un obbligo
come invece emerge dalla lettura competa della norma. Analogamente, anche la natura stessa
del beneficio - non concorrenza alla formazione del reddito d’impresa imponibile degli utili
destinati al fondo patrimoniale comune - non viene enunciata immediatamente dalla norma,
ma si deve desumere a contrario dalle disposizioni che sanciscono la concorrenza alla
formazione del reddito in caso di utilizzo della riserva.
È, pertanto, auspicabile un nuovo intervento normativo integrativo o, perlomeno, la
predisposizione di linee guida per la costruzione di contratti standard al fine di far utilizzare i
contratti d’impresa che, come detto, sono uno strumento potenzialmente in grado di
incidere sullo sviluppo delle imprese.
102
Cfr Comunicazione della Commissione europea C(2008) 394 del 25 giugno 2008.
99
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Personal Income Tax in the Tax System of the Czech Republic
di Michael Kohajda
Abstract
In this article readers can find fundamental information about the system of taxes in the
Czech Republic at the beginning and more concrete information about taxation of incomes
of natural persons in the last part. The article starts with some theoretical issues from the
Czech financial law theory and then brings overview of taxes in the Czech Republic with
basic specification of structural components of each of the taxes and some important or
interesting specific aspects of these taxes. At the end of the article the reader can find an
example of personal income taxation.
In this article readers will be able to find fundamental information about the system of taxes
in the Czech Republic at the beginning and more concrete information about taxation of
incomes of natural persons in the last part. The aim of the article is to offer some concrete
information to readers willing to start any comparative work concerning the Czech taxes.
The Czech tax system had substantially changed after velvet revolution in autumn 1989
when an economic transformation started in the former Czechoslovakia with the aim to
change central planned economy into modern free market economy. Later the process was
affected by a split of the federation into two separated countries – the Czech Republic and
Slovakia, on 1st January 1993. In this article we are going to deal just with the situation after
1st January 1993 when the independent Czech Republic was established.
At the beginning of the nineties there was an idea to have an act where all tax system would
be defined and all taxes implemented into legal order and to have other acts concretely
implementing each of taxes around this fundamental act. For this idea the act no. 212/1992
Coll., on System of Taxes was adopted. But this idea was overcome during several years and
nowadays there is just a specific act for each of taxes that exist in the Czech tax system.
More concrete information about these acts and taxes can be found below. Because these
issues are very broad we are going to deal only with fundamental elements of each tax and to
add some interesting comments to each of them.
There are several basic definitions of a term “tax” in the Czech theory, but in general the
term “tax” is defined as an obligatory amount of money determined by an act and collected
100
2/2012
to fill public budgets up on non-equivalent and irrecoverable principle103. But even more
complex definitions of the term “tax” can be found in the Czech theory104. From the
theoretical point of view every tax is constructed of components usually called as: subject,
object and content of tax legal relation, tax base, tax rate and condition of payment.
All taxes can be divided into basic categories according to the Czech financial law science.
Basically we distinguish between direct and indirect taxes. The value added tax, excise taxes
and energetic (also called environmental) taxes belong into a group of indirect taxes. Income
taxes that are composed by the tax on incomes of natural persons and by the tax on incomes
of legal entities, the road tax, the inheritance tax, the gift tax, the real-estate transfer tax and
the real-estate tax belong to the group of direct taxes.
The subject of tax legal relation is a taxpayer and we distinguish between two kind of
taxpayer: i) a natural person or a legal entity whose income, property or transactions is object
of tax, or ii) a natural person or legal entity who has responsibility to calculate the tax, collect
it or withheld it and transfer it to a tax administrator. The second type of the taxpayer is very
specific for indirect taxes, but can be found in the case of direct tax of incomes of
employees as well. The first type of the taxpayer exists only as the taxpayer of direct taxes.
The object of tax legal relation is a legally relevant object determined by an act that is a
reason for the tax duty. It is usually income, possession, transfer or using of property,
consumption etc. The content of tax legal relation can be described as all rights and duties
that are inherent content of legal relation.
The tax base is a quantification of the object of tax legal relation, usually in physical units of
measurement as tons, hectolitres, square meters etc. The tax rate is a rate between the tax
base and the amount of tax. Several basic kinds of tax rate are distinguished in theory, but
only some of them exist in practice. We theoretically know a fixed tax rate (the rate as an
amount of money is fixed irrespective of the quantity of the tax base), a percent tax rate (the
tax rate is determined in percent of the tax base). There are three kinds of the percent tax
rate: i) linear tax rate (the same percent of tax rate is applied irrespective of the quantity of
the tax base), ii) progressive tax rate (the higher tax base is the higher percent of tax rate is
applied), and iii) degressive tax rate (the higher tax base is the lower percent of tax rate is
applied). There is only the fixed tax rate, the linear percent tax rate and the progressive
percent tax rate in the Czech tax system in practise.
comp. HUDCOVA, Zdenka. Mozne definice pojmu dan, poplatek a clo z hlediska vyuky predmetu financni
pravo. In: Acta Universitatis Carolinae Iuridica, No. 3-4., Vol. 2003. P. 94. ISSN: 0323-0619
104
comp.
BOHAC,
Radime.
Pojem
dan
v danovych
zakonech.
Available
from:
http://www.radimbohac.cz/userFiles/konference/prispevek-dny-prava-2011-final.pdf (cit. 3.5.2012)
103
101
2/2012
The condition of payment can be mainly determined as terms of tax payment, some taxes
can be paid in one term, others in several part payments. Some taxes must be paid by
advance payments.
According to the Czech Constitutional Court interpretation of article 11 paragraph 5 of the
Act. No.2/1993 Coll., Charter of Fundamental Rights and Freedoms (that is the most
important general rule of the Czech constitutional order concerning taxes and says “Taxes
and fees may be levied only on the basis of law.”) any tax or fee can be levied only on the
basis of legal rule with the legal power of act (i.e. not by ordinances of municipalities or
ministries). In concrete - each of structural components of tax must be determined directly
by an act otherwise the tax would be levied non-constitutionally.
Now we are going to introduce fundamental information about every Czech tax starting
with indirect taxes. As the value added tax is completely harmonized within member states
of the European Union it is not necessary to present much information about it. The value
added tax was adopted on 1st January 1993 into the Czech tax system for the very first time.
Nowadays the value added tax is regulated by Act no. 235/2004 Coll., Value Added Tax Act,
which was adopted because of the entrance of the Czech Republic among the countries of
the European Union.
As is usual the objects of the value added tax are: supply of goods or transfer of real-estate
property for asset consideration by a person obliged to pay the tax during performing of
economic activity in the Czech Republic; or supply of service for asset consideration under
the same conditions; or an acquisition of goods from another member state of the European
Union for asset consideration; or an import of goods into the Czech Republic. Subjects of
the tax are natural or juridical persons who independently perform economic activities in the
Czech Republic.
If the turnover of the person exceeds 1.000.000 CZK (cca 40.000 EUR) in the past twelve
consecutive months the person will be obliged to register for the valued added tax as a value
added tax taxpayer. If the person is obliged to register he must fulfil the registration form
until the fifteenth day following the end of the month when the turnover exceeded this sum.
The person becomes the value added tax taxpayer in the first day of the third month after
the end of the month when the relevant turnover was reached. This process can be called as
obligatory registration to the value added tax, but every person who is subject of the tax can
register to the value added tax voluntarily.
There are two tax rates today in the Czech Republic, the basic tax rate of 20 % and the
reduced tax rate of 14 % (mainly applied for food, drugs, books, social living premises etc.).
102
2/2012
Not yet forceful amendment of the Value Added Tax Act decreases the basic tax rate to 17,5
% and abrogates the reduce tax rate from the beginning of the next year - but we are quite
sure that this amendment will be changed very soon (and before it becomes forceful)
because of general economic situation and lack of tax revenues in the Czech budgets.
(During several last years the basic tax rate was decreasing from an original 23 % in 1993,
over 21 % to the 19 % and back to 20 % two years ago, the reduced tax rate was increasing
from an original 5 % in 1993 to 9 %, 10 % and actual 14 %.)
Actually most interesting aspect of the Czech value added tax is the application of the
reduced tax rate on social living premises which are determined very widely (a flat with a
living floor area less than 120 m2 and family house with a living floor area less than 350 m2)
and concerns more than 90 % of premises built for living in the Czech Republic. The next
interesting aspect is an application of reverse charge principle on all building services which
is completely new nowadays and was attached to a group of several specific kinds of services
(e.g. disposal with a steel scrap) under this principle. On the contrary the Czech Republic
was not allowed to use the reverse charge principle on fuels and oil even after several
requests to the European Commission.
The excise taxes are common indirect taxes which are collected in the Czech Republic from
the beginning of the nineties. Nowadays the excise taxes are determined by Act no.
353/2003 Coll., Excise Taxes Act and the following five kinds of excise taxes are levied by
the act in the Czech Republic: i) excise tax on mineral oils, ii) excise tax on spirits, iii) excise
tax on beer, iv) excise tax on wine and its intermediate products, and v) excise tax on
tobacco products.
All the mentioned selected products are objects of the excise tax when they are produced in
the Czech Republic or other country of the European Union or when they are imported into
a country of the European Union from third country.
The petroleum oils and natural gases like fuels, fuel gases, heavy heating oils, lubricant oils
and other similar products are the concrete object of the excise tax on mineral oils. The tax
base is usually 1.000 litres of the oils at the temperature of 15 °C (all types of fuels, oils and
heavy gas) or 1 ton (liquefied gases). The rates of excise taxes on mineral oils actually differ
from 0,- CZK to 13.710 CZK (cca 550 EUR) for 1.000 litres or 1 ton.
The excise tax on spirits is levied on alcoholic drinks other than beer and wine and its semi
products. The tax is levied on products within more than 22 % of ethanol. The tax base is
100 litres of ethanol at the temperature of 20 °C of the product. The tax rate is generally
28.500 CZK (cca 1.140 EUR) for 100 l of pure ethanol in the product. There is only one
103
2/2012
reduced tax rate for ethanol in spirits made from home grew fruits which is 14.300 CZK
(cca 572 EUR) for 100 l of pure ethanol in a product.
The excise tax on beer is levied on beer (i.e. alcoholic drink made from hopped wort with
more than 0,5 volume percent of ethanol in the product). Home producers of beer are
advantaged. Subjects who produce beer at home for own consumption and produce not to
exceed 200 l of beer per year have to announce their production to customs officials but
they do not pay the tax. One another group of beer producers are advantaged too - small
independent breweries that do not produce not to exceed 200.000 hl of beer can use
reduced tax rates from 16,00 CZK (cca 0,64 EUR) to 28,80 CZK (cca 1,15 EUR) according
to amount of its production per 100 hl of beer and each whole percent of extract of original
wort. For all other producers a general tax rate is 32,00 CZK (cca 1,28 EUR) per 100 hl of
beer and each whole percent of extract of original wort.
The excise tax on wine and intermediate products is levied on wine made from grapes as
well as products made from other fruits (intermediate products). Small producers of so
called calm wine are advantaged as well - persons whose production does not exceed 2.000 l
of product per year do not have to pay excise tax on wine (even if they sell the wine). The
tax base is 100 litres of wine or intermediate product. The tax rate depends on kind of the
product. The rate for so called calm wine is 0,- CZK (but it is actually intended by the
Ministry of Finance to increase the rate to 1.000 CZK, i.e. cca 40 EUR, per 100 litres). The
tax rate is 2.340 CZK per 100 litres for so called sparkling wine and all other products.
The excise tax on tobacco is the last one of excise taxes. Cigarettes, cigars, cigarillos and
tobacco are the object of this tax. A tax base and a tax rate depend on kind of product. The
tax base of cigars, cigarillos is amount in pieces, of tobacco is amount in kilograms. The tax
rate of cigars, cigarillos is 1,25 CZK (cca 5 cents) per a piece, the tax rate of tobacco is 1.400
CZK (cca 56 EUR) per a kilogram. The tax rate for cigarettes is combination of the percent
part of the price that is 28 % and of the fixed part that is 1,12 CZK (cca 4,5 cent) per piece.
But the complete tax rate consisting of percent part and fixed part must be at least 2,10
CZK (cca 8,5 cent) per a peace of cigarette.
The last in group of indirect taxes are energetic taxes which are very often called as
environmental taxes too. But in the Czech financial law theory the term energetic prevails.
These taxes are the newest ones in the tax system, they were introduced into the tax system
on 1st January 2008 according to requirements of the European legislation and they do not
differ from similar taxes in any other European country. The taxes are determined by Act
no. 261/2007 Coll., on Stabilisation of Public Budgets. The objects of these taxes are natural
104
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gas and some other gases, carbon fuels and electricity which can be determined as energetic
goods (it is the origin of their name in the Czech theory). But its original purpose was to levy
a tax on pollution occurring because of heating of these products. The tax base of energetic
taxes is a MWh or a GJ of burnt energy. The tax rates widely differ.
The group of direct taxes is composed of income taxes which are represented by the tax on
incomes of natural persons and the tax on incomes of legal persons, and property taxes
which are represented by the road tax, the inheritance tax, the gift tax, the real-estate transfer
tax and the real-estate tax.
The road tax is imposed on all motor vehicles that are used in business and on all vehicles
used for transportation of materials whose weight is over 3,5 tons. The tax is determined by
Act no. 16/1993 Coll., on Road Tax. The tax base is different according to kind of vehicle.
In case of personal car the tax base is an engine capacity, in case of other vehicles the tax
base is combination of weight of the vehicle and the number of axles of the vehicle. The tax
rate is from 1.200 CZK (cca 48 EUR) to 4.200 CZK (cca 168 EUR) for personal cars
depending on the engine capacity. The tax rate is from 1.800 CZK (cca 72 EUR) to 50.400
CZK (cca 2.016 EUR) for a heavy vehicle depending on the weight of the vehicle and the
number of axles of the vehicle. It is necessary to add the information that except for the
road tax everybody who wants to drive a vehicle up to 3,5 tons on motor highways must pay
a year based toll and all vehicles above 3,5 tons using highways and roads of the first class
must pay an electronic toll based on the run millage.
The inheritance tax, the gift tax and the real-estate transfer tax belong to the group of
transfer taxes. These taxes are regulated by the Act no. 357/1992 Coll., Inheritance Tax, Gift
Tax and Real-Estate Transfer Tax Act. General object of these taxes is the transfer of a
property. The difference among these three taxes depends whether the transfer of a property
is realized for a payment (real-estate transfer tax) or whether it is gratuitous (inheritance tax
or gift tax). In the case that the transfer is gratuitous, it depends if the transfer is inter vivos
(gift tax) or mortis causa (inheritance tax).
The object of the inheritance tax is an acquisition of a property by inheritance. The tax is
levied in inheritance of property according following conditions concerning to inherited
property: i) it is a real-estate property located in the Czech Republic (irrespective of the
citizenship or the permanent address of the decedent), ii) it is a movable property located
105
2/2012
both in the Czech Republic or abroad if the decedent was a citizen of the Czech Republic
and s/he had his/her permanent address in the Czech Republic as well, iii) it is a movable
property located in the Czech Republic if the decedent was a citizen of the Czech Republic
and s/he did not have her/his permanent address in the Czech Republic, or iv) it is a
movable property located in the Czech Republic if the decedent was not a citizen of the
Czech Republic. The taxpayer of the inheritance tax is an heir who acquires the inheritance.
The tax base is the price of the inheritance. The tax rate from 7 % to 40 % depending on the
value of the inheritance is levied only if the decedent and the heir are not close relatives.
After application of the tax rate must be applied coefficient that equals 0,5 which is the
difference between inheritance and gift tax in the similar situations.
The object of the gift tax is a gratuitous acquisition of property (real-estate, movable
property, or any benefits) on the basis of an act in law. A donation is the object of the tax if
a movable property is donated in the Czech Republic as well as from abroad to the Czech
Republic or from the Czech Republic to abroad. The object of the gift tax is always a
donation of a real-estate located in the Czech Republic. A donation among relatives is widely
exempted – very similar as in the case of inheritance tax. Again there is the progressive tax
rate is from 1 % to 40 %, but there is no coefficient to be applied on calculated amount of
tax.
The object of the real-estate transfer tax is payable transfer of the ownership title to a realestate property. The real-estate tax is paid mostly by the transferor of the property. The tax
base is the price of the real-estate and it is the higher price of the agreed price or the price
ascertained pursuant to the act on property valuation. The tax rate is linear and it is 3 % of
the tax base.
The real-estate tax is generally quite low in the Czech Republic and it is determined by Act
no. 338/1992 Coll., on Real-Estate Tax. The object of the real-estate tax, on the contrary to
the real-estate transfer tax, is a possession of a real-estate property. There is a tax on lands
and a tax on buildings, flats and non-residential premises. The system of the real-estate tax is
administratively based in the Czech Republic that means that the tax base is not defined
according to the actual price of a real-estate property, but usually according to the size of the
real-estate, its location and administratively determined prices. The system of tax rate is quite
wide and complicated depending on the kind of property and the place where it is situated.
Just for example we can show the highest possible tax rate for 1 square meter of flat in the
106
2/2012
center of Prague (where are the highest possible rates in general) can be at most 50 CZK
(cca 2 EUR) per year.
The last of the direct taxes are the income taxes that consist of the tax on incomes of
juridical persons and the tax on incomes of natural persons, both of them are regulated by
one act - Act no. 586/1992 Coll., Incomes Taxes Act. Income taxes together with the value
added tax are the most important taxes with the highest tax revenues for the public budgets.
Unfortunately both income taxes are well known for its complicity and very often changes
of legislation. These are the reason why the legislation on income taxes is very unpopular.
Already several years there are some works on completely new act on income taxes at
Ministry of Finance, but it is politically very delicate question which will take a long time to
finish it. Because of the complicity there is not enough space to analyze the act, specially the
provisions regulating income tax of juridical persons.
Very briefly, subjects of the juridical persons’ income tax are divided to tax residents and tax
non-residents. The object of the tax is an income from all activities and from all
management with all kinds of property. There is a linear tax rate of 19 % from the year 2010
(during the recent history the tax rate decreased from 35 % in 1993). Even the tax rate is
quite low nowadays; the juridical persons’ income tax legislation is very often the aim of
critique because of its complicity.
The last tax from the Czech tax system is the natural persons’ income tax that is usually
most interesting kind of tax for readers. There are two kinds of tax subjects - tax residents
and tax non-residents. The tax resident is the natural person with his residential address in
the Czech Republic or the person who usually stays in the Czech Republic (it means for at
least 183 days per year on aggregate). Person who does not fulfill these conditions is called a
tax non-resident. The tax residents are liable to tax on all incomes arising from sources both
in the Czech Republic and abroad. The tax non-residents are liable to tax on incomes arising
only from sources in the Czech Republic.
The object of natural person’s income tax is divided into five kinds: i) income from
dependent activity (employment) and emoluments of office-holders; ii) income from
business and other independent activity; iii) income from capital; iv) income from rental; and
v) other incomes.
Incomes from each of these kinds make a partial tax base and all partial tax bases make
together a whole tax base of the tax. It is important to mention that the partial tax base from
107
2/2012
employment consists of a gross salary increased by the amount of money paid for obligatory
state social welfare and health assurance by the employer of the employee (which is together
about 34 % of the amount of a gross salary), it is called as a supergross salary. Then several
tax allowances (for example an allowance in the amount of value of charity gifts, interests
paid on a mortgage loan etc.) can be used to decrease the tax base. The decreased tax base
shall be assessed by 15 % flat tax rate. After this assessment, the tax can be decreased by
several deductible items – the main of them is a deductible item for a taxpayer that equals
24.840 CZK (cca 994 EUR).
Very specific provision is determined as allowance for taxpayers with children. For every
child the taxpayer can decrease the assessed tax by amount of 13.404 CZK (cca 536 EUR).
This allowance can be used till amount of assessed tax (till zero), but if the taxpayer earned
during the year at least six times of minimal salary, he is allowed to use this allowance till
60.300 CZK (cca 2.412 EUR) below zero tax duty, e.i. the state will pay him this amount
instead he would pay the tax.
We can calculate an example of person with two children and with the minimal allowed
salary who is working whole year to show how the practice is. The minimum salary is 8.000
CZK (cca 320 EUR) of gross salary per month, i.e. 96.000 CZK (cca 3.840 EUR) per year.
We must calculate a supergross salary (96.000 x 1,34 = 128.640, rounded up on 128.600
CZK). The person does have not any expenses that could be used as the tax allowances
deductible from the tax base. Now we use a flat tax rate of 15 % on the tax base of 128.600
CZK and we reach the tax 19.290 CZK (cca 772 EUR), after this step we can use the
allowance for taxpayer himself of 24.840 CZK and because the person has two children (and
fulfills all needful conditions) we can use the allowance for two children (2 x 13.404 CZK).
It means we decrease calculated tax of 19.290 CZK by all tax allowances of 51.648 CZK (i.e.
24.840 + 13.404 + 13.404) and we get the final tax “duty” (-) 32.358 CZK (cca 1.294 EUR)
that will be paid by state to taxpayer as so called tax bonus.
Really short overview of the Czech system of taxes was brought in this article. There is
much relevant information that should be written but there is not enough places to really
write them here. This article hopefully may help interested readers to be orientated in the
system and to better know what kind of concrete information want to find out.
108
2/2012
Il legislatore fiscale finalmente sensibile ai dettami europei: la recente disposizione
in tema di accertamenti IVA e scudo fiscale.
di Roberta Alfano
Abstract - The article 8, paragraph 16, letter i) of decree 16 of 2012, has explicitly stated
that the so-called ‘tax shield’ does not exclude the Italian VAT assessment. The provision
shows that the legislator intends to conform finally to the dictates of European
jurisprudence. After a few judgements of European Court of Justice sentencing Italy on the
Vat tax amnesty, the legislator marks his own discretion in compliance of the European
fiscal policies too.
SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. La disciplina italiana dello scudo fiscale - 3. segue: i
recenti provvedimenti normativi in materia– 4. La definizione agevolata IVA nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia riferita all’Italia – 5. Conclusioni
1. Introduzione - Il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, recentemente convertito con la L. 26 aprile
2012, n. 44 ha dettato una serie di innovative disposizioni relative al regime fiscale correlato
all’emersione di capitali. In particolare il decreto, di stampo chiaramente filoeuropeista, con
l’art. 8, comma 16, lettera i), ha esplicitamente stabilito che nell'ambito degli effetti del c.d.
scudo fiscale «non è comunque precluso l'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto»; i
contribuenti che hanno aderito allo scudo e che subiscono un accertamento con riferimento
agli anni “coperti” dall'emersione non possono avvalersi degli effetti della sanatoria ai fini
dell'accertamento dell'IVA.
Si tratta di una disposizione di particolare rilievo, che esprime l’intenzione del legislatore
di conformarsi ai dettami della giurisprudenza europea che ha in molteplici occasioni
dichiarato l’illegittimità di pratiche interne condonative, in particolare italiane: fra queste
certamente possono annoverarsi le diverse norme volte all’emersione delle attività detenute
all'estero ed al successivo rimpatrio o regolarizzazione di capitali.
L'emersione delle attività sommerse e il successivo rimpatrio o regolarizzazione di capitali
si caratterizza generalmente - per quanto con caratteristiche peculiari diversi nei vari
ordinamenti - per l’inibizione dell'attività di accertamento tributario riferita ai maggiori
imponibili accertati fino a concorrenza degli importi emersi.
La pratica dello “scudare” ha avuto rilevante seguito fra i vari ordinamenti, quale
espressione della libertà interna dei singoli legislatori, con i limiti del rispetto dei principi
109
2/2012
fiscali europei105. Si tratta di un provvedimento di condono fiscale “impuro” intrinsecamente
agevolativo, che, come ogni fattispecie volta alla rimessione totale o parziale del debito
tributario, solleva però di per sé stessa molteplici perplessità sull’effettivo rispetto della
normativa europea.
In Italia, si sono succedute più versioni di scudo; l’ultimo, il c.d. scudo ter regolato dall’art.
13-bis del D.L. 1 luglio 2009 n. 78 inserito con l’art. 1 della legge 3 agosto 2009 n. 102, si è
prestato immediatamente a molteplici critiche in merito alla compatibilità interna106 ed
europea, in particolare proprio con riferimento alla disciplina IVA107.
La recente disposizione normativa, in linea con i dettami europei, ha altresì scongiurato
l’apertura di una procedura d’infrazione verso l’Italia sollecitata da alcuni europarlamentari
italiani108 proprio per il possibile contrasto dello scudo con la disciplina IVA: le Autorità
fiscali italiane hanno infatti rassicurato la Commissione UE nei diversi incontri avvenuti a
Bruxelles, sul fatto che non vi sarebbe stata copertura IVA, così come poi esplicitamente
previsto dall’art. 8, comma 16, lettera i) del D.L. 12/2012.
Prima di analizzare le recenti disposzioni, appare in primo luogo opportuno tratteggiare i
diversi provvedimenti interni per l'emersione e la conseguente regolarizzazione delle attività
detenute all'estero.
2. La disciplina italiana dello scudo fiscale - Il D. L. 25 settembre 2001 n. 350, convertito
con legge 23 novembre 2001 n. 409 e successivamente prorogato con il D.L. 24 dicembre
2002 n. 282 aveva previsto, in occasione del changeover della lira con l'euro, l'emersione e la
conseguente regolarizzazione delle attività detenute all'estero da taluni soggetti residenti in
Italia. Era stata prevista la possibilità di rimpatriare denaro e attività di natura finanziaria,
ovvero di regolarizzare le proprie attività all'estero, corrispondendo una somma pari al 2,5%
delle attività rimpatriate o regolarizzate oppure sottoscrivendo speciali titoli di Stato per un
importo pari al 12% delle attività. Era dunque stabilita una duplice opzione tra il pagamento
di una sanzione pari al 2,5% dell’ammontare da condonare e la sottoscrizione di titoli di
Stato italiani ad un tasso di interesse inferiore a quello di mercato, per un importo pari al
Per un’analisi inerente anche altri Paesi membri E. TRAVERSA, I condoni fiscali degli Stati membri e la loro compatibilità con il
diritto dell'Unione Europea, in Dir. prat. trib. int., 2010, I, 253, par. B2.
106 F. FALCONE-A. IORIO, con lo scudo difesa a due stadi, in il sole 24 ore, 15 ottobre 2010, 35; A TOMMASSINI, E’ davvero
necessaria l'esibizione immediata della dichiarazione riservata per lo scudo fiscale? in Corr. trib., n. 43/2010, 3525; A. IORIO, Invalidità
dello scudo fiscale: verifiche del fisco e «rischi» per il contribuente in Corr. trib. n. 43/2010, 3550; G. BIZIOLI - C. SACCHETTO,
Quei principi caduti sullo scudo in www.lavoceinfo.it del 29 gennaio 2010.
107 Analogamente sono stati prospettati dubbi sulla compatibilità con la direttiva europea sull’antiriclaggio, posto che la
legge sullo scudo fiscale impedirebbe alle banche di denunciare movimenti di capitali sospetti.
108 Si tratta della denuncia degli europarlamentari L. Magistris, V. Prodi, N. Rinaldi e G. Uggias.
105
110
2/2012
12% della somma da regolarizzare109. Soggetti passivi erano quelli interessati alla disciplina
del cd. monitoraggio fiscale ex lege 227/1990: le persone fisiche titolari di redditi d'impresa o
di lavoro autonomo, gli enti non commerciali, le società semplici e le associazioni equiparate,
ai sensi dell'art. 5 del T.U.I.R., fiscalmente residenti nel territorio dello Stato110. Gli effetti
prodotti dall’adesione alla sanatoria si sostanziavano nella preclusione di ogni accertamento
tributario e contributivo per i periodi di imposta non scaduti, limitatamente agli imponibili
rappresentati dalle somme o dalle altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio;
nell’estinzione delle sanzioni amministrative, tributarie e previdenziali e quelle sul
monitoraggio fiscale; nell’esclusione della punibilità per i reati di cui all’art. 8, comma 6, lett.
c), della legge 289/2002111 .
La copiosa attività interpretativa dell’Agenzia dell’Entrate112 ne aveva definito le modalità
applicative, prevedendo, ad esempio, l’impossibilità di estendere la sanatoria anche alle
somme detenute in Italia derivanti da sottofatturazioni e, di converso, la possibilità di
procedere al rimpatrio o alla regolarizzazione di altre attività comunque detenute all'estero,
fra cui quelle costituite direttamente al di fuori del territorio dello Stato, qualora fossero state
violate le disposizioni in materia di monitoraggio.
Lo scudo fiscale prevedeva che i contribuenti che optavano per il rimpatrio delle attività
finanziarie non dichiarate avevano altresì diritto a porre in essere una dichiarazione
anonima113; gli investitori che mantenevano i loro capitali all’estero erano invece tenuti a
dichiarare personalmente al fisco i propri depositi in banche estere114.
S. CAPOLUPO, Lo scudo fiscale: modalità di rientro dei capitali ed effetti fiscali in il fisco, n. 38 / 2001, 12489; L. SALVINI, lo
"scudo fiscale" in il fisco, n. 42 / 2001, 13577; A. MONTI, «rientro» e «regolarizzazione» dei capitali detenuti irregolarmente all'estero in
Corr. Trib., n. 14 / 2002, 1234; G. MARONGIU, Il rimpatrio delle attività detenute all'estero in Corr. Trib., n. 18/2002, 1577;
110 Erano escluse le società di persone ed equiparate, le società di capitali e gli enti commerciali pubblici e privati. Rileva G.
MARONGIU, Il rimpatrio delle attività detenute all'estero, cit., 1577 che appare agevole coglierne la ragione di opportunità, più
difficile darne una spiegazione in punto di razionalità giuridica, in particolare per le società a stretta composizione familiare.
Analogamente per lo scudo fiscale del 2009, L. TOSI - R. LUPI, Protezione dello scudo fiscale e trattamento deteriore per le societa' in
Dial. trib., n. 4/2010, 369.
111 in particolare si trattava delle previsioni di cui agli artt. 2, 3, 4, 5 e 10 del D. Lgs 74/2000, nell’ipotesi in cui tali reati
fossero riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria.
112 Circ. min. 1 ottobre 2001, n. 85/E, in Corr. Trib. n. 42/2001, 3183; 4 dicembre 2001, n. 99/E, ivi n. 2/2002, 168; 5
dicembre 2001, n. 101/E, ivi n. 2/2002, 175; 30 gennaio 2002, n. 9/E e 13 marzo 2002, n. 24/E, entrambe reperibili in
Banca dati Bigsuite IPSOA.
113 A. FANTOZZI, Concordati, condoni, collette, in Riv. Dir. Trib., , n. 3/2003, 191 evidenzia che le dichiarazioni riservate
tolgono al condono anche quella possibile funzione di "emersione dell'evasione" che ne costituiva l'unica argomentazione a
sostegno.
114 La Commissione ha ritenuto tale differenza di trattamento la conseguenza inevitabile dell’opzione esercitata dal
contribuente di mantenere il proprio capitale all’estero: per il fisco erano necessarie ulteriori informazioni che potevano
essere fornite solo con la dichiarazione nominativa del contribuente, per verificare se la sanzione del 2,5% fosse stata
correttamente calcolata e pagata. A. GIOVANNINI, scudo fiscale e anonimato in Rass. Trib., n. 1 / 2002, 253. La
Commissione aveva ritenuto che l’obbligo di una dichiarazione nominativa per coloro che avevano mantenuto il
patrimonio all’estero trovava fondamento nella necessità per l’amministrazione finanziaria di individuare i redditi riferiti ai
capitali esteri; oltre ciò, era necessario al fisco poter verificare anche in futuro le dichiarazioni dei redditi di tali investitori
esteri, per garantire il successivo pagamento delle imposte.
109
111
2/2012
La Commissione europea aveva rilevato che la sottoscrizione di titoli di Stato si
sostanziava in una misura equivalente al pagamento della sanzione del 2,5% e si era
domandata se l’eventuale incentivo alla sottoscrizione di titoli di Stato, di per sé stesso,
potesse costituire una violazione dell’art. 63 TFUE115. In realtà la norma italiana prevedeva
per i contribuenti due strumenti alternativi di pagamento della relativa sanzione; la
Commissione li aveva ritenuti equivalenti da un punto di vista finanziario, posto che i titoli
di Stato erano emessi ad un tasso di interesse inferiore rispetto al tasso di mercato applicato
in quel momento. In entrambi i casi, dunque, il Tesoro italiano avrebbe ricevuto dal
contribuente un importo equivalente; il contribuente era libero di scegliere una delle due
opzioni senza che fossero previsti incentivi ad acquistare titoli di Stato italiani116. Una tale
percentuale di capitale da regolarizzare non poteva essere considerata quantitativamente in
grado di ostacolare la libera circolazione dei capitali all’interno dell’Unione Europea117.
Lo scudo ter è apparso immediatamente più debole e dal punto di vista europeo sono stati
posti dubbi di legittimità su diversi fronti. In primo luogo si è dubitato della compatibilità
con la direttiva europea sull’antiriciclaggio, posto che la legge sullo scudo fiscale impedirebbe
alle banche di denunciare movimenti di capitali sospetti. E’ stato poi evidenziato il possibile
contrasto con le regole europee in materia di aiuti di stato: lo scudo fiscale favorendo
soltanto una minoranza di evasori rispetto alla maggioranza di contribuenti che hanno
adempiuto correttamente ai propri obblighi fiscali rileva una selettività quanto meno dubbia
rispetto alle disciplina prevista dall’art. 107 e ss TFUE.
Su tutti il dubbio in merito alla copertura dello scudo su possibili accertamenti IVA,
potenziato dalla giurisprudenza europea ed interna in tema di condono IVA, formatasi tra il
primo scudo fiscale e il terzo e che ha visto l’Italia in veste di protagonista principale.
L’analisi di tale giurisprudenza aveva spinto, da un lato parte della dottrina ad ipotizzare,
ben prima della modifica normativa in oggetto, la necessità di esclusione dei tributi
armonizzati dall'ombrello di protezione dello scudo118; dall’altro aveva certamente
Procedura d’infrazione n. 2001/2226
come invece accaduto per altre fattispecie europee, quale la legge portoghese 29 luglio 2005, n. 39-A/2005, in tema di
regolarizzazione fiscale, la RERF, “Regime Excepcional de Regularização Tributária de elementos patrimoniais que não se encontrem no
território português” Il beneficio della sanzione ad aliquota ridotta portoghese era subordinato all’investimento dell’intero
importo da regolarizzare in titoli di Stato interni; la legge italiana prevedeva invece un investimento entro il tetto del 12%
del patrimonio rientrato.
117 Altro dubbio di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea era stato posto in merito al ricorso esclusivo alle banche
con sede in Italia per poter esercitare l'opzione del rimpatrio dei capitali. Si trattava, infatti, di una possibile discriminazione
verso le banche con sede in altri Stati membri, con violazione del principio della libera prestazione dei servizi all’interno
dell’Unione Europea. La Commissione aveva evidenziato che solo le banche con sede in Italia avrebbero potuto adempiere
all’obbligo di versare la sanzione del 2,5% al Tesoro italiano, in sostituzione del contribuente, per cui non si era realizzata
alcuna incompatibilità europea.
115
116
118
F. TUNDO, Gli effetti preclusivi dello scudo fiscale e l’IVA in Corr. Trib., n. 46/2009, 3731;
112
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influenzato l’attività interpretativa dell’Amministrazione in tema di scudo. Non appare infatti
casuale che l’esplicita indicazione dell’opponibilità dello scudo anche con riferimento all’IVA
contenuta nelle circolari sul primo scudo sia poi venuta meno nelle circolari successive. Tale
“dimenticanza” può, maliziosamente, far ipotizzare il tentativo dell’Amministrazione di non
evidenziare (troppo chiaramente) alla Commissione Europea il contrasto europeo dato
dall’opponibilità dello scudo in riferimento all’ IVA: let sleeping dogs lie.
3. segue: i recenti provvedimenti normativi in materia– Il D. L. 16/2012 , rubricato
“Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e
potenziamento delle procedure di accertamento”, ha posto in essere ulteriori cambiamenti
alla disciplina dello scudo, sulla falsariga di quanto già disciplinato con l’art. 19 del D.L. 6
dicembre 2011 n. 201, che aveva previsto un’imposta straordinaria per le attività oggetto di
rimpatrio o regolarizzazione, ancora secretate119.
Circa gli effetti degli scudi fiscali viene esplicitamente stabilita l’inopponibilità di tale
procedura ai fini IVA, chiarendo in via autentica i diversi dubbi prospettatisi sin
dall’emanazione del D.L. 78/2009.
L'Agenzia delle entrate si era inizialmente espressa per la non accertabilità di tutti i tributi
riferiti alle attività oggetto di emersione120. Tale linea interpretativa era stata confermata dal
Governo, secondo cui lo scudo fiscale esplicava effetti anche ai fini IVA: tale forma di
regolarizzazione non si pone in contrasto con la normativa comunitaria, posto che, a
differenza dei condoni, lo scudo non si sostanzia in una rinuncia generale ed indiscriminata
all'accertamento di operazioni soggette ad IVA121.
Il revirement dell’Agenzia non si era fatto attendere: la circolare 29 gennaio 2010, n. 6/E
aveva evidenziato che lo scudo ter si inserisce «in un mutato contesto internazionale
caratterizzato dall'adozione di strumenti di cooperazione internazionale volti a contrastare
fenomeni di evasione fiscale»; l'impianto normativo originario dello scudo si manteneva
inalterato ma doveva essere «fatta salva la conformità alle disposizioni comunitarie in
Si tratta di un’imposta cosiddetta straordinaria dell’1,5% ; gli intermediari finanziari devono trattenere l’imposta dalle
attività regolarizzate o rimpatriate o ricevere la provvista dallo stesso contribuente. Il D. L. prevede altresì un’imposta di
bollo sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari, sulle attività scudate, sugli immobili situati all’estero e sulle attività
finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia. L’applicazione concreta di tali imposte ha dato vita a
diversi problemi interpretativi con riferimento agli intermediari finanziari che devono effettuare il prelievo, con riguardo alla
corretta delimitazione del periodo di riferimento, all’identificazione dei prelievi e delle dismissioni riferite alla
movimentazione dei conti scudati, ai trasferimenti del conto scudato ed alla tassazione delle attività finanziarie detenute
all’estero. E. MIGNARRI, Disposizioni in materia di imposta di bollo sulle comunicazioni relative a prodotti finanziari, attività scudate e
detenute all’estero in il fisco, n. 15 / 2012, 2230.
120 AGENZIA DELLE ENTRATE, circolare 10 ottobre 2009, n. 43/E . Sul punto E. MIGNARRI, L’imposta di bollo
speciale sui rapporti segretati e quella straordinaria sui prelievi, in il fisco ,n. 9/2012, fasc. n. 2, 1363.
121 Ricorda il question time del 21 ottobre 2009 A. IORIO, Scudo fiscale senza copertura Iva: effetti minimi sul primo perdono, in Il
Sole-24 Ore del 26 febbraio 2012 ; analogamente B. SANTACROCE, Le violazioni Iva sono accertabili , ivi, 30 aprile 2012.
119
113
2/2012
materia di IVA e di antiriciclaggio, nonché alle relative interpretazioni della Corte di
giustizia».
Accanto all’attività interpretativa dell’Agenzia altri fattori hanno favorito l’emanazione
della norma in oggetto.
Nel novembre 2009, la già ricordata denuncia posta in essere da alcuni euro-parlamentari
italiani alla Commissione UE proprio relativa all'incompatibilità dello scudo con la
normativa europea in tema di IVA122.
Contestualmente una pronuncia della Corte di Cassazione - da tempo più attenta del
legislatore rispetto ai moniti provenienti dall’Unione Europea – che sanciva, con riferimento
ai reati tributari, l’inapplicabilità dello scudo agli accertamenti IVA. Con sentenza 19 luglio
2011 n. 28724 la III sezione aveva infatti esplicitamente dichiarato che l’adesione allo scudo
fiscale ter offre copertura penale solo limitatamente ai reati in cui sono rilevanti i capitali
trasferiti e posseduti all'estero, poi rimpatriati o regolarizzati123. La causa di non punibilità
prevista dallo scudo si riferisce alle sole condotte afferenti i capitali oggetto della procedura
di rimpatrio e si applica esclusivamente ai delitti in materia di dichiarazione, fraudolenta o
infedele, al delitto di omessa dichiarazione nonché a quello di occultamento o distruzione di
scritture contabili. E’ necessario un vincolo stretto tra reato tributario commesso e somme
scudate. Il venir meno di tale legame lascia il contribuente soggetto alle sanzioni penali
tributarie. Lo scudo fiscale non determina un'immunità soggettiva in relazione a reati fiscali
nella cui condotta non rilevino affatto i capitali trasferiti e posseduti all'estero e
successivamente oggetto di rimpatrio: non è dunque esclusa la punibilità per delitti diversi,
quali l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, le indebite compensazioni o, come nel
caso di specie, l'omesso versamento dell'IVA.
Su tutto la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che, proprio con riferimento all’Italia –
ma non solo – aveva evidenziato la necessità che le diverse fattispecie agevolative interne
siano conformi ai parametri comunitari, in particolare con riferimento - ma non solo – ai
tributi armonizzati.
Il Governo ha dunque posto in essere un’inequivocabile scelta europeista, secondo cui
l’applicazione della normativa sullo scudo non può non avvenire in conformità alle regole
comunitarie.
Tale iniziativa si è poi risolta con un'archiviazione, ovvero senza apertura di una procedura di infrazione nel marzo del
2012.Occore però rilevare che l’archiviazione è avvenuta per meri motivi di opportunità, per assenza di prove fattuali e
concrete dell'interferenza dello scudo rispetto agli accertamenti Iva e non per motivi giuridici come sarebbe accaduto
nell’ipotesi in cui la denuncia fosse stata reputata infondata. A. CRISCIONE, La Ue assolve lo scudo fiscale in Il Sole-24 Ore
del 1 marzo 2012.
123 in il fisco, n. 33/2011, 5372.
122
114
2/2012
L’art. 8, comma 16, lettera i), del D.L. 16/2012 sancisce che è possibile evitare
l'accertamento ai fini delle imposte sui redditi e IRAP, fino a concorrenza delle somme
scudate, sui maggiori imponibili relativi ad attività d'impresa o di lavoro autonomo, ma non
l'accertamento IVA e la possibile irrogazione delle sanzioni. Lo scudo - che in ogni caso
non avrebbe potuto avere effetto con riferimento, ad esempio, ad accertamenti relativi
all'imposta irregolarmente detratta o all'errata applicazione di una aliquota agevolata rispetto
a quella ordinaria –non opera ai fini IVA neppure entro i limiti delle attività emerse ovvero
in riferimento ai maggiori imponibili anche astrattamente riconducibili alle somme o alle
attività costituite all'estero oggetto di emersione124.
La norma ha suscitato immediatamente diversi dubbi interpretativi. In primo luogo
occorre un fisiologico coordinamento con il dettato del comma 3 dell'art. 13-bis del D.L. n.
78/2009, modificato dall'art. 1, comma 1, lett. b), n. 1), del D.L. 3 agosto 2009, n. 103
secondo cui « Il rimpatrio ovvero la regolarizzazione si perfezionano con il pagamento
dell'imposta e non possono in ogni caso costituire elemento utilizzabile a sfavore del
contribuente, in ogni sede amministrativa o giudiziaria civile, amministrativa ovvero
tributaria, in via autonoma o addizionale». Ciò comporta che lo scudo non dovrebbe poter
essere utilizzato né a favore del contribuente per impedire un accertamento IVA, né a favore
del fisco per avviare un accertamento ai fini IVA, nell’ipotesi di terzo tipo in cui sia resa nota
l’adesione del contribuente all'emersione: si pensi ad esempio, alla possibile ma poco
probabile rinuncia volontaria all'anonimato per evitare di pagare la nuova imposta di bollo
speciale sulle attività oggetto di rimpatrio.
La novella ha poi sollevato il dubbio circa il contrasto con l’art. 10 dello Statuto in tema
di affidamento, posta la fiducia riposta dai contribuenti nella non applicazione di possibili
accertamenti per tutti i tributi e il ruolo125. Il contrasto di norme nazionali con principi
europei, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia126, non può dar
Rilevano G. ANDREANI - F. GIOMMONI, Le novità in tema di scudo fiscale e di imposta di bollo sulle attività finanziarie in
Corr. Trib., n. 13/2012, 949, che prima della novella de qua, lo scudo sarebbe stato preclusivo dell'accertamento con
riguardo a ricavi o compensi percepiti «in nero», astrattamente identificabili con le somme oggetto del rimpatrio.
124
Ancora, G. ANDREANI - F. GIOMMONI, Le novità in tema di scudo fiscale e di imposta di bollo sulle attività finanziarie , cit.,
949, che, a conferma della possibile lesione dell’art. 10 dello Statuto ricordano, nota 15, la risposta del Governo in materia
del 21 ottobre 2009, n. 5-01971 in Banca Dati BIG Suite, IPSOA a specifica interpellanza parlamentare
126 I principi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario
e devono essere rispettati dalle Istituzioni comunitarie: Corte di Giustizia, 14 maggio 1975, causa 74/74,
CNTA/Commissione, in Racc., 533 e , da ultimo, Corte di Giustizia, 26 aprile 2005, Causa C-376/02, Stichting "Goed
Wonen" contro Staatssecretaris van Financiën, in Racc. p. I-03445, Punto 32. parimenti devono essere rispettati dagli Stati
membri nell’esercizio dei poteri loro conferiti dalle direttive europee: Corte di Giustizia , 3 dicembre 1998, causa C-381/97,
Belgocodex, in Racc., I-8153, punto 26; Corte di Giustizia 8 giugno 2000, causa C-396/98, Schloßstraße GbR contro
Finanzamt Paderborn in Racc. , I-04279 Punto 47; Corte di Giustizia, 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-7/02,
Gemeente Leusden e Holin Groep, Racc., I-5337, punto 57
125
115
2/2012
luogo ad affidamento del soggetto dell'ordinamento nazionale, ove lo stesso non sia stato
provocato da specifici comportamenti degli organi comunitari127. La Corte di Giustizia ha
chiaramente evidenziato che tali principi «non ostano a che uno Stato membro,
eccezionalmente, e allo scopo di evitare che siano utilizzate su larga scala, durante il
procedimento legislativo, costruzioni finanziarie destinate a ridurre l’onere dell’IVA contro
le quali una legge di modifica intende appunto lottare, dia a questa legge un effetto
retroattivo, quando (…) gli operatori economici che effettuano operazioni economiche
come quelle considerate dalla legge siano stati avvertiti della futura adozione della detta legge
e dell’effetto retroattivo previsto in modo tale che essi siano in grado di comprendere le
conseguenze della modifica legislativa prevista per le operazioni da loro effettuate128».
Indiscutibili, dunque, le ripercussioni negative per il contribuente “scudato” convinto di
essersi messo al riparo da successivi accertamenti relativi a tutti i tributi e di aver guadagnato
per tutti i tributi l’immunità con il rimpatrio: a ciò si aggiunga il rischio concreto del
raddoppio dei termini di accertamento, di cui all’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972 per le ipotesi
di emersione di notizie di reato.
Il rimpatrio dei capitali altro non è che un condono impuro: ciò sollecita una sintetica
ricostruzione di quanto definito dalla giurisprudenza europea relativa all’Italia in tema di
condono IVA. Contestualmente, appare opportuno soffermarsi anche su un’altra recente
sentenza della Corte di Giustizia, che ancora una volta vede l’Italia come protagonista: in
data 29 marzo 2012 la Corte si è pronunciata in merito alla rottamazione delle liti fiscali
ultradecennali, proprio in tema di IVA, con una pronuncia che prima facie parrebbe foriera di
ulteriori perplessità.
4. La definizione agevolata IVA nella giurisprudenza della Corte di Giustizia riferita
all’Italia - I condoni fiscali - insieme di atti più o meno tipici finalizzati all'abbandono di
pretese sanzionatorie di natura amministrativa e civile connesse ad illeciti fiscali pregressi al
verificarsi di determinate condizioni stabilite dalle norme di riferimento129 - possono
assumere molteplici forme. Accanto al condoni “puri” sono presenti molteplici condoni
“impuri” - come appunto il rimpatrio di capitali - quantitativamente più numerosi, in cui il
premio per gli evasori non si sostanzia esclusivamente nell'abbandono delle sanzioni ma
Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068 e 20069 in Foro it. n. 12/2009, I, 3330
Corte di Giustizia, 26 aprile 2005, Causa C-376/02, Stichting "Goed Wonen" contro Staatssecretaris van Financiën, in
Racc., I-03445
129 F. TESAURO, Solidarietà e condono, in Dir. prat. trib., 1976, II,537; ID, Il condono in materia di imposte dirette, in Boll. Trib.,
1982, 1437;C. PREZIOSI, Il condono fiscale, Milano, 1987, 10; G. PASSARO, Condono nel diritto tributario, in Digesto disc.
priv., sez. comm., III, Torino, 1988, 383; F. BATISTONI FERRARA, Condono, (dir. trib.), in Enc. dir., agg., V, Milano, 2001,
250; G. FALSITTA, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 296; ID, Commento a Corte di Giustizia 17 luglio 2008,
causa C-132/06: alcune puntualizzazioni sulla illegittimità dei condoni in Giur. trib., (Dottrina), 2008, 281.
127
128
116
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nella modifica e rideterminazione di elementi essenziali del tributo:presupposti, regole sulla
determinazione della base imponibile, aliquote, deduzioni, divieti di compensazione e di
rimborsi - elencazione indicativa e non tassativa - , hanno subito significative agevolazioni
per indurre gli evasori a regolarizzare la propria posizione, sollevando molteplici dubbi di
legittimità interna130 ed europea131.
Nell’ipotesi di condoni, puri o impuri, di tributi armonizzati, la giurisprudenza europea ha
chiaramente evidenziato che la sola previsione di una definizione agevolata costituisce ex se
una violazione della direttiva 2006/112/CE132.
Eclatante è la situazione italiana. La Corte di Giustizia ha esaminato le due principali
tipologie di sanatoria fiscale contenute nella L. 27 dicembre 2002, n. 289, l’integrazione degli
imponibili degli anni pregressi - la cd. integrativa semplice - , prevista dall’art. 8 e la
definizione automatica per gli anni pregressi - il cd. condono tombale - previsto dall’art. 9, al
fine di valutarne la compatibilità con le norme europee in materia di IVA. Le sentenze C132/06 del 17 luglio 2008133 e C-174/07 del 11 dicembre 2008134 hanno dichiarato che l'Italia
è venuta meno agli obblighi derivanti dalla sesta direttiva IVA, sancendo l’illegittimità degli
artt. 8 e 9 della legge135. La rinuncia espressa all'accertamento e alla riscossione dell'IVA
M. BASILAVECCHIA, Principi costituzionali e provvedimenti di condono, in Riv. Dir. fin. Sc. Fin., 1988, 311; G. FALSITTA,
I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in il fisco, 2003, n. 6, 795; F. PICCIAREDDA, voce
«Condono» (dir. trib.), in Enc. giur. Trecc., 2003; E. DE MITA, Il condono fiscale fra genesi politica e limiti costituzionali, in Il fisco,
2003, 7313. Il giudice delle leggi ha evidenziato che non si tratta di una definizione esaustiva, in grado di tener conto di tutte
le molteplici disposizioni e fattispecie sottese: si tratta di un istituto meramente procedimentale, in grado di decongestionare
il contenzioso, permettendo, nel contempo, di acquisire entrate pubbliche. Corte Costituzionale, 26 febbraio 1981, n. 33; 7
luglio 1986 n. 172; 11 febbraio 1988, n. 160; 13 luglio 1995, n. 321 tutte reperibili in www.cortecostituzionale.it.
131 R. MICELI, I condoni fiscali "impuri" in materia di Iva e il principio comunitario di effettività: l'evidente contrasto e le incerte conseguenze,
in Dir. prat. trib. internaz., 2008, 1294; F. TUNDO, Definizione agevolata delle liti ultradecennali tra abuso del diritto e aiuti di Stato,
in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2010, n. 11, 971; E. TRAVERSA, I condoni fiscali degli Stati membri e la loro
compatibilità con il diritto dell'Unione Europea, cit., 229; R. ALFANO, Condoni fiscali: ulteriori vincoli europei e possibili effetti interni, in
Dir. prat. trib. int., 2011, n. 2, p. 477.
132 Diversa la questione nell’ipotesi di tributi non armonizzati, in cui non sembra rilevarsi un contrasto con principi europei.
Si tratta infatti di tributi di stretta competenza degli Stati membri, che, nel prevedere un provvedimento agevolativo,
devono però garantire il rispetto dei principi derivanti dall’art. 4 TFUE e non interferire con il corretto funzionamento del
mercato unico. Anche per le imposte non armonizzate occorre però verificare se alcuni aspetti specifici siano suscettibili di
costituire violazioni del diritto dell’Unione Europea. In tal senso occorre ricordare il già citato caso portoghese oggetto
della recente Corte di Giustizia, 7 aprile 2011 causa C-20/09 – Commissione/Repubblica Portoghese in Riv. Dir. Trib. n. 78/2011, 185, su cui R. ALFANO, Agevolazioni fiscali per il rimpatrio di capitali, principi europei e discrezionalità interna ivi, 198.
133 in Racc., 2008, I-05457 in Riv. Dir. trib., 2008, II, 334, con nota di G. FALSITTA, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di
natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo; G. TINELLI, Condono IVA ed effetti comunitari in GT - Rivista di
Giurisprudenza Tributaria, 2008, n. 1, 937; S. MEDICI, Gli effetti della declaratoria di incompatibilità comunitaria dell’istituto del
condono in materia di IVA, in Riv. Dir. Trib., 2009, IV, 34; G. M. DE FLORA, Osservazioni sull’incompatibilità del condono IVA
con la normativa comunitaria, in Riv. Dir. Trib., 2009, IV, 238; E. MARELLO, La Corte di giustizia censura il condono IVA: le
ricadute di una importante decisione, in Giur. it., 2009, (Diritto tributario), 241.
134 in Racc., 2008, I-00180; la sentenza della Corte di Giustizia sul caso C-174/07 riproduce la sentenza relativa alla causa
C-132/06 :la legge italiana 350/2003 condannata nel caso C-174/07 aveva meramente prorogato lo stesso condono IVA
all’anno 2002.
135 A. RENDA, Il contrasto tra la definizione agevolata delle pendenze tributarie e la sesta direttiva Iva: un ostacolo all'integrazione tra
ordinamento nazionale e comunitario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2005, I, 551 ss: M. BASILAVECCHIA, L’evoluzione della politica fiscale
dell’Unione europea, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 395 ss, punto 7.1; A. ALBANO, Incompatibilità comunitaria del condono ed effetti
nazionali, in Rass. Trib., 2010, 842;
130
117
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contrasta con gli artt. 2 e 22: da un lato, inficia il meccanismo sostanziale di applicazione del
tributo, privato di ogni deterrente e affidato esclusivamente alla buona volontà del
contribuente, e dall’altro compromette le garanzie di riscossione di risorse proprie della
Comunità.
Sulla base di tali sentenze della Corte di Giustizia, il giudice di legittimità italiano ha
spinto decisamente verso una moralizzazione del sistema, tentando di ampliare la portata
delle sentenze stesse, che avevano un impatto contenuto sulle diverse tipologie di
definizione previste dalla legge di condono 2002136. Le Sezioni Unite - a seguito delle
ordinanze n. 22517 del 23 ottobre 2009 e n. 25566 del 4 dicembre 2009 della quinta sezione
- hanno provveduto a fare chiarezza. Con le ordinanze nn. 3673 e 3675 e le sentenze, nn.
3674, 3676 e 3677 tutte del 17 febbraio 2010 hanno sancito che non tutte le definizioni
agevolate disposte da ogni legge di condono sono incompatibili con i parametri europei;
qualora però una determinata fattispecie appaia incompatibile con il sistema comune
dell’IVA è legittima un’interpretazione estensiva137.
Recentemente la Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi, in modo affatto
diverso, su una diversa fattispecie tutta italiana. L’art. 3, comma 2-bis del decreto legge 25
marzo 2010 n. 40, aggiunto dalla legge di conversione 73/2010, aveva previsto per il
contribuente la possibilità di chiudere in forma agevolata le liti fiscali pendenti da oltre dieci
anni in Corte di Cassazione o Commissione Tributaria Centrale, qualora il fisco fosse
risultato soccombente in entrambi i giudizi di merito. Era possibile definire le controversie
pendenti in Corte di Cassazione alla data del 25 maggio 2010 pagando una percentuale pari
al cinque per cento del valore; le liti pendenti in Commissione Tributaria Centrale da oltre
dieci anni e nelle quali parimenti l’amministrazione fosse stata soccombente nei primi due
Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068 e 20069, cit. G. FALSITTA, Il contributo della Cassazione alla demolizione della
legislazione condonistica in materia di IVA , in Corr. trib., n. 12/2010, 979. «Il percorso argomentativo della Suprema Corte non
è privo di una sua rigorosa solidità: la premessa su cui si fonda è che la Corte di giustizia europea abbia inteso precludere, in
linea generale, forme di definizione automatica che, per le loro modalità e per i loro presupposti, si traducono in una
generalizzata rinuncia a priori ad esercitare i poteri di accertamento e di controllo sull'adempimento dei contribuenti,
venendo meno all'obbligo, implicito quanto meno nelle imposte armonizzate, di assicurare effettività alla applicazione dei
tributi, con un'adeguata azione di recupero delle evasioni, delle elusioni e delle frodi». La citazione è tratta da M.
BASILAVECCHIA, Condono e processo: la parola alle Sezioni Unite, in Cor. Trib, n. 6/2010, 423
137 Le SS.UU. hanno infatti dichiarato illegittima la “rottamazione” delle cartelle inerenti la riscossione IVA prevista dall'art.
12 della legge 289/2002 attribuendo alla sentenza della Corte di giustizia una portata estensiva sul punto, in virtù
dell’interpretazione adeguatrice della norma, cui il giudice nazionale è tenuto. Relativamente all’art. 16 della predetta legge
289/2002, la Suprema Corte ha invece reputato la fattispecie del condono sulle liti pendenti prevista da tale articolo come
una forma di transazione giudiziale dell'imposta secondo parametri non collegati con la definizione dell'imposta stessa: tale
transazione, a giudizio della Corte, sarebbe finalizzata esclusivamente alla prevenzione e alla composizione del contenzioso
in atto. Pertanto, non deve essere considerata incompatibile con quanto previsto in sede europea.
136
118
2/2012
gradi di giudizio, venivano invece definite automaticamente senza versamento di alcuna
somma138.
I giudici di legittimità - con ordinanza n. 18055 del 4 agosto 2010 ed ordinanza n. 22309
del 3 novembre 2010139 – e la Commissione tributaria centrale - ordinanza della Sezione di
Bologna del 08 ottobre 2010, n. 1 - hanno evidenziato la possibile incompatibilità della
norma con il diritto europeo.
Il rinvio del giudice di legittimità - causa C-417/10 - si riferisce sia all’IVA sia ai tributi
non armonizzati. Per tali tributi si è posto il dubbio di compatibilità della rottamazione sia in
merito al rispetto delle libertà fondamentali in tema di circolazione - posto che la norma
avrebbe favorito indiscriminatamente le sole imprese e i soli soggetti residenti in Italia140 - sia
con riferimento alla violazione del divieto di aiuti di Stato, per la selettività del vantaggio
realizzatosi141.
Nelle controversie in tema di IVA – causa C–500/10 - come quella rilevata dalla
Commissione tributaria centrale, il giudice del rinvio aveva evidenziato l’illegittimità di una
rinuncia integrale all'imposizione fiscale relativamente ad un tributo la cui applicazione
costituisce interesse primario dell'ordinamento europeo, come evidenziato dalla Corte di
Giustizia nelle precedenti pronunce contro l’Italia142.
In data 29 marzo 2012 la Corte di Giustizia, in linea con quanto evidenziato
dall’Avvocato Generale nelle Conclusioni del 17 novembre scorso, ha però dichiarato, per
Non sono definibili le controversie in materia di aiuti di Stato dichiarati illegittimi con decisione della Commissione
europea ovvero di riscossione di crediti tributari esteri, nonché quelle in cui sia parte resistente un ente non riconducibile
allo Stato, come, ad esempio, un ente locale; sono al contrario definite le controversie nelle quali sia parte del giudizio
l'agente della riscossione, quando l'ente titolare della pretesa tributaria è comunque l'amministrazione finanziaria dello Stato.
139 La Cassazione, da un lato ha ipotizzato l'estensione del principio di matrice europea dell'abuso del diritto in materia
fiscale non solo al campo dell'IVA, ma anche delle imposte dirette attraverso un ragionamento impegnativo e sulla base di
una premessa da verificare per la quale si rinvia a F. TUNDO, Definizione agevolata delle liti ultradecennali tra abuso del diritto e
aiuti di Stato, in Corr. Trib., n. 24/2010, 971; dall’altro si ipotizza che l’agevolazione realizzata possa violare la disciplina degli
aiuti di Stato prevista dagli artt. 107 e seguenti TFUE. L’istituto giuridico interno delle agevolazioni fiscali, cui certamente
appartiene il condono, deve infatti essere analizzato congiuntamente a quello economico degli aiuti fiscali europei, per
evitare il pericolo concreto che misure compatibili in campo interno siano invece qualificate come aiuti di Stato in sede
europea.
140 F. TUNDO, Definizione delle liti in Cassazione ed in Commissione tributaria centrale, in Corr. Trib. n. 24/2010, 1897; M.
BEGHIN, Definizione delle liti ultradecennali tra principi generali del diritto comunitario e costituzionale in Corr. Trib., 2010, 3273.
141 Lo Stato membro che ha posto in essere un vantaggio selettivo deve, ex artt. 107 ss TFUE, dimostrare che lo stesso sia
giustificato dalla natura o dalla struttura del sistema stesso; in caso contrario qualora la Corte rilevasse la violazione del
divieto di aiuti di Stato, la disposizione di condono si configurerebbe come un aiuto illegale, se non preventivamente
notificata - come nel caso della definizione delle liti ultradecennali - alla Commissione. Nel caso di specie il dubbio che si
tratti di un provvedimento selettivo appare legittimo: è applicato ad una cerchia particolarmente ristretta di beneficiari (F.
TUNDO, Definizione agevolata delle liti ultradecennali tra abuso del diritto e aiuti di Stato, cit., ricorda , nota 26, che, a seguito di una
interrogazione a risposta immediata in Commissione Finanze della Camera del 12 ottobre 2010, il sottosegretario
all'Economia ha evidenziato che, a tale data, erano state avanzate 177 istanze di definizione) e si evidenzia una rinuncia
dello Stato alle liti a fronte di un’entrata oggettivamente esigua, che risulta ingiustificabile per la natura e la logica del sistema
impositivo.
142 F. TUNDO, I possibili effetti della incompatibilità comunitaria della definizione delle liti ultradecennali pendenti in Commissione
tributaria centrale in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 1 / 2011, 62
138
119
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entrambe le cause, la compatibilità della norma in questione con l'ordinamento comunitario,
discostandosi apertamente dal proprio orientamento precedente.
Con riferimento alle sole controversie in tema di IVA la Corte, richiamando
espressamente la precedente giurisprudenza riferita al condono italiano, ribadisce che
dall’analisi degli articoli 2 e 22 della sesta direttiva e dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE emerge
che ogni Stato membro ha l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al
fine di garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio, godendo di una certa
libertà circa le modalità applicative. Occorre però che sia garantita la riscossione effettiva
delle risorse proprie dell’Unione, senza che si realizzino differenze significative nel modo di
trattare i contribuenti sia dal punto di vista interno sia all’interno di uno Stato membro che
nell’insieme di tutti loro. Ciò comporta che tale obbligo non può porsi in contrasto con il
rispetto del principio del termine ragionevole di un giudizio ex art. 47, secondo comma, della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 6, parag. 1 della CEDU.
Per la Corte la misura contenuta all’art. 3, comma 2 bis, del D.L. 40/2010 non costituisce
una rinuncia generale alla riscossione dell’IVA per un dato periodo, ma una disposizione
eccezionale diretta a far osservare il principio del termine ragionevole; l’estinzione delle
procedure più vecchie pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado, comporta il
passaggio in giudicato della decisione di secondo grado. Tale misura, inoltre, per il suo
carattere puntuale e limitato, dovuto ai presupposti della sua applicazione, non crea
significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d’imposta nel loro insieme e
non pregiudica il principio di neutralità fiscale.
La sentenza, non in linea con la precedente giurisprudenza europea, ha sollevato più di
una perplessità. Posto che è assolutamente indiscutibile che la pendenza delle liti per oltre un
decennio innanzi ad un giudice nazionale contrasti con l’art. 6 CEDU in tema di ragionevole
durata dei processi, si concorda che « tale questione - che si qualifica come endemica nel
nostro ordinamento - necessita di una soluzione strutturale, e non può in alcun modo essere
risolta legittimando una disposizione di legge che consente la conclusione della lite prima
dell'intervento di una sentenza a seguito dell'unilaterale manifestazione di volontà di una
delle parti che come tale non può che essere subita dalla controparte processuale143».
La Corte di Giustizia europea, che da tempo pone in essere una fondamentale e sicura
azione di reprimenda nei confronti del legislatore fiscale con decisi inviti a non
compromettere (troppo frequentemente) il sistema delle entrate in ragione di immanenti
esigenze di cassa, ha in tale fattispecie preferito un diverso contemperamento di interessi,
Ancora F. TUNDO, L’ Avvocato generale della Corte UE «salva» la definizione delle liti ultradecennali pendenti in CTC in Corr.
Trib. n. 3/2012, 207.
143
120
2/2012
soluzione probabilmente – come si evince dalle considerazioni dell’Avvocato generale, – in
contrasto con quella prospettata dal servizio giuridico della Commissione Europea.
In un momento storico in cui il legislatore interno, che a lungo ha navigato a vista nella
difficile ricerca di un baricentro per la propria discrezionalità, mostra finalmente di orientarsi
conformemente ai parametri europei la sentenza della Corte di Giustizia appare difficilmente
comprendibile sia dal punto di vista di principio sia di eventuali motivazioni politiche: è
immediatamente evidente che la rottamazione delle liti ultradecennali è vicenda affatto
diversa dal punto di vista economico e sostanziale rispetto – ad esempio - a quella IRAP.
La sentenza trova giustificazione meramente alla luce del noto pragmatismo della Corte.
La misura contenuta all’art. 3, comma 2 bis, del D.L. 40/2010 ha carattere eccezionale, non
deve essere interpretata come una rinuncia generale alla riscossione dell’IVA ed è diretta a
far osservare il principio del termine ragionevole del processo.
Le ordinanze del giudice di legittimità e della Commissione tributaria centrale
evidenziavano una chiara volontà di censurare e contenere l’esercizio della discrezionalità
legislativa, con un forte richiamo ai principi di legalità e di eguaglianza sostanziale,
quest’ultimo limite e al tempo stesso garanzia dell’azione in campo tributario144. Il maggior
credito dato dalla pronuncia della Corte di Giustizia al principio della ragionevole durata del
processo è probabilmente una scelta di minore efficacia rispetto ad una pronuncia di
incompatibilità della norma per contrasto con i principi IVA. Soprattutto con riferimento ad
una pronuncia verso l’Italia, in un momento in cui finalmente il legislatore tributario interno
si è impegnato a definire la propria discrezionalità nel rispetto dei principi europei.
5. Conclusioni – L’art. 8 comma 16, lettera i), del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 ha stabilito
inequivocabilmente che fra gli effetti dello scudo fiscale non rileva alcuna preclusione a
possibili accertamenti IVA. Il decreto, di stampo chiaramente filoeuropeista, è un rilevante
segnale di una rinnovata apertura del legislatore rispetto ai principi europei.
Un rispetto faticoso, foriero di molteplici effetti negativi per il contribuente e di possibili
azioni successive. Non appare infatti peregrino ipotizzare, che, in caso di successivi
accertamenti IVA, il contribuente possa proporre un’azione per la ripetizione dell’indebito
relativo alla mancata copertura dello scudo, posto che aveva proceduto alla regolarizzazione
per evitare l’accertamento su tutti i tributi; parimenti si può ipotizzare un’azione per il
risarcimento del danno prodottosi in capo al contribuente che aveva proceduto al rimpatrio
144
Cfr. F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Il Mulino, 2007, cap. III, 97 e ss.
121
2/2012
dei capitali e che ha perso parte dell’immunità che era convinto di aver acquisito con lo
scudo.
Il legislatore fiscale interno è stato a lungo sordo ai richiami europei, delegando al giudice
di legittimità di evidenziare tali principi, in un tentativo estremo di moralizzazione del
sistema.
Le diverse pronunce europee in tema di definizione agevolata della pretesa tributaria
sembrano dunque aver iniziato a far breccia nel legislatore, che pare aver compreso la
necessità che un provvedimento condonistico non risulti eccessivamente vantaggioso
rispetto al potenziale inadempimento del contribuente e che debba necessariamente
rispettare i principi a base del sistema generale delle imposte145, in particolare con riferimento
ai principi in tema di IVA. Occorre un fermo irrigidimento delle misure di definizione
agevolata, che, al di là del gettito immediato a favore dell’erario, piantano il seme di future
riduzioni di entrate, in particolare per la perdita oggettiva di credibilità agli occhi dei
contribuenti, così potenziati nell’endemica tendenza alla disubbidienza fiscale146.
Il legislatore, dunque pare iniziare un lento cammino di adeguamento verso le diverse
declaratorie di illegittimità che hanno interessato i provvedimenti condonistici italiani in
tema di IVA: la norma, in linea con i vincoli interni ed europei, si pone nel rispetto di una
necessaria “circolarità” del diritto che tenti di contenere l’eccessiva estensione della
discrezionalità amministrativa in campo tributario147.
In tale contesto che vede finalmente la realizzazione di un primo passo concreto del
legislatore interno, unia perplessità è data dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia in
tema di rottamazione delle liti fiscali ultradecennali riferita proprio all’IVA. La Corte, in
contrasto con la propria interpretazione consolidata secondo cui la mera previsione di una
definizione agevolata in tema di IVA costituisce di per sé stessa una violazione della direttiva
2006/112/CE, ha sancito la legittimità di una norma che preveda l’estinzione automatica dei
procedimenti pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado qualora il fisco risulti
soccombente nei primi due gradi di giudizio. La Corte giudica eccezionale la disposizione,
finalizzata a far osservare il principio del termine ragionevole del processo. Interpretazione
Così M. BASILAVECCHIA, Condono e processo: la parola alle Sezioni Unite, cit., 423
« l'effetto a medio-lungo termine di questo condono-colletta-assicurazione sarà bensì quello di fare un po' di gettito, ma
a danno del gettito da accertamento (poiché brucerà gli imponibili passati), e soprattutto a danno del gettito futuro, poiché
avrà, come i precedenti e forse più dei precedenti, un effetto diseducativo nei confronti sia dell'amministrazione finanziaria
che dei contribuenti». Così A. FANTOZZI, Concordati, condoni e collette , cit., 191.
147 R. PERRONE CAPANO, La stabilizzazione del sistema tributario riformato nel 2007, per accelerare l’avvio del federalismo fiscale,
sottovalutandone gli effetti depressivi, ha accentuato le conseguenze della recessione e ora condiziona la ripresa, frenandola, in Innovazione e
Diritto, Rivista on line della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II, 2010, n. 6, in www.innovazioneditiritto.unina.it.
145
146
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certamente in linea con la pragmaticità propria della Corte: l’adesione a posizioni meno
rigide in nome di un diverso contemperamento di interessi che permetta di pervenire a
soluzioni meno radicali probabilmente però, non trova la sua espressione migliore in questa
specifica fattispecie e in questo specifico momento storico, in cui il legislatore tributario
appare finalmente sulla strada per comprendere il ruolo dell’istanza europea nella definizione
dei limiti alla propria discrezionalità.
123
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Accesso agli atti tributari tra Statuto dei diritti del contribuente ed aperture
giurisprudenziali
di Gabriella De Maio
Abstract – According to the European Union Law and the administrative jurisprudence access to the
tax documents is admissible in the period after the conclusion of the procedure. More precisely, the
taxpayer has a genuine interest and timely access to documents related to the phases of assessment,
collection and payment, from which knowledge can emerge legal irregularity (substantial or
procedural) demonstrating the total or limited illegitimacy of the tax procedure. Inaccessibility is
temporally limited to the preliminary phase in the tax proceedings because there isn't secrecy in the
phase following the conclusion of the procedure for adoption the final measure of assessment owed.
SOMMARIO: 1. L’influsso del diritto comunitario ed il sistema delle “qualificazioni” - 2. La
“vicinanza” del diritto tributario al diritto amministrativo - 3. Il Consiglio di Stato conferma una
lettura “costituzionalmente orientata” del divieto di accesso agli atti tributari – 4. Conclusioni
1. L’influsso del diritto comunitario ed il sistema delle “qualificazioni” - L’applicabilità dei
principi del diritto amministrativo al diritto tributario è un tema particolarmente delicato148,
considerato che il diritto tributario riprende istituti di altri settori del diritto per riproporli
nel proprio ambito “adattandoli” alle peculiari caratteristiche dell’attività
dell’amministrazione finanziaria. Esso si presenta, come sostenuto da autorevole dottrina 149,
come un diritto “qualificante, in quanto adegua ai propri principi la fattispecie normativa qualificata
appartenente ad altro ramo del Diritto”.
Le specifiche caratteristiche, dunque, del diritto tributario non consentono un’applicazione
analogica diretta ed immediata degli istituti di altri settori del diritto, ma impongono
un’attenta ponderazione dell’istituto “mutuato” e del contesto in cui se ne ipotizza
l’applicazione, facendo salvi possibili adattamenti che non alterino i principi di natura
tributaria150.
Sul punto A. AMATUCCI, Il fatto come fonte di disciplina del procedimento tributario, in Riv. Dir. Trib., 1998, I,
pag. 703 e ss., P.PIANTAVIGNA, Osservazioni sul procedimento tributario dopo la riforma della legge sul procedimento, in
Riv. dir. fin. e sc. Fin., 2007, I, pag. 84 e ss.
149 In tal senso, A. AMATUCCI, in L’ordinamento giuridico della finanza pubblica, Jovene editore, 2007, 292 e ss..
150 Sulla distinzione, (rectius) distanza tra la materia amministrativa e quella tributaria cfr. L. PERRONE, La
disciplina del procedimento tributario nello Statuto del contribuente, in Rass. Trib., 3/2011, pag. 563 e ss. L’A. sostiene
che in linea generale i principi sull’attività amministrativa tributaria siano oggi contenuti essenzialmente nello
148
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Tali considerazioni vanno esaminate anche alla luce della contestualizzazione del diritto
amministrativo nell’ordinamento europeo151, il quale non consente più di separare con
assoluta certezza gli scenari normativi dell’Unione Europea da quelli dei singoli Stati
membri, né, all’interno del nostro ordinamento, il diritto pubblico da quello privato152.
Secondo autorevole dottrina153, infatti, da quando nell’Unione Europea “si è verificata una
progressiva assimilazione” fra Paesi ispirati a sistemi di Civil Law e Stati fondati sul Common
Law, dinanzi la primazia del diritto comunitario154, il ruolo del giurista è diventato di
fondamentale importanza, attesa la necessità di tener conto, nella fase di interpretazione, non
solo della astratta previsione normativa, ma anche della portata applicativa dell’istituto alla
luce dei principi comunitari.
Statuto dei diritti del contribuente piuttosto che nella legge n. 241/90, per cui lo Statuto rappresenterebbe oggi
il fondamentale punto di riferimento per la regolamentazione dei procedimenti tributari e per l’eventuale ma
difficile raccordo con la disciplina della legge n. 241/90.
151 Sul punto cfr. E.BONELLI, Efficienza, partecipazione ed azione amministrativa: Regioni ed Enti locali a confronto con
la riforma del procedimento, pag. 2, in L’Informatore delle Autonomie locali, n. 7/2005. Secondo l’A. il richiamo al
diritto comunitario è l’inevitabile risposta al fenomeno della continua e rapidissima evoluzione dell’integrazione
europea, che coinvolge in questo caso i rapporti Stato-cittadini, su cui ha avuto modo di pronunciarsi più volte
la nostra Corte Costituzionale, nel senso di ritenere “obbligati gli organi amministrativi a disapplicare la norma interna,
se in conflitto con quella comunitaria direttamente applicabile”. Tra i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’U.E., risultano di particolare interesse, rispetto a quelli nazionali, il principio di proporzionalità
presente nel nostro ordinamento come una delle manifestazioni del criterio di ragionevolezza, secondo cui ogni
misura adottata dalla p.a. deve essere proporzionale a quanto richiesto dagli obiettivi perseguiti, e quello del
legittimo affidamento, che rileva come “fortemente caratterizzante in termini di tutela dell’interesse privato”, in quanto
esso consiste nell’evitare che una situazione vantaggiosa assicurata al privato da un atto concreto della p.a.
possa essere successivamente rimossa e/o affievolita.
152 In tal senso L. MARUOTTI, Diritto comunitario e diritto amministrativo, in www.giustamm.it, pag. 2 e ss.,
secondo il quale il diritto comunitario sta fortemente impattando anche sul diritto interno, in quanto il primo
ha conferito rilievo a categorie giuridiche unificanti, che così si sono imposte in tutti gli Stati dell’Unione.
153 Più precisamente l’A. sostiene che i Paesi di Common Law non possono che dare applicazione alle direttive
e alla normativa di recepimento, con sempre maggiore espansione del diritto scritto, mentre, i Paesi di Civil
Law hanno riconosciuto la rilevanza dei macro-principi, fino al punto di assumere l’obbligo di ispirare e di
adeguare i propri ordinamenti a questi macro-principi, sebbene non discendenti dalle Costituzioni nazionali tra
i macro-principi vanno annoverati quelli richiamati nell’art. 6 del Trattato di Maastricht, cioè alle disposizioni
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Basti pensare alle sentenze della Corte Costituzionale in
materia di esproprio (n. 348 e n. 349 del 20 ottobre 2007) che hanno riconosciuto come le leggi siano
incostituzionali quando prevedano una tutela del diritto di proprietà incompatibile con le disposizioni ed il
protocollo aggiuntivo della medesima Convenzione del 1950, sia se si tratti di una inadeguata indennità di
esproprio, sia quando il risarcimento del danno sia fissato dalla legge in misura inferiore a quello effettivamente
derivante da un illecito della pubblica amministrazione.
154 Per un quadro sulla primazia del diritto comunitario, v. G. TESAURO, Sovranità degli Stati e integrazione
comunitaria, in Il Diritto dell’Unione europea, 2006, 235 ss.; F. RICCIOLI, Preoccupanti contrasti tra Corte
comunitaria e Corte costituzionale, in Foro It., 1978, 204 ss.; R. MONACO, Sulla recente giurisprudenza costituzionale e
comunitaria in tema di rapporti fra diritto comunitario e diritto interno, in Riv. Dir. eur., 1978, 287 ss.; F. MOSCONI,
Contrasto tra norma comunitaria e norma interna posteriore, possibili sviluppi dopo la sent. n. 106 del 1977 della Corte di
Giustizia, in Riv. Dir. internaz. priv. e process., 1978, 515 ss.; P. BARILE, Un impatto tra il diritto comunitario e la
Costituzione italiana, in Giur. cost., 1978, 641 ss.; M. FRANCHINI, Il diritto comunitario tra Corte di Giustizia e Corte
costituzionale, in Giust. civ., 1978, 116 ss.; P. GORI, Preminenza e immediata applicazione del diritto comunitario per forza
propria, in Riv. Dir. civ., 1978, 681ss.
125
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È stato, pertanto, sostenuto che dinanzi ad un “vero e proprio stravolgimento degli assetti
tradizionali155” di palese matrice comunitaria è necessaria una particolare attenzione da parte
degli studiosi e grande impegno applicativo da parte della giurisprudenza.
2. La “vicinanza” del diritto tributario al diritto amministrativo – Il citato
orientamento156, nel sottolineare quanto “i principi del diritto comunitario hanno influenzato
indistintamente e costantemente l’azione amministrativa e l’azione impositiva, rafforzandone l’osmosi 157”, ha
puntualmente individuato i passaggi che hanno contribuito al graduale processo di
avvicinamento del diritto tributario al diritto amministrativo.
E’ stato, quindi, posto in luce il ruolo dello Statuto dei diritti del Contribuente il quale, nel
valorizzare il profilo del buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa
tributaria in ossequio agli artt. 3 e 97 Cost., ha collocato l'amministrazione finanziaria
nell'ambito della pubblica amministrazione158.
Nel contempo è stato rilevato che la legge 7 agosto 1990, n. 241 con la novella 11 febbraio
2005, n. 15, è stata trasformata in una legge generale sull'azione amministrativa.
Da ultimo, è stato evidenziato che la valorizzazione dei profili consensualistici nel rapporto
Fisco-contribuenti è andata di pari passo con l’analogo fenomeno del rafforzamento del
dialogo “inter pares” fra pubblica amministrazione e cittadini.
Da tale impostazione deriverebbe quale interessante corollario la possibilità di ricondurre
l'azione impositiva nell'alveo dell’azione amministrativa159, per cui “pur con tutte la peculiarità
della funzione impositiva, l'amministrazione finanziaria deve attenersi sempre al principio di legalità ed
Sul punto cfr. L DEL FEDERICO, Gli atti impositivi viziati per violazione del diritto comunitario, in Giust. Trib.,
n. 1/2010, pag. 4 e ss.
156 Sul punto cfr. L. DEL FEDERICO, La rilevanza della legge generale sull'azione amministrativa in materia tributaria e
l'invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 6/2010, pag. 729.
157 Sul punto l’A. sottolinea come risulta significativa la previsione del passante legislativo che consente
l’ingresso nel nostro ordinamento di tutti i principi del diritto comunitario e, quindi, per esempio, del principio
di proporzionalità, nonché del principio del contraddittorio. Pertanto, per la materia tributaria, ferma
l’inapplicabilità delle specifiche disposizioni del Cap. III della legge sul procedimento amministrativo inerenti la
partecipazione, dovrà comunque essere osservato il principio del contraddittorio; d’altro canto in tale
prospettiva si era già collocato lo Statuto del Contribuente.
158 Sul punto cfr. Cassazione, Sez. I, 29 marzo 1990, n. 2575 e Cass. SS.UU., 30 novembre 2006, n. 25506, in
Riv. giur. trib., n. 2/2007, pag. 105 e ss., lì dove si precisa che “l’amministrazione finanziaria non è un qualsiasi
soggetto giuridico, ma è una pubblica amministrazione. Tale veste la obbliga all’osservanza di particolari doveri prima fra tutti
quelli dell’imparzialità espressamente sancito dall’art. 97 Cost.”. Si veda anche G. MARONGIU, Accertamento e
contraddittorio tra Statuto del contribuente e principi di costituzionalità, in Corr. Trib., 6/2011, pag. 475 e ss.
159 Molto interessante sul punto la riflessione di L. DEL FEDERICO, Autorità e consenso nell’imposizione tributaria:
riflessioni sui tributi paracommutativi e sulle tasse facoltative, in Ragion pratica, n. 10/2008, pag. 55 e ss., in cui l’A.
sottolinea che “lo stesso diritto amministrativo sta vivendo una profonda trasformazione, che vede ritrarsi sempre più
l’autoritativita sotto la spinta di concezioni consensualistiche, che tendono a valorizzare gli assetti paritetici nell’attivita
amministrativa”.
155
126
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orientare la propria azione secondo i canoni di imparzialità e buon andamento, così da garantire in ogni caso
(a seguito di scelte al più discrezionali, giammai puramente e semplicemente libere), la finalizzazione dei
propri atti alla cura dell'interesse fiscale ex art. 53 Cost. 160”
Si concorda, pertanto, con la tesi161 che, qualificando “l’'imposizione tributaria come tratto
essenziale della sovranità”, avvicina il diritto tributario al diritto amministrativo, in quanto “con
l'affermarsi dello stato di diritto l'imposizione tributaria continua ad esprimersi tramite potestà
marcatamente autoritative. 162”
D’altronde, i motivi che spingono ad operare un parallelismo tra le due branche del diritto 163
sono da ravvisarsi, con particolare riferimento all’accesso ai documenti, nella necessità di
assicurare la trasparenza amministrativa nonché di favorire lo svolgimento imparziale
dell’azione pubblica.
La giurisprudenza164 sul punto precisa che: “non si può ignorare la portata innovativa della Legge
n.241/90 nella parte in cui essa fonda e dà facoltà di azione e di difesa ad una libertà certo presupposta fra
i diritti della persona, ma al tempo stesso priva di pretese di godimento in assenza di una puntuale disciplina
a livello costituzionale”.
Cfr. L. DEL FEDERICO, in I principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, Riv. di
dir. fin. e sc. fin., 2/2010, I, pag. 206 e ss..
161 Contra cfr. M. BASILAVECCHIA, Impossibile l’accesso agli atti tributari, in Il Corriere tributario n. 38/2008,
pag. 3093 e ss.
162 Sul punto L. DEL FEDERICO, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rassegna
tributaria. 6/2011, pag. 1393 e ss.
163 Cfr. S. LA ROSA, I procedimenti tributari: fasi, efficacia e tutela, in Riv. Dir. Trib., 10/2008 evidenzia che “si
debbono a Gian Antonio Micheli le prime aperture alla configurazione di un potere funzionalizzato ed il ricorso allo schema del
procedimento amministrativo per l’inquadramento delle discipline attuative dei prelievi tributari”.
164 Tar Campania Napoli, sez. V, 4 maggio 2009. n. 2268. Il Collegio ha deciso in merito ad una particolare
controversia in cui il ricorrente, componente della Corporazione dei Piloti del Porto di Napoli, organismo
giuridico ad hoc, in ragione dell’interesse alla partecipazione agli utili derivanti dall’espletamento del servizio
pubblico di pilotaggio delle navi nel Porto di Napoli, presentava istanza di accesso a documenti afferenti vari
settori della contabilità, senza ricevere alcun riscontro. Il Collegio ha precisato che l’accesso ai documenti
amministrativi costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza, attenendo ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Mentre originariamente la locuzione
“diritto di accesso” sollevava dubbi sulla qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo, ora si
parla di “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi”, nel senso
che l’esame e l’estrazione di copia del documento sono modalità congiunte dell’esercizio del diritto, senza
deroghe o eccezioni di sorta. L’obiettivo è di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne
lo svolgimento imparziale, mentre l’art.10 della Legge 241 rimasto immutato dopo le recenti modifiche ha
riguardo ad un accesso partecipativo, con l’obiettivo di assicurare la pienezza del contraddittorio e della
partecipazione a quanti sono coinvolti in un procedimento amministrativo che li riguarda (T.A.R. Lazio, Roma,
I, 15.12.2000, n.12144). Secondo i giudici napoletani, anche la configurazione introdotta dalla Legge
n.205/2000 non ha modificato la originaria natura di istituto mirato al conseguimento della conoscibilità della
documentazione, indipendentemente dall’esistenza attuale o eventuale di un processo in cui tale
documentazione possa essere funzionalizzata ai fini della sua decisione e quindi come istituto non diretto ad
acquisire soltanto gli atti strumentalmente preordinati alla decisione nel merito del ricorso principale (ord.za
T.A.R. Lazio, Roma, II, 10.3.2001, n.1834).
160
127
2/2012
A ciò aggiungasi che l’amministrazione finanziaria è sempre più orientata al coinvolgimento
del contribuente nell’attività di accertamento in funzione deflativa del contenzioso come
emerge con riguardo all’istituto dell’accertamento con adesione.
Tale strumento consta in un procedimento mediante il quale si addiviene ad un atto di
accertamento concordato con il contribuente165, che presenta istanza o è invitato dall’ufficio
stesso dopo aver ricevuto la notifica di un avviso di accertamento che riguardi le imposte
dirette, l’IVA o le altre imposte indirette166.
La procedura consiste nella “definizione di un nuovo atto pattuito tra ufficio e contribuente a seguito di
un contraddittorio tra le parti nell’ambito del quale vi è una componente discrezionale dispositiva, cosiddetta
discrezionalità tecnico-giuridica167”, che non attiene però agli interessi economico sostanziali
coinvolti nel prelievo ma “all’efficiente gestione della controversia168”
Ciò premesso, la tesi prospettata non può non tener conto del fatto che, comunque, il
processo di avvicinamento del cittadino all’amministrazione, avviato con la legge n. 241/90,
e proseguito con ulteriori modifiche ed integrazioni alla medesima normativa, non travolge il
procedimento tributario in ogni suo aspetto.
F. TESAURO, Compendio di diritto tributario, UTET, 2004, pag. 132. Altra dottrina reputa tale istituto
come una “nuova metologia di controllo” che tende “a ridurre le controversie fra fisco e contribuente
consentendo una transazione bonaria della divergente capacità contributiva accertata dall’Ufficio prevedendo,
da una parte, una riduzione della propria pretesa creditoria e, dall’altra, come compensazione, la rinuncia
all’impugnazione dell’atto impositivo”. Saverio Capolupo, Manuale dell’accertamento delle imposte, IPSOA, IV
edizione, 2005, pag.1203.
166 Con esclusione del caso in cui l’ufficio è a conoscenza di reati per frodi fiscali imputabili allo stesso
contribuente.
167 Cfr. G. DI LAURO, L’accertamento con adesione, Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze,
in www.issef.it, pag. 1. Più precisamente secondo altra dottrina, “il funzionario dell’ufficio, che procede alla definizione
dell’imposta, si muove in un ambito di discrezionalità tecnico-giuridica, avendo sempre come riferimento la norma.
L’Amministrazione finanziaria non compie scelte discrezionali, nel senso di poter incentivare una determinata zona rispetto
all’altra o una fascia di contribuenti più poveri rispetto ad altri. In tal senso la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale Sicilia, con
sentenza n. 512 del 16 marzo 2005, ha asserito che la normativa pur privilegiando la forma concordataria dell’accertamento non
attribuisce all’amministrazione finanziaria alcun margine di discrezionalità ma al contrario la legge attribuisce solo una
discrezionalità tecnica nel senso di individuare e definire, con l’assenso del contribuente, quelle fattispecie che si prestano ad opinabili
valutazioni in ordine alla loro effettiva sussistenza”. Cfr. S. LA ROCCA, L’accertamento con adesione – esercizio della
discrezionalità e profili di illegittimità, in Il Fisco n. 29/2005, Eti De Agostini, pag. 11348.
168 La fondatezza della pretesa deve in altri termini essere valutata alla luce delle obiezioni che può muoverle il
contribuente e dei tempi, delle prospettive e dei costi di un eventuale contenzioso. Di fronte ad accertamenti
relativamente più deboli sul piano della fondatezza sarà tanto più apprezzabile l’interesse ad eliminare le
incertezze e le lungaggini del contenzioso, anche rinunciando a una parte relativamente maggiore della pretesa.
Deve escludersi l’utilizzazione dell’accertamento con adesione come strumento repressivo o premiale a seconda
del comportamento dei singoli contribuenti che siano stati collaboratori durante le indagini, ovvero
particolarmente maliziosi nel porre in essere le evasioni scoperte: va escluso che la normativa contenga gli spazi
per negare l’accertamento con adesione o proporlo a condizioni particolarmente onerose a contribuenti
particolarmente disonesti. La norma tutela l’interesse a che quanto accertato, sia pure con adesione, venga
riscosso, ma non consente che le somme accertate vengano ridotte in funzione di quanto è possibile
riscuotere”. Raffaello Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, III edizione, IPSOA, 2001, pagg. 135136.
165
128
2/2012
Le peculiarità, infatti, dell’attività dell’azione amministrativa tributaria, radicate nella natura
vincolata del potere dell’amministrazione finanziaria non sempre si prestano ad essere
accomunate alla discrezionalità insita nell’agire della pubblica amministrazione. Basti pensare
che, in materia tributaria, non si applicano le norme sulla partecipazione al procedimento.
In tale contesto, sarà l’attività dell’interprete a dover valutare se alcuni principi generali
dell’azione amministrativa codificati nella legge n. 241/90 contrastino a loro volta con i
principi contenuti ad esempio nello Statuto dei diritti del contribuente169, dovendo prevalere
in questo caso fra le due normative quella avente valenza di regolazione settoriale che orienta
in chiave garantista l’interpretazione di tutte le leggi tributarie.
Fatte queste premesse, può meglio comprendersi perché innanzi alla previsione dell’art. 24,
comma 1, lettera b) della legge n. 241/90 che sancisce espressamente l’esclusione del diritto
di accesso ai documenti amministrativi per i procedimenti tributari, la dottrina e la
giurisprudenza finiscano per eroderne la portata e propendano, invece, per estendere
l’accessibilità dei documenti anche a quelli di natura tributaria, purchè sia concluso il relativo
procedimento di formazione.
3. Il Consiglio di Stato conferma una lettura “costituzionalmente orientata” del
divieto di accesso agli atti tributari – In tale ottica, il Consiglio di Stato, con sentenza n.
766 del 15 febbraio 2012, ha confermato170 una lettura “costituzionalmente orientata” del divieto
di accesso agli atti tributari, volta a considerare l’accesso ai documenti amministrativi quale
principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza.
I giudici di Palazzo Spada, infatti, riprendendo precedenti giurisprudenziali sul punto171,
hanno affermato che “l'inaccessibilità agli atti tributari è temporalmente limitata alla fase di pendenza
del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del
procedimento di adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli
elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.”
Sul punto cfr. M. DE BENEDETTO, Il procedimento amministrativo tributario, in Dir. Amm., 1/2007, pag. 127,
la quale evidenzia che un contributo determinante sulla via della riconciliazione tra disciplina generale del
procedimento amministrativo e disciplina speciale del procedimento tributario si deve proprio all’approvazione
dello Statuto del contribuente con il quale si è inteso dare attuazione, nei rapporti tra fisco e contribuente, ai
principi di trasparenza, di pubblicità dell’azione amministrativa e di semplificazione del linguaggio anche
attribuendo rilevanza generale nell’ordinamento tributario al principio di affidamento del contribuente ed
estendendo l’efficacia del diritto d’interpello.
170 Consiglio di Stato, Sezione VI, 15 febbraio 2012, n. 766, in www.giustizia-amministrativa.it, conferma la
sentenza TAR Veneto, Sez. III, 12 Novembre 2008, n. 3980.
171 Cfr. Consiglio Stato sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 5144 in www.finanzaediritto.it, 14 dicembre 2008, Consiglio
di Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 925, in Foro amm. CDS 2011, 2, 426.
169
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Il contribuente, pertanto, ha un interesse concreto ed attuale ad accedere a “tutti gli atti relativi
alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali
procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva.”
Ne consegue che il divieto di accesso opera solo con riferimento alla fase di pendenza del
procedimento tributario172, non essendo rinvenibili esigenze di segretezza “nella fase che segue
la conclusione del procedimento di adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta,
sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.”
D’altronde, secondo il collegio giudicante, se così non fosse, “si perverrebbe alla singolare
conclusione che il cittadino può subire ulteriori incisioni nella propria sfera giuridica in conseguenza di un
procedimento tributario, pur conclusosi favorevolmente in sede giustiziale, qualora gli fosse impedito di
accedere a tutti gli atti che lo riguardano, al fine di difendersi in un parallelo procedimento pendente per gli
stessi fatti.”
Le esigenze di trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa, dunque, sono ravvisabili,
con i necessari adattamenti, anche nell’operato dell’amministrazione finanziaria onde evitare
che , “in uno Stato di diritto, il cittadino possa essere inciso dalla imposizione tributaria - pur nella più lata
accezione della "ragion fiscale" - senza neppure conoscere il perché della imposizione e della relativa
quantificazione173.”
Né osta a tale lettura l’ulteriore doglianza secondo cui vi sarebbe difetto di legittimazione
passiva qualora la domanda di accesso venga diretta ad un soggetto diverso rispetto
all’amministrazione finanziaria, nel caso di specie, l’agente della riscossione.
I giudici infatti hanno puntualizzato, nella richiamata sentenza, che la normativa sull’accesso
non riguarda esclusivamente il soggetto che crea il documento, ma anche colui che lo detiene
stabilmente.
T.A.R. Milano Lombardia sez. III, 13 ottobre 2011, n. 2430, Foro amm. TAR 2011, 10, 3054 (s.m.) in cui
si afferma che “l'esclusione dei procedimenti tributari dal diritto di accesso si riferisce esclusivamente ai casi in cui la richiesta di
accesso inerisce concretamente ad un procedimento tributario in corso. Né la richiesta di documenti di carattere fiscale può ritenersi
sottratta all'accesso per ragioni di riservatezza. Infatti, l'art. 5, d.m. 29 ottobre 1996 n. 603, esclude dall'accesso solamente ««gli
atti e documenti allegati alle dichiarazioni tributarie», con ciò implicitamente riconoscendo che tale esclusione non può applicarsi alle
dichiarazioni tributarie stesse, le quali potranno essere sottratte all'accesso, ai sensi dell'art. 24 comma 1, lett. b), l. n. 241 del
1990 solo se e in quanto incluse in un procedimento tributario, che deve essere peraltro non potenziale ma effettivamente in corso.”
173 T.A.R. Catania Sicilia sez. IV, 16 dicembre 2010, n. 4746, Foro amm. TAR 2010, 12, 4076. Attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, l'accesso costituisce principio generale dell'attività amministrativa, e tutti i
documenti amministrativi sono accessibili, "ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6"
(comma 3); sebbene l'art. 24 escluda il diritto d'accesso, tra l'altro, nei procedimenti tributari, per i quali restano
ferme le particolari norme che li regolano, una lettura della disposizione costituzionalmente orientata,
comporta che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di "segretezza" nella fase che segue la conclusione del
procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta sulla base degli
elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo.
172
130
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D’altronde, già in precedenti pronunce174 era prevalsa la tesi estensiva del diritto di accesso,
volta ad accogliere la richiesta di ostensione documentale indipendentemente dalla natura
giuridica privata del soggetto nei cui confronti viene presentata istanza formale.
Sul punto si è espresso il Tar Lazio175 affermando che “non può essere precluso, successivamente alla
emanazione dell'avviso di accertamento, l'accesso agli atti tributari, non rilevando il fatto che l'agente della
riscossione abbia formalmente natura di soggetto privato.”
In tal senso, si ricorda anche il Tar Campania176 che, in considerazione della portata generale
della legge sul procedimento amministrativo e della rilevanza degli interessi giuridicamente
tutelati dalla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, ha deciso il caso
concreto prescindendo dalla disamina della natura giuridica del soggetto nei cui confronti era
stata richiesta l’ostensione documentale.
Né osta ad una simile ricostruzione la considerazione che il ruolo nominativo dei debitori, in
quanto atto plurimo, non rientrerebbe nella nozione di atto amministrativo, atteso che
secondo i giudici di Palazzo Spada, “non vi è ragione effettiva per negare il carattere di documento
amministrativo”, visto che tale documento possiede i requisiti di cui all’art. 22, comma 1,
lettera d) della legge n. 241/90.
4. Conclusioni – Da quanto evidenziato emerge che il nuovo ruolo del contribuente, ai
sensi della legge n. 212 del 27 luglio 2000 nonché degli spunti interpretativi offerti
dall’attuale contesto giuridico, non consta più in una mera soggezione passiva quanto
piuttosto in una partecipazione attiva in linea con la valorizzazione dei criteri di
collaborazione fra il Fisco ed il contribuente.
L’influsso, pertanto, dei principi del diritto comunitario volti a rafforzare il principio
consensualistico, la necessità di contemperare il nuovo agire amministrativo che vuole il
cittadino sempre più protagonista dello scenario procedimentale, impone di considerare il
contribuente, se pur non partecipe dell’azione dell’amministrazione finanziaria in fase di
pendenza del procedimento, comunque titolare, nella fase successiva, di un interesse alla
ostensione di documenti che possano palesare l’illegittimità della pretesa impositiva.
Si ravvisano altri precedenti giurisprudenziali volti a riconoscere l’interesse ad accedere anche nel caso “anche
nell'ipotesi in cui l'atto o il documento siano già stati altrimenti resi conoscibili al contribuente.” Sul punto, cfr. Cassazione
civile sez. trib., 17 giugno 2011, n. 13321, Giust. civ. Mass. 2011, 6, 919. In senso conforme cfr. Cass. 8
settembre 2004 n. 18117.
175 T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 3 novembre 2009, n. 10765.
176 Utile sul punto le precisazioni della citata sentenza Tar Campania, Napoli, Sez. V, 4 maggio 2009, n. 2268, in
cui i giudici napoletani, a fronte della peculiare natura giuridica dell’organismo della la Corporazione dei Piloti
del Porto di Napoli per il quale, nel corso degli anni, vi sono state notevoli difficoltà di inquadramento
giuridico e, pertanto, di dubbia applicabilità degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/90 e ss. mm. ed ii., ha
cristallizzato il diritto di accesso quale principio generale dell’azione amministrativa, prescindendo dalla
qualificazione giuridica dell’ente coinvolto dalla richiesta di ostensione documentale.
174
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Note minime in tema di interpretazione del divieto di aiuti di stato in materia fiscale
di Chiara Fontana
Abstract: The relationship between national law and Community law is particularly
complex and rich in implications, and evolving under the pressure of irresistible events until
a few decades ago, unknown and unimagined. The relevant events of European integration
and globalization of markets have, in fact, changed the content of the notion of national
sovereignty, particularly in tax matters. This implies the need to adapt, too, the interpretation
of .107 TFEU. In this area there are two major methodological issues: an explicit,
represented by isolated or global assessment of the individual tax provisions of favor, and an
implicit, tied to the value to be assigned to the inefficiency of supervisory and administrative
control on the correct application of the rules concerning State aid in fiscal matters. These
issues may, however, find a partial resolution, in view of the writer, where more attention is
in store for economic analysis of individual legal norms. The latter should in fact be
interpreted and assessed, first, by calculating their costs and their benefits, and according to
the contribution that they are, in practice, can make to improving the overall efficiency of
the legal system .
1. Definizione del tema d’indagine
L’interpretazione del divieto di aiuti di Stato, particolarmente in materia fiscale, ha subito,
nel tempo, una profonda evoluzione.177
È noto come tale divieto sia stato disciplinato, per la prima volta, sotto il profilo generale
e procedurale e inquadrato in una sezione propria, nel capo relativo alle regole sulla
concorrenza, nel Trattato di Roma, del 27 marzo 1957, istitutivo della Comunità Economica
Europea.178 Nell’ottica dell’attuazione di un mercato comune basato sulle quattro libertà
Il tema è stato oggetto di vari approfondimenti. Per tutti: F. FICHERA, Gli aiuti fiscali, in Riv. Dir. fin. Sc. Fin.,
n.1/1998, p.84; L. SALVINI (a cura di), Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007; G. FRANSONI, Profili fiscali della
disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007; M. INGROSSO, La comunitarizzazione del diritto tributario, in M.
INGROSSO- G. TESAURO, (a cura di), Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Napoli, 2009, p. 50 .
178 Sul punto, giova, peraltro, rammentare che la prima forma di compiuta regolamentazione
oggi non più
applicabile, del divieto di aiuti di Stato all’interno del nucleo fondante della successiva Comunità Economica
Europea, debba rinvenirsi nel Trattato istitutivo della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, siglato a
Parigi, nel 1951. Un riferimento diretto a tale divieto trova, invero, collocazione già nell’art. 4 di detto Trattato ove,
«sono riconosciuti incompatibili con il mercato comune del carbone e dell’acciaio e, per conseguenza, sono aboliti e
proibiti, alle condizioni previste dal presente Trattato, all’interno della comunità: (...) c) le sovvenzioni o gli aiuti
concessi dagli Stati o gli oneri speciali imposti da essi, in qualunque forma». La ratio di tale incompatibilità risulta,
essenzialmente, collegata al ruolo finanziario di supplenza che la CECA si assunse in sostituzione degli Stati. Era,
infatti, quest’ultima a mettere a disposizione delle imprese i mezzi di finanziamento necessari ai relativi investimenti;
a partecipare agli oneri del riadattamento; e ad esercitare un’azione diretta sulla produzione. Per questa via, la
177
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economiche fondamentali, per la cui realizzazione i sei Stati membri hanno rinunciato a
porzioni di sovranità, l’allora Comunità si è, invero, assunta compiti di regolazione, controllo
e coordinamento delle politiche economiche congiunturali degli Stati membri, ai quali, ha,
contestualmente, precluso la possibilità di concedere alle imprese nazionali ausili finanziari
perturbativi dell’equilibrio del mercato.
Tale principio, enunciato all’art.2 del richiamato Trattato, è risultato, peraltro, rinsaldato
dal dettato di cui all’art.103 dello stesso che ha definito questione di politica comune la politica
congiunturale degli Stati membri, ordinando a questi ultimi di acquisire il beneplacito della
Commissione sulle singole misure da adottare, anche in virtù dell’intervento del Consiglio
atto a stabilire, ove necessario, le direttive funzionali a regolarne le modalità applicative.
Attraverso siffatto disposto normativo il legislatore europeo ha, dunque, fornito una
cornice comune per la formulazione di politiche sovra-nazionali sugli interventi pubblici a
favore delle imprese, a seconda e in ragione del mutare delle circostanze e degli shock da
integrazione, del dinamismo e della capacità europea di trovare soluzione a problemi di
inefficienza e di ristagno.179
Prova ne sia che il successivo art.105 lascia, invece, la politica economica generale alla
competenza nazionale, delegando il coordinamento della stessa, a livello europeo, alla
collaborazione tra i servizi competenti delle amministrazioni statali, gli istituti bancari centrali
e il Comitato monetario, che opera con funzioni consultive, mediante pareri destinati al
Consiglio e alla Commissione.
Proprio in virtù della diversità competenziale che ha prodotto margini di manovra
differenziati in materia di politica congiunturale, il Consiglio è stato, quindi, autorizzato ad
adottare, nel settore di cui si discorre, direttive giuridicamente vincolanti per gli Stati membri;
diversamente da quanto avvenuto per la politica economica nazionale, il cui coordinamento
è stato, generalmente, demandato ad atti di soft law, quali, essenzialmente, le raccomandazioni.180
Nell’architettura comunitaria, gli aiuti finanziari pubblici sono stati, pertanto, concepiti,
essenzialmente, come misure di sostegno alle fluttuazioni del quadro economico funzionali a
innescare la nascita e lo sviluppo di un’economia non più rispondente ad interessi
richiesta rivolta ai singoli Stati di astenersi da iniziative domestiche nel settore carbo-siderurugico veniva, quindi,
compensata dai benefits che la CECA concedeva agli stessi, assumendosi l’onere del relativo finanziamento.
179 Sul punto, amplius, A. CERRI, Gli aiuti di Stato nel quadro degli interventi pubblici in economia, in G. LUCHENA – S.
PRISCO (a cura di), Aiuti di Stato tra diritti e mercato, in Nova Juris Interpretatio, Quaderno n. 3/2006, p.3 ss.
180 Sul ruolo svolto dagli atti di soft law all’interno delle fonti del diritto tributario europeo, ex multis: F.
ROCCATAGLIATA, Diritto tributario comunitario, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, (coordinato da V.
UCKMAR), Padova, 2002; P. VALENTE, Fiscalità sopranazionale, Milano, 2006, p.126; A. AMATUCCI, La normativa
comunitaria quale fonte per l’ordinamento tributario interno, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, cit., p.1165.; L.
PEGORARO, Le fonti del diritto, in AA.VV., Diritto costituzionale e pubblico, Torino, 2002, p.99.
133
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esclusivamente nazionali, ma sovranazionali; in quanto tali attratti nell’orbita europea
attraverso la regolamentazione e la supervisione delle relative Istituzioni.
È, dunque, per questa ragione che al generale divieto di aiuti di Stato è stato posto come
contraltare l’impegno a una politica comune di interventi pubblici nel settore finanziario e
industriale; oltre che di promozione degli investimenti, con strumenti e finalità condivise.181
Nel corso dell’ultimo cinquantennio, la disciplina in discorso ha, nondimeno, subito
profonde modificazioni, non solo, in virtù dell’avvicendarsi dei riferimenti normativi,182ma,
anche, a causa dei diversi approcci mantenuti da Istituzioni europee e autorità nazionali nella
concreta applicazione della stessa.
Da un’iniziale fase di scarsa incidenza dell’applicazione delle regole sugli aiuti di Stato,
seguita da una fase di notevole attivismo, in cui la tenuta del mercato costituiva l’elemento
fondante dell’allora Comunità economica, si è, invero, più recentemente, giunti ad un
riequilibrio tra il perseguimento di obiettivi marcatamente ispirati al mercato e alla
concorrenza, da un lato, e la salvaguardia di interessi a carattere generale, dall’altro.183
Le ragioni della politica e quelle dell’economia si sono, così, «di volta in volta, combinate
nella realtà sovra-nazionale, segnando vuoi la prevalenza delle une sulle altre; vuoi un loro
contemperamento e un’osmosi reciproca, in sintonia con la parallela evoluzione della
costituzione economica europea nel suo complesso».184
Sembra, pertanto, sostanzialmente, condivisibile l’interpretazione dottrinale secondo cui
l’evoluzione conseguita dalla disciplina in discorso si presta a essere schematizzata in
funzione di quattro differenti momenti applicativi;185l’ultimo dei quali può riferirsi al periodo
di crisi economica e finanziaria che, dal 2008, sta interessando il tessuto produttivo europeo.
In tal senso, L. DI RENZO, Gli aiuti di Stato nel contesto della finanza pubblica, in M. INGROSSO- G. TESAURO,
Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Napoli, 2009, p. 83, in cui una dettagliata spiegazione degli istituti e delle istituzioni in
ambito U.E.
182 È noto il cammino dell’unificazione europea, che è stato segnato da alcune tappe fondamentali, quali: il Trattato
di Parigi, del 1951, istitutivo della CECA, giunto a scadenza il 23 luglio 2002; la firma, a Roma, del Trattato istitutivo
della Comunità economica europea, nel marzo 1957; l’Atto Unico europeo, siglato nel febbraio 1986; il Trattato di
Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, noto, anche, come Trattato sull’Unione europea; il Trattato di Amsterdam,
firmato il 2 ottobre 1997; il Trattato di Nizza, del 26 febbraio 2001; la firma della Costituzione Europea, a Roma, del
29 ottobre 2004; e il Trattato di Lisbona del 13 marzo 2007.
183 Cfr. C. SCHEPISI, La “modernizzazione della disciplina sugli aiuti di Stato secondo l’Action Plan della Commissione europea: un
primo bilancio, in (a cura di), La “modernizzazione” della disciplina sugli aiuti di Stato, cit., p.17.
184 Cfr. G.L. TOSATO, L’evoluzione della disciplina sugli aiuti di Stato, in C. SCHEPISI (a cura di), La “modernizzazione” della
disciplina sugli aiuti di Stato, cit., p. 3 ss.
185 Cfr. G.L. TOSATO, L’evoluzione della disciplina sugli aiuti di Stato, cit., p. 4. Nell’ottica di tale Autore, una prima fase
risulta caratterizzata dall’applicazione marginale delle norme in materia di aiuti di Stato, cui ostavano sia le difficoltà
incontrate dalla Commissione nello scalfire regimi di aiuti nazionali consolidati nel tempo, sia le gravi turbolenze
economiche e finanziarie degli anni Settanta, originate dalla crisi petrolifera e dal collasso del sistema monetario di
Bretton Woods,185che contribuivano ad intensificare gli interventi statali a sostegno delle imprese e dell’occupazione.
In detto periodo, protrattosi fino alla fine degli ’70, l’Esecutivo europeo ha adottato un approccio pragmatico, per
181
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È evidente come un tale contesto avrebbe, teoricamente, richiesto l’intervento diretto
delle Istituzioni comunitarie atto a “governare” l’emergenza, attraverso azioni comuni
predisposte per il tramite di risorse proprie dell’Unione; nondimeno, la resistenza posta da
alcuni Stati a farsi carico di oneri economici a vantaggio di altri ha, ancora una volta,
precluso l’auspicabile scatto qualitativo del processo di integrazione europea, a beneficio di
massicci interventi statali destinati a ridare stabilità al sistema e sostenere investimenti e
occupazione.
Queste azioni di contrasto sono state attuate da ciascun Paese membro mediante risorse
attinte al proprio bilancio nazionale e in base a logiche eminentemente domestiche; di modo
cui, se da un lato, si è sforzato di stabilire orientamenti comuni sugli aiuti regionali e settoriali, negoziando con gli
Stati i contenuti delle politiche economiche nazionali; dall’altro, ha mancato di contrastare l’adozione di interventi
protezionistici lesivi della concorrenza intracomunitaria, in ossequio alle sottese esigenze di carattere politico e
sociale, accordando, per questa via, agli Stati membri la possibilità di attuare i loro provvedimenti a sostegno di
programmi industriali e occupazionali senza esercitare particolari interferenze. Tale atteggiamento ha subito un
primo rivolgimento, intorno alla metà degli anni ‘80, in funzione di due importanti sviluppi segnati dal processo di
integrazione europea: a) il completamento del mercato interno, varato con il Libro Bianco della Commissione, nel
1984, e sancito dall’Atto Unico Europeo, nel 1987, che ha reso più manifesta la necessità di contrastare le distorsioni
prodotte dagli aiuti sul funzionamento di un mercato concorrenziale; e, b) la fissazione dei vincoli di bilancio imposti
dal Trattato di Maastricht che hanno costretto gli Stati membri a tener conto dei propri disavanzi di bilancio e a
limitare le risorse disponibili per erogazioni ed incentivazioni. Siffatti documenti evidenziano, invero, un
atteggiamento tutt’altro che neutrale nei confronti dell’intervento statale nell’economia, che, in nome della parità di
trattamento tra imprese pubbliche e private, ne sindacava necessità e ragionevolezza, sancendone, frequentemente,
l’illegittimità ove lo giudicasse lesivo della concorrenza. La rigorosa tendenza ora segnalata si è, peraltro, estesa a
tutti gli aspetti della disciplina in esame: dalla definizione d’impresa alla nozione stessa di “aiuto”, in virtù di una
mutata concezione dei rapporti tra interessi nazionali e interesse europeo. I primi, anche ove ispirati da ragionevoli
finalità sociali, non sono stati, particolarmente, ritenuti sufficienti a giustificare singoli aiuti, la cui legittimità è stata
subordinata alla rispondenza al superiore interesse comunitario identificato con il corretto funzionamento delle
regole del mercato. È proprio a quest’ultimo che la Commissione ha, infatti, attribuito il compito di risolvere i
problemi di crescita e occupazione dell’intero territorio europeo, sostituendosi all’assistenzialismo statale, i cui
benefici sono stati giudicati, non solo, inidonei a conseguire uno sviluppo socio-economico duraturo, ma, anche,
potenzialmente lesivi delle istanze di altri Stati membri. Sul finire degli anni ’90, gli ulteriori sviluppi registratisi in
sede europea hanno, nondimeno, segnato un’ulteriore evoluzione della disciplina sugli aiuti di Stato, nel senso di un
riequilibrio dei rapporti tra regole di mercato ed interessi generali. Con i Trattati di Amsterdam (1997) e di Lisbona
(2007), si è, invero, rafforzata la dimensione sociale dell’Europa, già delineata a Maastricht (1992). Prova ne sia che il
nuovo art.3 TFUE parla di economia “sociale” e di mercato e non più, esclusivamente, di economia di mercato; e
che la concorrenza non figura più tra i fini dell’Unione, ma, solo, tra gli strumenti dell’azione europea.Tanto ha
comportato che il concetto di pregiudizio agli scambi intracomunitari sia andato, progressivamente, restringendosi
per tenere conto della produzione di beni e servizi non facilmente commerciabili; che i nuovi regolamenti di
esenzione per categoria abbiano finito con l’allargare, notevolmente, il campo degli interventi pubblici attuabili in
assenza di notifica ed assenso della Commissione; e che lo stesso rapporto tra aiuti compatibili ed incompatibili,
allontanandosi dall’originaria dicotomia tra regola ed eccezione, sia divenuto quello intercorrente tra due categorie
complementari da valutare in base a criteri flessibili, bilanciando effetti positivi e negativi delle singole misure
esaminate. Detto rivolgimento attiene, particolarmente, al concetto di interesse europeo che presiede alla distinzione
tra aiuti ammessi e vietati; quest’ultimo, infatti, non si identifica più, esclusivamente, con il mercato e la concorrenza,
estendendosi a finalità sociali ormai stabilmente recepite dall’ordinamento comunitario. Se nelle due fasi sopra
descritte si assisteva, alternativamente, alla prevalenza della costituzione economica europea su quella nazionale e
viceversa, ora si va, dunque, verso una composizione delle antinomie ispirata ai dettami di un’economia sociale di
mercato volta a contemperare valori economici e fini sociali.
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che all’Unione sia, sostanzialmente, rimasta una mera funzione di coordinamento, peraltro
priva di efficacia generale e, per sua natura, inidonea a precludere l’adozione di misure
disomogenee e potenzialmente distorsive della concorrenza.
Ad essere posta in discussione è stata, così, la stessa “tenuta” del mercato comune e delle
regole sugli aiuti; da più parti paventandosi, addirittura, un capovolgimento della regola
comunitaria: da aiuti sempre vietati salvo autorizzazione, ad aiuti sempre autorizzati salvo
divieto.186Il temuto collasso del mercato comune non si è, però, verificato, né è stata
necessaria alcuna sospensione generalizzata delle regole sugli aiuti.
Allo stato, permangono, quindi, in vigore le ordinarie procedure di notifica e di
approvazione previste dal Trattato, fatte salve le esenzioni per categoria, cui i singoli
ordinamenti nazionali possono, generalmente, ricorrere, essendo la Commissione
intervenuta, esclusivamente, per fornire orientamenti sulle modalità attraverso cui intende
applicare la deroga di cui all’art.107, n.3, lett.b), TFUE nei due principali settori di
intervento: la ricapitalizzazione delle imprese finanziarie;187 ed il finanziamento delle imprese
in crisi.188Nel complesso, sembra, pertanto, possibile affermare che il sistema abbia tenuto.
Chiaramente, permangono i rischi per il mercato e la concorrenza posti dall’incognita
della definitiva strategia di uscita dalla crisi e dai guasti nel frattempo intervenuti. Il giudizio
resta, pertanto, necessariamente sospeso. Sta di fatto che anche nella materia di cui si
discorre si è assistito a un progressivo spostamento dell’equilibrio istituzionale.
Se, invero, inizialmente, era stata la Commissione ad assumere una funzione, nel
contempo, regolatoria ed amministrativa del settore, a partire dalla fine degli anni ’90, è
stato, invece, il Consiglio, attraverso l’emanazione dei regolamenti n.994/98189 e
n.659/99,190a farsi promotore della svolta successivamente impressa alla richiamata
disciplina, come dimostra, peraltro, la circostanza che sia stato proprio il Consiglio Ecofin,
del 7 ottobre 2010, a proclamare l’urgente necessità dell’intervento pubblico nell’economia; e
a stabilire che detto intervento dovesse attuarsi a livello nazionale, pur se in un quadro
coordinato e secondo principi comuni stabiliti dall’Unione.
M. DE ANDREAIS – M. MARÈ – R. PERISSICH, in G. AMATO (a cura di), Governare l’economia globale, Astrid, 2009.
Comunicazione della Commissione, del 13 ottobre 2008, in G.U., n. C 270, del 25 ottobre 2008; e del 5 dicembre
2008.
188 Comunicazione della Commissione del 17 dicembre 2008, in G.U. n. C 16, del 22 gennaio 2009 e 25 febbraio
2009, in G.U. n. L 56, del 28 febbraio 2009, p.17.
189 Regolamento CE n.994/98, del 7 maggio 1998, sull’applicazione degli articoli 92 e 93 a determinate categorie di aiuti di
Stato orizzontali, in G.U., n. L 142, del 14 maggio 1998, p.1.
190 Regolamento CE n. 659/99, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’art.93 del Trattato Ce, in G.U., n. L
083, del 27 marzo 1999, p.1.
186
187
136
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2. L’evoluzione giurisprudenziale del rapporto tra norme interne e comunitarie in materia di aiuti di
Stato
Sono, dunque, i citati rivolgimenti dell’approccio tenuto dalle Istituzioni comunitarie
nell’applicazione della disciplina sugli aiuti di Stato, unitamente allo spiccato protagonismo
interpretativo191che, da sempre, contraddistingue i legislatori tributari nazionali, a indurre chi
scrive a porre in evidenza l’esistenza di un vero e proprio problema metodologico in materia.
In quest’ottica, occorre, preliminarmente, indagare sul grado di integrazione e,
conseguentemente, di efficacia da attribuire alle norme europee rispetto alle norme
interne.192 Tale passaggio giuridico risulta, invero, fondamentale per definire il concetto di
sovranità, attualmente, riferibile all’Unione; o, meglio, per chiarire la portata del
trasferimento di sovranità operato in suo favore dagli Stati membri.193
Sul punto, com’è noto, si contrappongono, tradizionalmente, due teorie riconducibili alle
pronunce della Corte Costituzionale (c.d. teoria dualista) e della Corte di Giustizia (c.d. teoria
monista). È, dunque, anzitutto, a detta giurisprudenza che occorre richiamarsi per definire la
natura del rapporto in discorso.
La Corte Costituzionale si è pronunciata, per la prima volta, in maniera compiuta, sul
rapporto tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, nella sentenza n.14, del 24
febbraio 1964194 (Costa c. Enel). Detta sentenza ebbe, in particolare, ad affermare come la
facoltà di stipulare Trattati con cui si assumano limitazioni di sovranità e di darvi esecuzione,
con legge ordinaria, non importi alcuna deviazione delle regole vigenti in ordine all’efficacia
nel diritto interno degli Stati, «non avendo l’art.11 Cost. conferito alla legge ordinaria, che
Il termine è mutuato da R. LUPI, Retroattività o interpretazione a contrario?, in Rass. Trib., 1994, p. 407; nello stesso
senso anche L. PERRONE, Certezza del diritto e leggi di interpretazione autentica in materia tributaria, in Rass. Trib., 2001,
p.1050 ss.; G. MARONGIU, I vincoli statutari alla esegesi legislativa in materia tributaria, in Dir. Prat. Trib., n.5/2011, p. 957
ss. secondo cui, più specificamente, l’atteggiamento mostrato dal legislatore tributario italiano affonda le sue radici
«in talune specificità proprie del nostro settore ordinamentale: sicuramente la costante (e in certa misura fisiologica)
mutevolezza nel tempo del quadro legislativo che impedisce spesso la sedimentazione dei dati normativi, premessa
necessaria per il consolidarsi di indirizzi interpretativi idonei a ingenerare certezza quanto ai margini di applicabilità
della disposizione tributaria nella platea dei suoi destinatari (in primis i contribuenti ma altresì gli uffici finanziari):
onde l’illusione che una siffatta garanzia di certezza si possa e si debba assicurare (anche) per il tramite di interventi
interpretativi legislativi». Il tema delle disfunzioni della legislazione tributaria è stato, inoltre, trattato da: A. BERLIRI,
Sulle cause della incertezza nell’individuazione e interpretazione della norma tributaria applicabile ad una determinata fattispecie, in
Dir. prat. trib., 1979, p.3 ss.; G. TREMONTI, Scienza e tecnica della legislazione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, p.51 ss.; S.
CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, p.1 ss. e ID., Osservazioni sulla
politica legislativa in materia fiscale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1995, p.744 ss.; M. LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria,
Milano, 2002, p.43 ss.
192 Sul punto, v., G. TESAURO, Diritto comunitario, IV, Padova, 2005, p.83.
193 Cfr. P. BORIA, Diritto Tributario Europeo, Milano, 2010, p. 52.
194 Il testo della sentenza è riportato in Giur. Cost., n. 1/1964, p.129 ss. Del medesimo tenore, Corte Cost.,
n.98/1965.
191
137
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rende esecutivo il Trattato, un’efficacia superiore a quella propria di tale fonte del diritto»; 195
ragion per cui il contrasto tra leggi interne e norme comunitarie deve essere risolto secondo
gli usuali criteri della successione delle leggi nel tempo.
Tale impostazione subì un primo, significativo, cambio di rotta con la sentenza 27
dicembre 1973, n.183196 (c.d. Frontini), mediante cui gli stessi giudici, nell’operare un primo
sostanziale riconoscimento della prevalenza della norma comunitaria su quella interna
successiva, ebbero a sottolineare come esigenze di eguaglianza e di certezza giuridica
postulassero la diretta applicabilità delle norme comunitarie in tutti gli Stati membri, al fine
di consentirne l’eguale applicazione nei confronti di ogni cittadino della Comunità.197
Proprio in questa sede, i giudici delle leggi arrivarono, nondimeno, ad affermare che: «in
base all’art.11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente
per il conseguimento delle finalità ivi indicate» e che dovesse, quindi, «escludersi che siffatte
limitazioni concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma -sottoscritto da Paesi i cui
ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei
cittadini- possano, comunque, comportare per inammissibile il potere di violare i principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona
umana».
In quest’ottica, sembrò, quindi, ovvio affermare che «qualora dovesse mai darsi
dell’art.189 una sì aberrante interpretazione (…) sarebbe» comunque, «assicurata la garanzia
del sindacato giurisdizionale della Corte Costituzionale sulla perdurante compatibilità del
Trattato con i predetti principi fondamentali».
Alla stessa stregua, nell’affermare la propria competenza a verificare la perdurante
compatibilità del Trattato con i principi fondamentali, la Corte oppose un controlimite
rappresentato dalla necessità di rispettare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale
e i principi inalienabili della persona umana.
Detto orientamento venne, peraltro, confermato in diverse sentenze emesse dalla
medesima Corte lungo tutti gli anni Settanta, le quali, sul presupposto della prevalenza e
della diretta applicabilità delle norme comunitarie, stabilirono l’illegittimità di leggi posteriori
che fossero state ritenute incompatibili, che derogassero o, semplicemente, riproducessero i
regolamenti comunitari.198
La questione riguardava, come è noto, l’incostituzionalità della legge istitutiva dell’ENEL ed il suo contrasto con
l’art.11 Cost. Sul punto: V. CRISAFULLI- L. PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990.
196 Cfr. Giust. Cost., n.1/1973, p.2401.
197 Cfr. A. FANTOZZI, Diritto Tributario, 1998, p.117, secondo cui i limiti di sovranità sono una conseguenza della
adesione alla Comunità, «fermo restando i principi tra i quali si è ritrovato il principio democratico ex art.23 Cost.».
198 In quest’ottica, particolarmente, Corte Cost., sentenza 22 ottobre 1975, n.232.
195
138
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Siffatte pronunce, per quanto rilevanti, non si spinsero, tuttavia, ancora, a riconoscere il
potere del giudice domestico di disapplicare la norma interna contrastante con la norma
comunitaria, stabilendo, in questo caso, il sindacato di legittimità costituzionale della norma
interna che, configgendo con la norma comunitaria, violasse, indirettamente, l’art.11 Cost.;
mentre, per converso, giudicarono che il regolamento comunitario abrogasse,
implicitamente, le leggi interne, previgenti e incompatibili, secondo il criterio cronologico.
Per questa via, la problematica dei rapporti tra norme comunitarie e ordinamento
nazionale sembra aver, conseguentemente, trovato completa risoluzione, solo, con la
decisione n. 170/1984 (Granital c. Ministre delle finanze),199con cui, la Corte, muovendo dalla
presunzione di conformità della legge interna al regolamento comunitario ha,
definitivamente, chiarito che nell’ipotesi in cui vi sia un’irriducibile incompatibilità fra la
norma interna e comunitaria, sia quest'ultima a dover, in ogni caso, prevalere.
Tale criterio opera, nondimeno, diversamente, a seconda che il regolamento segua o
preceda nel tempo la disposizione della legge statale. Nel primo caso, la norma interna deve,
infatti, ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento
comunitario, la quale andrà, necessariamente, applicata dal giudice nazionale.
Nell’interpretazione della Corte, detto effetto risulta, altresì, retroattivo, quando la
disposizione comunitaria confermi la disciplina già dettata - riguardo al medesimo oggetto, e
prima dell'entrata in vigore della configgente norma nazionale - dagli organi della CEE;
ritenendosi, in questa evenienza, le norme interne caducate sin dal momento al quale risale la
loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento
ha richiamato.
Su una diversa linea argomentativa si pone, invece, la sistemazione data all'ipotesi in cui la
disciplina dettata dalla legge interna configga con la previgente normativa comunitaria.
É stato, invero, ritenuto che, per il fatto di contrastare tale normativa, o anche di
derogarne o di riprodurne il contenuto, la norma interna risulti aver offeso l'art. 11 Cost. e
possa in conseguenza esser rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità
costituzionale.
La stessa Consulta ha, inoltre, chiarito come il sistema di prevalenza del diritto europeo
sul diritto nazionale antinomico risulti caratterizzato dalla circostanza che la norma interna
configgente, pur restando integra e valida, non essendo né abrogata, né annullata, non
acquisti alcuna rilevanza per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale.
In Banca dati Fiscovideo e in Giurispr. Cost., n.1/1984, p.1098. Analogo tenore assumono le successive sentenze nn.
48/1985, 141/1986, 168/1991.
199
139
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Il richiamato meccanismo di prevalenza automatica si verifica, infatti, esclusivamente,
quando la disciplina europea possa ritenersi compiuta e immediatamente applicabile;200e
quando la stessa non si ponga in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento e
con i diritti inviolabili dell’uomo (c.d.controlimiti).
È, peraltro, significativo che, anche in questo contesto, si affermi, chiaramente, come
premessa fondante dell’intero ragionamento svolto, che «l’ordinamento comunitario e quello
nazionale sono ordinamenti distinti, ancorché comunicanti e collegati (per mezzo dei
Trattati) e che la norma comunitaria è prodotta da una fonte comunitaria, cioè da un
ordinamento distinto, ancorché coordinato rispetto all’ordinamento statale».
Tale pronuncia vale, in specie, a confermare la posizione dualista tradizionalmente
assunta dalla Corte Costituzionale in relazione ai rapporti tra i due ordinamenti,
orientandola, tuttavia, nella direzione di un sempre maggiore riconoscimento della sovranazionalità delle norme europee, nonché delle sentenze di condanna, che ha permeato,
anche, la giurisprudenza costituzionale successiva.201
In questo senso, giova, particolarmente, citare la sentenza n.168/1991,202la quale,
nell’ampliare la “categoria” di atti comunitari direttamente applicabili, ha riconosciuto la
prevalenza sul diritto interno delle c.d. direttive dettagliate, cioè di quelle direttive a cui,
nonostante il mancato recepimento nell’ordinamento nazionale, venga, parimenti,
riconosciuta immediata applicabilità all’interno dello stesso, in presenza di determinati
presupposti elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e dati: a) dalla chiarezza, precisione
e completezza delle norme; b) dall’assenza di qualsiasi condizione alla loro efficacia; c)
dall’inutile decorso del termine per il recepimento a livello nazionale; precisando, peraltro,
come la norma comunitaria prevalente non renda disapplicabile la norma interna contrastante,
ma, solo non applicabile.203
Nella stessa ottica, può, peraltro, menzionarsi, anche, la sentenza 10 novembre 1994,
n.384, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Umbra
ritenuta contrastante con le norme di un regolamento europeo, ha individuato, accanto alla
Quando, cioè ponga agli Stati degli obblighi chiari, precisi ed incondizionati. Sul punto: Corte Cost., sent. n.47 e
48 del 1985.
201 Cfr. sentenze n.113, del 23 aprile 1984, in Giurispr. Cost., n.1/1985, p.694; e n.389, dell’11 luglio 1989, in Giurispr.
Cost., n.1/1989, p.1757. Sul punto, si rimanda alle vaste considerazioni espresse da A. AMATUCCI, Il conflitto tra norme
internazionali ed interne tributarie, in Riv. Dir. Trib. Intern., 1999, p.82, secondo cui, particolarmente: «la disapplicazione
rende più snello il processo di eliminazione del sistema di leggi contrastanti con le leggi conseguenti a norme
comunitarie» sebbene, poi, «tanto la dichiarazione di illegittimità che la disapplicazione presuppongono che esisteva
una legge incompatibile».
202 Il testo della sentenza è stato pubblicato in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., n.4/1992, p.85 ss., con commento di M.C.
FREGNI, Sulla diretta applicabilità delle direttive comunitarie nell’ordinamento tributario italiano, p.89 ss.
203 Il corsivo è da attribuirsi a P. BORIA, Diritto Tributario Europeo, Milano, 2010, p.56.
200
140
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disapplicazione della norma interna, nel caso di contrasto col diritto comunitario, anche, la
dichiarazione di incostituzionalità della stessa, per l’ipotesi in cui non sia ancora entrata in
vigore.
In detta sede, il giudice delle leggi ha, invero, affermato che: «di fronte alla Comunità
europea è lo Stato a essere responsabile delle violazioni del diritto comunitario, anche
quando derivino dall’esercizio della potestà legislativa della Regione; e che il mantenimento,
nell’ordinamento interno, di un provvedimento incompatibile con le disposizioni del
Trattato è considerato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee
quale trasgressione degli obblighi posti dal Trattato stesso».
Per quanto attiene, poi, specificamente alle competenze regionali, la stessa Corte ha,
infine, dichiarato che «esse sono suscettibili di operare solo ove i loro limiti non risultino
contrastanti con le discipline e i limiti introdotti dalla normativa comunitaria e dai
conseguenti provvedimenti attuativi»204.
Tale orientamento è stato, del resto, ribadito sia dalle diverse pronunce della Corte di
Cassazione205intervenute in materia, sia dalla più recente giurisprudenza costituzionale, come
risulta, particolarmente, attestato dalla lettera della sentenza n.103, del 2008, attraverso cui si
attiva il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, nell’ambito di un giudizio
di costituzionalità promosso dallo Stato, al fine di dichiarare l’incostituzionalità di una legge
regionale.
Diversamente dalla Corte Costituzionale, la Corte di Giustizia ha assunto una posizione
favorevole all’orientamento monista, secondo cui ogni ordinamento nazionale trova la propria
legittimazione dalle norme internazionali superiori.
In tal senso, giova, anzitutto, citare la sentenza 5 febbraio 1963 emessa in causa C-26/62
(Van gend & Loos) in cui i giudici europei, nell’affermare la diretta efficacia delle direttive
negli ordinamenti nazionali, osservarono come: «la Comunità economica europea»
costituisse «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a
favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato, seppure in settori limitati, ai loro poteri
sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli Stati membri ma pure i loro cittadini».
Cfr. Corte Cost., sent. n. 384/1994.
Sul punto, v. Cass.Civ. S.U., sentenza n.3458, del 12 aprile 1996, in cui si chiarisce che «la direttiva…ha carattere
vincolante per il giudice nazionale italiano e comporta non l’abrogazione ma la mera disapplicazione diretta ed
immediata della norma difforme dal diritto interno. In ordine ai rapporti tra diritto comunitario e legge nazionale va
richiamata la giurisprudenza dei giudici della legge (sentenze 168/1991 e 170/1984 della Corte Costituzionale)
secondo la quale normativa comunitaria…tutte le volte che essa soddisfa il requisito della immediata applicabilità,
entra e permane in vigore nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello
Stato». Sul punto M.V. SERRANO’, La riserva di legge tributaria ed il consenso al tributo, Torino, 2008.
204
205
141
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Sul medesimo versante argomentativo, può, inoltre, porsi la sentenza del 15 luglio 1964,
emessa in causa C-6/1964, (Costa c. Enel), con cui la stessa Corte stabilì che: «l’obbligo
imposto agli Stati membri dal Trattato CEE (…) è integrato nell’ordinamento giuridico degli
Stati membri, ha in questi un valore imperativo e riguarda direttamente i loro cittadini, ai
quali attribuisce dei diritti individuali che i giudici nazionali devono tutelare».
La successiva evoluzione della giurisprudenza comunitaria, che ha il suo corrispondente
nella giurisprudenza della Corte Costituzionale degli anni Settanta, trova, invece, la sua
espressione più significativa nella sentenza Simmenthal, del 6 marzo 1979, causa 92/78, in cui
è stato ammesso, per la prima volta, il primato del diritto comunitario, ponendosi,
contestualmente, l’obbligo in capo al giudice nazionale di disapplicare la norma interna
contrastante «senza dover chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o
mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale».
Tale pronuncia, per quanto rilevante, non ha, tuttavia, risolto un ulteriore interrogativo
originato dal seguente ragionamento: «se, infatti, una volta reso manifesto il principio di
prevalenza, si fosse lasciata ai giudici nazionali la piena facoltà di decidere i termini entro cui
agire, o al legislatore nazionale quella di modificare la legge secondo criteri di diritto interno,
si sarebbero potute creare delle discrasie tra volontà interpretativa del giudice comunitario e
la sua concreta realizzazione».206
Intervenendo più in dettaglio, con sentenza 1 settembre 1999, emessa in causa C126/1997, la Corte di Giustizia ha, pertanto, chiarito come la prevalenza del diritto
comunitario debba essere «assoluta», cioè tale da «impedire la valida formazione di nuovi atti
legislativi nazionali nella misura in cui fossero incompatibili con le norme comunitarie».207Per
questa via, i principi comunitari considerati fondamentali devono, quindi, essere riconosciuti
come tali anche nei singoli ordinamenti nazionali.208
3. Interpretazione e metodo giuridico nella disciplina sugli aiuti di Stato in materia fiscale
Come appare evidente anche da questa breve rassegna, il tema dei rapporti tra il diritto
interno e quello comunitario è, dunque, abbastanza complesso e ricco di implicazioni,
nonché in continua evoluzione, sotto la spinta inarrestabile di fenomeni sino a pochi decenni
orsono sconosciuti e inimmaginabili.
Cfr. N. CASERTANO, Riflessioni in merito alla gerarchia delle norme tributaria alla luce della recente evoluzione del diritto interno,
comunitario e convenzionale, in Rass. Trib., n.3/1995, p. 458.
207 Cfr. Corte giust., 1978, cit. in N. CASERTANO op. loc. ult. cit, p.459.
208 In tal senso, Corte giust., sentenza 1 settembre 1999, causa C-126/1997, Echo Swiss Time Ltd c. Benetton International
N.V.
206
142
2/2012
A fronte dei rilevanti eventi dell’integrazione europea e della globalizzazione dei mercati,
lo stesso contenuto della nozione di sovranità nazionale, particolarmente in materia
tributaria, si è, invero, frammentato tra diversi livelli istituzionali, all’interno dello Stato tra
diversi livelli sub-statali (quali ad esempio le regioni),209così come europei e internazionali
(organismi di cooperazione internazionale, WTO), che interagiscono tra di loro non più in
termini di sotto o sovra-ordinazione ma di integrazione.210
L’esito di tale processo di osmosi sembra indicare che nessuno può più rivendicare per sé
stesso un ruolo superiore, ma neppure alcuno possa dichiarare di non essere condizionato
nella interazione con gli altri ordinamenti.211
Anche il modo di comporre i rapporti tra gli Stati e tra questi ultimi e l’ordinamento
europeo non sembra, quindi, più rappresentabile, semplicemente, in termini di teoria monista,
o di teoria dualista dovendosi, piuttosto, spiegare in termini di «integrazione, composizione e
bilanciamento tra principi».212
Ciò comporta, per l’interprete del diritto, la necessità di monitorare, nello studio dei
problemi specifici, lo stato di avanzamento del processo descritto, oltre che la possibilità di
ricondurlo, ancora, negli schemi tradizionali.213
Per effetto dei richiamati fenomeni le stesse manifestazioni di ricchezza si atteggiano,
invero, in modo nuovo e diverso e, soprattutto, diventano più difficilmente riconducibili ad
una dimensione spaziale definitiva, favorendo e accentuando un pluralismo dei livelli di
governo e normazione che impone di verificare, non solo, i termini del rapporto
intercorrente tra norme nazionali ed europee, ma anche, l’eventuale rilevanza di una
In quest’ottica, per quanto attiene, specificamente, al nostro Paese, giova, citare la Riforma del Titolo V, della
Costituzione. È, infatti, noto come l’articolo 117, co.1, novellato, disponga che «la potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali». Tale disposizione attribuisce, quindi, un rilievo costituzionale alla partecipazione
dell’Italia al processo di integrazione europeo, imponendo al legislatore statale e regionale il rispetto del diritto
comunitario. Detto rilievo è stato ribadito, anche, dalla Corte Costituzionale, che, nell’ordinanza n. 103/2008,
afferma «che, ratificando i Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte dell’ordinamento comunitario, e cioè di un
ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, e ha contestualmente trasferito, in base
all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome) nei settori definiti
dai Trattati medesimi»; di modo che «le norme dell’ordinamento comunitario» vincolino «in vario modo il legislatore
interno, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti
inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione».
210 Così C. SACCHETTO, La trasformazione della sovranità tributaria: i rapporti tra ordinamenti e le fonti del diritto tributario, in
C. SACCHETTO (a cura di), Principi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011, p. 4.
211 Su tali aspetti si rinvia, più specificamente, a G. BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto tra
ordinamento costituzionale, comunitario, e diritto internazionale, Padova, 2008, spec. Cap. I.
212 Cfr. C. SACCHETTO, op.ult.cit., p. 6.
213 Sulla centralità del metodo nell’interpretazione della norma tributaria, A. AMATUCCI, L’interpretazione della norma di
diritto finanziario, Napoli, 1965, p.1 ss.
209
143
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medesima fattispecie ai fini di diverse obbligazioni tributarie ascrivibili ai menzionati livelli di
governo.214
In quest’ottica, come efficacemente osservato in dottrina,215la peculiarità dell’interazione
tra ordinamento nazionale e comunitario ai fini dell’interpretazione delle rispettive norme
può, peraltro, cogliersi con maggiore precisione ove si consideri che il meccanismo di
collaborazione tra autorità giudiziali nazionali e sovranazionali, posto a base del
funzionamento del diritto dell’Unione Europea, obbliga ciascun giudice ad interpretare il
proprio diritto.
Per questa via, infatti, «l’altro diritto (ossia quello nazionale, se visto dalla prospettiva del
giudice europeo, e quello sovranazionale, se visto dalla prospettiva del giudice nazionale)
viene letto e recepito come mero fatto, acquisito nell’ambito delle procedure di rinvio
pregiudiziale nei precisi termini in cui viene interpretato e descritto dall’altro giudice»,
determinando una competenza esclusiva ripartita in merito all’interpretazione delle norme,
«nell’ambito di un fenomeno di coordinazione del pluralismo giuridico, che segue una linea
di demarcazione corrispondente all’ambito operativo dei rispettivi sistemi giuridici (nazionale
e sopranazionale)».216
Ciò avviene, ad esempio, nelle procedure di rinvio pregiudiziale in cui il richiamato
meccanismo assicura che l’interpretazione delle norme giuridiche sia coerente in ciascuno dei
due ordinamenti, assicurando al primato del diritto sovranazionale l’effettiva possibilità di
trovare applicazione.
La Corte di Giustizia Europea tutela, invero, rigorosamente il funzionamento del riparto
di giurisdizione a livello interpretativo; come dimostra, peraltro, la circostanza che, ove
dall’interpretazione della norma interna da parte del giudice nazionale emerga un contrasto
con quella sovranazionale, quest’ultimo, ancorché di ultima istanza, sia tenuto a disapplicare
la norma interna senza necessità di rimettere la questione alla Corte di Giustizia, come
altrimenti dovrebbe fare, pena la responsabilità finanziaria dello Stato.
Il pluralismo sovranazionale nell’esperienza dell’Unione Europea genera, inoltre, un
diverso tipo di questioni ove sia richiesto al legislatore nazionale di intervenire a livello
normogenetico per attuare il diritto sovranazionale in quello nazionale, ad esempio, a seguito
dell’emanazione di direttive. Infatti, pur essendo queste ultime normalmente rivolte agli Stati
Sul punto, amplius, G. TREMONTI, La fiscalità del terzo millennio, in Riv. sc. fin. Dir. fin, n.1/1998, p.83, secondo cui i
richiamati fenomeni spingeranno i legislatori nazionali ad identificare specifiche forme di prelievo idonee a colpire le
nuove forme del benessere legate a manifestazioni immateriali di ricchezza.
215 Cfr. P. PISTONE, Pluralismo giuridico ed interpretazione della norma tributaria, in AA.VV., Dal Diritto Finanziario al Diritto
Tributario- Studi in onore di Andrea Amatucci, Vol. I, cit., p.231 ss.
216 Così P. PISTONE, Pluralismo giuridico ed interpretazione della norma tributaria, cit., p.239.
214
144
2/2012
membri, non è escluso che le stesse siano in grado di produrre effetti diretti;217il che si
verifica, frequentemente, proprio, in materia fiscale.218
In queste ipotesi, l’interpretazione delle direttive determina, infatti, un interessante
sdoppiamento dell’attività ermeneutica, occorrendo, non solo, conoscere il significato della
norma nazionale di trasposizione della direttiva ed i relativi effetti; ma, anche, accertarne la
rispondenza al testo sovranazionale, determinando, nel contempo, quali effetti si possano,
immediatamente, produrre a vantaggio dei contribuenti ed, eventualmente, dello Stato
membro, dal testo della direttiva.
Dinanzi alle richiamate incertezze applicative, peraltro, accentuate dal declino della legge
statuale e dal corrispondente sviluppo di fonti normative tanto sovra-nazionali, quanto
regionali e locali, emergono, pertanto, prepotentemente, due rilevanti questioni di metodo:
una esplicita, rappresentata dalla valutazione isolata o globale delle singole disposizioni fiscali
di favore; ed una implicita, legata al valore da assegnare all’inefficienza dei sistemi di vigilanza
e controllo amministrativi in ordine alla corretta applicazione della disciplina sugli aiuti di
Stato in materia fiscale.219 Il rilievo determinante di detti problemi può, facilmente, intuirsi;
l’individuazione del metodo di valutazione e le valutazioni di stretto metodo sono, invero,
elementi in profonda e reciproca inter-connessione: da un lato, un metodo errato può
indurre a valutazioni inesatte nel merito; dall’altro, una formulazione imprecisa del problema
di merito può condurre all’adozione di metodologie di indagine inadatte.220
Tali questioni, potrebbero, nondimeno, trovare una parziale risoluzione, nell’ottica di chi
scrive, ove si riservasse maggiore attenzione all’analisi della motivazione economica221sottesa
al fenomeno agevolativo, così da interpretare e valutare le singole norme giuridiche,
anzitutto, secondo un calcolo dei loro costi e dei loro benefici; ed in base al contributo che
Corte giust., sentenze 4 dicembre 1974, causa 41/74, van Duyn; 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti.
E’, peraltro, possibile ritenere che questa sia la conseguenza dell’attenzione che generalmente gli Stati membri
riferiscono a questa materia, prevedendo disposizioni dettagliate allo scopo di determinare con precisione il
trasferimento di sovranità dal livello nazionale a quello sovranazionale.
219 I profili metodologici del giudizio di compatibilità delle misure fiscali di esonero di cui si discorre sono analizzati,
particolarmente, da F. PEPE, Fiscalità cooperativa ed “aiuti di Stato”- Questioni metodologiche e problemi reali, in Rass. Trib.,
n.6/2008, p. 1704 ss. cui deve riferirsi, anche, la citata distinzione tra questioni “esplicite” ed “implicite” di metodo
nella materia di cui si discorre.
220 Cfr. F. PEPE, Fiscalità cooperativa ed “aiuti di Stato”- Questioni metodologiche e problemi reali, cit., p.1706.
221 In dottrina, la necessità di indagare sulle motivazioni economiche del fenomeno tributario in Italia risulta,
particolarmente, evidenziata da A. AMATUCCI, Il contributo dell’economic analysis of law alla metodologia del diritto tributario,
in Riv.dir.trib.int., n.1-2/2009, p. 25 ss., secondo cui, l’analisi economica del diritto fornisce all’interprete «gli
strumenti necessari, specialmente al livello extragiuridico, per individuare tra più significati quello corretto, in quanto
meglio realizza la giustizia redistributiva e l’efficienza, valori costituzionalmente garantiti».
217
218
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2/2012
le stesse sono, concretamente, in grado di apportare al miglioramento dell’efficienza
complessiva del sistema normativo.222
Per questa via, potrebbe, invero, sensibilmente, limitarsi l’equivocità cui, sovente, si va
incontro in materia tributaria, escludendo interpretazioni assurde ed insostenibili e
stabilendo criteri precisi che favoriscano, ex ante, l’elaborazione in via legislativa di una
disciplina volta all’internalizzazione delle esternalità o, comunque, alla riduzione delle altre
ipotesi di fallimento del mercato, attraverso la loro riconduzione alla logica del rapporto di
scambio;223 e, assistano l’interprete nella scelta tra più significati ascrivibili al medesimo testo,
in funzione di quegli obiettivi di efficienza e di giustizia redistributiva che rappresentano il
presupposto per la realizzazione del “benessere collettivo” cui le Costituzioni dei principali
Stati europei aspirano.224
L’analisi economica del diritto si propone come finalità la formulazione, in via legislativa o giurisprudenziale, di
norme che ripristinino la razionalità del mercato, là dove ciò è possibile, superandone così i fallimenti. Si tratta,
dunque, di un ambito di studi che accompagna, sia a monte, la formulazione della regola, più legata a profili di
politica economia, sia a valle, la sua interpretazione, più legata all’analisi degli effetti dell’applicazione concreta e
giurisprudenziale del diritto. Proprio tale strumento è indicato, oggi, nella verifica dell’efficacia ed equità posti alla
base delle deroghe al divieto di aiuti di Stato in ambito europeo. In quest’ottica, giova, citare il Commissario europeo
per la concorrenza Neelie Kroes, il quale, nel suo intervento “The State Aid Action Plan- Delivering Less and better
Targeted Aid”- SPEECH /05/440- UK Presidency Seminar on State Aid, London, 14th July 2005, ha, appunto,
sottolineato la necessità di adottare criteri di analisi economica per definire quando gli aiuti di Stato sono ammissibili
o addirittura auspicabili, predicendone gli effetti, sia positivi, sia negativi, sul mercato.
223 Sul punto, I. SIGISMONDI, Mercato e ordinamento: alcuni aspetti di interferenze/contiguità ed integrazioni, in G. LUCHENAS. PRISCO (a cura di), Aiuti di Stato tra diritti e mercato, Roma. 2006, p. 34-35.
224 I possibili apporti dell’Economic Analysis of law all’approfondimento delle metodologie del diritto tributario
vengono evidenziati da: P. SELICATO, La comparazione nel Diritto tributario: riflessioni sul metodo, in AA.VV., Dal Diritto
Finanziario al Diritto Tributario- Studi in onore di Andrea Amatucci, Vol. I, p. 35 ss., in cui una vasta ed articolata
bibliografia. Per un inquadramento generale: F. DENOZZA, Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridiche,
Milano, 2002, p.2.
222
146
2/2012
La natura degli impianti fotovoltaici tra le scelte contrattuali e incertezze normative
di Maria Pia Nastri
Abstract - The recent development of investment in green energy raises relevant issues
concerning the taxation of photovoltaic systems. The correct classification of installations as
movable or immovable property is the old issue pending clarification of the Ministry. This
paper examines the issue in light of the fourth energy bill that distinguishes the systems
trying to find for tax purposes a ‘self-characterization’ of photovoltaic systems.
For the purpose of the system installation the most commonly used tools are the contractual
rent and the creation or transfer of surface right in order to subjectively determine a
different tax.
The paper concludes with an analysis of issues relating to taxation of capital gains.
Sommario: 1. Premessa. 2. Gli impianti fotovoltaici beni mobili o immobili ? 3. Il quarto conto
energia: profili tributari. 4. Le scelte contrattuali ai fini dell’istallazione dell’impianto
fotovoltaico: la locazione e la concessione di un diritto di superficie: 4.1 L’affitto di terreni
agricoli (e non suscettibili di edificabilità) e terreni edificabili. 4.2 La concessione del diritto di
superficie su un terreno. 4.3 Gli impianti fotovoltaici realizzati su lastrici solari o aree urbane. 5.
Le plusvalenze.
1.Premessa
La connotazione degli impianti fotovoltaici sotto il profilo tecnico e strutturale è, ad
oggi, non ancora del tutto definita, ciò pone problemi in relazione alla corretta qualificazione
degli stessi come beni mobili o immobili.
In genere l’approccio sistematico ha consentito all’interprete di procedere attraverso
l’applicazione delle categorie civilistiche ad una corretta qualificazione anche in campo
tributario.
Come noto, l’art. 812 c.c. distingue i beni mobili ed immobili definendo questi ultimi
come il suolo le sorgenti ed i corsi d’acqua gli alberi e gli edifici e le altre costruzioni, anche
se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere in tutto ciò che naturalmente o
artificiosamente è incorporato con il terreno a scopo transitorio, dando in tal modo rilevanza
all’incorporazione dei beni al suolo.
147
2/2012
Il codice civile distingue, quindi, i beni immobili per natura dai beni immobili per
destinazione”, mentre il terzo comma considera beni mobili tutti gli altri beni.
Tuttavia, non sempre le qualificazioni civilistiche coincidono con quelle tributarie,
infatti, nel caso di specie, non è pacifica la qualificazione degli impianti fotovoltaici come
beni immobili in considerazione delle caratteristiche tecniche degli stessi impianti225.
La questione nasce in seno agli orientamenti contrastanti dell’agenzia delle entrate e
dell’agenzia del territorio, anche in relazione ai riflessi economici che producono detti
impianti.
La questione è, ad oggi, ancora insoluta pur essendo stata oggetto di orientamenti
contrastanti di prassi che di seguito verranno esaminati.
Il presente lavoro si propone evidenziare gli eventuali criteri idonei ai fini della
qualificazione degli impianti come beni mobili o immobili ai fini di un’autonoma
qualificazione da cui scaturiscono ulteriori riflessioni in merito alle scelte contrattuali per la
collocazione degli impianti fotovoltaici ed alla relativa tassazione. Infine, ci si soffermerà sui
problemi relativi alla determinazione delle plusvalenze in caso di cessione o costituzione del
diritto di superficie.
2.Gli impianti fotovoltaici: bene mobile o immobile ?
L’agenzia delle entrate nel definire beni mobili e immobili, diversamente dal dettato
della norma civilistica, si è in un primo orientamento soffermata sul criterio della fissità e
non facile amovibilità del bene dal suolo.
Infatti, con la circolare 46/E del 19 luglio 2007 resa in merito alla disciplina fiscale
degli incentivi per gli impianti fotovoltaici l’agenzia ritiene che sono da considerarsi diversi
da quelli infissi al suolo, gli impianti ed i macchinari che possono essere rimossi agevolmente
e ricollocati in altro luogo mantenendo inalterata la loro funzionalità226. L’agenzia, con detta
circolare, ritiene i beni utilizzati per la costruzione degli impianti fotovoltaici beni mobili al
fine dell’individuazione del coefficiente applicabile per l’ammortamento degli stessi.
Con la successiva circolare n. 38/E dell’11 aprile 2008 emessa in relazione
all’applicazione di misure agevolative non applicabili a impianti e macchinari infissi al suolo,
l’agenzia ha chiarito che per impianti in senso lato, s’intendono anche i fabbricati ed i
Cfr. A. BUSANI , Anche l’agenzia delle entrate conferma la natura immobiliare dell’impianto fotovoltaico, in Corr. Trib.,
17, 2011, p. 1423 ibidem Ma la tour Eiffel è un bene mobile (riflessioni sulla natura immobiiare dell’impianto fotovoltaico) in
Notariato , 3, 2011, p.305.
226 Cfr. Ag. Entr. circ.4 agosto 2006, n. 28/E, 19 gennaio 2007, n. 1/E; Circ.Ag. Entr. 19 luglio 2007 n.46/E,
11 aprile 2008, n. 38/E e Ris. 23 giugno 2010, n. 38/E, in banca dati Fisconline.
225
148
2/2012
manufatti stabilmente incorporati al suolo, nonché le aree su cui insistono i fabbricati e
quelle accessorie227.
Pertanto, anche i beni stabilmente e definitivamente incorporati al suolo rientreranno
tra i beni mobili se potranno essere rimossi ed utilizzati per le medesime finalità senza
interventi di adattamento antieconomici.
In senso contrario l’agenzia del territorio con ris. 3/T del 6 novembre 2008, che ha
assimilato gli impianti fotovoltaici a quelli eolici equiparando il loro accatastamento nella
categoria D/1-opifici. Secondo detto orientamento nella determinazione della rendita
catastale devono essere inclusi i pannelli fotovoltaici, in senso conforme alla prassi
consolidata, adottata in merito alle turbine delle centrali elettriche228.
Detta circolare, tuttavia, dev’essere contestualizzata nell’ambito della mera
attribuzione dell’iscrizione in catasto degli impianti di produzione elettrica di fonte solare
fotovoltaica e nell’ambito del disposto dell’art. 1 quinquies del d.l. 31 marzo 2005 n. 44, quale
norma d’interpretazione autentica con cui il legislatore ha chiarito la tassazione ai fini Ici di
una centrale termoelettrica. Secondo detta interpretazione, limitatamente però alle centrali
elettriche, i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti connesse ad
esso strutturalmente, anche se transitoriamente, cui possono accedere, mediante qualsiasi
mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso.
Cfr. Ag. Entr., circ. 27 ottobre 1994, n. 181, in banca dati Fisconline.
L’Agenzia del Territorio ha posto a fondamento della propria deduzione una sentenza della Corte di
Cassazione (n. 16824 del 21 luglio 2006) pronunciata in riferimento ad un caso particolare relativo all’obbligo di
considerare, nella determinazione della rendita catastale delle centrali elettriche, il valore economico delle
“turbine” ossia di quegli elementi tecnici che, nel processo produttivo, consentono materialmente la
produzione di energia elettrica attraverso la trasformazione di un diverso tipo di energia. Con tale pronuncia la
Suprema Corte ha sottolineato come, a tal fine, elemento imprescindibile sia costituito dalla effettiva
“connessione strutturale” e dalla funzionalità alla formazione di un “unico bene complesso” della turbina con
la centrale elettrica cui accede. Con la conseguenza che devono concorrere alla determinazione della loro
rendita catastale “gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze
dell’attività industriale”. La Suprema Corte, dunque, individuando le turbine quale elemento essenziale e
costitutivo del bene complesso “centrale elettrica”, ha affermato che il valore delle stesse debba concorrere
all’accatastamento della centrale in quanto essa costituisce un “bene immobile per incorporazione di mobile
ad immobile”. Secondo la Corte, non deve rilevare il mezzo di unione tra il bene mobile e il bene immobile al
fine di ritenere l’uno incorporato all’altro, giacché “quel che davvero conta è l’impossibilità di separare l’uno
dall’altro senza la sostanziale alterazione del bene complesso (che non sarebbe più, nel caso di specie, una
centrale elettrica)”. L’Agenzia del Territorio ha adattato detto ragionamento agli impianti fotovoltaici, tuttavia
il percorso analogico utilizzato non sembra coerente. Infatti, a differenza delle tradizionali centrali elettriche,
infatti, negli impianti fotovoltaici il ciclo produttivo si realizza e si conclude interamente all’interno dei singoli
moduli che li compongono. Il pannello è l’elemento essenziale ed indefettibile, mentre il terreno su cui esso
insiste rappresenta solo un elemento occasionale e tutt’altro che indispensabile.Conferma ulteriore della
autonomia funzionale del pannello fotovoltaico - e quindi dell’assenza di una connessione indissolubile e di
una integrazione atte a formare un bene complesso con il terreno - è circostanza per cui, per espressa
disposizione di legge, la destinazione agricola del terreno al quale accede un parco fotovoltaico non cambia a
seguito della costruzione del parco. Infatti, il terreno ben potrebbe continuare ad essere impiegato anche se
parzialmente per scopi esclusivamente agricoli.
227
228
149
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Concorrono, quindi, alla determinazione della rendita catastale gli elementi costituitivi degli
opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze dell’attività industriale (centrali
elettriche) anche se fisicamente non incorporati al suolo
L’agenzia delle entrate con circolare n. 38/E del 23 giugno 2010 ha, in un primo
momento confermato, invece il proprio orientamento secondo cui gli impianti fotovoltaici
non costituiscono impianto infisso al suolo, in quanto i singoli moduli possono essere
rimossi e riposizionati agevolmente senza perdere la loro funzionalità, mentre con successiva
circolare 12/E del 12 marzo 2011 sull’applicazione d’imposta sostitutiva dei contratti di
leasing, ha sostanzialmente “rivisitato” i propri precedenti orientamenti sostenendo, invece,
la natura immobiliare degli impianti fotovoltaici229.
L’Agenzia delle entrate, in applicazione dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 1, comma
16, della legge 220/2010 in presenza di contratti di leasing immobiliari in corso al 1 gennaio 2011
ha, infatti, ritenuto che l’imposta stessa si applichi anche a detti contratti stipulati per la
realizzazione di impianti fotovoltaici considerando tali contratti dei leasing immobiliari a tutti gli
effetti. Detto ultimo orientamento risolverebbe i dubbi in merito alla natura immobiliare degli
impianti, in quanto sembrerebbe pacifico sia per l’Agenzia del territorio sia per l’Agenzia delle
entrate la natura immobiliare degli impianti fotovoltaici da accatastarsi in categoria D/16.
Si ricorda tuttavia, che la risposta alla Interrogazione Parlamentare n. 5 -04215 che il
Governo ha rilasciato il 16 febbraio 2011, rubricata “Imponibilità ai fini ICI degli impianti di
produzione di energia elettrica a pannelli fotovoltaici ha chiarito che Agenzia delle Entrate e
Agenzia del Territorio hanno costituito uno specifico gruppo di lavoro per fornire i necessari
chiarimenti circa la natura catastale degli impianti in questione.
In attesa di ulteriori chiarimenti ministeriali occorre però soffermarsi sugli
aspetti innovativi introdotti dal quarto conto energia che potranno determinare ulteriori
evoluzioni nell’interpretazione ed applicazione delle disposizioni fiscali.
3. Il quarto conto energia: profili tributari
In primo luogo è necessario esaminare alcuni aspetti rilevanti della direttiva
comunitaria n. 2009/ 28/CE recepita con il D.Lgs. 3 marzo 2011, n. 28, che abroga, le
precedenti Direttive n. 2001/77/CE e n.2003/30/CE, ha ad oggetto la promozione
Cfr. A. BUSANI, Anche l’Agenzia delle entrate conferma la natura immobiliare dell’impianto fotovoltaico, cit., p.1423.
Cfr. A. BUSANI, Ma ….. le Tour Eiffel è un bene mobile?, cit., p. 305 ss.
229
6
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dell’energia da fonti rinnovabili in stretta connessione con gli obiettivi perseguiti in materia
ambientale 7.
La direttiva, in vigore dal 1 giugno 2011 ha tra i propri scopi quello di delineare un
quadro comune per la promozione dell’energia da fonti rinnovabili e di individuare, per ogni
singolo Paese membro una quota obbligatoria di consumo di energia verde sul complessivo
consumo finale lordo di energia.
Inoltre, tra la principali novità nel settore tributario, vi sono l’individuazione di un
limite massimo annuo di energia agevolabile, l’emanazione del quarto conto energia e
l’individuazione di una soglia limite per quanto riguarda gli impianti a terra.
Con il D.M. 5 maggio 2011 è entrato in vigore il c.d. “quarto conto energia” sistema
incentivante che sarà applicabile a tutti gli impianti che entreranno in esercizio a decorrere
dal 1° giugno 2011 e fino al 31 dicembre 20168.
L’art. 3, comma 1, lettera e), analogamente alle precedenti definizioni fornite nei vari
conti energia e norme del settore, individua l’impianto fotovoltaico in “un impianto di
produzione di energia elettrica mediante conversione diretta della radiazione solare, tramite
l’effetto fotovoltaico; esso è composto principalmente da un insieme di moduli fotovoltaici
piani, nel seguito denominati moduli, uno o più gruppi di conversione della corrente
continua in corrente alternata e altri componenti elettrici minori”.
Il quarto conto individua, con l’art. 4 comma 1, quattro differenti tipologie di
impianti fotovoltaici, così suddivisi:
a) piccoli impianti: quelli realizzati su edifici con una potenza non superiore ai 1.000
kW, gli altri impianti fotovoltaici con potenza non superiore a 200 kW operanti in regime di
scambio sul posto, nonché gli impianti fotovoltaici di potenza qualsiasi realizzati su edifici ed
aree delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n.
165 (art. 3, comma 1, lettera u);
b) grandi impianti: tutti quelli non definibili piccoli (art. 3, comma1, lettera v);
Cfr. V. CIRIMBILLA , L. SCAPPINI, Quale futuro per gli investimenti nel settore del fotovoltaico alla luce del D. Lgs. N.
28/2011 ?, in Fisco 2011, 15, p. 2340.
8 L’applicazione del quarto conto energia prevede due deroghe espresse:
- gli impianti che hanno usufruito del cosiddetto “decreto salva Alcoa” e cioè quelli che rientrano nella casistica
di cui all’art. 2-sexies del D.L. 25 gennaio 2010, n. 3 continueranno, ferma restando l’entrata in funzione
nel termine ultimo del 30 giugno 2011, ad usufruire delle tariffe individuate con il III conto energia di cui al
D.M. 6 agosto 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 197 del 24 agosto 2010;
- al raggiungimento del minore dei valori di costo cumulato annuo individuato all’art. 1, comma 2, del
decreto, è data facoltà al Governo di emanare un decreto interministeriale (Ministero dello sviluppo
economico di concerto con quello dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa parere della
Conferenza unificata) con cui rivedere le modalità incentivanti, fermo restando l’obiettivo di sviluppare il
settore.
7
151
2/2012
c) integrati con caratteristiche innovative: quelli che utilizzano moduli non
convenzionali e componenti speciali, sviluppati specificatamente per sostituire elementi
architettonici e che rispondono ai requisiti di natura costruttiva e di modalità di installazione
previsti all’allegato 4
del D.I. (art. 3, comma 1, lettera f);
d) a concentrazione: quelli che producono energia elettrica mediante conversione
diretta della radiazione solare, per mezzo dell’effetto fotovoltaico. Tali impianti sono
principalmente composti da un insieme di moduli in cui la luce solare è concentrata tramite
sistemi ottici, su celle fotovoltaiche, da uno o più gruppi di conversione della corrente
continua in corrente alternata e da altri componenti elettrici minori (art. 3, comma 1,lettera
r).
La distinzione, come noto, serve a individuare i relativi limiti di incentivazione in
relazione alla tipologia di impianti.
Sotto il profilo tributario emergono due elementi di particolare rilievo: una diversa
classificazione non solo nel senso dei cd. piccoli e grandi impianti, ma anche di quelli integrati
e a concentrazione e la disincentivazione dei cd. impianti a terra privilegiando, invece, impianti
cd. integrati e tecnologie innovative di minor impatto ambientale9.
La descritta suddivisione degli impianti potrebbe costituire, in ambito fiscale un
diverso ed ulteriore criterio di qualificazione.
Il tentativo di effettuare un’autonoma qualificazione, rispetto ai precetti civilistici,
scaturisce sia da esigenze dettate dall’innovazione tecnologica, sia dai relativi riflessi
economici che gli impianti stessi producono.
Infatti, per gli impianti cd.a terra, il decreto interviene individuando i limiti in
relazione alla potenza nominale ed all’estensione di terreno su cui installare gli stessi.
Gli impianti possono avere una potenza nominale massima individuata in 1 MW,
limite previsto anche per la tassazione del reddito prodotto, in presenza di tutti i requisiti
richiesti dalla normativa, su base catastale quale reddito agrario.
Inoltre, l’art. 10, comma 4 lettera b) prevede che non debba essere “destinato
all’installazione degli impianti più del 10% della superficie del terreno agricolo nella
disponibilità del proponente”.
La disposizione è a tutela delle zone agricole oggetto di particolare interesse da parte
dei grandi investitori per evitare la disincentivazione dell’attività agricola.
In attesa di ulteriori chiarimenti da parte delle Agenzie, ai fini della corretta
9
Cfr. A. QUARANTA, Le “correzioni” del quarto conto energia, in Ambiente e sviluppo, 6, 2011, p. 559.
152
2/2012
qualificazione degli impianti dal punto di vista tributario e prescindendo dalla qualificazione
civilistica non può non tenersi conto di una ipotesi interpretativa che già da tempo era stata
avanzata sia dalla dottrina, sia dall’amministrazione finanziaria in relazione alle dimensione ed
alla potenza degli impianti stessi10.
E’ possibile, infatti, distinguere tra piccoli impianti e centrali fotovoltaiche facendo
riferimento al limite dei 20 Kw generalmente utilizzati per il proprio fabbisogno familiare ed
impianti di potenza superiore a 20kw la cui energia prodotta è, invece, immessa sul
mercato11.
In tal senso anche la Ris. n. 13/E del 20 gennaio 2009 aveva già avanzato una
distinzione tra i diversi tipi di impianti tra quelli posti al servizio dell'abitazione o della sede
dell'ente non commerciale (fino a 20 kw) per fare fronte ai bisogni energetici dell'abitazione,
da quelli di potenza superiore a 20kw realizzati in genere da soggetti che svolgano un’attività
commerciale.
Infatti, appare evidente che i piccoli impianti fotovoltaici spesso destinati a mero uso
domestico non possano costituire beni immobili e quindi non debbano essere autonomamente
accatastati; detti impianti non realizzano alcun reddito autonomamente determinabile e
potranno al limite costituire pertinenze degli immobili su cui sono istallati.
Diversamente i cd. parchi fotovoltaici la cui funzione è la produzione di energia elettrica
di fonte fotovoltaica destinata alla vendita essendo suscettibili di un'autonoma redditività
saranno soggetti ad accatastamento alla stessa stregua dei beni immobili
Alla luce di quanto innanzi chiarito appare evidente che, la distinzione basata sulla
potenza degli impianti indicata dalle interpretazioni della dottrina e da alcuni orientamenti
dell’Agenzia sembra sempre più accreditarsi ed appare coerente con lo sviluppo di nuove
tecnologie innovative.
Il quarto conto energia in sintesi evidenzia un diverso limite nella suddivisione degli
impianti basata sulla potenza e sulla collocazione degli stessi consentendo la distinzione tra
piccoli e grandi impianti, che potrebbe costituire un utile criterio distintivo anche per la
qualificazione in ambito tributario; inoltre, la disincentivazione per i cd. impianti a terra apre
nuove prospettive per la collocazione degli impianti su aree urbane e lastrici solari che non
potranno essere sottovalutate anche sotto un profilo fiscale.
Cfr. S. GHINASSI, M. P. NASTRI, G. PETTERUTI, Profili fiscali degli atti relativi agli impianti foto-voltaici,(Studio n.
35/2011 della Commissione studi tributari del Notariato), in Studi e materiali, Quaderni trimestrali, 2011, 4, p.
1371 ss.
11 Cfr. Ag. Entr. circ. 19 luglio 2007, n. 46/E, in banca dati Fisconline ; C. CORRADIN, Regime ICI degli impianti
fotovoltaici, in Fisco, 2010, 35, p. 5658.
10
153
2/2012
Ne scaturiscono ampie riflessioni sotto il profilo delle scelte contrattuali tenendo
conto dei riflessi fiscali che di seguito verranno esaminati.
4. Le scelte contrattuali ai fini dell’istallazione dell’impianto: la
locazione e la concessione di un diritto di superficie
La natura mobiliare ed immobiliare dell'impianto, influisce sulla struttura del rapporto e
di conseguenza sul regime civilistico del negozio e sul suo assetto tributario.
E’ quindi necessario preliminarmente esaminare la scelta contrattuale attraverso cui si
procederà alla locazione o alla costituzione di un diritto di godimento su un terreno agricolo o
edificabile oppure su un area urbana o lastrico solare al fine di istallare un impianto fotovoltaico
Detta scelta, infatti, non è indifferente, essendo influenzata dalla tassazione della diversa
tipologia di contratti.
La locazione e la concessione del diritto di superficie sono in genere i contratti
maggiormente utilizzati nella prassi negoziale12.
4.1 L’affitto di terreni agricoli (e non suscettibili di edificabilità) o di terreni
edificabili
In primo luogo è opportuno evidenziare che secondo l’agenzia delle entrate gli impianti
fotovoltaici possono essere collocati anche in aree classificate agricole senza che ciò comporti
l’automatica classificazione del terreno come area edificabile13.
La costituzione di servitù non è costituisce uno strumento idoneo per l’istallazione di un impianto fotovoltaico a
causa dello stretto nesso di dipendenza del fondo servente con quello dominante. Secondo l’Agenzia delle entrate,
Ris. n. 92/E-118050 del 22 giugno 2000, l’atto di costituzione di servitù di elettrodotto su terreni agricoli va
sottoposto ad imposta proporzionale con aliquota 15%. La Corte di Cassazione, sent. 4 novembre 2003, n. 16495
invece, ha ritenuto non applicabile l’aliquota del 15% agli atti costitutivi di servitù su terreni agricoli ritenendo che la
costituzione di una servitù di elettrodotto non rientra nella nozione di trasferimento contenuto nell'art. 1, della
Tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, poichè non comporta il trasferimento di diritti o facoltà del proprietario
del fondo servente, ma soltanto una compressione del diritto di proprietà di questi a vantaggio di un determinato
fondo dominante; quindi alla costituzione di una servitù su un terreno agricolo non è applicabile l'aliquota
d'imposta di registro del 15% anche quando tale costituzione non avvenga a vantaggio di un operatore agricolo.
13 Cfr. Ag. Entr. Ris. 28 aprile 2009 n. 112/E, in banca dati Fisconline. La destinazione urbanistica dei terreni non
era stata modificata e sussisteva il contemporaneo utilizzo agricolo del terreno con l’installazione sullo stesso di
impianti fotovoltaici, pertanto l’agenzia ha ritenuto che la natura del terreno sul quale s’ intendeva costituire il diritto
di superficie è agricola (non suscettibile di utilizzazione edificatoria) e quindi fuori del campo di applicazione
dell’Iva ed inoltre l’ art. 12, comma 7, del D.Lgs. n. 387 del 2003 prevede che gli impianti di produzione di energia
fotovoltaica possono essere ubicati anche in aree classificate come zone agricole dai vigenti piani urbanistici.
12
154
2/2012
In caso di locazione di un terreno ai fini della corretta tassazione è necessario
individuare il profilo soggettivo distinguendo i casi in cui il locatore agisca o meno come
imprenditore.
In caso di affitto di fondo rustico, di fondo atto all’utilizzazione agricola, troverà
applicazione l’imposta di registro proporzionale dello 0,50%14.
Occorre però precisare che se originariamente la disciplina relativa all’affitto di fondo
rustico teneva conto dell’effettiva utilizzazione della terra, con il D.Lgs 228/2001 sono state,
invece, considerate agricole anche altre attività considerando prevalente il profilo oggettivo
rispetto a quello soggettivo15. E’ necessario chiarire, in detto quadro normativo, che l’energia
fotovoltaica è considerata attività agricola connessa, ai sensi dell’art. 1 comma 423 della legge n.266
del 23.12.2005, come modificato dall’art. 1 comma 369 della legge n.296 del 27.12.200612. Detta
attività se svolta da soggetti che esercitano le attività indicate nell’art. 2135 c.c., si considera
agricola, anche nel caso in cui l’affittuario sia un imprenditore agricolo16.
Pertanto, negli altri casi in cui non si configuri l’affitto di fondo rustico, la concessione
in godimento rientrerà nel regime delle locazioni assoggettate ad imposta di registro con
aliquota del 2%.
Se invece l’impianto fotovoltaico venga concesso in godimento nell’esercizio dell’attività
d’impresa nel caso in cui oggetto dell’affitto siano terreni ed aziende agricole o terreni non
suscettibili di utilizzazione edificatoria17, la prestazione di servizi sarà considerata esente ai
Il fondo rustico è stato definito dalla dottrina tributaristica come un terreno con relativi fabbricati di
pertinenza destinato o destinabile allo svolgimento di attività agricola sul punto A. BUSANI, L’imposta di registro,
Milano, 2009, p. 876. In tal senso anche Comm. trib. prov. Lecce sez.I, 14.2.2011, n. 88, in Boll.trib., 2011,
p.889, che ha ritenuto assimilabile la nozione di fondo rustico a quella di terreno agricolo.
Per ulteriori approfondimenti v. A. FEDELE, L'imposizione immobiliare. Dalla metafora della "fonte" all'intenzionalità
del risultato produttivo, in Riv. dir. trib. 2011,05, p.535.
15 L. n. 606 del 22.7.1966; L. n. 817 dell’ 11.2.1971; L. n. 203 del 3.5.1982; L. n.29 del 14.2.1990; D.Lgs. n.228 del
18.5.2001. La legislazione speciale distingue tra affitto a coltivatore diretto, affitto a imprenditore agricolo
professionale e affitto a conduttore non coltivatore diretto e quindi pare dare rilievo solo al profilo oggettivo,
abbracciando nell’affitto tutti i contratti, indipendentemente dalla tipologia del conduttore .
12 La norma così dispone: “Ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa, la produzione e la
cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche nonche' di carburanti
ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da
prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono
attivita' connesse ai sensi dell'articolo 2135, terzo comma, del codice civile e si considerano produttive di
reddito agrario".
16 Cfr. S. DIGREGORI NATOLI, Attività connesse in agricoltura, in Fisco 2011,40, p. 6490; S.GHINASSI, M. P. NASTRI,
G. PETTERUTI, Profili fiscali degli atti relativi agli impianti foto-voltaici, cit. p. 1371 ss.
17 Alla luce del dettato normativo contenuto nell’art. 36 comma 2 del d. l. 223/2006, è necessario evidenziare
che tra i terreni agricoli e quelli edificabili un tertium genus, “terreni intermedi” in attesa di una corretta
qualificazione che non potrà essere determinata, come solitamente avviene, attraverso il certificato di
destinazione urbanistica, ma attraverso una più complessa attività dell’interprete. Il problema, ancora aperto, è
quello di individuare sotto un profilo sistematico le tipologie di terreni inseriti in questa fascia intermedia per
evitare il ritorno ad una edificabilità di fatto o ad interpretazioni giurisprudenziali contrastanti.
14
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sensi dell’art. 10 n. 8, con assoggettamento all’imposta di registro proporzionale. Detta
disposizione, prevede in deroga al principio di alternatività l’applicazione dell’imposta di registro
proporzionale (e non fissa) anche se l’operazione rientra nel campo di applicazione dell’Iva
come operazione esente.
Nel caso, invece, in cui oggetto del godimento siano terreni suscettibili di utilizzazione
edificatoria ancorchè inseriti in PRG non ancora approvato18, la prestazione sarà imponibile iva
con aliquota ordinaria, e nel rispetto del principio di alternatività, assoggettata alla sola imposta
di registro fissa.
4.2 La concessione del diritto di superficie su un terreno
I contrasti in merito all’inquadramento dell'impianto come bene mobile o immobile
influiscono ovviamente anche sulla natura del contratto tramite il quale si consente
l’installazione su un determinato bene dell’impianto stesso, poichè solo configurando l’impianto
come bene immobile è possibile fare ricorso alla costituzione del diritto di superficie.
La costituzione del diritto di superficie su di un suolo per l’istallazione di un impianto
fotovoltaico può essere una scelta fiscalmente vantaggiosa consentendo alle imprese di
conseguire un risparmio d’imposta a fronte dell’utilizzo del suolo per un determinato periodo di
tempo. Infatti, il diritto di superficie è, ai sensi dell’art. 952 c.c., un diritto reale di godimento
di fare e di mantenere una costruzione al di sopra o al di sotto del suolo di proprietà altrui.
La durata del diritto sarà solitamente prevista per 20 o 30 anni consentendo in tal modo il pieno
ammortamento e sfruttamento dell’impianto. Alla scadenza del periodo previsto l’impianto o
sarà acquisito in proprietà dal proprietario del terreno per accessione o sarà contrattualmente
prevista la rimozione dello stesso considerando, caso per caso, l’usura e l’obsolescenza
dell’impianto.
Sotto il profilo impositivo la cessione del diritto di superficie essendo limitata nel tempo
determinerà una base imponibile inferiore rispetto a quella prevista in caso di trasferimento
della piena proprietà del terreno; infatti, in mancanza di criteri di determinazione del diritto di
superficie si è soliti convenzionalmente considerare il 50% del valore della piena proprietà
Anche in questo caso ai fini della costituzione del diritto di superficie su un terreno
agricolo o non suscettibile di utilizzazione edificatoria, da parte di un soggetto cedente che non
L’articolo 36 comma 2 del DL 223/2006 considera fabbricabile l’area “utilizzabile a scopo edificatorio in base a
strumento urbanistico adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e
indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi”, stabilendo che tale criterio vale ai fini delle imposte
dirette, indirette e dell’Ici.
18
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agisca nell’esercizio d’impresa sarà applicata l’imposta di registro proporzionale 19.
Nel caso in cui il cedente sia, invece, un imprenditore se il diritto di superficie avrà ad
oggetto terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria la costituzione del diritto non sarà
soggetta ad iva ai sensi dell’art. 2 comma 3 del D. P. R. n. 633/72, mentre in caso di
costituzione di diritto di superficie su terreni edificabili, relativi all’impresa, la cessione sarà
soggetta ad Iva secondo l’aliquota ordinaria e l’imposta fissa di registro20.
4.3 Gli impianti fotovoltaici realizzati su lastrici solari o aree urbane
Alla luce della direttiva comunitaria n. 2009/ 28/CE recepita con il D.Lgs. 3 marzo
2011, n. 28 e del quarto conto energia, come innanzi chiarito, emerge chiaramente che
l’istallazione degli impianti fotovoltaici sarà sempre più incentivata su strutture preesistenti
come tetti o lastrici solari piuttosto che su terreni ciò in coerenza con la disincentivazione dei
cd. impianti a terra su terreni agricoli, pertanto è necessario interrogarsi sulla qualificazione di
detti impianti allocati sugli edifici.
Escludendo dall’esame i cd. impianti integrati sugli edifici come ad es. tetti con tegole
fotovoltaiche, le ipotesi contrattuali più utilizzate saranno prevalentemente la locazione o la
concessione del diritto di superficie su aree urbane o coperture di edifici.
Anche in questo caso, analogamente a quanto innanzi chiarito per i terreni agricoli,
rileva il profilo soggettivo del locatore: se locatore è un privato il contratto sconterà l’imposta
di registro proporzionale ai sensi dell’art. 5 tariffa, parte prima, D.P.R. 131/1986, su un
imponibile costituito dai canoni pattuiti per tutta la durata del contratto21.
Se invece il locatore agisce nell’esercizio dell’impresa, l’operazione risulterà soggetta ad
iva con aliquota ordinaria e imposta fissa di registro.
Si applicherà l’imposta di registro proporzionale in caso di costituzione diritto di superficie su terreno agricolo
imposta di registro del
15% , mentre in caso di costituzione diritto di superficie su terreno non
agricolo: imposta di registro, 8%.
20 La disposizione chiarisce che non costituisce utilizzazione edificatoria la costruzione delle opere “da realizzare
nelle zone agricole ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze
dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153”.
21 Cfr. S. GHINASSI, M.P. NASTRI,G. PETTERUTI, Profili fiscali degli atti relativi agli impianti foto-voltaici, cit., p.1381
ss., in cui viene precisato che l’imposta potrà inoltre essere frazionata annualmente ai sensi dell’art. 17, 3 c., del
D.P.R. 131/1986 in caso di contratti di locazione di durata pluriennale di immobili urbani, tra cui possiamo
includere anche la aree urbane e le coperture di edifici.
19
157
2/2012
Analogamente nel caso di concessione del diritto di superficie se il concedente non
agisce nell’esercizio di un’impresa, la concessione del diritto di superficie sarà soggetta ad
imposta di registro con le aliquota proporzionale sul corrispettivo dei canoni.22.
Nel caso in cui, invece, il cedente agisca nell’esercizio dell’impresa e la concessione si
riferisca ad un fabbricato abitativo o ad un’area urbana si applicherà l’art. 10, n. 8 bis, del D.P.R.
633/1972.
La cessione o costituzione del diritto di superficie se relativa ad un fabbricato abitativo,
è soggetta ad iva, se il cedente sia l’impresa costruttrice o che vi abbia eseguito, anche
tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’articolo 31, primo comma, lettere c), d) ed
e), della legge 5 agosto1978, n. 457, entro cinque anni dalla data di ultimazione della
costruzione o dell’intervento (o anche successivamente nel caso in cui entro tale termine i
fabbricati siano stati locati per un periodo non inferiore a quattro anni in attuazione di
programmi di edilizia residenziale convenzionata) con applicazione delle imposta fissa di
registro.
In tutti gli altri casi il trasferimento del diritto di superficie sarà assoggettato ad
imposta di registro proporzionale.
Diversamente se la concessione del diritto di superficie abbia ad oggetto un
immobile strumentale all’esercizio di attività commerciale, non suscettibile di diversa
destinazione senza radicali trasformazioni23, la cessione si qualificherà come esente iva
avendo ad oggetto un immobile strumentale per natura ai sensi dell’art. 10, comma 8 ter, del
D.P.R. 633/1972.
5. Le plusvalenze in caso di costituzione del diritto di superficie .
La tassazione delle plusvalenze su un terreno agricolo o su un suolo concesso in
godimento attraverso la costituzione del diritto di superficie su cui insiste un impianto
fotovoltaico presenta alcuni aspetti controversi.
L’art. 67, lett. b) del Tuir disciplina la tassabilità delle plusvalenze nei casi di cessione
a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni fatta
eccezione per gli immobili, terreni o fabbricati, acquisiti per successione, e per le unità
immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la
La base imponibile costituita dai canoni sarà assoggettata rispettivamente al 7% per i fabbricati e dell’8% per le
aree urbane.
23 Al riguardo è noto che l’amministrazione finanziaria si è da tempo pronunciata nel senso che tali debbano
ritenersi quelli accatastati nelle categorie B, C, D e A/10 (V. ris. 3.2.1989 n. 3/330, richiamata dalla più recente
circ. 4.8.2006 n. 27/E a commento del D.L. 223/2006 che ha introdotto la predetta esenzione.
22
158
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costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi
familiari. Appare evidente che la tassazione delle plusvalenze immobiliari infraquinquennali
trovi la sua ratio nella natura speculativa delle stesse24.
Le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di
utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione
sono, invece, tassabili a prescindere dai citati requisiti limitativi.
In relazione alle plusvalenze emergenti a seguito della cessione o costituzione del
diritto di superficie occorre chiarire che l’art. 9 del Tuir considera cessioni a titolo oneroso
anche la costituzione di diritti reali di godimento o diritti di superficie ex art. 67, lett. b) del
Tuir, se maturate da meno cinque anni al momento del realizzo25.
Tuttavia, anche in questo caso, ai fini di una corretta tassazione della plusvalenza
distinguere il profilo soggettivo del cedente. Infatti se il cedente il diritto di superficie è un
soggetto non imprenditore, la cessione entro il quinquennio dalla data dell’acquisto,
costituirà un reddito diverso ex art. 67 comma 1 lett. b) del Tuir.
Pertanto, se si tratta di una cessione del diritto di superficie da parte di una persona
fisica avvenuta nel quinquennio di un terreno acquistato a titolo derivativo la plusvalenza
sarà determinata dalla differenza tra i corrispettivi percepiti ed il prezzo di acquisto o il costo
di costruzione del bene ceduto, aumentato di altri eventuali costi inerenti il bene ai sensi
dell’art. 68 primo comma del Tuir.
La differenza tra il valore originario costituito dal prezzo della piena proprietà del
terreno ed il valore del diritto di superficie evidenzia una discrasia a causa della
disomogeneità dei due valori.
Come noto ai fini della determinazione del diritto di superficie ed in mancanza di
una previsione normativa si è soliti considerare il 50% del valore della piena proprietà 26.
La Corte Costituzionale si è pronunciata in relazione alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del
D.P.R. n. 597/1973, attuale art. 67 del T.U.I.R., per violazione del’art. 3 Cost.; l'art. 76 riteneva sussistesse
l'intento speculativo nelle vendite infraquinquennali di immobili precedentemente acquistati, senza ammettere
la prova contraria del predetto intento. Secondo la Corte l’acquisto e la successiva vendita nel quinquennio
costituisce, non una presunzione iuris et de iure, bensì una tipizzazione legale di comportamenti da cui è possibile
desumere l’intento speculativo.
25 L’Amministrazione finanziaria con la risoluzione 10 ottobre 2008, n. 379/E ha, infatti, chiarito che la
costituzione di una servitù va ricondotta all'art. 67 comma 1, lett. b), primo periodo, del Tuir, concernente le
plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di beni immobili.
26 La Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XLVI decisione, 19 luglio 1997, n. 135, si è
pronunciata sulla valutazione, ai fini dell’imposta di registro, del valore del diritto di superficie ritenendo
applicabile lo stesso identico criterio dettato dalla norma per la valutazione dell’usufrutto. La scarna
motivazione chiarisce che il valore dell’immobile tendenzialmente assumerà un valore sempre più basso con
l’avvicinarsi della scadenza del termine di estinzione del diritto di superficie, imponendo di rispettare dei criteri
analoghi a quelli variabili determinati per l’usufrutto. Tuttavia, la tesi che il diritto di superficie possa essere
assimilato all’usufrutto non risulta sostenibile se ad esempio consideriamo che la costruzione su terreno
24
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La plusvalenza tassabile sarà, quindi in genere determinata dalla differenza tra il
valore di acquisto del terreno, ridotto al valore del diritto di superficie, al fine di renderlo
omogeneo, ed il corrispettivo della cessione del diritto di superficie.
E’ necessario , tuttavia precisare che alla luce dell’equiparazione del trattamento dei
diritti reali di godimento con quello dei beni immobili (art. 9 Tuir) e considerato che l’art. 67
prevede espressamente, l’esclusione di qualsiasi plusvalenza in caso di cessione di immobili,
fabbricati e terreni pervenuti per successione, la cessione di un diritto di superficie su un
bene pervenuto in successione al cedente non determinerà alcuna plusvalenza tassabile.
Infatti, l’esclusione degli immobili pervenuti al soggetto per successione quale evento
non preordinato che non cela alcun intento speculativo anche a seguito di una successiva
vendita ravvicinata dei beni immobili o dei diritti reali di godimento relativi agli stessi trova
conferma nella ratio posta alla base delle scelte del legislatore di assoggettare a tassazione
soltanto le plusvalenze speculative.
L’equiparazione del trasferimento di un diritto reale di godimento al trasferimento
del diritto di proprietà, esclude altresì l’applicazione dell’art. 67 lett. l) del Tuir (obbligo di
permettere) che nel caso di specie consisterebbe nel concedere a terzi l’utilizzo del terreno.
Infatti, se l’equiparazione dei diritti reali di godimento ai beni immobili consente di
ritenere tassabile la plusvalenza infraquinquennale fatta eccezione del caso in cui l’immobile
sia pervenuto per successione, non sembra sostenibile, per mancanza di coerenza, che il
medesimo diritto di superficie venga, invece, considerato un obbligo di permettere (reddito
diverso) per recuperare a tassazione una parte di reddito. Detta interpretazione appare sotto
un profilo sistematico contraddittoria, attribuendo alla cessione del diritto di superficie una
duplice natura.
La tassazione della cessione del diritto di superficie non potrà neanche essere
equiparata alla cessione del diritto di usufrutto, poichè in mancanza di un’espressa previsione
normativa non sembra possibile un’applicazione analogica dell’art. 67 lett. h) del Tuir in
merito alla concessione del diritto di usufrutto27.
concesso in superficie è fatta dall’utilizzatore, il che appare sufficiente a differenziare il diritto di superficie
dall’usufrutto.
Cfr.Ris. Min. n. 77/20 del 12 gennaio 1993: “Con istanza del 3 gennaio 1992 - diretta anche a codesto
Ispettorato compartimentale - il Presidente pro tempore del Consiglio regionale della T. ha chiesto di
conoscere se la "concessione" in usufrutto trentennale di un immobile, posseduto da persona fisica non
imprenditore né professionista, da adibire a sede istituzionale dell'organo regionale, determina l'insorgere di
redditi tassabili in capo al nudo proprietario, ai sensi dell'art. 81 comma 1, lettera h), del D.P.R. 22 dicembre
1986, n.917, e successive modificazioni. A parere dell'istante nella fattispecie in esame non si determinerebbe il
presupposto impositivo, configurato dal legislatore fiscale nella "concessione" di usufrutto, laddove per la
normativa civilistica l'usufrutto è "costituito" dalla legge o dalla volontà dell'uomo oppure può acquistarsi per
27
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Se, invece, il concedente è un soggetto che produce redditi d’impresa (persona fisica
o giuridica) il corrispettivo percepito costituirà, una plusvalenza imponibile ai sensi
dell’articolo 86, comma 4, del Tuir.
Ai fini della determinazione della plusvalenza l’Amministrazione con Ris. 112/2009
ha evidenziato che non potendo ricorrere al confronto tra il corrispettivo incassato ed il
costo storico del bene, così come disciplinato dall’art. 86, comma 2, del TUIR, in quanto
non si tratta di una cessione del diritto di proprietà, la plusvalenza, pari al corrispettivo
conseguito, sarà un componente positivo di reddito che, in presenza dei presupposti previsti
dall’articolo 86, comma 4, del Tuir, (possesso del bene per un periodo non inferiore a tre
anni), potrà essere rateizzata.
Detta interpretazione appare, tuttavia, criticabile sotto il profilo sistematico poiché
non prevede un calcolo della plusvalenza effettivo (coerente, congruo e reale) non
consentendo la determinazione della stessa al netto del costo storico del bene seppure
rapportato al solo diritto di superficie.
Se per la cessione del diritto di superficie viene stabilito un unico corrispettivo si
effettuerà l'imputazione per competenza della plusvalenza realizzata nell'esercizio in cui
viene stipulato l'atto
di trasferimento del diritto di godimento. La questione è più complessa nel caso in
cui per la cessione del diritto di superficie a tempo determinato siano previsti canoni
periodici. In tale ipotesi, in mancanza di chiarimenti ministeriali, si può ipotizzare che i
corrispettivi del concedente siano imputati in base al principio di maturazione dei canoni
stessi ed analogamente il superficiario potrà portare in deduzione i canoni periodici secondo
il principio del pro rata temporis28.
usucapione. Al riguardo si premette che, ai sensi dell’art. 9, comma 5, del D.P.R.22 dicembre 1986, n. 917, le
disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano la
costituzione di diritti reali di godimento. Ne deriva che ai fini dell'imposizione tributaria diretta è del tutto
irrilevante la questione posta in ordine all'uso del termine "concessione", dal momento che il presupposto
impositivo preveduto dall',art. 81 comma 1, lettera h) del D.P.R. n. 917/1986, si realizza in capo al cedente il
diritto reale di godimento, dovendo intendere il termine "concessione"adoperato in senso atecnico in
riferimento a tutti gli atti giuridici aventi l'effetto di trasferire ad altri la potenzialità reddituale di un immobile.
28 Cfr. Ag. Entr. circ. 7 agosto 2002, n. 272/E, in banca dati Fisconline.
161
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L’applicazione del principio del contraddittorio nella fase istruttoria del
procedimento tributario tra democraticita’ dell’azione amministrativa e limiti
derivanti dall’attivita’ di controllo nella logica di risultato
di Loredana Strianese
Abstract - The idea that led to the reflections contained in this note is born from the
judgment of the Court of Cassation on 25 November 2011, n. 24923 regarding the
acquisition of important factors for the tax audit, in the sense that the offices are required to
check compliance with art. 52, DPR 633/72 as far as the "accounting officer" and not in
relation to the documentation on "black". According to the solution proposed by the judges
of legitimacy, the assessment activities of government offices, having an administrative
nature, would not be sustained beyond the specific cases, the adversarial principle, are
excluded in these cases, the alleged invalidity of the evidence. The input in our system of
Law. 241 of 1990 emphasized on the one hand, the "proceduralisation" administrative action
to secure the participation of the taxpayer and the taxpayer to the tax procedures, on the
other hand, the renewed interest in the cross-examination which occasions that offer useful
forms management of the tax ratio, which must necessarily accompany the indispensable
guarantees, immanent exercise of each administrative function. Indeed, the extension of
the control phase compared to that assessment is the natural corollary of an innovation of a
legislative nature, aimed at overcoming the phenomenon of setting tax only in terms of
coercion and disorder and enhance evasive, alternatively, forms of accountability and
cooperation of the taxpayers, not necessarily related to the activity of investigation, and this
also in order to assess the behavior of Public administration and its adherence to principles
(constitutional status) of good administration.
SOMMARIO:
Introduzione; 1. – L’accesso agli atti e documenti istruttori del procedimento
tributario quale diritto funzionale alla compiuta attuazione della partecipazione del
contribuente; 2. – I contorni della tutela anticipata definiti dal rapporto tra esercizio dei
poteri istruttori e diritti fondamentali dei soggetti passivi; 3. – La posizione della
giurisprudenza comunitaria in merito all'applicazione del principio del contraddittorio come
presupposto non negoziabile volto alla operatività dei valori sanciti dall'art. 97 Cost. ; 4. –
Conclusioni.
162
2/2012
INTRODUZIONE. Lo spunto che ha condotto alle riflessioni oggetto di questo
contributo è originato dalla pronuncia della Corte di Cassazione del 25 novembre 2011, n.
24923 in tema di acquisizione di elementi rilevanti ai fini della verifica fiscale, nel senso che,
gli uffici di controllo sono vincolati al rispetto dell'art. 52, DPR 633/72 (ovvero in relazione
alla disciplina del sequestro o l'estrazione di copia della documentazione contabile al di fuori
dei locali dell'impresa) limitatamente alla “contabilità ufficiale” e non in relazione alla
documentazione in “nero”. Secondo la soluzione prospettata dai giudici di legittimità,
l'attività accertativa degli organi statali, avendo natura amministrativa, non sarebbe retta, al di
là di specifici casi, dal principio del contraddittorio, con esclusione quindi, in siffatte ipotesi,
della presunta invalidità delle prove raccolte. Pertanto, l'irrituale acquisizione degli elementi
probatori durante la verifica fiscale (rectius: accesso) effettuata dalla Guardia di Finanza non
provocherebbe la loro inutilizzabilità in sede di accertamento, salvo le ipotesi di violazione di
diritti di rango costituzionale. L'accertamento tributario incardinato su documenti afferenti
alla contabilità “parallela” (rinvenuta, cioè, su un'agenda ed in alcuni floppy disk reperiti
all'interno di un'autovettura dismessa, posta all'esterno dell'azienda) nonostante la mancata
instaurazione del contraddittorio con il contribuente, sarebbe, dunque, valido230.
Oltre il profilo sulla idoneità della documentazione afferente alla contabilità parallela
“tenuta” dal contribuente, la pronuncia in parola affronta un altro delicato argomento
(sollevato dal ricorrente), ovvero se la mancata instaurazione del contraddittorio durante
l'acquisizione effettiva della documentazione possa avere inficiato la validità di quest'ultima,
in palese contrasto con l'art. 52, D.P.R. 633/72, evocando ancora, un’ulteriore problematica
230Invero,
la documentazione extracontabile rinvenuta generalmente nel corso dello svolgimento di indagini,
verifiche, ispezioni ect. è utilizzata frequentemente – come presunzione semplice – nell'ambito degli
accertamenti analitico – induttivi per combattere fenomeni evasivi, i quali hanno l'obiettivo (non dichiarato,
seppur implicitamente) di occultare ricavi, compensi, nonché corrispettivi, attraverso la distorta/falsa
rappresentazione di determinate operazioni.
In primo luogo, la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità ha suggerito il seguente ragionamento: il
ritrovamento di una “contabilità parallela” autorizza – a prescindere dalla sussistenza di altri elementi – alla
rettifica dell'imponibile (Cass., n° 24206/2006 e n° 23585/2009).
Proprio su tale problematica, ossia sui limiti del potere di indagine del Fisco ai fini dell'acquisizione di siffatti
dati, l'orientamento della Cassazione ha confermato la liceità della rettifica presunta nel casi di: ritrovamento,
sulla scrivania dell'amministratore delegato di una società, di block notes relativi a cessioni di determinati beni
(C.T.C., n. 4113/88); informazioni contenute in floppy disk (Cass., n. 17365/09 e n. 8255/08); esibizione, da
parte della società, di un tabulato interno relativo alla consistenza del magazzino (Cass., n. 7184/09); appunti
comprovanti le prenotazioni di un ristorante (Cass., n. 5947/09).
Tale strumento di accertamento circa la presunta capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica,
ispezione, indagine è stato oggetto – come visto – di numerosi contenziosi tributari, nei quali il ricorrente (nei
propri atti difensivi) sosteneva l'inidoneità del materiale extracontabile a poter supportare il “fatto certo”
richiamato dall'Amministrazione Finanziaria.
163
2/2012
e precisamente, quella legata alla distinzione concettuale esistente tra i compiti di controllo e
i compiti di accertamento assegnati all’Amministrazione finanziaria in una logica di
funzionalità dei primi rispetto ai secondi231. Tale discusso aspetto è anche il risultato di
considerazioni sistematiche rette dalle più recenti vicende normative e interpretative che
hanno tratteggiato l’evoluzione delle metodologie di controllo in campo tributario. Un
riferimento più puntuale potrebbe essere offerto dalla controversa questione concernente il
possibile abbandono dell’attività ispettiva, nei casi in cui questa dovesse dimostrarsi
scarsamente proficua ( incapace, cioè, di produrre risultati sufficienti ) in vista di una rettifica
della dichiarazione o di un accertamento. Difatti, è proprio in questa ipotesi che potrebbe
risiedere la chiave di lettura della problematica anzidetta, in quanto, riconoscendo che
l’attività istruttoria debba rispondere a criteri di efficienza dell’azione amministrativa,
implicitamente si dimostra l’elemento di separazione concettuale teso a collocare le due
attività su piani distinti, ancorchè tra loro comunicanti. Ciò porta a dimostrare anche
l’evidente sussistenza di un nesso funzionale232 ( che, però, non comporta un legame
sequenziale e causale tra gli atti istruttori e gli atti accertativi) in virtù del quale è resa
possibile la reale ponderazione della economicità ed efficacia dell’azione amministrativa di
controllo. Questa posizione rinviene la sua ragion d’essere nell’assunto logico secondo cui
non avrebbe molto senso legare necessariamente la complessa attività di controllo ad
un’attività ( di accertamento), che si delinea solo come eventuale, quindi, ad un
procedimento amministrativo che non confluisce sistematicamente in un vero e proprio atto
finale autoritativo. A suffragio di dette argomentazioni va anche la necessità di conformare la
macchinosa disciplina della raccolta delle prove alla progressiva evoluzione del nostro
assetto tributario verso modelli di partecipazione, nei quali, da un lato, le situazioni
In merito v. F. GALLO, Contraddittorio procedimentale e attivita’ istruttoria, in Atti del Convegno svoltosi a
Sanremo, 3-4 giugno, 2011, Fondazione Victor Uckmar, sul tema La concentrazione della riscossione nell’accertamento,
p. 207 ss.; sull’autonomia funzionale delle variegate attività conoscitive e di controllo (istruttorie) rispetto
all’attività di accertamento e di indirizzo ( diversamente da quanto si è ritenuto in passato, nel senso che esse
fossero interne ad un generale procedimento amministrativo di imposizione) e sulla loro prodromicità rispetto
al procedimento di accertamento in senso proprio, si veda S. LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento
tributario, in “ Dir. Prat. Trib.”, 1990, I, p. 729; ID, L’Amministrazione finanziaria, Torino, 1995, p. 50.
232 Sul tema appare utile richiamare alcune osservazioni svolte da L. SALVINI, La partecipazione del privato
all’accertamento, Padova, 1990, p. 324: “ dall’effettuazione diretta di un atto o di un’attività istruttori può
discendere l’obbligo per l’ufficio di emettere l’atto di accertamento che formalizzi tali esiti: l’obbligo, in
particolare, sussiste se si sono acquisiti elementi indicativi di violazioni”. Appare, peraltro, opportuno precisare
che la stessa attività istruttoria si conclude, di consueto, con la formulazione dei rilievi, alcuni dei quali relativi
persino a violazioni punite attraverso pene pecuniarie estinguibili in via breve, prima che venga emesso l’avviso
di irrogazione delle medesime sanzioni, rilievi che rappresentano, quindi, un’anticipazione del contenuto del
successivo atto di accertamento ( si pensi alle modalità di strutturazione dei PVC redatti dalla G. di F. al
termine di ogni attività istruttoria). In argomento, A. COMELLI, L’attività istruttoria nell’esercizio della funzione
impositiva, Roma, 2008, p. 69 ss.; L. PERRONE, Riflessioni sul procedimento tributario, in “ Rass. Trib.”, 2009, p. 52 ss.
( ed in AA.VV., Studi in memoria di G. A. Micheli, Napoli, 2010, p. 81).
231
164
2/2012
soggettive passive dei contribuenti si parcellizzano in diversi e autonomi obblighi legali (
quali sono quelli ormai sperimentati) di autotassazione, autoliquidazione e versamento
spontaneo all’esattoria mediante delega all’istituto di credito, dall’altro, le situazioni
soggettive attive erariali si identificano ordinariamente nell’esercizio di un potere
depotenziato sul piano della imperatività-normatività, il quale non va oltre all’acquisizione
delle informazioni utilizzabili e al mero controllo dell’osservanza dei citati obblighi
strumentali dei contribuenti.
D’altra parte, lungi dall’affrontare in questa sede il conflitto tra teorie costitutiviste,
imperniate sul provvedimento impositivo, e teorie dichiarativiste, fondate sull’obbligazione
tributaria, giova ricordare che è ormai necessario uscire dal particolarismo tributario233 a dalle
ostinate argomentazioni invocate per giustificarlo, volte alla ricostruzione estremamente
problematica della sussunzione del procedimento tributario al procedimento amministrativo,
e degli atti tributari al genus del provvedimento amministrativo234. Si tratta, infatti, di
magmatiche deduzioni frequenti nelle dispute dottrinali, nella giurisprudenza e anche nella
E’ largamente prevalente l’indirizzo secondo cui l’assenza di discrezionalità non impedisce il corretto utilizzo
delle categorie del procedimento e del provvedimento anche in riferimento all’accertamento tributario, v. fra i
tanti: F. TESAURO, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, p. 76 e s.; ID., Profili sistematici del processo tributario,
Padova, 1980, p. 68 e s.; S. LA ROSA, Accertamento tributario, in “ Dig. It. Disc. Priv. Sez. comm.”, 1987; ID,
Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, p. 29 e s.; S.MUSCARA’, Riesame e rinnovazione degli
atti nel diritto tributario, Milano, 1992, p. 46 e s.; L. DEL FEDERICO, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale
sull’azione amministrativa, in “ Rass. Trib.”, n. 6/ 2011, p. 1393 e s. Di diverso avviso, L. PERRONE, La disciplina del
procedimento tributario nello statuto del contribuente , in “ Rass. Trib.”, n. 3/2011, p.563 e s. : “ …la specificità della
materia tributaria e la particolare funzione che la nozione di procedimento assolve al suo interno hanno infatti
reso sempre complessa una diretta applicazione dei principi amministrativi contenuti nella L. n. 241/1990. Per
tale ragione lo Statutro oggi rappresenta ormai, grazie anche agli importanti contributi della dottrina e della
giurisprudenza / compresa quella costituzionale), il fondamentale punto di riferimento per la regolamentazione
dei procedimenti tributari e per l’eventuale ma difficile raccordo con la disciplina della L. n. 241/1990 …..”.
234 Difatti, prendendo le mosse dalla indiscutibile assenza di discrezionalità nel procedimento tributario di
accertamento per ciò che riguarda la determinazione del tributo ( si tratta di considerazioni ampiamente
condivise, v. per tutti L. PERRONE, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, p. 22 e s.,
il quale riprende la teoria elaborata da M. S. Giannini; R. LUPI, Società, diritto e tributi, Milano, 2005, p. 113 e s. ;
L. PERRONE; Discrezionalità amministrativa ( dir.trib.), in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico, diretto da S.
Cassese, vol. III, Milano, 2006, p. 2005. ), si arriva a sovraesporre il carattere vincolato dell’attività impositiva,
anche a detrimento di quelle decisive sponde discrezionali pur rintracciabili in taluni specifici segmenti
dell’azione impositiva ( ad esempio, la scelta del contribuente da sottoporre a controllo o le modalità
dell’istruttoria ecc.). L’assenza di discrezionalità legittimerebbe una netta differenziazione tra procedure
tributarie e procedimento amministrativo, rendendo inutilizzabili in ambito tributario le categorie, i principi e
gli istituti contenuti nella legge 241/1990. Altra parte della dottrina, con riguardo alla natura provvedimentale
degli atti di accertamento, la circoscrive solo al profilo della loro efficacia preclusiva, cioè all’attitudine a
cristallizzarsi se non impugnati tempestivamente, dovendosi respingere la loro natura strictu sensu
provvedimentale sul piano dei contenuti, poichè detti atti sono espressione di manifestazioni di giudizio e non
di volontà. In diversa prospettiva si pone chi sostiene che agli atti impositivi possa riconoscersi natura provvedi
mentale solo in una logica descrittiva, in quanto sul versante tecnicamente più severo della teoria del
provvedimento amministrativo l’assenza di discrezionalità propria di tali atti dovrebbe comportarne la
denominazione di meri atti e non di autentici provvedimenti amministrativi ( v. ad esempio, G. FALSITTA,
Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2003, p. 401 ).
233
165
2/2012
prassi. Sembra, allora, conveniente collocarsi nella più spaziosa ed articolata prospettiva del
diritto amministrativo, che, invece, conosce certamente procedimenti e provvedimenti
connotati dall’esercizio di poteri vincolati235, senza, per di più, differenziarne i regimi giuridici
( ad eccezione del peculiare profilo dell’esercizio della discrezionalità)236 e che adopera
categorie multiformi quali ad es. quella delle decisioni amministrative o, appunto, degli atti
di controllo, capaci di richiamare a sé, con agilità, larga parte degli atti impositivi 237. Invero,
le teorie volte a contrapporre attività discrezionale e attività vincolata, sviliscono del tutto il
ruolo della autoritatività, configurando funzione, provvedimento e interesse legittimo solo in
relazione al potere discrezionale. La novella, difatti, del 2005 ( legge n. 15 dell’11.2.2005) è
intervenuta sulla legge n. 241/1990 tratteggiando uno statuto unitario dell’azione
amministrativa, che resta incardinato sull’elemento della autoritatività ( art. 1, co. 1 bis ) ed al
quale espressamente viene riallacciato il provvedimento discrezionale, così come quello
vincolato ( art. 21 octies), ad eccezione di una parziale differenza per ciò che concerne i vizi
formali238.
L’ingresso nel nostro ordinamento della legge n. 241 del 1990 ha rinvigorito l’anzidetto
orientamento, ponendo in risalto da un lato, la “ procedimentalizzazione” dell’azione
amministrativa come garanzia per il contribuente che, ad es., sarà in grado di impugnare il
provvedimento impositivo anche per i vizi degli atti istruttori, e dall’altro lato, la
partecipazione del contribuente alle procedure tributarie ed il rinnovato interesse per il
contraddittorio239 come occasioni capaci di offrire proficue forme di gestione del rapporto
v. P.P.M. VIPIANA, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità ed irregolarità, Padova,
2003, p. 243 e s.; A. ORSI BATTAGLINI, Attività vincolata e situazioni soggettive, in “ Riv. Trim. proc. Civ.”,
1988, p. 1 e s.; ID, Alla ricerca dello stato di diritto . Per una giustizia “ non amministrativa”, Milano, 2005, p. 165 e s. ;
S. CIVITARESE MATTEUCCI, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa ed illegalità utile,
Torino, 2006, p. 325 e s.; L. FERRARA, Diritto soggettivo ed accertamento amministrativo, Padova, 1996.
236 Sulla motivazione dei provvedimenti vincolati v. per tutti,R. SCARIGLIA, La motivazione
dell’atto
amministrativo. Profili ricostruttivi ed analisi comparatistica, Milano, 1999, p. 223 e s.
237 V. M. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2009, p. 198-199
e s.; L. PERRONE, Evoluzione e prospettive dell’accertamento tributario, in “ Riv. Dir. Fin.”, 1982, I, p. 112 e s.
238 Sia pure con variegate sfumature v. ad es.: E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1969, p. 65 e s.;
C. GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984; G. M. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo
tributario, Padova, 2005, p. 224 e s.; M. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela: lezioni sul processo
tributario, cit., p. 200 e s.
239 Sulla necessità del contraddittorio anche nell’ambito dei procedimenti tributari di controllo e di
accertamento, in quanto espressione di un principio generale dell’azione amministrativa e del giusto
procedimento, v. Cass., sez. trib., 28.7.2006, n. 17229, in banca dati “ fisconline” e in “ Riv. Giur. Trib.”, 2006,
p. 1047, e Cass. Sez. trib., 7.2.2008, n. 2816, in banca dati “ fiscoline” ( ratione temporis anteriore alla novella del
2005) alle quali si sono poi accostate le Sezioni Unite con le sentenze 1.12-18.12.2009, nn. 26635, 26636, 26637
e 26638, tutte i banca dati “ fisconline”; per l’inquadramento sistematico del tema v. G.RAGUCCI, Il contraddittorio
nei procedimenti tributari, Torino, 2009.
235
166
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tributario, cui devono necessariamente affiancarsi le irrinunciabili garanzie, immanenti
all’esercizio di ogni funzione amministrativa240.
Invero, l’estensione della fase di controllo rispetto a quella di accertamento è, in particolare,
il naturale corollario di una innovazione di carattere legislativo, volta a superare
l’impostazione del fenomeno tributario solo in termini coercitivi e di patologia evasiva e a
potenziare, in alternativa, forme di responsabilizzazione e collaborazione del contribuente,
non necessariamente legate all’attività di accertamento.
1.– L’accesso agli atti e documenti istruttori del procedimento tributario quale diritto
funzionale alla compiuta attuazione della partecipazione del contribuente
La partecipazione al procedimento tributario è autenticamente piena ed effettiva solo nel
momento in cui il contribuente sia posto nelle condizioni di poter disporre di elementi
conoscitivi in grado di garantire una appropriata informazione sulla dinamica dell’iter
procedimentale imboccato dall’Amministrazione finanziaria. Se ci si riferisce al normale
spazio di applicabilità così come disciplinato, in tema di accesso agli atti e ai documenti
amministrativi, dalla legge n. 241/1990, si rileverà che la corrispondenza strumentale fra il
diritto di prendere visione degli atti procedimentali e la garanzia di partecipazione attiva è
attuata da quanto dispone l’art. 10 della legge citata. In esso, la conoscibilità degli atti del
procedimento viene inclusa tra gli strumenti necessari ad assicurare l’effettività dell’esercizio
del diritto di partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo stesso241. La
questione della estensibilità ai procedimenti tributari della disciplina in tema di accesso agli
E’ noto che la legge n. 15/2005 dal titolo “ Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241,
concernenti norme generali dell’azione amministrativa” ha introdotto diverse innovazioni come intervento
legislativo sintomatico del fenomeno dell’integrazione giuridica europea. Va, altresì ricordato che la novella del
2005 non tocca l’art. 13 della legge n. 241/1990, secondo cui le disposizioni contenute nel Capo III della legge
“ partecipazione al procedimento amministrativo”, non si applicano ai procedimenti tributari. Resta, dunque,
confermato che tutti gli altri Capi della legge n. 241/1990, sia ab origine sia in seguito alla modifica della novella ,
devono trovare applicazione, per quanto compatibili, anche in materia tributaria. La legge generale sull’azione
amministrativa si pone, pertanto, come sostegno a tutta l’attività delle pubbliche amministrazioni, ed anche
all’attività amministrativa tributaria.
Ancora, appare estremamente rilevante la previsione del passante legislativo che permette l’ingresso nel nostro
ordinamento di tutti i principi dell’ordinamento comunitario, e dunque, anche del principio di proporzionalità,
nonché del principio del contraddittorio, così come già recepito, nel 1990, nel Capo III della legge , ma oggi
significativo per l’intera azione amministrativa anche prescindendo dagli artt. 7-12 di cui al cit. Capo III ( la
nota e risalente disputa va oggi riesaminata alla luce della paradigmatica pronuncia della Corte di Giustizia,
18.12. 2008, Sopropè, causa C-349/07, in “ Rass. Trib.”, 2009, p. 570, con nota di G.RAGUCCI, Il contraddittorio
come principio generale del diritto comunitario).
241 Quanto poi, alla disciplina delle concrete modalità di attivazione nonché dei limiti del diritto di accesso ai
documenti amministrativi, essa è contenuta nel dettato dell’art. 22 e seguenti della richiamata legge n.241/1990.
240
167
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atti e ai documenti istruttori ha, in giurisprudenza242, generato soluzioni radicalmente
contrapposte tra i Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato.
Appare necessario osservare che dei due, iniziali, contrastanti orientamenti, tuttavia, quello
appartenente ai T.A.R. manifesta una marcata coerenza e compiutezza argomentativa e di
conseguenza, una più netta attitudine persuasiva, soprattutto per aver privilegiato una lettura
più sistematica della norma243 e non solo di tipo lessicale, come invece, traspare dalle
pronunce del Consiglio di Stato.
L’interpretazione favorevole alla estensibilità delle regole che disciplinano l’accesso
documentale ai procedimenti tributari muove proprio dalla natura del diritto di accesso, la
cui operatività prescinde dalla titolarità di una posizione rigidamente personale di un diritto
soggettivo o di un interesse legittimo. Ciò in ossequio a quanto stabilisce l’art. 22 della legge
n. 241/1990, che pone in relazione detto diritto esclusivamente alle esigenze di trasparenza e
imparzialità dell’attività amministrativa, non necessariamente legate alla sussistenza di un
sottostante interesse alla impugnabilità in via giurisdizionale dell’atto o del documento di cui
si richiede l’accesso a fini conoscitivi.244
Difatti, prima della novella della legge n. 15/2005 che ha modificato la legge n. 241/1990 ( e che ha recato
una precisa esclusione del diritto di accesso dai procedimenti tributari, relativamente ai quali restano ferme le
peculiari norme che li regolano), si sono appalesati i due diversi indirizzi giurisprudenziali sopra menzionati. Va
puntualizzato che, mentre i T.A.R. si sono pronunciati in senso favorevole alla citata estensibilità, il Consiglio
di Stato ha negato sistematicamente una possibilità del genere, al tal punto da indurre i primi a rivedere la
propria posizione in materia e, in seguito, ad uniformare il proprio orientamento a quello del Consiglio stesso.
Cfr. T.A.R., Emilia Romagna, sez. II, sent. 19 novembre 1994, n. 1636 in materia di indagini bancarie e Cass.,
sez. I, 5 maggio 1991, n. 4980; Cons. St. , sez. IV, sent. 19 aprile 1995, n. 264; Cons. St., sez. IV, sent. 5
dicembre 1995, n. 982 e sulla uniformazione successiva dei T.A.R., per tutte, T.A.R. Piemonte, sez. I, sent. 9
aprile 1998, n. 234.
243 Il riferimento è alla interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 24, comma 6, della legge n.
241/1990 ( antecedentemente alle modifiche recate dalla legge. N. 15/2005), nella parte in cui prevede
l’esclusione del diritto di accesso agli atti preparatori dei provvedimenti di cui all’art. 13 della medesima legge,
contenente una espressa deroga alla estensibilità delle norme sulla partecipazione, deroga concernente anche i
procedimenti tributari.
244 T.A.R. Lazio, sez. II, sent. 9 maggio 1995, n. 819, in cui si precisa che proprio in virtù della natura autonoma
del diritto di accesso, che prescinde quindi dall’esistenza di un interesse alla impugnazione dell’atto, “ anche il
semplice richiamo, fatto dal ricorrente nella propria istanza di accesso, all’esigenza di poter esercitare,
attraverso la conoscenza degli atti di cui si tratta “ ( provvedimento del comandante di zona della Guardia di
Finanza che autorizza una indagine bancaria) “il proprio diritto di difesa, appare… sufficiente e valida ai fini
della richiesta stessa di accesso; e ciò tanto più ove si consideri che questa ha ad oggetto atti in grado di incidere
su un diritto, quello alla riservatezza, costituzionalmente garantito ( cfr. Corte Cost., 28 febbraio 1992, n. 51,
ove si afferma che la disciplina del segreto bancario rientra nell’ambito della previsione di tutela di interessi
costituzionalmente rilevanti individuati nell’iniziativa economica e nella proprietà e che il potere di deroga –
giustificato dalla salvaguardia i di interessi costituzionalmente anche più rilevanti, come l’accertamento e la
repressione dei reati e dell’evasione fiscale - è comunque sottoposto al principio della legalità, onde escludere
ogni esercizio arbitrario e indiscriminato)”.
242
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Ma l’indirizzo del Consiglio di Stato, pur riconoscendo espressamente tale peculiare
connotazione del diritto di accesso documentale245, tuttavia nell’affrontare dettagliatamente
la questione della estensibilità del medesimo diritto ai procedimenti tributari ha considerato
decisivo l’elemento della mancanza di autonoma impugnabilità riguardo agli atti istruttori
eseguiti nel corso di una verifica fiscale, assoggettando l’operatività del diritto di accesso alla
sussistenza del provvedimento finale ( avviso di accertamento)246. I T.A.R. si sono via via
uniformati, puntualizzando che il diritto di accesso del contribuente alla documentazione
relativa alla fase istruttoria del procedimento tributario non nasce sino al momento in cui
quest’ultimo non culmini nella emanazione del provvedimento di accertamento247. I fatti
hanno poi, subito una piega significativa con il sopraggiungere della legge n. 15/2005 che ha
modificato gli art. 22 e 24 della legge n. 241/1990. Difatti, attualmente, secondo la nuova
formulazione dell’art. 24, comma 1, lett b), della legge n. 241/1990 il diritto di accesso è
esplicitamente escluso nei procedimenti tributari rispetto ai quali resta, dunque, invariata
l’applicazione delle norme che li regolano. Invero, l’assenza di norme che, espressamente,
regolino il diritto di accesso nei procedimenti tributari produce la vanificazione dell’efficacia
della disposizione dello Statuto dei diritti del contribuente che riconosce al contribuente la
facoltà di comunicare osservazioni e richieste agli uffici ( dopo il rilascio del verbale di
chiusura delle operazioni di controllo ma prima dell’emanazione dell’avviso di
accertamento). Tale norma appare decisiva rispetto all’anticipazione del diritto di accesso
documentale alla fase precedente alla formazione del cosiddetto provvedimento finale. E’,
quanto mai, evidente, infatti, che l’assegnazione di un diritto di accesso documentale al
contribuente, solo dopo l’emanazione dell’avviso di accertamento possa svuotare di
significato l’assunto di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000. Facendo seguito a
tali considerazioni, si perviene agevolmente alla conclusione secondo cui la strumentalità del
diritto di accesso documentale rispetto alla partecipazione del contribuente al procedimento
tributario impone di riconoscere la sua azionabilità almeno nello stesso istante in cui è
esercitabile la facoltà di formulare osservazioni e richieste. Quindi, successivamente alla
chiusura dell’istruttoria e, in ogni caso, prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento.
Risulta, di conseguenza, naturale attendersi l’inserimento nell’ordinamento tributario (
probabilmente, il contesto appropriato potrebbe essere proprio lo Statuto del contribuente)
Cfr. Cons. St., sez. IV, sent. 26 novembre 1993, n. 1036; Cons. St., sez. VI, sent. 19 luglio 1994, n. 1243;
Cons. St. , sez. IV, sent. 30 luglio 1994, n. 650; Cons. St., sez. VI, sent. 3 febbraio 1995, n. 158.
246 Cfr. Cons. St., sez. IV, 5 dicembre 1995, n. 982; inoltre, Cons. St., dec. n. 433/1997. Cons. St., sez. VI, dec.
2 aprile 1998, n. 426; Cons. St., sez. IV, dec. 9 luglio 2002, n. 3825.
247 T.A.R. Lombardia, sez. I, sent. 12 novembre 2001, n. 7191; T.A.R. Piemonte, sez. I, sent. 9 aprile 1998, n.
234, cit.
245
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di una norma che, definendo e restituendo un senso compiuto al modello partecipativo
indicato dallo Statuto, regoli l’accesso agli atti e documenti del procedimento tributario. A
colmare, infine, sul piano interpretativo, la carenza normativa venutasi a delineare in materia
è intervenuto il Consiglio di Stato con la decisione n. 5144 del 21 ottobre 2008, nella quale
viene prospettata una lettura del novellato art. 24 della legge 241/1990 che lo stesso
Consiglio di Stato definisce “ costituzionalmente orientata”. La norma in questione deve
essere intesa nel senso che l’inaccessibilità agli atti dei procedimenti tributari sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario. Successivamente
alla sua conclusione, invece, l’accesso non può essere più precluso in quanto “ non si
rilevano esigenze di “ segretezza” nella fase che segue la conclusione del procedimento con
l’adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell’imposta dovuta sulla base degli
elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo”.
1. – I contorni della tutela anticipata definiti dal rapporto tra esercizio dei poteri
istruttori e diritti fondamentali dei soggetti passivi
E’ di tutto rilievo che nella fase istruttoria possa verificarsi un effetto di compressionesacrificio di interessi e diritti dei soggetti passivi dell’attività ispettiva. Tale depotenziamento
è determinato dalle stesse finalità della specifica azione amministrativa, che si identificano nel
perseguimento di interessi generali attraverso l’esercizio di poteri autoritativi che implicano
una invasione nella sfera privata del contribuente o del terzo coinvolto nell’ispezione, con il
conseguente obbligo per detti soggetti di subire tale invasione248. Ogni ispezione, difatti, si
distingue per l’intrinseca finalità conoscitiva cui risulta preordinata. Nell’ipotesi di
procedimenti tributari e amministrativi in genere, poi, questa connotazione strutturale è
caratterizzata proprio dall’autoritatività degli atti mediante i quali si dipana il relativo
processo di acquisizione della conoscenza. Ebbene, per stabilire quali siano i limiti di
accettabilità di un tale sacrificio da parte dei soggetti passivi di una ispezione tributaria, è
necessario soffermarsi sul fondamento giuridico del valore della persona al quale sono
agganciati interessi e diritti incisi dall’attività ispettiva.
Su di un piano astratto, la tutela dei diritti della personalità è associata a un potere di azione
o, più precisamente, di reazione, riconosciuto al titolare di tali diritti. Alla base , di siffatta
tutela esiste il dovere di astensione dal compimento di azioni che possano produrre effetti
In argomento, cfr. L. SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, cit., Padova, 1990, secondo cui
sussiste un generale obbligo di collaborazione del contribuente nella fase istruttoria del procedimento
tributario.
248
170
2/2012
lesivi sui diritti della persona, sebbene questi profili di difesa siano destinati a restare sopiti a
fronte dell’azione dei pubblici poteri.
Il rapporto di convivenza e prevalenza del momento di autorità e della tutela della persona è
disciplinato dall’art. 2 Cost., nel quale, per un verso vengono riconosciuti i diritti inviolabili
della persona, mentre per altro verso, viene posto il limite dell’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà. Ed è da tale norma che trae la propria legittimazione l’esercizio
dei poteri istruttori intrinsecamente lesivi di diritti fondamentali della persona. Al tempo
stesso, l’art. 2 Cost. è anche regola di formalizzazione giuridica del valore della persona
nonché norma concretamente dispositiva del corrispondente obbligo di astensione, il quale
si identifica nel dovere giuridico di omettere qualunque azione potenzialmente lesiva del
valore di persona, o di uno dei diritti ad esso riconducibile. Resta chiaro che ogni qualvolta
l’altrui agire possa configurarsi come una violazione del generale dovere di astensione, la
norma di cui all’art. 2 Cost. esprime lo strumento idoneo ad assicurare nell’immediato la
tutela del soggetto leso. Va, comunque, evidenziato che è poi, la stessa norma di rango
costituzionale a contemplare taluni limiti estrinseci del valore giuridico di persona. Limiti che
finiscono con l’incidere anche sulla operatività del generale obbligo di astensione che a quel
valore è collegato e che sono descritti nella seconda parte dell’art 2 Cost. in riferimento ai
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In tale ottica appare, quindi,
necessario comparare i diritti della persona con gli altri valori, di natura pubblicistica,
coinvolti nel procedimento tributario. Si comprende, allora, la ragione del recesso della tutela
del soggetto passivo rispetto al raggiungimento degli obiettivi costituzionali perseguiti
dall’attività amministrativa tributaria. Ma è bene fare una precisazione al riguardo: la
coesistenza di valori parimenti consacrati dalla Costituzione è tuttavia, gerarchicamente
collocati su piani diversi nel procedimento amministrativo tributario, implica una semplice
prevalenza dell’uno sull’altro, e non un sacrificio assoluto del valore che passa in secondo
piano. Piuttosto, può accadere che ad una temporanea attenuazione del valore
comparativamente giudicato recessivo corrisponda una eventuale reviviscenza proprio di
quest’ultimo, in presenza di talune condizioni. Il parametro per valutare, concretamente, il
venir meno del generale obbligo di astensione dal compimento di azioni potenzialmente
lesive del valore giuridico di persona tutelato dall’art. 2 Cost. è rappresentato dal principio di
legalità. Quest’ultimo, con riguardo alla Pubblica Amministrazione, è riconducibile alle
previsioni di cui all’art. 97, comma 1, Cost.; previsioni che, ove lette alla luce degli artt. 101,
comma 2 e 113 Cost., sono da interpretarsi nel senso che gli organi dell’amministrazione
171
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possono essere destinatari solo di competenze ed attribuzioni specificamente contemplate e
delimitate dalla legge249.
Ciò determina che non solo la funzione amministrativa deve essere stabilita dalla legge, ma
anche i singoli poteri attraverso i quali sia possibile esercitare quella funzione devono essere
parimenti oggetto di specifica previsione legislativa250.
3.- La posizione della giurisprudenza comunitaria in merito all'applicazione del
principio del contraddittorio come
presupposto non negoziabile volto alla
operatività dei valori sanciti dall'art. 97 Cost.
La giurisprudenza comunitaria ha sviluppato, sul tema in esame, una prospettiva molto
innovativa circa il fondamento del diritto al contraddittorio in un procedimento
amministrativo-tributario. La sentenza chiave in materia è quella del 18 dicembre 2008, CSul punto, cfr. L. CARLASSARE, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Padova, 1966, p. 153 s.
Preme in questa sede ricordare, seppur in modo del tutto fugace, che presupposto dell’autonoma
impugnabilità di un atto istruttorio del procedimento tributario è rappresentato dalla prodotta lesione di un
diritto soggettivo o di un interesse legittimo distinto rispetto alle situazioni soggettive, attinenti alla sfera
impositiva, tipicamente incise dal provvedimento di accertamento d’imposta. In altre parole, affinchè un atto
istruttorio possa qualificarsi come immediatamente e direttamente impugnabile, è necessario che esso abbia
arrecato una lesione di diritti o interessi che, pur giuridicamente rilevanti, non si identificano, né risultano
connessi, con l’interesse di natura patrimoniale tipicamente coinvolto da un provvedimento di accertamento
d’imposta o di irrogazione delle sanzioni. A dire il vero, il tema della diretta impugnabilità degli atti istruttori
compiuti nel corso di una indagine fiscale, mentre raccoglie consensi pressoché unanimi in dottrina ( per tutti,
cfr. R. SCHIAVOLIN, Indagini fiscali e tutela giurisdizionale anteriore al processo tributario, in “ Riv. Dir. Fin.”, 1991, II, p.
34 s. ), stenta, invece, a ottenere chiari riconoscimenti da parte della giurisprudenza, dalla quale si colgono solo
taluni tiepidi segnali di apertura ( cfr. Cons. St., sez. IV, sent. 28 gennaio 1991, n. 43). Tuttavia, specie in virtù
delle più recenti pronunce, deve riscontrarsi una netta inversione di tendenza del Consiglio di Stato che sembra
essersi attestato su posizioni contrarie, in ogni caso, all’accoglimento della tesi della autonoma impugnabilità
degli atti istruttori del procedimento tributario ( cfr., in particolare, Cons. St., sez. IV, sent 5 dicembre 1995, n.
982). Il tema della esclusività della giurisdizione tributaria presenta, invero, alcuni limiti indubitabili nel
momento in cui nella fase istruttoria ad essere lese siano posizioni di natura diversa da quella patrimoniale o
non relative al rapporto d’imposta. Difatti, in questa circostanza la tutela sarà attuabile solo mediante
l’autonoma impugnabilità del presunto atto lesivo, in quanto il ricorso in Commissione tributaria avverso l’atto
di accertamento o di irrogazione delle sanzioni non sarebbe in grado di offrire un’adeguata e pertinente difesa
della situazione soggettiva compromessa dalla violazione delle norme di azione. In siffatti casi, verrebbe a
mancare ogni tutela del diritto o dell’interesse in gioco, destinato quindi, a restare definitivamente
compromesso. Si tratta, evidentemente, di una tesi da abbandonare in quanto difficilmente conciliabile con le
linee garantistiche offerte dall’art. 113, primo e secondo comma della Costituzione. Linee che rinvengono oggi
una conferma ( ancorchè non soddisfacente e, al riguardo, v. S. MULEO, L’applicazione dell’art. 6 CEDU…, cit.,
ove: “ ..E’ significativo però come già ora la sentenza Ravon faccia apparire il tanto sofferto, e meritorio, Statuto
dei diritti del contribuente di cui alla legge n. 212 del 2000 come uno strumento improvvisamente invecchiato,
poiché carente di mezzi di tutela.” ) nello Statuto dei diritti del contribuente, all’art. 7, comma 4, della legge
212/2000, in cui si afferma che la natura tributaria dell’atto non ne impedisce l’impugnabilità dinanzi al giudice
amministrativo, ricorrendone i presupposti ( in dottrina, cfr. la posizione di A. FANTOZZI, Nuove forme di tutela
delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in “ Riv. Dir. Trib.”, 2004, I, p. 33).
249
250
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349/07 della Corte di Giustizia CE251, la quale in questa occasione, ricostruisce intorno al
diritto di difesa il presupposto della partecipazione attiva del contribuente nella fase di
formazione del provvedimento amministrativo finale. E ciò, indipendentemente dalla
possibilità di esperire un ricorso giurisdizionale a valle del provvedimento stesso.
Le motivazioni involte nel ragionamento seguito dai giudici della Corte risiedono nella
potenziale lesività del provvedimento che l’Amministrazione finanziaria intende adottare nei
confronti del contribuente, ed è questa caratteristica che impone la necessità di ritenere
sussistente e attivo , anche in detta fase, il diritto alla difesa del contribuente. L’anzidetta
posizione dei giudici di Lussemburgo ha prodotto decisive ricadute sul riconoscimento, nel
nostro ordinamento, di un generale principio del contraddittorio cosiddetto precontenzioso,
inteso dalla Corte quale principio generale del diritto comunitario, quindi come un elemento
giuridico cui gli ordinamenti nazionali non possono non conformarsi; l'art. 11 Cost., infatti,
attribuisce prevalenza, nella gerarchia delle fonti del diritto, alle norme emanate da organismi
sovranazionali252 .
In considerazione di tale visione moderna nei rapporti tra Stato e cittadini, trova la propria
ratio il principio immanente della c.d. parità delle armi, sancito nel nostro impianto
costituzionale e successivamente nell'orientamento giurisprudenziale della UE, nel quale,
come visto, il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve avere la possibilità di far
valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata253. Seguendo tale percorso
argomentativo (vincolante per tutti gli Stati Membri nel corso di qualsiasi accertamento
fiscale) l'organo accertatore sarà in grado di tener conto di tutti gli elementi utili al caso,
Tale causa riguardava una controversia in tema di dazi doganali, nella quale la società portoghese Sopropé
lamentava la concessione di un termine di audizione (prima della rettifica) eccessivamente breve da parte delle
autorità (“ogni soggetto nei confronti del quale si intende assumere una decisione ad esso lesiva deve essere
messo in condizione di far conoscere utilmente il proprio punto di vista”). In proposito, si vedano, Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. III, 21 febbraio 2008, causa C-18497/03; Ravon e altri c. Francia, con nota
di S. MULEO, L’applicazione dell’art. 6 CEDU anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente, in “
Riv. Dir. Trib.”, n. 7-8, 2008, p. 181; Cass., sez. I, n. 11350 del 4 maggio/17 giugno 2004 con nota di L. DEL
FEDERICO, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e art. 111 Cost. , in “GT –
Riv. Giur. Trib.”, 2005, 154 s.; S. MULEO, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in AA.VV., ( a cura di S.
La Rosa), Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, p. 99 s. ; E. LA SCALA, Principi del “ giusto processo” tra
diritto interno, comunitario e convenzionale, ( nota a Corte europea Dir. Uomo, Grande camera, 23 novembre 2006), in “ Riv.
Dir. Trib., 2007. IV, p. 54 s.; A. MARCHESELLI- A. BODRITO, Questioni attuali in tema di giusto processo tributario nella
dimensione interna e internazionale, in “ Riv. Dir. Trib.” 2007, I, p. 736 s.
252 cfr. Corte Cost., n° 389/89.
253 Aderendo alla corrente di pensiero espressa dalla giurisprudenza comunitaria, il mancato avvio
procedimentale all'apertura del confronto diretto tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, rappresenta
una grave violazione al principio di c.d. democraticità dell'azione amministrativa, ossia il riconoscimento di un
generale potere di partecipazione attiva del privato al procedimento amministrativo. ( Sentenza Corte dei Diritti
dell’Uomo, sez. III, 21 febbraio 2008, causa C-18497/03; Ravon e altri versus Francia, con nota di S. MULEO,
L’applicazione…, cit.)
251
173
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consentendo eventualmente la correzione di errori, al fine di far prevalere elementi relativi
alla situazione personale del soggetto, in modo che la decisione possa essere “plasmata” alla
realtà reddituale del contribuente254. Il soggetto accertato deve, pertanto, essere posto nelle
condizioni di poter svolgere una completa attività difensiva innanzi al responsabile della fase
istruttoria, ma per poter adempiere a tale incombenza deve beneficiare del tempo necessario
e congruo per pianificare la propria strategia difensiva (dunque successiva alla consegna del
processo verbale di constatazione al contribuente), ad esempio attraverso la presentazione
della memoria (rectius: osservazioni e richieste), a mente dell'art. 12, comma 7, Legge
212/2000 . Preme osservare infatti che il comportamento conseguente del contribuente
riveste un valore fondamentale: egli deve, pertanto, cercare di dare spiegazioni circostanziate,
precise, complete; il rilascio di risposte confuse e non esaustive o, a maggior ragione, la
mancata risposta, possono rafforzare la fondatezza delle conclusioni presuntive basate sulla
valutazione dei contenuti della documentazione “nera”.
In breve, il diritto di difesa all'interno del confronto diretto inter partes trova la propria
cittadinanza nel garantire al contribuente la possibilità di replicare con cognizione di causa ai
rilievi posti in essere da controparte: tale requisito imprescindibile nei rapporti tra cittadino e
Fisco è stato ignorato (o quantomeno disconosciuto in quanto non meritevole di tutela) nella
sentenza in oggetto da parte della Suprema Corte. La conclusione (non condivisibile) a cui
è approdata la stessa non può che indurre a riflettere: il fatto che il contraddittorio si
manifesti soprattutto nei processi giurisdizionali, non significa affatto che tale meccanismo
debba trovare applicazione limitatamente a tali contesti, dovendo, invece, essere qualificato
come un diritto che sia l'”espressione di un principio giuridico generale di carattere costituzionale,
principio che si manifesta ogni qualvolta la funzione svolta sia retta dalla ragione di imparzialità”.255 Si
tratta, verosimilmente, di una visione moderna, inaugurata dalla C.G.E., in grado di poter
conferire uno “ scossone”decisivo a un modello concepito, ancora, come espressione di
logiche tradizionali di tipo “ inquisitorio”. L'applicazione “reale” e non meramente
accademica del principio del contraddittorio è, pertanto, decisivo al fine di offrire una
riconosciuta operatività ai valori sanciti dall'art. 97 Cost.
Viene confermato il principio stabilito dalla Suprema Corte SS. UU. (nn. 26635 – 26636 – 26637 – 26638
del dicembre 2009), ossia che l'accertamento si rafforza (e si legittima) proprio attraverso il contraddittorio
instaurato “con il contribuente dal quale possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica
dell'impresa la presunzione”. In breve, in tutti gli accertamenti occorre valutare l'esito del contraddittorio per
verificare la “personalizzazione” degli standard alla singola posizione del contribuente, al fine di ottenere i
requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici.
255 F. BENVENUTI, Contraddittorio, in Enc. Dir., IX, Milano, 1961.
254
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4.– Conclusioni.
Dai principi di effettività, proporzionalità e adeguatezza della tutela, quali canoni
imprescindibili del modello europeo di tutela giurisdizionale256, scaturiscono taluni
significativi corollari, tra cui la concreta possibilità di accesso alle Corti, il rispetto delle
garanzie della difesa, l’ossequio dei principi della ragionevole durata del processo 257 e di
economia processuale, anche con il fine di scongiurare il conflitto tra giudicati, e comunque,
di favorire il mantenimento di uno standard minimo di garanzie per le situazioni giuridiche
tutelate. Dette garanzie, desumibili anche dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione
italiana, come pure dagli omologhi delle altre costituzioni europee, ma probabilmente
interpretate in modo meno sensibile quando si verta nella materia tributaria, devono ritenersi
sussistenti in modo pieno, facendo ricorso a quanto stabilisce anche l’art. II-107 dell’ultimo
Trattato UE (Trattato di Lisbona) che non distingue a seconda della tipologia dei “ diritti” e
delle “ libertà”, riconoscendo in tutti i casi un minimum di tutela.
In relazione alla fattispecie esaminata, sarebbe opportuno imporre agli uffici deputati al
controllo nella fase istruttoria del procedimento tributario, oltre all’obbligo (peraltro già
esistente) di dare atto dei rilievi del contribuente in un processo verbale e di tenerne conto in
sede di accertamento, anche quello di rispondere in tempi brevi alle contestazioni avanzate
dal contribuente medesimo in ordine alla legittimità e immediata lesività degli atti posti in
essere nei suoi confronti. Si eviterebbe, in tal modo, sin dall’inizio, di consentire l’ingresso
nel procedimento di accertamento ad elementi acquisiti illegittimamente nella fase
preparatoria e di scaricare sul giudice tributario la soluzione di quesiti che, pur relativi ad atti
tributari, non attengono al merito tributario e, perciò, non toccano quell’interesse
patrimoniale del contribuente che è alla base sostanziale del suo diritto giudiziale.
Su cui cfr. già Corte di Giustizia Europea, 16 luglio 1971, Ringeisen, in www. echr.coe.int/echr/.
La giurisprudenza in proposito si è, come noto, dimostrata contraria all’applicabilità del principio del
termine ragionevole di durata del processo in materia tributaria( cfr. Cass., sez. I, n. 21653 del 27 settembre/ 8
novembre 2005; Cass., sez. I, n. 20675 del 20 settembre/25 ottobre 2005; Cass., sez.I, n. 17498 del 4 luglio/30
agosto2005; Cass., sez. I, n. 17139 del 4 maggio/27 agosto2004; Cass. , sez. I, n. 11350 del 4 maggio/17 giugno
2004 con nota di L. DEL FEDERICO, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’Uomo e art. 111 Cost., in “GT-Riv. Giur. Trib.”, 2005, p. 154 s. ), ma con l'art. 2 del DL 40/2010 si è
stabilito che al fine di contenere la durata dei processi tributari nei termini di durata ragionevole dei processi, le
controversie tributarie pendenti che originano da ricorsi iscritti a ruolo nel primo grado, alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del citato decreto, da oltre dieci anni, per le quali risulti soccombente
l’Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio, sono definite con precise modalità. Sul
punto è, poi,intervenuto il “Milleproroghe” (DL 216/2011, art. 29, comma 16-decies), fornendo l'esatta
interpretazione del concetto di soccombenza rilevante ai fini della applicazione dell'estinzione del processo in
Commissione Tributaria Centrale e disponendo, conseguentemente, che tale deve intendersi anche la
soccombenza solo parziale (dell'Amministrazione).
256
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In definitiva, l'obbligatorietà del Fisco ad instaurare il contraddittorio con il contribuente
dovrebbe trovare applicazione ad ogni tipologia di indagine fiscale (di verifica, di controllo,
di richiesta di chiarimenti, nonché di informazioni e documenti), ivi inclusi anche
l'acquisizione di dati ed elementi di natura extracontabile. In altre parole, soltanto
assicurando il rispetto di tale principio potrà essere garantita forza giuridica e concretezza
procedimentale al concetto del c.d. giusto procedimento (“costruito”, in primo luogo
sull'applicazione del preventivo contraddittorio): un'idea condivisibile, ma che necessita –
per la sua reale applicazione – dell'introduzione di regole precise da parte del legislatore.
Non può sottacersi dunque, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale comunitario258, che
irrilevante è la denominazione terminologica o tecnica adoperata dall'ordinamento o dagli
organi competenti in relazione all'attività ispettiva: ogni qual volta il Fisco decide di
“interloquire” con il contribuente, il primo ha l'obbligo di avviare un confronto de visu con il
secondo, indipendentemente dalla natura della verifica, nonchè dal valore della pretesa
erariale259.
In conclusione, appare ragionevole ritenere che non è più sufficiente assicurare al
contribuente l'esercizio dei diritti difensivi in sede giurisdizionale (questi ultimi non possono
essere oggetto di una valutazione limitativa): occorre – in altri termini pratici – un suo
concreto coinvolgimento nel procedimento tributario ab origine (rectius: fase pre –
contenziosa), ciò gli consentirà non solo il diritto di replica in senso stretto, ma anche la
valutazione del comportamento della Pubblica Amministrazione e della sua aderenza ai
principi (di rango costituzionale) di buona amministrazione.
L'orientamento giurisprudenziale nazionale talvolta manifesta una sorta di debolezza a consolidare taluni
principi garantisti. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza 14 ottobre 2011, n. 21103) ha
affermato che se l'Agenzia delle Entrate non rispetta i 60 giorni prima dell'emissione dell'avviso di
accertamento non si verifica in assoluto la nullità dell'atto impositivo.
259 All’uopo, si rimanda alle norme in materia contenute nello Statuto dei diritti del contribuente ((art. 6,
comma 2 e 5, art. 12, comma 7).
258
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Considerazioni sull’iscrizione d’ipoteca a tutela della riscossione
di Dario Augello
Abstract: The article analyzes the mortgage institute, which ensures the tax collection, regulated by art. 77, comma 1, d.p.r. 602/1973 and object of debate in legal literature. After
the mortgage has been placed in tax collection (and not forced expropriation), the article
upholds the theory which recognizes a character of precautionary measure to the tax mortgage, and also verifies the consequences in term of protection for the taxpayer. At last, the
institute is examined within the new executive assessment (art. 29, comma 1, d.l. 78/2010).
Sommario: 1. Premessa. - 2. La collocazione dell’ipoteca prevista dall’art. 77, comma 1, d.p.r.
602/1973 nella fase della riscossione. - 2.1. L’obbligo di «comunicazione preventiva». – 2.2.
La distinta fattispecie dell’iscrizione obbligatoria d’ipoteca (art. 77, comma 2, d.p.r.
602/1973). - 3. Sulla natura cautelare o esecutiva dell’istituto. - 4. L’ipoteca a tutela della
riscossione nel sistema dell’accertamento esecutivo.
1. Premessa.
Nell’ambito delle misure finalizzate al contrasto dell’evasione fiscale, si registra, a partire
dall’ultimo decennio del secolo scorso, l’incremento dei mezzi di tutela della riscossione 260.
Fra questi è compresa l’iscrizione d’ipoteca sui beni (immobili) del contribuente, ad opera
dell’amministrazione finanziaria o del concessionario della riscossione, secondo i casi.
Si distingue, infatti, l’ipoteca prevista dall’art. 77, d.p.r. 29.9.1973, n. 602, (introdotta con il
d.lgs. 26.2.1999, n. 46, che ha riformato l’intero titolo II del decreto 602) dall’analogo istituto
disciplinato dall’art. 22, d.lgs. 18.12.1997, n. 472.
La misura prevista dall’art. 77 presuppone la formazione del titolo esecutivo ed è prerogativa
dell’agente di riscossione: a norma del primo comma, decorso inutilmente il termine di
pagamento dalla notifica della cartella (sessanta giorni), il ruolo costituisce titolo per iscrivere
260 Si possono menzionare in proposito: l’ipoteca e il sequestro conservativo sui beni del debitore ad opera
dell’ente impositore (art. 22, d.lgs. 472/1997); la sospensione dei rimborsi e l’obbligo di compensazione in caso
di credito sanzionatorio definitivo (art. 23, d.lgs. 472/1997); l’iscrizione a ruolo straordinaria (art. 11, d.p.r.
602/1973, modificato dall’art. 3, comma 1, d.lgs. 46/1999); l’iscrizione d’ipoteca su beni immobili e il fermo di
beni mobili registrati ad opera dell’agente di riscossione (artt. 77 e 86, d.p.r. 602/1973, entrambi modificati
dall’art. 16, d.lgs. 46/1999); la sospensione dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e compensazione obbligatoria del debito fiscale (art. 48-bis, d.p.r. 602/1973, introdotto dall’art. 2, comma 8, d.l.
262/2006); il pagamento mediante compensazione volontaria con crediti d’imposta (art. 28-ter, d.p.r. 602, introdotto dall’art. 2, comma 12, d.l. 262/2006); il rafforzamento della procedura di pignoramento presso terzi
(art. 75-bis, d.p.r. 602/1973, riformulato dall’art. 2, comma 6, d.l. 262/2006); l’estensione all’agente della riscossione dei potere di accesso, ispezione e verifica a norma dell’art. 33, d.p.r. 600/1973 (art. 35, comma 25-bis, d.l.
223/2006).
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ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio
dell’importo complessivo del credito per cui si procede.
A norma dell’art. 77, comma 2, inoltre, l’agente di riscossione è obbligato a iscrivere ipoteca,
quando il credito complessivo (iscritto a ruolo) per cui si procede all’esecuzione forzata è
inferiore a una certa soglia (5%) commisurata al valore dell’immobile da espropriare261.
L’ipoteca regolata dall’art. 22, d.lgs. 472/1997, invece, non richiede l’iscrizione a ruolo ed è
appannaggio dell’ente impositore, il quale ne può richiedere l’iscrizione sui beni del contribuente (al giudice tributario), fin dalle indagini e in base a un atto interinale, quando ha fondato motivo di perdere la garanzia del proprio credito, non ancora certo, liquido ed
esigibile262.
L’ipoteca si configura nell’ordinamento giuridico come diritto reale di garanzia: il creditore
che ne è titolare ha diritto ad essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dalla
vendita forzata dei beni del debitore vincolati a garanzia dell’adempimento (ius distrahendi e
ius prelationis)263.
Le norme tributarie che richiamano l’ipoteca non derogano la disciplina di diritto privato.
All’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77, d.p.r. 602/1973, si applicano perciò le disposizioni contenute nel codice civile264.
Sebbene condivida con il primo comma il presupposto dell’iscrizione a ruolo, il secondo comma dell’art.
77, d.p.r. 602/1973 – poiché integra una fattispecie d’ipoteca distinta, per certi versi contrapposta alla prima e
di minore rilevanza – sarà esaminato a parte (par. 2.2.).
262 Dell’ipoteca disciplinata dall’art. 22, d.lgs. 472/1997, oltrechè del sequestro conservativo, non si tratterà
in questo saggio. Si rinvia, peraltro, a contributi specifici sull’argomento: S. MESSINA, L’ipoteca e il sequestro
conservativo nel diritto tributario, Milano, 1997; Commento sub art. 22, in F. MOSCHETTI, L. TOSI (a cura di)
Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, Padova, 2000, 674; C. GLENDI,
Sulla nuova disciplina delle misure cautelari pro fisco, in GT - Riv. giur. Trib., 1999, 156; La nuova disciplina delle ipoteche
e dei sequestri conservativi attivati dagli enti impositori, in Corr. Trib., 2010, 1337; G. FALCONE, Ipoteca e sequestro a tutela
del credito sanzionatorio, in G. TABET (a cura di), La riforma delle sanzioni amministrative tributarie Torino, 2000, 286287; F. PISTOLESI, Ipoteca e sequestro conservativo, in T. BAGLIONE, S. MENCHINI, M. MICCINESI (a cura di), Il nuovo
processo tributario Milano, 2004, 498; G. INGRAO, Presupposti processuali, ambito di applicazione e condizioni dell’azione nel
procedimento cautelare a favore del Fisco, in Rass. Trib., 2006, 2165; M. CANTILLO, Il sequestro conservativo tributario, in
Rass. Trib., 2003, 441; R. MICELI, Sulla natura del procedimento di iscrizione dell'ipoteca a tutela del credito sanzionatorio, in
Riv. Dir. Trib., 2003, II, 393 ss. In questa sede è sufficiente osservare che tale istituto – di recente esteso anche
ai crediti tributari non sanzionatori dall’art. 27, comma 5, d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito dalla l. 28.1.2009, n.
2 – è stato criticato per la sua macchinosità, in quanto, da un lato, richiede il pronunciamento del giudice
tributario, dall’altro, è collocato in una fase tale del procedimento, che il rischio di perdita della garanzia da
parte del Fisco, quale presupposto della misura cautelare, potrebbe essere neutralizzato dalla difficoltà per il
giudice di accertare il fumus boni iuris nella fase delle indagini (v. L. DEL FEDERICO, Fermo sui beni mobili e ipoteca,
in M. BASILAVECCHIA, S. CANNIZZARO, A. CARINCI (a cura di), La riscossione dei tributi, Milano, 2011, 217).
263 Art. 2808, cod. civ.
264 Si vedano in questo senso, F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2009, 286; L.
DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in Giust. Trib.,
2007, 431-432.
261
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Essa dovrebbe integrare, secondo la dottrina prevalente, e in entrambi i casi previsti dall’art.
77, una fattispecie di ipoteca legale: il provvedimento che iscrive l’ipoteca sui beni del debitore è previsto da una norma di diritto pubblico, che assegna il relativo potere all’agente di
riscossione, in base a un valido titolo esecutivo265.
Peraltro, l’iscrizione d’ipoteca prevista dal primo comma dell’art. 77, ha subito alcuni ripensamenti da parte del legislatore, di cui si darà conto nel corso dell’esposizione. In sintesi,
seguendo la successione cronologica degli interventi legislativi, le riforme hanno riguardato:
i) l’inserimento dell’ipoteca fra gli atti autonomamente impugnabili davanti al giudice tributario266;
ii) l’esclusione dell’ipoteca per i crediti inferiori a ottomila euro267;
iii) l’esclusione dell’ipoteca per i crediti iscritti in ruoli provvisori e inferiori a ventimila euro,
quando l’immobile soggetto all’esecuzione costituisce l’abitazione principale del debitore, a
norma dell’art. 10, comma 3, t.u.i.r.268;
iv) la previsione di un obbligo di preavviso, da notificare almeno trenta giorni prima
l’iscrizione ipotecaria269.
Le considerazioni che seguono, intese a offrire ulteriori spunti sulla natura cautelare o
esecutiva dell’ipoteca tributaria, si concentrano preliminarmente sui tratti formali dell’istituto.
Tale ordine espositivo è coerente con l’opinione secondo cui la questione relativa al carattere
sostanziale dell’ipoteca dipende, in primo luogo, dalla collocazione della misura all’interno
del procedimento.
Corre il rischio, diversamente, di un ragionamento aprioristico, in presenza di un testo legislativo molto scarno, come si vedrà.
2. La collocazione dell’ipoteca prevista dall’art. 77, comma 1, d.p.r. 602/1973 nella fase della riscossione.
Cfr. L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit.., 431-432 e Fermo sui beni mobili e ipoteca cit., 222; S.
CANNIZZARO, Sull’iscrizione d’ipoteca nella fase di riscossione, in Riv. Dir. Trib., 2008, 251; M. CANTILLO, Ipoteca
iscritta dagli agenti di riscossione e tutela giudiziaria del contribuente, in Rass. Trib., 2007, 13; G. PUOTI, B. CUCCHI, Diritto dell’esecuzione tributaria. Gli atti e le azioni tipiche della riscossione coattiva tributaria, Padova, 2007, 17-18. Di parere
diverso è invece P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Milano, 2005, 239; secondo
quest’ultimo l’ipoteca a tutela della riscossione troverebbe fonte nella sola volontà del creditore fiscale.
266 L’attribuzione dell’ipoteca alla competenza del giudice tributario deriva dal d.l. 4.7.2006, n. 223, art. 35,
comma 26-quinquies, aggiunto in sede di conversione dalla l. 4.8.2006, n. 248, entrata in vigore il 12.8.2006, che
a sua volta ha introdotto la lett. e-bis, all'interno dell’art. 19, comma 1, d.lgs. 31.12.1992, n. 546.
267 Si veda il d.l. 25.3.2010, n. 40, art. 2-ter, convertito con modificazioni dalla l. 22.5.2010, n. 73.
268 Il limite è stato introdotto dalla l. 12.7.2011, n. 106, che ha convertito, con modificazioni, il d.l.
13.5.2011, n. 70.
269 L’obbligo di preavviso si deve all’art. 7, comma 2, lett. u-bis, d.l. 13.5.2011, n. 70 convertito, con
modificazioni, dalla l. 12.7.2011, n. 106, che ha introdotto il comma 2-bis nel corpo dell’art. 77, d.p.r. 602/1973.
265
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All’interno del procedimento tributario l’ipoteca è collocata in una fase intermedia, dopo il
termine per l’adempimento spontaneo in base al ruolo (provvisorio o definitivo) e prima
dell’avvio della riscossione coattiva mediante esecuzione forzata.
Il credito garantito dall’iscrizione ipotecaria può essere provvisorio o definitivo: nulla esclude
eventualmente che finalità conservative si manifestino quando il provvedimento impositivo
è stato impugnato davanti al giudice tributario.
È necessario, invece, che il credito sia provvisto di un valido titolo esecutivo (anche provvisorio) e che sia scaduto inutilmente il termine per il pagamento intimato nella cartella270.
Proprio la collocazione dell’istituto nella fase terminale della riscossione, immediatamente
anteriore all’esecuzione forzata, ha provocato in dottrina un duplice orientamento interpretativo.
Da un lato, si è sostenuto che l’iscrizione d’ipoteca rientrerebbe fra gli atti prodromici o strumentali all’esecuzione forzata271.
Dall’altro, si è affermato che la misura, ancorché collocata nella fase della riscossione,
avrebbe finalità conservative del credito, indipendentemente dall’avvio dell’espropriazione.
L’ipoteca deriverebbe, inoltre, dall’esercizio di un potere amministrativo da parte
dell’agente272.
Riflessi di tale incertezza si sono manifestati, peraltro, nella giurisprudenza, in relazione a due
diversi profili: l’applicabilità all’ipoteca del vincolo stabilito dall’art. 50, comma 2, d.p.r.
602/1973 e l’individuazione del giudice competente per conoscere i vizi del provvedimento.
270 Il termine a quo per l’iscrizione d’ipoteca stabilito dall’art. 77, d.p.r. 602/1973, deve essere coordinato,
inoltre, con le nuove disposizioni in materia di concentramento della riscossione nell’accertamento (art. 29, d.l.
78/2010, convertito con modificazioni dalla l. 30.7.2010, n. 122, e ulteriormente modificato e integrato dal d.l.
70/2011, convertito dalla l. 106/2011). Sui riflessi dell’efficacia esecutiva dell’accertamento sulle misure conservative a tutela della riscossione si veda infra, par. 4.
271 La tesi è condivisa da S. LA ROSA, P. PALOMBINI, R LUPI, L’automatismo eccessivo dell’iscrizione delle ipoteche
sugli immobili e dei fermi amministrativi sui beni mobili registrati da parte dei concessionari, in Dial. dir. trib., 2004, 515; F.
D’AYALA VALVA, Le ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto sicuro, un attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006,
I, 629; M. CANTILLO, Ipoteca iscritta dagli agenti di riscossione cit., 13-15. Secondo quest’ultimo, in particolare,
l’ipoteca sarebbe prevista in luogo del pignoramento immediato come strumento di acquisizione del patrimonio, svolgendo la funzione preventiva di conservare i beni al potere di aggressione del creditore.
272 Si vedano in proposito L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 431-433; M. BRUZZONE, I vizi
della notifica dei «fermi di veicoli» e delle «iscrizioni ipotecarie», in Corr. Trib., 2006, 3717; G. INGRAO, Le prospettive di tutela del contribuente nelle procedure di fermo e di ipoteca, in Rass. Trib., 2007, 782; S. MESSINA, L’iscrizione di ipoteca sugli
immobili ed il fermo di beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, in A. COMELLI, C. GLENDI
(a cura di), La riscossione dei tributi, Milano, 2010, 158; G. PORCARO, Problemi (e ipotesi di soluzione) in tema di giurisdizione nell’impugnazione del fermo di autoveicoli, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, in Rass.
Trib., 2004, 2069 ss.
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Sotto il primo profilo, l’art. 50, comma 2, d.p.r. 602/1973, stabilisce che, dopo un anno dalla
notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione forzata deve essere preceduta dalla notifica di un’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni273.
Si tratta, invero, di un atto preliminare all’esecuzione forzata, che ha lo scopo di rinnovare
l’obbligo di pagamento contenuto nella cartella, indipendentemente dall’iscrizione d’ipoteca
di cui all’art. 77, d.p.r. 602/1973.
Tuttavia, è diffuso l’orientamento secondo cui la previa notifica di un’intimazione ad
adempiere sarebbe necessaria anche per l’iscrizione d’ipoteca, quando è decorso un anno
dalla notifica della cartella esattoriale274.
La tesi, cui ha aderito un numero consistente di sentenze di merito, si fonda sull’assunto che
l’iscrizione d’ipoteca appartenga al momento dell’esecuzione forzata275.
Tuttavia, tale opinione pare contrastare con il dato normativo. Infatti, nessuna norma collega
all’iscrizione d’ipoteca la produzione di effetti ulteriori rispetto a quelli conservativi mutuati
dalla disciplina del codice civile; nessuna norma stabilisce che il pignoramento dei beni del
debitore debba avvenire entro un termine decorrente dall’iscrizione d’ipoteca; nessuna
norma stabilisce un termine finale di efficacia per l’iscrizione ipotecaria, cui si colleghi l’inizio
dell’esecuzione forzata276.
Dalla scarna disciplina dell’istituto contenuta nell’art. 77, comma 1, d.p.r. 602/1973, risulta,
invece, un’unica regola di carattere procedimentale: l’iscrizione d’ipoteca può avvenire, in
base a un valido titolo esecutivo, quando sono decorsi sessanta giorni dalla notifica della
cartella di pagamento.
Se ci si sposta poi nel campo dell’esecuzione forzata, che prende avvio con il pignoramento
dei beni, a norma dell’art. 491, cod. proc. civ., si può rilevare, analogamente, che l’agente di
riscossione procede all’espropriazione «quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla
notificazione della cartella di pagamento»277.
273 L’intimazione ad adempiere è un atto necessario quando si intende iniziare l’esecuzione forzata dopo che
è decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento. Cfr. F. TESAURO, Istituzioni cit., 276.
274 Si veda, ad esempio, F. SORRENTINO, Ipoteca esattoriale e difesa del contribuente, in fisco, 2010, 525.
275 Così Comm. trib. prov, Milano, 2.2.2011, sent. n. 32; Comm. trib. prov., Roma, 28.3.2011, sent. n. 137;
Comm. trib. prov. Aosta, 13.1.2011, sent. n. 7; Comm. trib. prov., Roma, 15.9.2010, sent. n. 536; Comm. trib.
prov., Bari, 23.6.2010, sent. n. 112; Comm. trib. prov., Milano, 5.5.2010, sent. n. 156; Comm. trib. prov., Taranto, 13.1.2010, sent. n. 9; Comm. trib. prov., Treviso, 15.12.2008, sent. n. 90. In senso contrario, invece,
Comm. trib. reg., Bari, 8.2.2011, sent. n. 11; Comm. trib. reg., Roma, 1.12.2009, sent. n. 222; Comm. trib. prov.,
Cosenza, 13.2.2009, sent. n. 138; Comm. trib. prov., Torino, 25.9.2008, sent. n. 33 (tutte in banca dati Fisconline
Commissioni tributarie).
276 Così L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 433.
277 Art. 50, comma 1, d.p.r. 602/1973.
181
2/2012
Da un punto di vista procedimentale, dunque, si può ragionevolmente affermare che non è
previsto alcun collegamento fra l’iscrizione d’ipoteca e l’esecuzione forzata, se non la coincidenza del termine iniziale (sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento) e
che l’intimazione ad adempiere non deve precedere l’iscrizione d’ipoteca, ma solo il pignoramento, che avviene in relazione a un bene eventualmente già ipotecato a garanzia
dell’adempimento.
Riguardo il secondo profilo, ovvero l’individuazione del giudice competente, i sostenitori
della tesi che collega il relativo provvedimento all’esecuzione forzata hanno affermato, coerentemente, la giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dell’esecuzione278.
L’opzione per la giurisdizione ordinaria è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, sulla
scorta di argomentazioni orientate a svalutare la portata autoritativa e discrezionale
dell’ipoteca, considerata un mero atto strumentale all’espropriazione279.
Viceversa gli interpreti che hanno valorizzato la funzione amministrativa dell’iscrizione
ipotecaria e il suo profilo autoritativo, quale atto (a tutela) della riscossione, hanno richiamato la competenza del giudice tributario, o amministrativo280.
La questione, peraltro, è stata risolta dall’intervento del legislatore, il quale, come anticipato
nella premessa, ha assegnato al giudice tributario la giurisdizione in materia d’ipoteca, quale
atto autonomamente impugnabile, con ciò confermando, inevitabilmente, che la misura in
questione è un provvedimento con effetti (lesivi) autonomi ed estranei all’esecuzione forzata,
collocato nella fase della riscossione281.
2.1. L’obbligo di «comunicazione preventiva».
La collocazione dell’ipoteca nell’ambito della riscossione è stata oggetto di discussione anche
sotto un terzo profilo, ovvero la presunta assenza di un provvedimento, che renderebbe la
Si vedano G. FRANSONI - P. RUSSO, La giurisdizione in materia di fermo di beni mobili registrati, in ilfisco, 2004,
1191 e A. LOVISOLO, Considerazioni sull'ampliamento della Giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Dir. Prat. trib.,
2006, 1057.
279 Da ultima Cass., Sez. Un., ord. 19.3.2009, n. 6594.
280 In favore della giurisdizione tributaria si vedano – prima della riforma dell’art. 19, d.lgs. 546/1992, che
ha sancito la relativa competenza delle Commissioni tributarie – S. LA ROSA, La tutela del contribuente nella fase di
riscossione del tributo, in Rass. Trib., 2001, 1189; C. GLENDI, Il giudice amministrativo non può giudicare sul fermo di beni
mobili registrati, in Corr. Trib., 2005, 3175; S. CANNIZZARO, Brevi note in tema di giurisdizione sul fermo di beni mobili
registrati alla luce del recente orientamento del Consiglio di Stato, in Riv. Dir. Trib., 2005, II, 582. In favore della giurisdizione amministrativa M. FRANZONI, Il fermo dei beni mobili registrati, in Dir. Prat. trib., 2004, I, 885; G. PORCARO,
Problemi (e ipotesi di soluzione) cit., 2069 ss.
281 Per un commento critico sull’ampliamento della giurisdizione tributaria, fino a comprendere, quale strumento preordinato all’esecuzione secondo l’autore, l’iscrizione d’ipoteca, si veda G. TINELLI, Iscrizione d’ipoteca
fiscale, fondo patrimoniale e tutela del contribuente, in GT - Riv. giur. Trib., 2010, 991.
278
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misura in questione, appunto, un mero strumento prodromico all’espropriazione immobiliare282.
E in effetti la mancata previsione di un atto espresso è stata censurata da più parti – anche
dopo l’intervento legislativo che ha sancito l’autonoma impugnabilità dell’iscrizione – fino
all’ulteriore, recentissima riforma legislativa, ricordata nella premessa, la quale ha sancito
l’obbligo per l’agente di riscossione di notificare al debitore una comunicazione preventiva
contenente l’avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di
trenta giorni, si procede all’iscrizione d’ipoteca.
L’art. 77, comma 1, d.p.r. 602/1973, infatti, nel regime previgente, stabiliva solo che
l’iscrizione avvenisse decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento.
D’altra parte dottrina autorevole ha chiarito che la notifica di un avviso, pur essendo rilevante sotto molteplici aspetti – primo fra tutti la decorrenza del termine per l’impugnazione
– non incide sull’efficacia della misura conservativa (o meramente strumentale, nel caso in
cui si ritenga che l’iscrizione d’ipoteca integri una misura prodromica all’esecuzione forzata)283.
È stato osservato, infatti, che la legge generale sul procedimento amministrativo – applicabile in materia tributaria, salvo alcune deroghe specifiche284 – riserva efficacia immediata ai
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare ed urgente,
a prescindere dall’avvenuta conoscenza da parte del destinatario285.
Tecnicamente, peraltro, l’ipoteca si costituisce non attraverso la notifica di un atto recettizio,
ma con l’iscrizione, da parte dell’agente, nel pubblico registro.
Tuttavia, l’assenza di un provvedimento recettizio non sembra giustificare, in sé, la svalutazione dell’istituto a mero antecedente della procedura esecutiva: tale difetto si giustifica
con la particolare modalità di costituzione dell’ipoteca, mediante la pubblicità nei registri
immobiliari286.
Così S. CANNIZZARO, Sull’iscrizione di ipoteca cit., 251; A. DAMASCELLI, Il fermo degli autoveicoli, in GT - Riv.
giur. Trib., 2003, 978; G. FERRAU, Problemi aperti in tema di fermo amministrativo degli autoveicoli, in Boll. Trib., 2004,
127.
283
Cfr. L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 438.
284
Cfr. F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario cit., 146; L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib.,
2005, 1445; M. BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi. Considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. fin. Sc. Fin., 2006, II, 356; L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea,
Milano, 2010, 90.
285
Si veda l’art. 21-bis della l. 7.8.1990, n. 241; cfr. L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 438.
286
Artt. 2808 e 2827, cod. civ.
282
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In ogni caso, la mancata previsione di un atto recettizio, quale presupposto per l’iscrizione
d’ipoteca nei confronti del debitore, nel regime previgente, era censurabile sotto diversi
aspetti287.
Per questa ragione il recente intervento legislativo, che ha introdotto l’obbligo di preavviso, è
sicuramente apprezzabile288.
Invero la notifica di un preavviso adempie una funzione di garanzia irrinunciabile per il
destinatario dell’ipoteca.
In primo luogo, se l’agente di riscossione non notifica un provvedimento egli non adempie
l’obbligo della motivazione, la cui assenza, secondo i principi del diritto pubblico, è ragione
di nullità289.
In secondo luogo, se l’iscrizione d’ipoteca non è comunicata tempestivamente al privato,
viene meno la funzione di stimolo al pagamento, naturalmente connessa all’atto conservativo.
La notifica dell’atto ha un rilievo essenziale, inoltre, ai fini della tutela giurisdizionale: il
termine per l’impugnazione davanti al giudice tributario decorre dalla data di notificazione
dell’atto, a norma dell’art. 21, d.lgs. 546/1992. Se il contribuente non fosse informato
dell’ipoteca a suo carico, neppure successivamente all’avvenuta iscrizione, il termine non potrebbe decorrere290.
Né sembra valida l’obiezione, secondo cui il termine per l’impugnazione potrebbe decorrere
dall’avvenuta conoscenza della misura cautelare, in qualsiasi modo avvenuta, anche casualmente, da parte del destinatario.
Nell’ordinamento tributario rileva, invece, la conoscenza legale (ed effettiva) dell’atto, come
è stabilito dallo Statuto291.
287
La mancata previsione di un provvedimento recettizio caratterizza, tutt’ora, il fermo di beni mobili
(art. 86, d.p.r. 602/1973). La prassi amministrativa, tuttavia, ha approntato un rimedio di fatto, stabilendo che
al destinatario del fermo sia comunicato un preavviso informale (AGENZIA DELLE ENTRATE, ris.
9.1.2006, n. 2/E - Articolo 3, comma 41, del decreto legge n. 203 del 2005, convertito nella legge n. 248 del
2005 - Fermo amministrativo su beni mobili registrati ai sensi dell’art. 86 del d.p.r. n. 602 del 1973). Tale atto è
stato, inoltre, ritenuto autonomamente impugnabile dalla giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite (sent.
n. 10672/2009; si veda a proposito il commento di G. INGRAO, Il preavviso di fermo è un atto impugnabile: una
corretta pronuncia della Cassazione, in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 543; da ultimo Cass., Sez. Un., 2.8.2011, sent. n.
16858). In materia d’ipoteca, invece, prima della recente riforma, era prassi che l’agente di riscossione comunicasse informalmente l’avvenuta iscrizione tramite una lettera raccomandata.
288
Si veda A. GUIDARA, Le nuove “intimazioni” di pagamento introdotte dal decreto sviluppo, in Rass. Trib., 2011,
1499.
289
Si vedano l’art. 3, l. 241/1990, l’art. 7, l. 212/2000, l’art. 42, d.p.r. 600/1973.
290
Sul punto G. INGRAO, Le prospettive di tutela cit., 789; L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit.,
439; M. BRUZZONE, I vizi della notifica dei «fermi di veicoli» e delle «iscrizioni ipotecarie» cit., 3717.
291
Art. 6, comma 1, l. 212/2000. Secondo Cass., sent. 9891/2001, per quanto concerne specificamente la
giurisdizione tributaria, «i termini per proporre ricorso alle commissioni tributarie decorrono esclusivamente dalla notificazione,
in mancanza della quale l'interessato rimane sempre libero di contestare la pretesa dell'amministrazione attraverso l'impugnazione
184
2/2012
La comunicazione rileva, infine, per la sospensione giudiziale dell’atto impugnato, che spetta
al contribuente a norma dell’art. 47, d.lgs. 546/1992.
Sono numerose e imprescindibili, dunque, le ragioni che giustificano l’invio di un preavviso e
che sono state accolte dal legislatore, in seguito all’acceso dibattito dottrinale.
La previsione di un obbligo di preavviso, inoltre, come sembra corretto in relazione al dato
normativo, dovrebbe comportare alcuni effetti sul piano della tutela del contribuente:
i) il mancato preavviso da parte dell’agente di riscossione potrebbe essere riconosciuto quale
vizio di nullità dell’iscrizione ipotecaria, a norma dell’art. 21-septies, comma 1, l. 241/1990,
con la conseguenza che l’iscrizione non preceduta da preavviso potrebbe essere sempre
impugnabile e l’accertamento dell’invalidità produrrebbe effetti retroattivi292;
ii) il preavviso, quando è correttamente notificato, dovrebbe integrare l’atto autonomamente
impugnabile cui si riferisce l’art. 19, d.lgs. 546/1992, comma 1 lett. e-bis e dalla sua notifica
dovrebbe decorrere, oltreché il termine iniziale di trenta giorni per l’iscrizione d’ipoteca,
anche il termine di sessanta giorni per l’impugnazione della misura davanti al giudice tributario;
iii) il preavviso dovrebbe rilevare, inoltre, per la sospensione dell’ipoteca, che il debitore può
domandare a norma dell’art. 47, d.lgs. 546/1992; con la precisazione che, se l’ipoteca è già
stata iscritta – ciò che può verificarsi quando il preavviso è impugnato dopo trenta giorni
dalla sua notifica – il debitore ricorrente potrebbe avere interesse a domandare non tanto la
sospensione, quanto la rimozione (provvisoria) dell’iscrizione293. Finché l’ipoteca non è
cancellata, infatti, si continuano a produrre gli effetti lesivi connessi alla commerciabilità del
bene, com’è stato ammesso dalla giurisprudenza294; viceversa, la mera sospensione
degli atti successivi a quello non notificato. In un sistema del genere, non è consentito attribuire alcun rilievo alle notizie comunque
acquisite dal contribuente, perché quello che conta è solo la conoscenza legale dell'atto, che stante l'inequivoco tenore letterale della
norma (artt. 19 e 21, d.lgs. 546/1992) può derivare soltanto dalla sua notificazione». Per questa ragione, nel regime previgente, l’assunto, in base al quale «il contribuente può impugnare tale iscrizione solo quando ne abbia notizia» (Comm.
trib. prov., Milano, sent. n. 395/2007, in banca dati Fisconline) non poteva essere interpretato nel senso che dalla
notizia decoresse un termine di decadenza.
292
Potrebbe trattarsi, cioè, di un’ipotesi di nullità derivante dalla violazione del contenuto essenziale del
provvedimento amministrativo. Il preavviso, infatti, essendo l’unico mezzo che porta a conoscenza del debitore la successiva iscrizione ipotecaria, adempie l’essenziale obbligo di notificazione. In generale, sul vizio di
notificazione, e sull’applicabilità della nullità amministrativa ai provvedimenti tributari, si veda F. TESAURO,
Istituzioni di diritto tributario cit., 208 e L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1446.
293
Se, invece, l’ipoteca non fosse ancora iscritta, la sospensione del provvedimento avrebbe l’effetto di
impedire l’iscrizione.
294
In proposito si è espressa Cass., sent. n. 22267/2010, nel caso, analogo per quanto riguarda
l’individuazione del danno, in cui all’accertamento dell’illegittimità non segua immediatamente la cancellazione
dell’ipoteca dal pubblico registro: «finché dura la presenza dell’iscrizione ipotecaria, sussiste una situazione apparente che
può creare difficoltà alla commerciabilità del bene, sia scongiurando eventuali proposte di acquisto di terzi sia imponendo un onere
di dimostrazione al terzo che voglia acquistare il bene o un diritto su di esso che l’ipoteca non ha più effettività». Dovrebbe es-
185
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dell’ipoteca avrebbe l’unico effetto di impedire all’agente di riscossione di avvalersi della
prelazione in sede di esecuzione forzata295.
In sintesi, in base a queste prime considerazioni, si può concludere che l’ipoteca ad opera
dell’agente di riscossione: i) è una misura conservativa, che produce gli effetti descritti dalla
norme civilistiche, ovvero la costituzione di una garanzia reale; ii) è collocata al termine della
vicenda impositiva, quando il credito fiscale è munito di titolo esecutivo; iii) è indipendente
dalla procedura di espropriazione, sebbene ne garantisca gli effetti; iv) deve essere comunicata al debitore per mezzo di un preavviso, a pena di nullità.
2.2. La distinta fattispecie dell’iscrizione obbligatoria d’ipoteca (art. 77, comma 2, d.p.r. 602/1973).
Le considerazioni precedenti sono rivolte all’iscrizione d’ipoteca prevista dal primo comma
dell’art. 77, d.p.r. 602/1973.
A conclusioni diverse si giunge, invece, con riguardo alla fattispecie prevista dal secondo
comma, che introduce nella riscossione un atto vincolato. È stabilito, infatti, che, decorsi
sessanta giorni dalla notifica della cartella, l’agente di riscossione ha l’obbligo di iscrivere
ipoteca qualora l’importo complessivo del credito per cui si procede non superi il cinque per
cento del valore dell’immobile da sottoporre ad espropriazione, determinato ai sensi dell’art.
79, d.p.r. 602/1973. L’agente procede all’espropriazione solo se, a distanza di sei mesi
dall’iscrizione, il debito non è stato estinto296.
In questa fattispecie, diversamente dall’altra, l’esistenza di un collegamento procedimentale
fra iscrizione ipotecaria ed esecuzione forzata sembra pacifica: se il credito accertato è di
modesta entità rispetto al valore del bene da espropriare, l’esecuzione forzata deve essere
preceduta dalla misura conservativa.
Le due fattispecie differiscono, inoltre, dal punto di vista funzionale: la prima, disciplinata
dal primo comma dell’art. 77, è un atto discrezionale, come si vedrà, diretto a conservare la
garanzia patrimoniale del debitore; la seconda, disciplinata dal secondo comma dell’art. 77, è
un atto obbligatorio, in vista dell’espropriazione, con finalità deflattiva della procedura forzosa297.
sere evidente, peraltro, che tanto si producono effetti lesivi sul piano delle commerciabilità del bene, quanto il
contribuente dimostri che il bene sia effettivamente oggetto di trattative commerciali.
295
L’azione cautelare, infatti, sospende gli effetti dell’ipoteca, ma non l’esecuzione forzata (cfr. L. DEL
FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 440 e M. CANTILLO, Ipoteca iscritta dagli agenti di riscossione cit., 23).
296
La soglia indicata dall’art. 77, comma 2, è relativa e dipende dal rapporto fra l’entità del credito e il
valore (al prezzo base dell’incanto) dell’immobile da ipotecare: se il credito non supera il 5% del valore del bene
l’iscrizione d’ipoteca è obbligatoria in vista dell’espropriazione.
297
Cfr. S. CANNIZZARO, Il fermo dei beni mobili registrati e l’ipoteca cit., 192, che qualifica la fattispecie dell’art.
77, comma 2, come condizione di procedibilità per l’avvio dell’espropriazione.
186
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Nondimeno, la differenza fra le due tipologie di ipoteca non sembra giustificare la scelta
legislativa, compiuta con l’ultima riforma, di escludere l’obbligo di preavviso con riguardo
all’ipoteca obbligatoria298. Anche in questo caso, infatti, si pone l’esigenza di notificare un
provvedimento al destinatario della misura conservativa, contenente la motivazione e
l’avviso che, decorsi sei mesi dall'iscrizione senza che il debito sia stato estinto, il concessionario procede all'espropriazione, come stabilito dall’art. 77, comma 2.
3. Sulla natura cautelare o esecutiva dell’istituto.
Si passa ora a esaminare i profili sostanziali dell’iscrizione ipotecaria, ovvero i caratteri e il
contenuto del potere esercitato dall’agente di riscossione, nonché la motivazione dell’atto.
Non sembra esservi alcun dubbio, in primo luogo – con riferimento al primo comma
dell’art. 77, d.p.r. 602/1973 – che l’iscrizione d’ipoteca costituisca l’esito di un’attività amministrativa, poiché la norma dà facoltà all’agente di riscossione di comprimere l’interesse del
privato mediante l’esercizio di un potere autoritativo299.
Neanche il fatto che l’iscrizione non si perfezioni con la notifica di un provvedimento è di
ostacolo a questa ricostruzione, poichè, come ricordato in precedenza, ciò dipende dalla
particolare modalità di costituzione dell’ipoteca, che richiede la pubblicità nei registri immobiliari.
Peraltro, il contenuto tipico del provvedimento si ritrova ormai nel preavviso (art. 77,
comma 2-bis). Tale atto, che non ha effetti costitutivi dell’ipoteca, nondimento riporta l’esito
dell’istruttoria amministrativa, corredato dalla motivazione.
In secondo luogo, la dottrina prevalente assegna all’iscrizione d’ipoteca prevista dall’art. 77,
comma 1, d.p.r. 602/1973, la natura di misura cautelare, con la conseguenza che l’ipoteca,
pur in assenza di un’indicazione espressa nella legge, sarebbe soggetta ai requisiti tipici
dell’azione cautelare, ovvero la parvenza di fondatezza del titolo e l’urgenza della misura a
favore del creditore (fumus boni iuris e periculum in mora)300 .
Il comma 2-bis dell’art. 77, d.p.r. 602/1973, infatti – introdotto dall’art. 7, comma 2, lett. u-bis, d.l.
13.5.2011, n. 70 convertito, con modificazioni, dalla l. 12.7.2011, n. 106 – fa espresso riferimento solo
all’ipoteca di cui al comma 1.
299
Così anche L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 437 e G. PORCARO, Problemi (e ipotesi di
soluzione) cit., 2004, 2069 ss.
300
Riconoscono natura cautelare all’ipoteca prevista dall’art. 77, comma 1, L. DEL FEDERICO Ipoteca e
fermo nella riscossione cit., 433; G. INGRAO, Le prospettive di tutela cit., 782; M. BASILAVECCHIA, Fermo di beni mobili e
giurisdizione tributaria, in Dial. dir. trib., 2005, 175; C. GLENDI, Il Consiglio di Stato cambia opinione sul fermo degli
autoveicoli, in Corr. Trib., 2004, 3232; F. D’AYALA VALVA, Le ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto sicuro, un
attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 621. L’inquadramento dell’istituto fra le misure cautelari trova
sostegno in alcune pronunce della giurisprudenza: secondo Comm. trib. reg., Roma, 1.12.2009, sent. n. 222,
«l'iscrizione d’ipoteca è da ritenersi una misura cautelare volta ad assicurare che il bene stesso non venga sottratto all'esecuzione
forzata». Negano, invece, che l’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77, comma 1, costituisca una misura
cautelare in senso tecnico S. LA ROSA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella
298
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Lungi dall’essere collocata in una sequenza di provvedimenti prodromici al pignoramento,
l’iscrizione d’ipoteca costituirebbe una misura conservativa che l’agente di riscossione può
adottare, nell’ambito della discrezionalità amministrativa, per la tutela provvisoria del credito
fiscale, indipendentemente dall’avvio della riscossione coattiva.
Non trattandosi di un provvedimento vincolato, univocamente diretto all’esecuzione forzata,
l’agente dovrebbe valutare, peraltro, non solo l’interesse fiscale alla conservazione della
garanzia patrimoniale, ma anche l’interesse privato alla libera commerciabilità del bene301.
Si tratterebbe, tuttavia, di una misura cautelare sui generis, che assiste un credito provvisto di
titolo esecutivo: è stato affermato che il fumus, per il fatto che il debito fiscale è già iscritto a
ruolo, sarebbe in re ipsa302.
Secondo un altro orientamento l’ipoteca non potrebbe essere classificata fra le misure
cautelari, per una serie di ragioni, quali: l’esistenza di un solo e unico presupposto per
l’iscrizione (il titolo esecutivo)303; la prevalenza dell’interesse pubblico nella fase della riscossione304; la mancata previsione di un termine finale di efficacia dell’ipoteca (mancanza di
provvisorietà)305; l’assenza di strumentalità rispetto ad altro successivo provvedimento o
giudizio di merito, del quale l’ipoteca assicuri il buon fine306; l’impermeabilità dell’ipoteca rispetto alle vicende del credito fiscale307.
Si tratta, però, di argomenti che potrebbero essere confutati. Infatti:
- il titolo esecutivo è presupposto necessario, ma non sufficiente per l’iscrizione d’ipoteca.
Trattandosi di un atto facoltativo e discrezionale, la decisione sul provvedimento non è automatica, ma dovrebbe dipendere dalla valutazione di tutti gli interessi coinvolti, in base ai
procedura esattoriale e nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2008, 335 ss.; S. CANNIZZARO, Il fermo dei beni mobili
registrati e l’ipoteca cit., 195; S. MESSINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi sull’adozione delle misure cautelari pro-fisco, in I
“Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria”, Sanremo, 3-4 giugno 2011, La concentrazione della riscossione nell’accertamento,
404.
301
Su questo punto concordano sia gli autori che sostengono, sia quelli che negano, la natura cautelare
dell’iscrizione ipotecaria. Si veda, da un lato, L. DEL FEDERICO Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 438, dall’altro, S.
MESSINA, L’iscrizione di ipoteca cit., 159. Nell’ambito della giurisprudenza di merito, si vedano Comm. trib. prov.,
Caserta, 17.9.2007, sent. n. 270 e Comm. trib. reg., Roma, 1.12.2009, sent. n. 222 (entrambe in banca dati Fisconline): il provvedimento «costituisce un atto di volontà del concessionario che ha natura di provvedimento amministrativo di
carattere discrezionale sia nell'an che nel quid, essendo in facoltà del concessionario medesimo sia adottare la misura dell'iscrizione
ipotecaria sia graduarla quanto all'oggetto».
302
L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 433.
303
G. PUOTI, B. CUCCHI, Diritto dell’esecuzione tributaria cit., 18; S. CANNIZZARO, Sull’iscrizione di ipoteca cit.,
251.
304
AGENZIA DELLE ENTRATE, circolare 1.10.2003, n. 52/E - Rateazione delle somme iscritte a
ruolo - Concessione della dilazione di pagamento ex art. 19, d.p.r. 602/1973 successivamente all'iscrizione
dell'ipoteca o del fermo di beni mobili registrati.
305
S. LA ROSA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili cit., 335 ss.
306
S. MESSINA, I riflessi degli accertamenti cit., 404.
307
S. LA ROSA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili cit., 335 ss.
188
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canoni di proporzionalità e necessarietà, compresa l’urgenza, che si concreta nella dimostrazione del rischio di insolvenza del destinatario, secondo la personale esposizione debitoria:
non necessariamente al ritardo del pagamento corrisponde il pericolo dell’insolvenza308;
- la presunta prevalenza dell’interesse pubblico, nell’ambito di atti non vincolati, quale si
ritiene l’iscizione d’ipoteca dell’art. 77, primo comma, è in contrasto palese con i principi di
buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, che richiedono, al contrario,
la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti309;
- la mancata previsione di un termine finale di efficacia per l’iscrizione ipotecaria rappresenta
una lacuna censurabile dal punto di vista costituzionale, indipendentemente dalla qualifica di
misura cautelare310; peraltro, nell’ambito del diritto comune, la stabilità del provvedimento
cautelare è pacificamente ammessa con riguardo alle misure anticipatorie degli effetti della
sentenza di merito (cd. misure a strumentalità attenuata, per le quali, cioè, non è obbligatorio
il giudizio di merito)311;
- l’assenza di strumentalità rispetto all’esecuzione forzata, è un tratto formale dell’istituto: in
effetti, dal punto di vista procedimentale, l’ipoteca è indipendente dall’espropriazione.
Tuttavia ciò non significa che l’ipoteca non sia diretta, da un punto di vista funzionale o sostanziale, a conservare la garanzia patrimoniale del creditore, in vista della riscossione coattiva. Si tratta di profili distinti, non incompatibili con la necessità che la misura conservativa,
diretta a preservare la garanzia patrimoniale del creditore, sia soggetta ai presupposti tipici
dell’azione cautelare. Anzi, si potrebbe affermare che proprio lo scopo di garantire l’esito
fruttuoso dell’espropriazione caratterizzi l’ipoteca come misura cautelare;
- la presunta impermeabilità dell’ipoteca rispetto al credito sottostante (per la presenza del
titolo esecutivo) sembra un argomento fuorviante. Invero le vicende del credito si riverberano sul titolo: si pensi specialmente ai ruoli provvisori, e, da ultimo, agli accertamenti esecutivi, i quali contengono in sè il titolo per la riscossione forzata. Per i ruoli definitivi, inoltre,
ove il fumus può essere oggettivamente manifesto, nulla esclude che il titolo possa presentare
profili di invalidità propri, e non derivanti dal credito, che l’agente non può esimersi dal valutare prima di iscrivere l’ipoteca.
Secondo Comm. trib. prov., Roma, 8 luglio 2010, sent. n. 283 (in banca dati Fisconline) «l’art. 77, d.p.r.
602/1973 prevede l'opportunità di ricorrere all'utilizzo dell'iscrizione ipotecaria» solo se l’agente dimostra «il rischio reale di
insolvenza da parte del debitore». In senso contrario v. G. PUOTI, B. CUCCHI, Diritto dell’esecuzione tributaria cit., 19,
secondo cui il periculum in mora sarebbe un requisito estraneo all’iscrizione ipotecaria ex art. 77, d.p.r. 602/1973.
309
Sul punto si veda S. MESSINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi cit., 405 ss.
310
L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 434.
311 Si veda l’art. 669-octies, comma 6, cod. proc. civ. (C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, III, Editio
minor, Milano, 2010, 245).
308
189
2/2012
In conclusione, a parte la vaghezza del testo legislativo, che peraltro in altri casi non ha
impedito ricostruzioni analoghe, la tesi prevalente in dottrina, che riconosce natura cautelare
all’ipoteca a tutela della riscossione, non sembra incontrare ostacoli interpretativi312.
Con riguardo alla motivazione del provvedimento, già si è ricordato che si tratta di
un requisito imprescindibile, stabilito dalle norme generali di diritto amministrativo e tributario313.
Nel caso di specie, le ragioni di fatto e di diritto, che sono portate a conoscenza del debitore
per mezzo del preavviso, dovrebbero consistere nella dimostrazione dei presupposti della
tutela cautelare e del rispetto delle condizioni stabilite dalla legge per l’iscrizione d’ipoteca314.
Peraltro l’iscrizione ipotecaria è soggetta ad alcuni limiti:
i) il primo limite, quantitativo, consiste nel divieto di iscrivere ipoteca sui beni del debitore se
l'importo complessivo del credito fiscale è inferiore a ottomila euro: l’intento del legislatore è
di limitare la misura cautelare ai crediti fiscali di maggiore entità315;
312
Opportunamente è stato osservato che i requisiti dell’azione cautelare non sono esplicitati né con riguardo all’art. 22, d.lgs. 472/1997 (ipoteca e sequestro conservativo in fase di indagini), né con riguardo ai ruoli
straordinari (art. 15-bis, d.p.r. 600/1973) e alla sospensione dei rimborsi (art. 23, d.lgs. 472/1997). Cfr. L. DEL
FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 433. Peraltro, si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la quale, nel giudizio su una domanda di risarcimento da parte del contribuente, ha riconosciuto che
l’iscrizione d’ipoteca non è un atto dovuto, ma rientra nella discrezionalità dell’autorità procedente, soggetta ai
principi di imparzialità, correttezza e buona fede (Cass. 23.9.2011, n. 19458, in Rass. Trib., 2012, 209, con nota
di A. SALVATI, Ipoteca iscritta a garanzia di una pretesa fiscale e risarcimento del danno, 213; nel caso di specie,
l’amministrazione finanziaria aveva richiesto l’iscrizione d’ipoteca al contribuente quale garanzia a fronte della
sospensione della riscossione provvisoria, a norma dell’art. 39, d.p.r. 602/1973).
313
V. supra in nota 29. La motivazione è un elemento essenziale e non meramente formale del provvedimento (cfr. F. TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1448). Specificamente, in materia d’ipoteca, richiamano l’obbligo di motivazione L. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione cit., 439; M.
BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 238; S. MESSINA, L’iscrizione d’ipoteca cit., 158.
314
Più in generale, secondo i principi del diritto amministrativo, l’iscrizione ipotecaria dovrebbe essere
motivata in relazione all’uso del potere discrezionale, ovvero il potere dal cui esercizio non deriva un esito
predeterminato e insensibile agli interessi delle parti, ma una decisione ponderata che coniuga l’interesse fiscale
con l’interesse privato secondo i principi di economicità, efficacia e proporzionalità dell’azione amministrativa;
secondo Comm. trib. reg., Roma, sent. n. 222/2009, «il provvedimento deve essere motivato in modo congruo e specifico,
sia in relazione alla prevalenza dell'interesse pubblico su quello del privato alla libera disponibilità e libertà dei beni, sia con
l’individuazione delle specifiche esigenze che ne giustificano l'adozione in rapporto alla proporzione tra la misura adottata e l'entità
del credito garantito, alle circostanze concrete, attinenti alla situazione patrimoniale ed alla condotta del debitore, da cui possa desumersi il pericolo di perdita delle garanzie del credito medesimo, non potendo la motivazione coincidere con la stessa emanazione
dell'atto». In applicazione del principio di proporzionalità, è stata giudicata illegittima l’iscrizione d’ipoteca sopraggiunta a un provvedimento di fermo (di autoveicolo) già emanato per la tutela dello stesso credito fiscale
(Comm. trib. prov. Massa Carrara, sent. 30.7.2009, n. 250, in banca dati Fisconline). Sull’applicazione del principio di economicità nella riscossione cfr. M. BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento. Profili evolutivi della
riscossione dei tributi, in Dir. Prat. trib., 2007, I, 146-147.
315
Il limite si riferisce non solo al tributo, comprensivo di interessi, ma anche alle sanzioni; per la
riscossione della sanzione, infatti, si applicano le norme (e le misure) sulla riscossione dei tributi cui la
violazione si riferisce (art. 24, d.lgs. 472/1997). In senso contrario, tuttavia, si è espressa Comm. trib. prov.,
Roma, sent. n. 536/2010 (in banca dati Fisconline).
190
2/2012
ii) un ulteriore limite quantitativo, come anticipato nella premessa, concerne specificamente i
ruoli provvisori: in relazione ad essi non è consentita l’ipoteca se il credito fiscale è minore di
ventimila euro e l’immobile è adibito dal debitore a propria abitazione principale, ai sensi
dell’art. 10, comma 3-bis, t.u.i.r.316;
iii) infine, il limite oggettivo richiede che l’ipoteca sia costituita su beni capaci di sopportarne
il peso, ai sensi dell’art. 2810 cod. civ. Trattandosi di un’ipoteca legale – secondo la tesi
preferibile – derivante dall’esercizio di un potere autoritativo e unilaterale nei confronti del
debitore, non dovrebbe essere ammessa l’ipoteca su beni del terzo, a garanzia del debito altrui, ma solo su beni appartenenti al debitore o al coobbligato (dipendente o paritario)317.
4. L’ipoteca a tutela della riscossione nel sistema dell’accertamento esecutivo.
Una recente riforma, come noto, ha modificato radicalmente il sistema di riscossione dei
tributi, concentrando la formazione del titolo esecutivo nell’avviso di accertamento, in deroga alla disciplina del ruolo318.
Ciò ha comportato, in relazione all’applicazione dell’ipoteca tributaria, alcuni dubbi, che, per
completezza, si intendono chiarire.
In specie, è previsto, per gli avvisi in materia di imposte reddituali, imposta sul valore aggiunto e imposta regionale sulle attività produttive, che essi contengano l’intimazione ad
adempiere l’obbligo di pagamento entro il termine per la presentazione del ricorso e che acquistino efficacia di titolo esecutivo decorsi sessanta giorni dalla notifica al destinatario319.
La riscossione forzata delle somme – affidata all’agente dopo trenta giorni dalla
scadenza del termine per il pagamento – è sospesa per un periodo ulteriore di centottanta
Il limite è stato introdotto dalla l. 12.7.2011, n. 106, che ha convertito in legge, con modificazioni, il
d.l. 13.5.2011, n. 70.
317
In base all’art. 170, cod. civ., la giurisprudenza di merito ha giudicato illegittima l’iscrizione d’ipoteca
su beni appartenenti a un fondo patrimoniale, quando il debito fiscale rechi il suo presupposto in attività
(economiche) non destinate al soddisfacimento di bisogni familiari (Comm. trib. prov., Mantova, sent.
71/2008, in banca dati Fisconline). Peraltro dovrebbe essere sempre possibile per l’amministrazione finanziaria
invocare – in contrasto a manovre del debitore miranti a sottrarre beni all’esecuzione forzata – l’interposizione
di persona (fittizia o reale). Altresì è stata giudicata inopponibile all’agente di riscossione la costituzione di un
fondo patrimoniale (ai sensi dell’art. 167, cod. civ.) avvenuta in tempi sospetti e successivi all’insorgere di
crediti erariali (Comm. trib. prov., Reggio Emilia, sent. n. 90/2010, in GT - Riv. giur. Trib., 2010, 991, con nota
di G. TINELLI, Iscrizione d’ipoteca fiscale, fondo patrimoniale cit.).
318
Si tratta dell’art. 29, comma 1, d.l. 78/2010, convertito con modificazioni dalla l. 30.7.2010, n. 122, e
ulteriormente modificato e integrato dal d.l. 70/2011, convertito dalla l. 106/2011. Per l’analisi dell’istituto si
rinvia a contributi specifici: A. CARINCI, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento esecutivo ex d.l. n. 78/2010, in
Riv. Dir. Trib., 2011, 159; S. LA ROSA, Riparto delle competenze e “concentrazione” degli atti nella disciplina della riscossione,
in Riv. Dir. Trib., 2011, 577; G. GAFFURI, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli
avvisi di accertamento, in Riv. Dir. Trib., 2011, 597; A. GIOVANNINI, Riscossione in base al ruolo e gli atti d’accertamento,
in Rass. Trib., 2011, 22; P. COPPOLA, La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di
ragionevolezza e coerenza interna, in Rass. Trib., 2011, 1421; C. GLENDI, Atti impoesattivi e tutela cautelare, in Corr. Trib.,
2011, 2681.
319 Art. 29, comma 1, lett. a, b, d.l. 78/2010.
316
191
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giorni e deve iniziare, a pena di decadenza, entro il secondo anno successivo a quello in cui
l'accertamento è divenuto definitivo (diversamente dal regime dei ruoli, ove l’esecuzione
forzata è soggetta solo a prescrizione)320.
Nel quadro delle nuove regole, che hanno lo scopo di anticipare la riscossione alla
fase impositiva del procedimento, l’applicazione dell’art. 77 d.p.r. 602/1973 non dovrebbe
creare particolari problemi, poiché è espressamente previsto che l'agente della riscossione,
senza la preventiva notifica della cartella di pagamento, procede ad espropriazione forzata
con i poteri, le facoltà e le modalità previste dalle disposizioni che disciplinano la riscossione
a mezzo ruolo321.
Occorrono tuttavia alcune precisazioni, in virtù del dato normativo:
- l’iscrizione d’ipoteca, che in teoria può avvenire decorsi sessanta giorni dalla notifica
dell’accertamento, in virtù del richiamo alle norme in materia di riscossione coattiva, non
potrebbe comunque avvenire prima di ulteriori trenta giorni, poiché l’affidamento della riscossione agli agenti avviene, appunto, dopo trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento322;
- la sospensione dell’esecuzione forzata per un periodo di centottanta giorni non riguarda le
misura conservative a tutela del credito fiscale: ciò si ricava da una disposizione espressa, la
quale conferma l’estraneità dell’iscrizione d’ipoteca rispetto alla procedura esecutiva323;
- l’iscrizione d’ipoteca sui beni del debitore non dovrebbe interrompere la decadenza biennale per l’avvio dell’esecuzione forzata, se si condivide la tesi che colloca l’ipoteca nella
fase della riscossione e non la classifica quale provvedimento prodromico all’esecuzione;
- in merito ai caratteri e ai requisiti della misura conservativa, dovrebbero valere le considerazioni svolte in precedenza (par. 3) con la specificazione che i requisiti della tutela cautelare e gli interessi contrapposti del creditore e del debitore devono essere valutati con particolare cautela dall’agente, data la provvisorietà del credito fiscale324.
Art. 29, comma 1, lett. b, e, d.l. 78/2010.
Art. 29, comma 1, lett. e, g, d.l. 78/2010. Sul rapporto dell’iscrizione d’ipoteca a tutela della riscossione
con le nuove norme sull’accertamento esecutivo, si vedano S. MESSINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi cit., 393
ss e L. DEL FEDERICO, Fermo sui beni mobili e ipoteca cit., 211.
322 Art. 29, comma 1, lett. b, d.l. 78/2010, che deve essere coordinato con la successiva lett. c, la quale prevede l’affidamento della riscossione agli agenti anche prima di trenta giorni, quando sussista pericolo per l’esito
positivo della riscossione.
323 Art. 29, comma 1, lett. b, d.l. 78/2010.
324
In dottrina è stato evidenziato che l’esecutività dell’atto potrebbe precedere l’esaurimento del tempo
concesso per pagare, poiché, mentre l’avviso di accertamento diventa esecutivo dopo sessanta giorni dalla
notifica, il termine per il pagamento coincide con il termine per la presentazione del ricorso, il quale può essere
differito (G. GAFFURI, Aspetti critici cit., 597 ss.). Da ciò il rischio, con riguardo all’iscrizione d’ipoteca e nel caso
in cui sia presentata istanza di adesione, che la misura conservativa possa essere emessa, in virtù della “precoce”
320
321
192
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Infine, attenta dottrina ha sollevato alcuni dubbi circa la sovrapposizione dell’ipoteca a tutela
della riscossione con l’istituto cautelare previsto dall’art. 22, d.lgs. 472/1997, che garantisce i
crediti non muniti di titolo esecutivo. L’anticipazione della riscossione ha l’effetto, invero, di
comprimere le prerogative cautelari dell’ente impositore, che peraltro ottiene il titolo
esecutivo dopo sessanta giorni dalla notifica dell’accertamento325.
È assai condivisibile la preoccupazione di questa dottrina di fronte al pericolo che, in presenza di un credito non ancora certo, l’agente della riscossione proceda a iscrivere l’ipoteca
senza un’adeguata istruttoria: la medesima istruttoria che, nell’ambito della riscossione a
mezzo ruolo, è richiesta, invece, espressamente, all’ente impositore e al giudice tributario per
la concessione dell’ipoteca di cui all’art. 22, d.lgs. 472/1997.
esecutività dell’atto, prima che le parti abbiano definito l’accertamento con l’accordo. In tal caso, l’agente della
riscossione dovrebbe usare la massima cautela nella valutazione del fumus.
325
Così S. MESSINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi cit., 411.
193
2/2012
IRAP: Spunti ricostruttivi di un percorso indefinito
di Maria Villani
Abstract
IRAP (a regional tax on production activities), 15 years after its introduction and two
rulings of the Constitutional Court (which saved its structural system) and the Court of
Justice (which recognized its compatibility with the system of VAT), presents elements of
critical reflection, in addition to the limits concerning the non-deductibility of the tax from
income tax and the attraction of self-employment to firm regime.
The paper then analyzes the relationships between IRAP and self-employement, that the
Italian Supreme Court has tried to bring to the system, but without resolving all the
antinomies that characterize the structure of the IRAP.
The work therefore focuses on the constitutional principle of protection of competition,
which is breached for the exemption that the IRAP grants to imported goods. A privilege
which determines, by the point of view of European law, a reverse discrimination which,
however, indirectly also affects the free movement of capital, and in contrast with the case
law of Court of Justice in this matter, which has recently granted it an objective protection
that should exceed limits granted to the protection of reverse discrimination.
At the end of the work some critical remarks on the model of regional fiscal
decentralization, which seems intended to extend the life of this unusual tribute.
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Questioni note e problemi aperti. – 3. Dalla
compatibilità europea l’inevitabile discriminazione a rovescio? - 4. Federalismo regionale:
superamento o stabilizzazione del tributo? – 5. Conclusioni.
1. Introduzione
Le tasse risponderanno pure ai più elementari principi di politica tributaria (e non è detto
che sia sempre così), ma talvolta, assieme alla burocrazia, ammazzano psicologicamente i
contribuenti.
Una delle tasse più invasive è parsa indubbiamente l’IRAP. A partire dalla sua
introduzione ne sono state evidenziate, poco alla volta, le non poche criticità che tale tributo
in sé racchiude. Per dir meglio, chi aveva motivo di dolersene ha alzato forte la propria voce,
chi, rispetto alla situazione preesistente, ne ha tratto vantaggi l’ha difesa tiepidamente.
194
2/2012
È bene ricordare che questa imposta ne ha sostituite (a partire dal 1997 326) numerose altre
all’epoca in vigore, tra cui le voci più significative sono, da un lato, l’imposta locale sui
redditi (ILOR) che, in seguito ad una basilare sentenza della Corte costituzionale327, non era
applicabile ai redditi di lavoro autonomo in quanto introduceva una discriminazione
qualitativa costituzionalmente illegittima; sebbene, a ben vedere, la discriminazione non sia
illegittima in sé. Il legislatore della riforma del 1972 aveva, infatti, optato per una addizionale
ai redditi assoggettati all’IRPEF caratterizzati in qualche misura da un elemento
patrimoniale, piuttosto che istituire un’imposta patrimoniale ad hoc: l’esito da parte della
Corte costituzionale in punto di illegittimità dell’ILOR sui redditi da lavoro autonomo
appariva dunque scontata.
L’IRAP nasce conseguentemente con un vizio originario, vale a dire il tentativo di
aggirare i contenuti della sentenza della Corte costituzionale sull’ILOR del 1980.
Dall’altro l’IRAP ha poi sostituito anche i contributi sanitari che erano a carico dei redditi
di lavoro328.
Con la nuova imposta IRAP il legislatore si è proposto, da un lato, di realizzare un tributo
a larga base imponibile in grado di sostituire i contributi sanitari; dall’altro di strutturare il
tributo in modo tale da porlo a carico anche dei redditi di lavoro autonomo che la Corte
costituzionale aveva escluso dall’ILOR aggirandone il divieto. Ulteriore obiettivo di questo
singolare modello di prelievo era quello di adottare uno schema impositivo che facilitasse la
traslazione del tributo a carico delle imprese piuttosto che sui percettori di reddito di lavoro
dipendente (come avveniva per i contributi sanitari), rischiando oltretutto la bocciatura (poi
sventata), da parte della Corte di Giustizia europea, per una sua presunta incompatibilità con
Data della sua introduzione nel nostro ordinamento tributario, con D.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446,
nell’ambito della cosiddetta riforma della fiscalità locale (una delle tante riforme fiscali che si sono succedute in
questi ultimi anni). La creazione dell’IRAP è stata preceduta da un’attenta indagine da parte della
«Commissione di studio per la riforma del sistema tributario», che ne ha curato l’introduzione. Tale organo
aveva il compito di riordinare il farraginoso sistema fiscale esistente nel Paese ed apportare sostanziali
modifiche nel sistema dei prelievi tributari e sanitari a carico delle imprese e dei lavoratori autonomi, nonché
modernizzare il sistema di gestione delle dichiarazioni, riorganizzare il lavoro degli uffici finanziari, rendere più
razionale e semplice il sistema di prelievo nei confronti dei lavoratori dipendenti, assoggettare ad imposta
sostitutiva alcune operazioni di carattere straordinario e riordinare le imposte personali sul reddito al fine di
favorire la capitalizzazione delle imprese (cosiddetta DIT, dual income tax). L’introduzione dell’IRAP si inserisce
in tale contesto come imposta complementare allo scopo fondamentale di riportare i capitali all’interno delle
imprese, in quanto l’eccessivo indebitamento e la scarsa capitalizzazione propria costituiscono un problema
strutturale delle imprese italiane (a tal proposito si veda G. MARONGIU, L’imposta regionale sulla attività produttive
(IRAP,) in A. AMATUCCI (a cura di), “Trattato di diritto tributario”, vol IV, Padova, 2001, 443).
327 C. cost., 16 marzo 1980, n. 42.
328 L’abrogazione ha poi riguardato l’imposta sul patrimonio netto delle imprese (d.l. 30 settembre 1992, n.
394, convertito in l. 24 aprile 1989 n. 144; l’ICIAP, imposta comunale sulle arti e professioni, (d.l. 2 marzo
1989, n. 66, convertito in l. 24 aprile 1989, n. 144) e la tassa sulla concessione governativa (d.P.R. 26 ottobre
1972, n. 641, art. 24).
326
195
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le direttive comunitarie in materia di IVA, che vietano agli Stati membri di introdurre
imposte sulla cifra d’affari ad effetto equivalente, che rappresenterebbero un doppione
dell’imposta sul valore aggiunto.
La costruzione di un modello impositivo unico per tassare sia i redditi d’impresa sia quelli
di lavoro autonomo, per di più con la medesima aliquota, ha introdotto nello schema
impositivo un ulteriore elemento di incoerenza329, per di più in un tributo caratterizzato da
un notevole impatto sul bilancio pubblico. Ha determinato quindi non poche conseguenze
in punto di certezza del diritto, ragionevolezza ed eticità della tassazione, sia presumendo
una dubbia compatibilità con principi basilari (primo fra tutti il principio di capacità
contributiva); sia conseguentemente generando un vasto contenzioso tributario al riguardo,
oltretutto in un momento in cui la priorità dovrebbe essere sostenere adeguatamente
l’economia ancora in convalescenza, dando certezza agli investimenti.
Il circolo virtuoso auspicato dal Governo con la legge delega 80/2003 di riforma del
sistema tributario dello Stato, che avrebbe dovuto legare crescita economica e riduzione delle
imposte e crescita economica, interrotto nel 2006 prima di potersi consolidare, di fatto non
si è mai innescato. Le promesse di riforma o abolizione dell’imposta sono state solo più
volte ribadite, scontrandosi invero nel passaggio dall’opposizione al Governo, con
l’ineludibile necessità di trovarle un sostituto330.
Non si tratta certo di un tema nuovo, ma solo più e più volte rispolverato in pochi assensi
e frequenti negazioni, tentando di spianare faticosamente una strada.
2. Questioni note e problemi aperti
L’IRAP è un’imposta nata male perché poco attenta agli strumenti giuridici adottati.
Che la sentenza della Corte Costituzionale (21 maggio 2001, n. 156) non ha risolto.
Il cammino che porta alla prefigurata abolizione dell’IRAP è in realtà irto di ostacoli. Disattese le
aspettative nutrite nei confronti del DDL delega per il riassetto fiscale, che prevedeva la creazione di un fondo
“taglia tasse” per finanziare gli sgravi fiscali: oltre a non mantenere la promessa di un fondo destinato
all’alleggerimento degli oneri fiscali dei cittadini, anche le imprese sono state deluse vedendosi rinnovare l’IRAP
(oltre che l’IRPEF) che non subirà alcun tipo di modifica. “La vecchia delega (tanto si legge nella relazione
illustrativa della riforma) conteneva l’indicazione, nel medio-lungo periodo, della soppressione dell’IRAP”. In
specie tanto era stato auspicato: “Il Governo è delegato ad emanare uno o più decreti legislativi per la graduale
eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), con prioritaria esclusione dalla base
imponibile del costo del lavoro; […] Fino al completamento del processo di riforma costituzionale restano
garantiti in termini quantitativi e qualitativi gli attuali meccanismi di finanza locale. In particolare, la progressiva
riduzione dell’IRAP sarà compensata, d’intesa con le regioni, da trasferimenti o da compartecipazioni. Restano
salve eventuali anticipazioni del federalismo fiscale”. Trasferimenti, compartecipazioni e soprattutto una
“riforma costituzionale”? che hanno destato serie perplessità. Parlare di “anticipazioni del federalismo fiscale”
ha nient’altro che confermato di non essere nel mezzo del processo di attuazione del federalismo fiscale o
perlomeno di esserne ancora lontani, in un quadro in cui la pressione fiscale continua a crescere e la crisi non si
ferma.
329
330
196
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Le discussioni331 dimostrano che, spesso, i pregi e i difetti dell’IRAP non sono sempre
chiari, che sulla sua essenza, sul suo funzionamento, soprattutto su quale sia la base
imponibile tassata con l’IRAP spesso vi sono fraintendimenti332.
Equivoci che, forse, possono trovare debole difesa solo che si faccia mente alle principali
motivazioni che avevano condotto nel 1997 ad adottare il nuovo tributo, tra le quali vi era
quella di attrarre a tassazione i redditi di lavoro autonomo, per i quali non era più possibile
introdurre addizionali discriminanti rispetto agli altri redditi di lavoro.
In specie l’imposta nasce con una pluralità di obiettivi e con motivazioni diverse, non
sempre coerenti; la politica era rappresentata dall’obiettivo di dare alle regioni un tributo a
larghissima base imponibile ed aliquota moderata (per aumentare l’autonomia fiscale), al fine
di finanziare la spesa sanitaria.
Così finisce per assorbire l’ILOR e i contributi sanitari, due voci caratterizzate entrambe
da un ampio gettito, ma entrambe regressive. La nuova imposta, costituita su basi
essenzialmente economiche, presentava alcuni elementi positivi e qualche grave
inconveniente legato al particolare schema impositivo adottato333: l’assenza di qualsiasi
differenziazione dal punto di vista dell’aliquota e la mancata previsione di strumenti di
deducibilità quantomeno parziale del reddito dalla base imponibile IRAP per le attività di
lavoro autonomo, compromettono per alcuni profili la ragionevolezza di un tributo il cui
oggetto assomiglia tanto (quasi da identificarsi) ad un’addizionale al reddito334.
Sul punto bisogna intendersi: l’IRAP è a tutti gli effetti un’imposta sul valore aggiunto
della produzione che adotta una struttura impositiva di tipo reddituale, ed in questo si
distingue dall’IVA che è anch’essa un’imposta sul valore aggiunto della produzione, ma che
Data l’ampiezza dei dibattiti in tema di IRAP, in questo e negli altri casi ci si limiterà, per semplificazione
espositiva, a riferimenti testuali più precipuamente connessi alla trattazione in esame: in proposito cfr. ex multis
F. GALLO, Ratio e struttura dell’IRAP, in Rass. trib., 1998, 3, 627 ss.; F. GALLO, Imposta regionale sulle attività
produttive, in Enc. dir., agg., V, Milano, 2001; R. LUPI, L’IRAP tra giustificazioni costituzionali e problemi applicativi, in
Rass. trib., 1997, 6, 1412 ss; E. DE MITA, Eutanasia di una tassa, in IlSole24Ore, 18 marzo 2005, nonché E. DE
MITA, Fisco in fuori gioco sull’IRAP negli studi. Consulta travisata, in IlSole24Ore, 3 febbraio 2002; E. DE MITA, IRAP
e IRPEF. Fantasie e acrobazie, in IlSole24Ore, 18 marzo 2005; G. FALSITTA, Nuove riflessioni in tema di IRAP, in Boll.
Trib., 1998, 6, 485 ss; A. BODRITO, L’IRAP tra genesi ed esegesi, in Dir. Prat. Trib., 1999, 1, 477 ss.; R. BAGGIO,
Profili di irrazionalità e di illegittimità costituzionale dell’imposta regionale sulle attività produttive, in Riv. Dir. Trib., 1997, 9,
633 ss. ; F. BATISTONI FERRARA, Prime impressioni sul salvataggio dell’IRAP, in Rass. Trib., 2001, 3, 860 ss.; C.
BUCCICO, L’IRAP nel sistema tributario italiano, Napoli, 2000.
332 In tal senso F. FEDELE, Prime osservazioni in tema di IRAP, in Riv. dir. Trib., 1998, I, 461; R. SCHIAVOLIN,
L’imposta regionale sulle attività produttive, in M. MICCINESI (a cura di), Commento agli interventi di riforma tributaria,
Padova, 1999, 784; F. GALLO Imposta Regionale sulle attività produttive (IRAP), in Enc. Dir., 662; G. MARONGIU, op.
cit., 501; M. PROCOPIO, L’oggetto dell’IRAP, Padova, 2003, 71.
333 A tal proposito si veda G. CORASANITI, IRAP: Gli elementi delle fattispecie imponibile, la giustificazione
costituzionale e la graduale abrogazione, in Dir. Prat. Trib., 2001, 1, 973 ss.
334 A tal proposito cfr. F. FORTE, Il consumo e la sua tassazione. Le imposte sulle vendite e sul valore aggiunto, Torino,
1973.
331
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assume come schema impositivo, un modello di tipo consumo costruito su basi
finanziarie335. A ben vedere, quindi, cambia senz’altro la costruzione del tributo, tuttavia
l’oggetto del tributo è il medesimo: il valore aggiunto336. Naturalmente vi è senz’altro qualche
differenza minore non irrilevante rispetto all’IVA e che ha fatto la fortuna di questo modello
di tassazione “indiretta” del consumo attraverso l’imposizione del valore aggiunto delle
vendite: nell’IVA in particolare la deduzione investe in modo immediato il costo degli
investimenti, laddove gli oneri finanziari sono estranei al regime IVA; oltretutto la centralità
dell’IVA nella tassazione delle vendite è assicurata da un modello di imposizione che tassa le
vendite intracomunitarie, con un meccanismo che mantiene il criterio della tassazione nel
Paese di destinazione (i beni importati assolvono l’IVA con la propria aliquota nazionale e
non con quella del Paese di origine). L’IRAP, invece, tassa le esportazioni ma non le
importazioni, al fine di non incorrere nel divieto imposto agli Stati di istituire imposte ad
effetto equivalente rispetto all’IVA337.
Non è pertanto in discussione la legittimità del presupposto, ma il fatto che avendo
adottato un presupposto riferito alla produzione secondo lo schema dell’impresa, il suo
adattamento senza alcun correttivo alle attività di lavoro autonomo evidenzia una serie di
incoerenze che si ripercuotono in termini di ragionevolezza sul modello impositivo338, che la
Corte Costituzionale non solo non ha risolto, ma in qualche misura ha contribuito ad
alimentare.
La soluzione adottata conseguentemente dalla Corte di Cassazione339 per separare le
attività di lavoro autonomo assoggettabili all’IRAP, basata essenzialmente sulla
335 E’ quanto ha chiarito la Corte di Giustizia UE (con sentenza 3 ottobre 2006 causa C-475/03, Dir. e
Giust., 2006, 38, 87), come si vedrà di seguito.
336 A tal proposito si veda G. FALSITTA, L’IRAP? Una seconda IVA da ripensare, in IlSole24Ore, 30 luglio 2004.
337 Come evidenziato anche da parte della dottrina; in tal senso v. G. MARINI e R. LUPI, lRAP e IVA: aspetti
giuridici di distinzioni economiche, in Dialoghi dir. Trib., 2005, 472.
338 A tal proposito cfr. ex multis A. AMATUCCI, L’autonoma organizzazione professionale ai fini dell’IRAP e la
discriminazione qualitativa dei redditi: dubbi di legittimità costituzionale, in Innovazione e diritto, 2007, 2, 87 ss; F. DEL
TORCHIO, Il concetto di “autonoma organizzazione” secondo l’insegnamento dei giudici e secondo l’orientamento dell’Agenzia
delle Entrate, in Boll. Trib., 2002, 578 ss.; L. CIOCCA, I professionisti soggetti all’IRAP non diminuiscono ma aumentano le
perplessità, in Boll. Trib., 2002, 7, 502 ss; L. STRIANESE, IRAP e attività “autonomamente organizzata”: una breve
ricognizione sistematica alla luce della giurisprudenza della sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Innovazione e diritto,
speciale 2007, 1 ss; V. FICARI, Brevi note sul lavoro autonomo autonomamente organizzato e lavoro autonomo coordinato e
continuativo nel presupposto dell’IRAP, in G. T. - Riv. Giur. Trib., 2003, 1, 84 ss; S. F. COCIANI, Attività autonomamente
organizzata e IRAP (nota a Corte Costituzionale, 21 maggio 2001, n. 156), in Riv Dir. Trib., 2003, 1, 7 ss; G.
MARONGIU, Irap, lavoro autonomo e costituzione, in Dir. Prat. Trib., 2000, I, 1629 ss.
339 A tal proposito v. SS. UU., Sez. trib., 26 maggio 2009 (12 maggio 2009), nn. 12111, 12110, 12109 e
12108; Cass., Sez. trib., 13 gennaio 2009 n. 23969; Cass., Sez. trib., 4 luglio 2008, n. 18472; Cass., Sez. trib., 19
marzo 2007, n. 6502; Cass., Sez. trib., 3676/2007 - 3678/2007 - 8177/2007; Cass., Sez. trib., 30 marzo 2007,
n. 7899; Cass., Sez. trib., 5 novembre 2004, n. 21203. Le richiamate sentenze hanno disposto che i
professionisti sono esclusi dal tributo quando, secondo l’id quod plerumque accidit, si avvalgono di mezzi non
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valorizzazione del profilo organizzativo dell’attività, se da un lato ha portato a escludere
dall’ambito del tributo una serie di realtà minori in cui l’imposta si presentava all’evidenza
come una addizionale (illegittima) al reddito, ha aperto una serie di problemi in tema di
ragionevolezza del prelievo nei confronti di altre attività le quali, pur esprimendo all’evidenza
minore capacità contributiva, verrebbero attratte all’ambito di applicazione del tributo,
incidendo su una base imponibile tendenzialmente coincidente con il reddito.
La questione è, con tutta evidenza, legata a filo doppio al tema non meno ingombrante
della deducibilità, che non può essere ridotto ad un problema di scambio con un’aliquota
maggiorata, come è stato sostenuto semplicisticamente da qualche economista.
A ben vedere il tributo viene ad essere la negazione di chiari principi a sostegno
dell’economia nazionale: la base imponibile è data dal valore della produzione netta340
conseguito nelle singole regioni italiane, con la conseguente esclusione del valore della
produzione estera, eseguita in proprio o a mezzo di terzi.
In specie, il punto debole è rappresentato dalle modalità di determinazione della base
imponibile, da incertezze riferite alla stessa, ovvero dalla non deducibilità di interessi passivi
(per le imprese diverse da quelle finanziarie) e di (gran parte del) costo del lavoro, con la
conseguenza che l’imposta si rende dovuta anche da imprese in perdita; incrementando, da
questo punto di vista, la penalizzazione della produzione di beni e servizi fatta in Italia:
effetto caratteristico di un tributo reale di cui non si consente la deducibilità dal reddito e
conseguentemente il riporto di una perdita fiscale.
Ciò indebolisce e di molto l’applicazione del criterio del beneficio o della
controprestazione, che dovrebbe affiancare il principio di capacità contributiva nei tributi
decentrati. I contributi sanitari avevano alcuni difetti, erano distorsivi e regressivi, ma almeno
era chiaro l’elemento di controprestazione (era evidente nel contribuente per cosa si
pagava)341. Questo aspetto invece si affievolisce e di molto nell’IRAP, anche se potrà
obiettarsi che tassando tutti i redditi un certo legame continua a permanere.
La indeducibilità sembra richiamare un aspetto prima facie alquanto ingiusto del
funzionamento dell’imposta, ma che in parte ha invece una sua logica: che tassando tutti i
redditi, l’impresa sta in realtà riscuotendo per conto delle Stato (ma fondamentalmente delle
eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività, in assenza di organizzazione ovvero in presenza
di lavoro svolto da terzi in modo meramente occasionale.
340 Art. 4, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
341 I contributi sanitari e l’ILOR erano deducibili dalle imposte dirette IRPEF e IRPEG (oggi IRES); è vero
che i contributi sanitari sul lavoro erano pagati anche dalle imprese in perdita, ma le perdite fiscali possono
essere riportate in avanti per cinque anni; l’indeducibilità dell’IRAP, quindi, penalizza sia le imprese in perdita
sia quelle che non hanno utili fiscali per non aver effettuato nel corso dell’anno fiscale investimenti cospicui.
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regioni) il prelievo sui redditi da lavoro, sui profitti e sugli interessi. Aspetto non del tutto
positivo, configurandosi come un’ulteriore tassazione sulle stesse basi imponibili. Una
duplicazione possibile fino a che il tributo resta statale; nell’ipotesi invece di un trasferimento
dell’IRAP alle regioni si sarebbe in presenza di un divieto costituzionale implicito (art. 119
Cost.). Si potrebbe, inoltre, sostenere che se l’IRAP ha natura regionale, è poi alquanto ovvio
che essa non sia deducibile da imposte erariali, ma che se divenisse erariale si potrebbe
ammettere una sua deducibilità parziale o totale. La stessa risposta si può dare (e spesso la si
è data) all’obiezione dell’obbligo tributario che emerge anche se ci si trova in perdita. A fare
da contraltare l’obiezione secondo cui l’Italia, anche dopo la riforma del Titolo V, resta uno
Stato regionale a forte decentramento; la deducibilità dell’IRAP (regionale) sarebbe dunque
coerente con il principio di unità della finanza pubblica (a maggiori imposte regionali nelle
aree economiche meno sviluppate corrisponde una minore imposizione statale). È
indubbiamente l’aspetto più controverso dell’IRAP; ma ancora, se ci si limita alla
considerazione della sola base imponibile dell’imposta, è stato, non di rado, a sua volta
contestato che non può che essere così: anche se l’impresa ha un utile negativo, le altre
componenti della base imponibile sono ancora positive per cui resta l’obbligo tributario.
Ovviamente si può dissentire sulla scelta di questa peculiare base imponibile e sui suoi
presunti vantaggi342, anche su quella che anziché legarla al prodotto netto meno i costi
inerenti alla produzione, si è deciso di agganciarla al reddito e quindi strutturarla con un forte
legame con i bilanci delle società. Forse sarebbe stato più chiaro non unire nella medesima
base imponibile l’IRAP, ma lasciare distinte le sue diverse componenti (e i contribuenti) in
modo che l’obbligo tributario fosse chiaro anche in caso di utili negativi. Una maggiore o
minore traslazione dell’imposta da parte delle imprese può naturalmente “aggiustare” tutto,
senza però che questo argomento diventi un espediente per far quadrare il ragionamento
sugli effetti dell’imposta. Ma siamo davvero sicuri che poi ciò, in fondo, possa bastare?
La verità, evidentemente, è che proprio in merito al tema si evidenzia in pieno la diversità
dell’approccio giuridico da quello dell’economista; per l’economista la deducibilità o meno è
una scelta del legislatore che non ha effetti sotto il profilo economico: se l’imposta è
indeducibile si può adottare un’aliquota più moderata, il che ne aumenta il grado di
accettabilità; se la si rende deducibile dal reddito, occorrerà aumentare l’aliquota in
342 È indubbio che l’IRAP ha alcuni meriti, soprattutto se la si immagina come tributo centrale e non
regionale: a) in virtù dell’elevata base imponibile, rende possibile l’applicazione di un’aliquota relativamente
mite per ottenere un gettito consistente; b) ha permesso una razionalizzazione del sistema, avendo sostituito
altri prelievi più o meno distorsivi c) come poi ha riconosciuto la Corte di Giustizia europea, l’IRAP tassa si il
valore aggiunto, ma in sostanza è alquanto diversa dall’IVA, che invece tassa quello tipo consumo (l’IVA) come
è noto è un’imposta sui consumi finali delle famiglie.
200
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proporzione. Tesi formalmente condivisibile ma fuorviante negli effetti come si è avuto
modo di vedere; se l’imposta è deducibile e la società è in perdita sarà sempre tenuta a
versare il tributo reale, tuttavia potrà portare in avanti la mancata deducibilità come perdita
fiscale da recuperare in un periodo di imposta successivo. La questione è evidentemente
ancora più delicata per i redditi dei lavoro autonomo343 in cui l’indeducibilità del tributo
reale, incide sulla scala della progressività: è ragionevole tassare progressivamente un reddito;
è del tutto arbitrario applicare un’aliquota progressiva ad un costo indeducibile.
Lo schema impositivo dell’IRAP, nonostante il riferimento allo svolgimento di un’attività
autonomamente organizzata da parte del lavoratore autonomo, presenta alcune evidenti
criticità, perché nella maggior parte dei casi i profili organizzativi dell’attività rappresentano
un elemento modesto (quando non marginale dell’attività stessa) che è essenzialmente
costituito dalla remunerazione del lavoro. Nella determinazione della base imponibile
dell’IRAP rispetto ai redditi del lavoro autonomo il legislatore aveva un’ampia
discrezionalità; tuttavia nel tassare allo stesso modo (con la stessa aliquota) attività che
assolvevano l’ILOR (ed essenzialmente tutti i redditi diversi da quelli da lavoro) e redditi
fuori dall’ILOR (per scelta del legislatore o della Corte Costituzionale344), il legislatore pare
aver fatto un uso irragionevole della propria discrezionalità.
Di qui una crescente resistenza dei contribuenti che si ritenevano ingiustamente
penalizzati dal nuovo tributo rispetto a tutti gli altri; tuttavia aggravato dalla circostanza che
l’indeducibilità trasforma l’imposta in un costo, i cui effetti sono diversi, ben più
irragionevoli per i redditi di lavoro assoggettati all’IRPEF, rispetto a quelli assoggettati
Nella giurisprudenza di merito si sono venuti a determinare ben tre orientamenti: un primo, teso a
riconoscere sempre l’assoggettabilità del lavoratore autonomo all’IRAP, in quanto l’abitualità della professione,
la programmazione delle proprie energie intellettuali per acquisire clientela, ottenere credito e competere sul
mercato, andrebbero a costituire quell’organizzazione necessaria e sufficiente per l’imponibilità IRAP; un
secondo orientamento, di contro, volto ad escludere il lavoro autonomo dall’assoggettabilità IRAP quando si
eserciti una così detta “professione protetta”, per la quale la legge preveda l’iscrizione ad un Albo Professionale
e nella quale sia determinante il c.d. “intuitus personae”, ossia il rapporto personale e di fiducia tra professionista e
cliente; infine vi è un terzo orientamento, quello prevalentemente accreditato presso il Giudice di Legittimità,
per il quale il lavoratore autonomo è assoggettabile all’IRAP nel caso in cui si avvalga di una organizzazione di
mezzi ed uomini tale da ampliare i risultati profittevoli atteggiandosi come contesto potenzialmente autonomo
rispetto all’apporto personale rivolto ad un ruolo di indirizzo, coordinamento e controllo. Detto ultimo
indirizzo appare essere in linea con l’ormai noto intervento della Corte Costituzionale (sentenza 21 Maggio
2001, n. 156).
344 L’ILOR era originariamente una addizionale locale su tutti i redditi, esclusi quelli da lavoro dipendente.
La Corte Costituzionale, all’inizio degli anni ’80 (con sentenza n. 42/80) ha ritenuto illegittima la
discriminazione qualitativa sui redditi di lavoro e ha dichiarato illegittima l’imposta nella parte in cui esentava
dal tributo i soli redditi da lavoro dipendente. Dopo la sentenza della Corte il medico di famiglia e il medico
ospedaliero non pagavano più l’ILOR, con l’istituzione dell’IRAP il medico ospedaliero ha continuato a non
pagare il nuovo tributo, il medico di famiglia si; l’IRAP nasce infatti come imposta definita dal legislatore
“imposta reale” sull’attività autonomamente organizzata allo scopo di poter riattrarre nel proprio ambito
impositivo i redditi da lavoro autonomo esclusi dall’ILOR dalla sentenza della Corte Costituzionale.
343
201
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all’IRES. Nel primo caso la progressività, che dovrebbe discriminare in base alla ricchezza,
discrimina invece in base ai costi (negando ogni ragionevole legame col principio di capacità
contributiva). In definitiva una diversa graduazione del tributo e la deducibilità dalle imposte
sui redditi, non ne avrebbe eliminato il limite di fondo di penalizzare l’economia nazionale,
ma ne avrebbe quantomeno attenuato, specie per le attività di lavoro autonomo, i profili di
irrazionalità, arbitrarietà e irragionevolezza.
La Corte Costituzionale (con l’ormai noto intervento del 2001345), per salvare l’impianto
dell’IRAP senza contraddire in modo palese la propria giurisprudenza sull’ILOR, ha
ricostruito tutto il ragionamento sullo schema impositivo del tributo intorno al concetto di
risultato dell’attività svolta, interno allo schema del reddito d’impresa, che non richiede
necessariamente la produzione di un reddito per evidenziare l’attività.
Anche l’impresa in perdita ha una serie di ricavi che remunerano almeno in parte i fattori,
sebbene non emerga un reddito. Tuttavia appare evidente che in tale schema rientrano le
attività d’impresa, ma è assai meno agevole ricondurre nel medesimo impianto ricostruttivo
quelle di lavoro autonomo (in cui anche se non si registra una completa sovrapposizione tra
ricavi dell’attività e reddito ai fini IRPEF, tuttavia si è in presenza sempre e comunque di due
grandezze molto simili).
La Corte ha quindi lasciato aperto lo spiraglio della definizione del concetto di autonoma
organizzazione nella produzione dei redditi da lavoro autonomo, la cui sussistenza
rappresenta la base per l’assoggettabilità o meno dell’imposta. Secondo la Corte l’IRAP
colpirebbe “con carattere di realità un fatto economico, comunque espressivo di capacità di
contribuzione, in capo a chi, in quanto organizzazione dell’attività, è autore delle scelte dalle
quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura,
concorrono alla sua creazione”.
Come si vede un abito in cui non è semplice far rientrare attività tanto diverse tra loro,
dalle imprese medio-grandi alle imprese minori, alle micro-imprese, dagli imprenditori
individuali ai lavoratori autonomi, con evidenti problemi sotto profilo distributivo in termini
di ragionevolezza.
La Corte di Cassazione, chiamata nel tempo a risolvere il problema dei confini entro cui
le attività di lavoro autonomo vengano assimilate al reddito d’impresa (pertanto seggette ad
IRAP), ha chiarito alcuni punti lasciandone, tuttavia, aperti altri.
Cfr. C. cost., 21 maggio 2001, n. 156, in Giust. Civ., 2001, I,2034; a tal proposito cfr. ex multis G.
FALSITTA, La sentenza della Consulta sull’IRAP e l’insostenibilità iniquità di un tributo malfatto, in Il fisco, 2001, 25, 8722
ss; L. CASTALDI, Considerazioni a margine della sentenza n. 156 del 2001 della Corte Costituzionale in materia di IRAP, in
Rass trib., 2002, 3, 856 ss.
345
202
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Il primo punto è rappresentato dal fatto che la prova della sussistenza dell’autonoma
organizzazione sul lavoro autonomo, ai fini dell’imponibilità, è questione di fatto che ove
ritenuta insussistente dai giudici di merito, esclude l’assoggettabilità ad IRAP del
contribuente vittorioso innanzi alle commissioni tributarie. Spetta al contribuente provare
(nel momento in cui contesti al propria assoggettabilità ad IRAP) che si trovi nelle
condizioni evidenziate dalla Cassazione per determinare l’esclusione dal tributo346.
La giurisprudenza della Cassazione347 è sufficientemente chiara, tuttavia non sempre
omogenea. Talvolta più esaustivi taluni orientamenti giurisprudenziali minoritari348 che
forniscono un’interpretazione del concetto di organizzazione dell’attività quale apporto
ulteriore rispetto a quella svolta dal contribuente, cui si affianca funzionalmente349.
Nella maggioranza delle decisioni della Corte di Cassazione la presenza di un dipendente
fisso appariva la condizione che, ove presente, determina l’assoggettabilità al tributo.
Cfr. Cass., Sez. trib., 24 novembre 2008, n. 27959, in Banca dati Juris data; Cass., Sez. trib., 5 giugno 2009,
n. 13038, in Foro it., 2010, 6, I, 1868.
347 La Corte di Cassazione, per la verità, in una passata decisione (Cass., Sez. trib., 5 novembre 2004, n.
21203, in Corr. Trib., 2004, 48, 3795, con commento di G. MARONGIU.) aveva già trattato il tema ma solo di
profilo in relazione a denunziati vizi di motivazione ritenuti insussistenti sul rilievo che l’iter argomentativo del
giudice del merito soddisfaceva la scelta adottata di insussistenza di una struttura organizzativa stabile
nell’esercizio della professione del contribuente. Si è peraltro anche sostenuto (Cass., Sez. trib., 5 marzo 2007,
n. 5009, in Banca Dati BIG, IPSOA) che tale sentenza poteva assumere valore di precedente sulla questione di
diritto, venendo ivi recuperato l’enunciato dei giudici di merito, non richiamato semplicemente per relationem
bensì espressamente rivalutato nella soluzione di non imputabilità radicata alla stregua delle prove documentali
fornite dal contribuente (beni strumentali ed occasionali compensi a terzi escludenti nell’esercizio di quella
professione sia l’esistenza di una struttura organizzativa stabile con i lavoratori subordinati o con collaboratori
para subordinati, sia l’impiego di capitali provenienti da mutui esterni).
348 Sul quid pluris rilevante i fini dell’imposizione IRAP cfr. Cass., Sez. trib., 5 marzo 2007, n. 5011, in Giust.
civ. Mass., 2007, 3; Cass., Sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3673, in Giust. Civ. Mass., 2007, 2; Cass., Sez. trib., 16
febbraio 2007, n. 3678, in Guida Dir., 2007, 10, 18; Cass., Sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3680, cit., in Giust. civ.
Mass., 2007, 2 ; Cass., Sez. trib., 10 luglio 2007, n. 5014, inedita a quanto consta; Cass., Sez. trib., 2 aprile 2007,
n. 7892, inedita a quanto consta; Cass., Sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13570, in Giust. civ. Mass., 2007, 7-8 ; si
vedano anche le sentenze della Commissione Provinciale di Roma n. 51/46/08 e n. 52/46/08; Commissione
Tributaria Provinciale di Parma (Sez. V. Sentenza n. 64 del 14 novembre 2001); Commissione Tributaria
Provinciale di Piacenza (Sez. IV Sentenza n. 5 del 6 febbraio 2002).
349 Nel caso del medico, pertanto, non basterebbe avere una segretaria che organizzi gli appuntamenti,
piuttosto la presenza in laboratorio di un’infermiera dipendente che creerebbe con propria attività ulteriore
valore aggiunto (tutte quelle prestazioni paramediche che una segretaria non potrebbe svolgere). Analogamente
per l’ingegnere o l’architetto rispetto ad un geometra, disegnatore ecc.. A tal proposito cfr. Cass., Sez. trib., 21
dicembre 2011, n. 27983, Banca dati Juris data; 27 settembre 2011, n. 19688, in Dir. & Giust., 2011, 29 settembre;
Cass., Sez. trib., 10 maggio 2011, n. 10271, in Banca dati Juris data; Cass., Sez. trib., 17 marzo 2010, n. 6536, in
Banca dati Juris data; Cass, Sez. trib., 9 novembre 2010, n. 22386, inedita a quanto consta; Cass., Sez. trib., 20
ottobre 2010, n. 21563, in Dir. & Giust., 2010; Cass., Sez. trib., 28 aprile 2010, n. 10151, in Foro
it., 2011, 4, I, 1201; Cass., Sez. trib., 6 aprile 2009, n. 8265, in Vita not., 2009, 2, I, 1033; Cass., Sez. trib., 18
aprile 2007, n. 9214, in Banca dati Juris data;
346
203
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Sul piano soggettivo l’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte è di notevole
interesse; dopo aver definito i limiti entro cui il lavoro autonomo è assoggettabile all’IRAP,350
ha applicato la stessa condizione anche ai rappresentanti di commercio, promotori finanziari
e assicurativi (che costituiscono una realtà ibrida, molto più vicina al reddito di lavoro
autonomo che a quello d’impresa vero e proprio351) e da ultimo anche agli imprenditori
individuali (caratterizzati da una organizzazione modesta e dall’assenza di collaborazioni
fisse), superando quindi lo stesso schema ricostruttivo proposto dalla Corte Costituzionale
(che non prevedeva eccezioni all’imponibilità del reddito di impresa).
Le ultime aperture della Corte di Cassazione352 paiono aprire uno spiraglio per
l’individuazione di ulteriori limiti dell’imponibilità in relazione col principio di capacità
350 La svolta viene determinata nel 2007 dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite la quale (nell’ormai
famoso IRAP-DAY) tracciò il perimetro che delimita i soggetti tenuti al versamento da quelli che ne sono
esonerati, per il tramite di oltre 80 sentenze aventi a tema i titolari di reddito di lavoro autonomo; una serie di
sentenze in tema di IRAP della Corte di Cassazione, tutte datate 8 febbraio 2007 (da ciò scaturisce il termine
IRAP-DAY), hanno un minimo comune denominatore. Secondo la Cassazione: “.. vi è autonomia organizzativa
(soggettività IRAP) quando l’attività abituale e autonoma del contribuente da luogo a un’organizzazione dotata di un minimo di
autonomia e accresca la capacità del contribuente; .. vi è organizzazione quando l’impiego dei beni strumentali è eccedente il minimo
indispensabile e ci si avvalga, non occasionalmente, di lavoro altrui”. La forza dirompente di tali sentenze portò l’Agenzia
delle Entrate ad ammettere, per la prima volta, con la Circolare n. 45 del 13/06/2008, che i titolari di reddito di
lavoro autonomo i quali non si avvalgono di lavoratori dipendenti ovvero di collaborazioni non occasionali e
che utilizzano beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività possono
ritenersi esonerati dal versamento dell’IRAP. Secondo le recenti sentenze della Cassazione a Sezioni Unite
l’IRAP non si applica agli agenti di commercio e ai promotori finanziari che non hanno un’autonoma
organizzazione (cfr. sentenze n. 12108-12109-12110-12111, 26 maggio 2009 cit. Le Sezioni Unite partono dalla
nota sentenza 156/2001 della Corte Costituzionale e in particolare dalla considerazione che “9.2 – (…)
L’assoggettamento all’imposta in esame del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa
di carattere imprenditoriale o professionale, è d'altro canto pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità
contributiva, identica essendo, in entrambi i casi, l’idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta, né
appare in alcun modo lesivo della garanzia costituzionale del lavoro. È tuttavia vero, come taluni rimettenti rilevano, che mentre
l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di
lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in
assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui. Ma è evidente che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in
assenza di elementi di organizzazione, il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di
mero fatto, risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art.
2, dall’“esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla
prestazione di servizi”, con la conseguente inapplicabilità dell'imposta stessa”); cfr. da ultimo anche Cass., Sez. trib., 18
aprile 2008, n. 10193, in Banca dati Juris data; Cass., Sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20454, in Banca dati Juris data;
Cass., Sez. trib., 27 gennaio 2011, n. 1162, in Banca dati Juris data; Cass., Sez. trib., 4 aprile 2012, n. 5396, in
Banca dati Juris data; Cass., Sez. trib., ord. 21 marzo 2012, nn. 4490 e 4492.
351 A tal proposito v. anche Circolare Agenzia delle Entrate, 28 maggio 2010, n. 28.
352 Cfr. Cass., Sez. trib., 13 ottobre 2010, n. 21122, in Riv. Dir. Trib., 2011, 2, II, 83; Cass., Sez. trib., 13
ottobre 2010, n. 21123, in Riv. Dir. Trib., 2011, 2, II, 83; Cass., Sez. trib., 13 ottobre 2010, n. 21124, in Foro
it. 2010, 11, I, 3012; con le tre sentenze è stato messo nero su bianco l’esenzione dall’imposta regionale sulle
attività produttive di artigiani, tassisti e un coltivatori diretti, fornendo una netta distinzione fra imprenditori e
piccoli imprenditori, sancendo il principio in base al quale i piccoli imprenditori sono esenti dall’imposizione
IRAP. Ai fini dell'assoggettamento all’IRAP rimane valido il principio in base al quale il piccolo imprenditore
non deve essere dotato di autonoma organizzazione, requisito che dovrà essere provato dallo stesso
contribuente.
204
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contributiva; in definitiva quando la base imponibile dell’IRAP è costituita in prevalenza dal
reddito personale del contribuente, la legittimità dell’assoggettabilità all’imposta del reddito
da lavoro autonomo o di impresa individuale pare meno convincente.
Si deve, quindi, sottolineare che la limitata deducibilità parziale del costo del lavoro dalla
base imponibile dell’IRAP rappresenta una scelta discrezionale del legislatore che riduce un
pò l’onere del tributo, per aggirare una serie di questioni di legittimità costituzionale pendenti
(o per meglio dire dimenticate) davanti alla Corte; ignora i redditi di lavoro autonomo che
allo stato rientrano ancora nell’ambito di applicazione del tributo, quando l’attività svolta
non si avvale di collaboratori dipendenti, ma non risolve la questione di fondo del rapporto
tra l’onere del tributo reale e il reddito assoggettato all’imposta reddituale su una
componente, appunto l’IRAP versata, che in quanto costo non esprime alcuna capacità
contributiva.
In fondo non stiamo dicendo nulla di nuovo; vero è infatti che contabilizzazione tra i
prelievi sui profitti e non deducibilità hanno da subito alimentato la critica all’IRAP, vista
appunto come imposta diretta. Gli argomenti “contro”353 più visitati e più insidiosi hanno
per questo inevitabilmente riguardato la presunta violazione, in quanto imposta sul reddito,
del principio costituzionale della capacità contributiva e la presunta differenza di trattamento
tra processi produttivi labour intensive e capital intensive354.
La motivazione dell’indeducibilità era stata esplicitata all’epoca della nascita del tributo,
sostenendo che l’autonomia regionale nella fissazione dell’aliquota del tributo avrebbe avuto
effetto sul gettito tributario. Ma il ragionamento evidentemente non sta in piedi; un tributo,
in quanto strumento di giustizia distributiva, non dovrebbe in modo alcuno evocare dubbi di
legittimità costituzionale (come avvenuto nel caso di specie), dovendo rappresentare
attuazione dei principi costituzionali che ne hanno ispirato nascita e funzionamento, e non
integrarne all’opposto la violazione, risolvendosi da questo punto di vista quale fattore di
alterazione dei diritti piuttosto che garanzia dei medesimi.
3. Dalla compatibilità europea l’inevitabile discriminazione a rovescio?
Gli argomenti “pro” sono stati che “L’impresa non paga IRAP perché eroga redditi a terzi, ma perché produce un
valore aggiunto, e ben può aversi una erogazione di redditi senza valore aggiunto, ovvero una erogazione di redditi superiore al
valore aggiunto” (in tal senso v. R. LUPI, 1999, p. 45). Può infatti avvenire che l’imponibile IRAP costituito da
salari e interessi passivi (netti) sia in tutto o in parte annullato dai profitti negativi.
354 In tal senso cfr. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte Generale, Padova, 1999.
353
205
2/2012
La Corte di Giustizia, chiamata a valutarne la compatibilità con l’articolo 33 della Sesta
Direttiva IVA355 (che vieta l’istituzione di imposte ad effetto equivalente), ha salvato nel
2006356 la legittimità del tributo attraverso una decisione di tipo formalistico basata sulla
diversa articolazione del meccanismo impositivo357, con una sentenza ad ampia valenza
politica358 ma dalla motivazione tanto stringata e riduttiva da apparire semplicistica. In buona
sostanza ha detto la Corte di Giustizia: l’elemento centrale dell’IVA è costituito dalla rivalsa
obbligatoria; quest’ultima non è prevista in materia di IRAP, conseguentemente non vi è una
piena sovrapposizione tra le due basi imponibili (IVA e IRAP), sicché l’imposta, per la sua
oggettiva diversità applicativa, non è incompatibile con il regime dell’IVA europea. In specie
le caratteristiche strutturali dell’IRAP, imposta calcolata sul valore netto della produzione nel
La Sesta Direttiva (77/388/ CEE) legittima gli Stati membri ad introdurre ovvero mantenere all’interno
del proprio ordinamento «qualsiasi imposta, diritto e tassa che non abbia il carattere di imposta sulla cifra d’affari …» con
l’intento, evidente, di proteggere il funzionamento del sistema comunitario delle transazioni commerciali
dall’interferenza che provocherebbero misure fiscali adottate da singoli Stati membri, le quali andassero ad
incidere sulla circolazione di beni e servizi, colpendo le operazioni di scambio in modo sostanzialmente
analogo all’IVA. Lo scopo evidente è quello di eliminare i possibili ostacoli al raggiungimento
dell’armonizzazione delle legislazioni e al mantenimento di un mercato comune analoghe a quelle di un
mercato interno, senza differenze di oneri fiscali che possano alterarne il regime di libera concorrenza e
ostacolare gli scambi.
356 Corte Giust., 3 ottobre 2006, causa C-475/03.
357 La questione, originata a seguito della controversia promossa dalla Banca Popolare di Cremona contro
l’Agenzia delle Entrate e sottoposta al vaglio dei giudici comunitari nel novembre 2003, è stata accompagnata
da un lungo dibattito tra gli operatori del settore non soltanto per le questioni di carattere dottrinario,
inevitabilmente collegate ai presupposti, alla natura e alla ratio dei tributi in esame, ma soprattutto per i
(consistenti) effetti che avrebbe comportato l‘accertamento della illegittimità dell’IRAP da parte della Corte di
Giustizia. La sentenza si è mossa in direzione radicalmente opposta a quelle che erano state le conclusioni
presentate, rispettivamente nel marzo 2005 e nel marzo 2006, dagli Avvocati generali F.G. Jacobs e C. StixHackl; le conclusioni dei due Avvocati generali erano chiaramente andate verso una pronuncia di accoglimento,
giustificata dalla sostanziale coincidenza di tutti gli elementi costitutivi delle imposte (in proposito, Jacobs aveva
condiviso l’argomentazione del Giudice del rinvio secondo cui il differente metodo di calcolo delle due imposte
(o, più correttamente, della rispettiva base imponibile) non esclude che esse si somiglino «come due gocce d’acqua»,
essendo entrambe gravanti sul valore aggiunto. Stix-Hackl, in parte condividendo le argomentazioni del suo
predecessore, chiariva che mentre è pacifico che l’IRAP debba essere considerata, come l’VA, un’imposta sul
valore aggiunto, occorre indagare se la differente composizione delle basi imponibili delle due imposte sia tale
da escludere la sostanziale identità della prima rispetto alla seconda; ciò, in quanto, è altrettanto «pacifico che non
tutti gli elementi rilevanti per l’IVA lo sono del pari per l’IRAP e viceversa»). I giudici della Corte europea, stravolgendo
la conclusioni alle quale erano pervenuti gli Avvocati generali, sostengono che l’IRAP non rappresenta
un’imposta sulla cifra d’affari duplicativa dell’IVA anzi, al contrario, è conforme all'ordinamento comunitario,
in quanto «non è certo che l’IRAP vada, in definitiva, a carico del consumatore finale, come avviene per un’imposta di consumo
come l’IVA».
358
La maggiore preoccupazione della Corte di Giustizia è stata, infatti, rappresentata sostanzialmente dagli
effetti retroattivi della decisione, in considerazione del gettito del tributo particolarmente elevato. Le decisioni
della Corte in materia di abuso del diritto, particolarmente rigorose specie in materia di IVA, rappresentano una
conferma in tal senso, posto il fondamentale obiettivo di tutelare il bilancio comunitario; a tal proposito cfr.
Corte Giust., 27 ottobre 2011, causa C-504/10; Corte Giust., 28 ottobre 2011, causa C-93/10; Corte Giust., 22
dicembre 2010, causa C-277/09; Corte Giust., 22 dicembre 2010, causa C-103/09; Corte Giust., 7 luglio 2010,
causa C-381/09; Corte Giust., 22 ottobre 2010, causa C-438/09; Corte Giust., 17 luglio 2008, causa C-132/06;
Corte Giust., 14 settembre 2006, causa C-228/05.
355
206
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corso di un determinato periodo, riscossione unitaria del tributo, assenza, come appena
detto, della cd. rivalsa, diversità di criteri e presupposti impositivi, fanno sì che essa non abbia
il carattere proprio di una imposta sui consumi e, soprattutto, che essa non vada a gravare in
definitiva sull’ultimo soggetto della catena commerciale: il consumatore finale. Ma che l’IVA
sia un’imposta sul consumo è quantomeno discutibile; l’IVA è un’imposta orientata al
consumo, ma l’oggetto è il valore aggiunto che viene tassato in testa al soggetto passivo. Un
equivoco italiano, posto che in Francia (in cui l’imposta sostanzialmente è nata) si parla di
“contribuente”. In ogni caso il consumo non entra a far parte della struttura del tributo; ai
fini del diritto europeo ciò che conta non è la traslazione verso il consumo ma la neutralità
del tributo359.
Più chiaramente la Corte, nella sentenza, rileva innanzitutto che mentre l’IVA è riscossa
in ciascuna fase al momento della commercializzazione e il suo importo è proporzionale al
prezzo dei beni o servizi forniti, l’IRAP è invece un’imposta calcolata sul valore netto della
produzione dell’impresa nel corso di un certo periodo; inoltre “mentre l’IVA, attraverso il
sistema della detrazione dell’imposta previsto dagli artt. 17-20 della sesta direttiva, grava unicamente sul
consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nel processo di
produzione e di distribuzione che precede la fase di imposizione finale, indipendentemente dal numero di
operazioni avvenute… lo stesso non vale per quanto riguarda l’IRAP” che non è stata concepita per
ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico dell’IVA (punto 32). A tal proposito
infatti un soggetto passivo non può determinare con precisione l’importo dell’IRAP già
compreso nel prezzo di acquisto dei beni e dei servizi, ma anche se si potesse supporre che
tale soggetto, nell’effettuare la vendita al consumatore finale tenga conto, nella
determinazione del suo prezzo, dell’importo dell'imposta incorporato nelle sue spese
generali, non tutti i soggetti passivi si trovano nella condizione di poter così ripercuotere il
carico dell’imposta, o di poterlo ripercuotere nella sua interezza.
In sintesi, dalla sentenza si evince che l’imposta, non essendo proporzionale al prezzo dei
beni e servizi forniti e non essendo posta a carico del consumatore finale, non può essere
considerata un’imposta sulla cifra di affari ai sensi della Sesta direttiva.
A ben vedere l’annosa questione della compatibilità europea del tributo resta in sostanza
una questione aperta, essendo stata esaminata dalla Corte essenzialmente sotto il profilo
della compatibilità del tributo nazionale con le disposizioni recate dalla Sesta direttiva in
tema di IVA; al contrario un’indagine sugli effetti dell’IRAP sotto il profilo della
compatibilità con le regole sulla concorrenza poste dall’ordinamento europeo a tutela della
359
A tal proposito cfr. G. A. MICHELI, Corso di diritto tributario, Utet, 1978, 5622 ss.
207
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libera circolazione di beni e servizi all’interno del Mercato Unico non è stata affrontata né
dalla Corte di Giustizia né dai giudici nazionali. Che l’IRAP, così come è, non sia un tributo
che introduca discriminazioni in danno di operatori economici di altri Paesi dell’Unione è
questione acclarata, che non si presta quindi ad equivoci o a discussione. Il problema sta nel
fatto che fin qui l’IRAP è stata vista come un tributo che, se è vero che penalizza le
esportazioni italiane rispetto al resto del mondo, tuttavia non determina turbative sul
mercato interno; l’IRAP è infatti assolta integralmente su tutta la produzione nazionale, sia
quella venduta in Italia sia quella esportata.
Tuttavia l’aumento della competitività internazionale (peraltro accentuata dalla recessione
2008/2009) ha evidenziato un effetto molto più subdolo, la cui compatibilità con il
funzionamento del Mercato Unico è assai dubbia; l’IRAP infatti si comporta ed ha l’effetto
di un premio all’importazione di beni e servizi in quanto, non gravando sulle importazioni,
determina una imposizione molto più onerosa sul bene e servizio prodotto in Italia, che
assolve l’IRAP su tutto il valore aggiunto della produzione, quindi sull’intero valore della
merce venduta in Italia, laddove per il prodotto importato l’IRAP grava sul valore aggiunto
della commercializzazione360.
Ciò vale evidentemente ad evidenziare come l’imposta contrasti sia con l’articolo 117
secondo comma della nostra Costituzione (che ha introdotto il vincolo costituzionale della
tutela della concorrenza), sia con il principio della libera circolazione dei beni e dei servizi
(per il rilevato effetto di incentivare l’importazione rispetto alla produzione nazionale). Una
discriminazione inversa, i cui effetti appaiono sempre meno compatibili con l’ordinamento
europeo e con l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per quest’ultima il
modello dell’imposta, così come costruito, è una veste troppo stretta per il lavoro autonomo,
risultando congeniale ad un reddito d’impresa e, appunto, un po’ meno ad un reddito da
lavoro autonomo.
Se solo non si rischiasse di perdere di vista le finalità di un principio ci renderemmo
conto che (in questo caso) ciò che è lesa è proprio la facoltà di scelta; è facile predicare che il
diritto della non discriminazione intende garantire che “tutti coloro che si trovano in una
determinata situazione debbano ricevere lo stesso trattamento a prescindere dal fatto che
possiedano o meno una caratteristica ritenuta «protetta»; e che le persone che si trovano in
situazioni diverse devono ricevere un trattamento diverso nella misura in cui ciò sia loro
A ben vedere all’occhio attento dell’economista non sfugge l’obiezione, sotto questo profilo, che i
contributi sanitari implicavano una traslazione in avanti con un effetto non dissimile a quello prodotto
dall’IRAP, sebbene non sembra opportuno un ritorno agli stessi quanto piuttosto un riassorbimento
dell’imposta attraverso un aumento dell’IVA (un po’ ricordando, per questa via, l’esperienza tedesca nel 2008).
360
208
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necessario per fruire di determinate opportunità su un piano di parità con gli altri”: chiaro,
ma talvolta equivocabile. Pare sfugga che la garanzia concerni, a ben vedere, “l’accesso equo
alle opportunità offerte dalla società”; dimenticando, quindi, che ogni giorno si compiono
scelte e che a compierle siamo noi. L’ovvietà nell’esprimere preferenze non esclude una
posizione di autorità, che è nella ripercussione diretta delle stesse. Ora, nelle modalità
complesse in cui opera l’IRAP, quale “accesso equo” può rinvenirsi? A ben vedere pare
smarrirsi ogni traccia di pari opportunità, in un movimento di capitali e prestazione di servizi
che tradiscono i più elementari motivi ispiratori della non discriminazione361, in una
imposizione particolarmente atteggiata che lascia percepire disparità di trattamento e
frustrazione della concorrenza362. Il prodotto nazionale soffre l’insufficienza del sistema (in
specie delle anomalie dell’imposta) a vantaggio della produzione estera e dunque di una
competitività e un’economia sfigurata, contribuendo ad aggravare un quadro economico e
politico già di per sé fortemente compromesso. La discriminazione inversa è discriminazione
in quanto impedisce lo sviluppo del mercato interno: se così è non è difficile individuarla nel
meccanismo subdolo generato dall’IRAP, al di là della delle conclusioni strutturali messe a
fuoco dalla Corte di Giustizia, in una sentenza il cui campo di indagine (è bene dirlo) non va
oltre la limitata prospettiva della denegata incompatibilità con l’IVA.
Senza contare poi che oggi il riconoscimento dell’ambito esterno di applicazione della
libertà di movimento di capitali e del carattere oggettivo della stessa sembrerebbe offrire
nuovi spunti per un più esteso quadro di tutela. In tal modo fornendo una chiave di
interpretazione ampia, utile a scorgere un elemento valutativo ulteriore nella comprensione
dell’imposta e dei principi più o meno violati dalla stessa.
Il riconoscimento di un carattere oggettivo della tutela363 (attraverso appunto la
prospettazione di un ambito applicativo esterno della libertà di movimento di capitali)
avviene nei limiti della clausola di salvaguardia di cui all’art. 64 TFUE.
361 In tema di libera circolazione dei capitali cfr. Corte Giust., 11 novembre 1981, causa 203/80; Corte
Giust., 6 marzo 2007, causa C-319/2002; Corte Giust., 11 ottobre 2007, causa C-415/2005; Corte Giust., 28
ottobre 2010, causa C-72/09; Corte Giust., 5 maggio 2011, causa C-384/09.
362 Va, infatti, osservato che, nel campo delle imposte dirette, la giurisprudenza della Corte si è sviluppata
quasi completamente lungo la linea direttrice fornita dal divieto di discriminazione di cui all’art. 18 TFUE (ex
art. 12 TCE). Si ratta di un principio che trova puntuali specificazioni nel TFUE (es. artt. 28-45-49-63), ma che
è utilizzato dalla Corte come principio generale desumibile dall’ordinamento dell’Unione, allorché non vi sia
una norma precisa che lo richiami in un determinato contesto. Più di recente la giurisprudenza della Corte ha
affiancato al principio riferito “il divieto di restrizione”, che è strumento e concetto molto più efficace nella
rimozione degli ostacoli alla realizzazione del mercato interno. Sul principio di non discriminazione si rinvia per
tutti a F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 2003.
363
A tal proposito cfr. Corte Giust., 5 maggio 2011, causa C-384/09, Prunus SARL («Prunus») e Polonium SA
(«Polonium»)c/directeur général des impôts e directeur des services fiscaux d’Aix-en-Provence; Corte Giust., 11 ottobre 2007,
causa C-451/05, Européenne et Luxemburgeoise d’investissements SA (ELISA)c/directeur général des impôts, Ministère
209
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A ben vedere la libertà di movimento di capitali nella sua formulazione (all’art. 63 TFUE)
soffre un chiaro divieto di restrizione tra Stati membri e tra Stati membri e Stati terzi, in
qualche modo superando l’atteggiamento prudente e meno liberale che agli inizi degli anni
‘80 sembrava il modo più opportuno per contrastare squilibri nella bilancia dei pagamenti di
uno o più Stati, pregiudicando il buon funzionamento del mercato comune; tuttavia il
successivo art. 64 attribuisce agli Stati il diritto di “prendere tutte le misure necessarie per
impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel
settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie o di stabilire
procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione
amministrativa o statistica, di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di
pubblica sicurezza”.
Se solo si pone mente a tali coordinate ermeneutiche il quadro risulterà più chiaro.
Difatti nella problematica vicenda che interessa un’imposta come l’IRAP, se si ha
riguardo al profilo strutturale tipico, che avvicina il tributo alle imposte dirette,
inevitabilmente e quasi naturalmente viene in gioco (sul piano interno) la tutela della
concorrenza, acclarata la sua violazione. Laddove se si assume trattarsi di un tributo
indiretto, esso rientrerebbe a pieno titolo, non fosse altro che per le dimensioni, nel campo
delle imposte soggette ad armonizzazione e quindi sembra ragionevole constatare un
pregiudizio alla concorrenza che tuttavia involge la libertà di movimento di capitali,
all’evidenza in quanto libertà esterna.
La soluzione interna, riferita alla violazione del principio della tutela della concorrenza,
pur avendo un evidente fondamento di ordine costituzionale (negli artt. 117 comma secondo
e 41 comma terzo Cost.), incontra precisi limiti politici e giuridici. Questi ultimi in relazione
alle difficoltà connesse con il sindacato di legittimità delle norme tributarie, con riferimento
alle restrizioni che la Corte costituzionale si è imposta, in tema di sostituzione del
bilanciamento di interessi operato dal legislatore con altro di origine giurisprudenziale. Una
posizione comprensibile rispetto agli effetti retroattivi delle pronunce di illegittimità e,
tuttavia, una questione aperta alla luce della certo non appagante situazione di paralisi attuale.
Di qui l’interesse ad evidenziare un ulteriore profilo di contrasto dell’IRAP con i principi
del diritto europeo e di aprire un dibattito approfondito su un tributo che penalizza
l’economia italiana.
Il duplice ambito applicativo della libertà, interno all’Unione (diretto a tutelare la
circolazione degli attivi finanziari tra gli Stati membri) ed esterno (diretto a mantenere un
public; Corte Giust., 28 ottobre 2010, causa C-79/09, Établissements Rimbaud SAc/Directeur général des impôts,
Directeur des services fiscaux d’Aix-en-Provence.
210
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flusso di capitali tra Stati membri e Paesi terzi) offre una chiave di analisi che non può
lasciare sullo sfondo un’ipotesi di discriminazione inversa, in questo modo analizzando il
tenore letterale oggettivo dell’art. 63 TFUE che, appunto, protegge il movimento di capitali
in quanto tale e non in funzione del soggetto che lo possiede.
Senza contare poi che l’ambito di applicazione oggettivo esterno sottende una tutela
estesa accordata alla libertà di movimento dei capitali e di stabilimento. Il che, a rigor di
logica, non potrebbe ignorare una fiscalità più precipuamente interna; in altri termini
potrebbe risultare alquanto paradossale che il riconosciuto ambito applicativo oggettivo della
libertà di movimento dei capitali possa rappresentarsi solo “esterno” e non anche “interno”
rispetto ad un paese dell’Ue che abbia adottato un sistema impositivo del tipo dell’IRAP.
In buona sostanza, il carattere indiretto dell’ostacolo introdotto dall’IRAP alla libera
circolazione dei capitali non sembra poter mettere in discussione il carattere oggettivo della
tutela accordata dalla Corte di Giustizia a questa libertà fondamentale. L’oggettività
dell’ambito di operatività della libertà in questione implica un salto di qualità che dovrebbe
significare non solo una più ampia tutela della stessa (quindi anche oggettiva interna), ma
altresì in punto di evoluzione dei rapporti tra il diritto tributario internazionale e il diritto
europeo.
Da questo punto di vista una lettura attenta dell’interesse fiscale non piega alla stessa
tutela gli elementi di proporzionalità, in fede all’esigenza che non si ecceda quanto necessario
a conseguire l’obiettivo perseguito (in ossequio al principio comunitario di
proporzionalità364). Che significa, in altri termini, valorizzazione di tale parametro come
specificazione, in specie, di un principio di ragionevolezza e, dunque, ab origine di un
principio di eguaglianza tributaria che, in quanto sostanziale, tiene conto appunto di profili
inversi di discriminazione.
Sebbene, tuttavia, ci si renda conto di muoversi, in questo modo, attraverso parametri
che possono destare qualche difficoltà applicativa, finendo per rappresentare una chiave di
lettura e al contempo un limite della stessa.
Ed è proprio sulla ricostruzione attenta fornita dalla Corte di Giustizia che, appunto, la
Corte di Cassazione ha talvolta negato l’assoggettabilità all’imposta per talune attività di
Sul punto A. MONDINI, Coerenza fiscale e principio di proporzionalità: crisi del sistema o dell’armonizzazione (nota
a Corte di Giustizia, 30 gennaio 2007, n. 150, in Riv. dir. fin., 2007, 3, 41; F. DAMI, Un nuovo ed interessante
intervento della Corte di Giustizia su libertà di stabilimento e regimi di consolidamento fiscale (nota a Corte di Giustizia, 27
novembre 2008, causa C-418/17, 141 ss.); L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea.
Contributo allo studio della prospettiva italiana, Giuffré, 2010, 220 ss.
364
211
2/2012
lavoro autonomo365, a tal proposito chiarendo che “l’attività di lavoro autonomo, diversa
dall'impresa commerciale, alla luce della interpretazione fornita dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
156 del 2001, integra il presupposto impositivo per l’IRAP. ove si svolga per mezzo di una attività
autonomamente organizzata366”.
Per essere contribuenti occorre, in buona sostanza, che l’insieme organizzativo,
quantitativamente o qualitativamente considerato, collochi in una posizione privilegiata il
lavoratore autonomo che se ne avvale, conferendogli quel “qualcosa in più” in termini di
produttività367 .
A ben vedere la giurisprudenza della Suprema Corte evidenzia esiti irragionevoli,
confliggenti con il principio di capacità contributiva; nella scontatezza di un presupposto
(autonoma organizzazione) l’irragionevolezza di un valore aggiunto che talora si sovrappone
al reddito, talora non si sovrappone e tuttavia soggetto a tassazione. Laddove
sostanzialmente l’evidente presupposto di sussistenza di un valore aggiunto in un’attività di
lavoro autonomo è la prioritaria sussistenza di reddito; di qui una consequenziale e banale
illegittimità dell’imposta (meglio: del metodo di imposizione che ne è alla base e a sua volta
struttura l’imposta) nell’attività di lavoro autonomo.
365 La nozione di “autonoma organizzazione” ai fini dell’applicabilità IRAP, difatti, non solo si è evoluta nel
tempo, ma è stata ed è, tuttora, valutata diversamente anche in relazione alla professione esercitata dal presunto
soggetto passivo dell’imposta; inoltre si segnala che non sono stati individuati parametri oggettivi, di tipo
quantitativo o qualitativo, ma che l’analisi dei Giudici è volta al singolo caso concreto. Si è, pertanto, formata
una variegata giurisprudenza che ha analizzato i vari casi concreti, al fine di individuare la ricorrenza o meno
dei requisiti di organizzazione nelle attività professionali svolte dai lavoratori autonomi, facendone così
discendere l’imponibilità o meno ai fini IRAP. Le soluzioni offerte in giurisprudenza sono state varie e non
sempre soddisfacenti (in parte estendendo in parte restringendo l’ambita di applicazione dell’imposta).
366 La Cassazione ha altresì chiarito che “in particolare, il requisito organizzativo rilevante, il cui accertamento spetta al
giudice di merito, sussiste quando il contribuente, che sia responsabile dell’organizzazione e non sia inserito in strutture riferibili
alla responsabilità altrui, eserciti l’attività di lavoro autonomo con l’impiego di beni strumentali, eccedenti il minimo indispensabile
per l’esercizio dell’attività auto organizzata per il solo lavoro personale, oppure si avvalga, in modo non occasionale, del lavoro
altrui. E’, peraltro, onere del contribuente, che chieda il rimborso di detta imposta, allegare la prova dell’assenza delle condizioni
costituenti il presupposto impositivo” (Cfr. Cass., 16 febbraio 2007, n. 3678).
367 In tal senso cfr. Cass., 16 febbraio 2007, n. 3677 (trattasi in realtà di una serie di un pacchetto di
decisioni della Suprema Corte, ispirate a principi comuni (3672-3673-3674-3675-3676-3677-3678-3679-36803681-3682, 16 febbraio 2007); in particolare tutte queste sentenze della Cassazione si rifanno al principio per
cui perché ci sia autonomia organizzativa occorre che il professionista sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile
dell’organizzazione e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed
interesse; (non) impieghi beni strumentali eccedenti la quantità che, secondo l’id quod plerumque accidit,
costituiscono nel concreto il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività, anche in assenza di
organizzazione (per es. un computer, telefono, mobili d’ufficio, di modesta entità) e (non) si avvalga del lavoro
altrui se non in modo occasionale. Di quest’ultimo requisito non parla la sentenza 3672, che però richiede
comunque che l’organizzazione, per essere rilevante ai fini IRAP, rappresenti un reale apporto aggiuntivo
all’opera del professionista. Il computer, i mobili, il telefono devono essere pertanto indispensabili per produrre il
reddito, ma non consentire di produrne quantità aggiuntive rispetto alle potenzialità personali. Ovviamente tale
criterio richiede una valutazione caso per caso da parte del giudice di merito e così si spiegano i rinvii alle
Commissioni tributarie (in tre casi) per le valutazioni concrete.
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Nonostante lo sforzo della Suprema Corte di riportare l’intera incoerenza nei parametri
che il sistema e solo il sistema offre, tuttavia non si sfugge all’irragionevolezza, residuando in
tal senso disparità di trattamento che con evidente difficoltà possono ricondursi al principio
di capacità contributiva.
La stranezza dell’IRAP non è tanto pagare per capacità economica altrui (il che succede
per l’IVA, le accise, etc.), ma di innestarsi in un contesto rigido368.
Le imprese pagano per la capacità economica dei dipendenti, non possono rivalersi su di
essi, e poi neppure deducono quello che pagano a titolo di imposta.
E’ una miscela in cui l’IRAP, con queste antinomie connesse alla sua natura, e alle
difficoltà di intesa tra economisti, giuristi e aziendalisti, diventa il parafulmine più facile per
un malcontento fiscale generale.
Non sono difficoltà insormontabili, ma lo diventano in una aridità concettuale, in una
generale povertà di riflessione sulla dialettica “diritto-economia-tecnica aziendale” ai fini
della tassazione, che pone in rilievo l’esigenza di una seria riflessione sulla perdita di ruolo
del Parlamento nelle scelte di politica tributaria e sull’indifferibilità di un recupero in tal
senso.
4. Federalismo regionale: superamento o stabilizzazione del tributo?
Lo stato di incertezza relativo all’imposta è fin dall’inizio intervenuto in una condizione di
allarme per l’economia italiana, caratterizzata da stagnazione dell’attività produttiva, crescita
del disavanzo e inversione della tendenza all’assorbimento del debito pubblico.
I riflessi sulla stabilità della finanza regionale appaiono di non poco conto (e in fondo
così è stato fin da principio)369. Le necessità e la filosofia del federalismo fiscale, nonostante
gli evidenti limiti dell’IRAP sia sotto il profilo distributivo territoriale, sia di una intrinseca
inadeguatezza come mezzo per responsabilizzare la spesa, non hanno aperto molto spazio
ad un superamento del tributo, ma soprattutto paiono aver ignorato il vincolo costituzionale
della perequazione.
368 Soprattutto per quanto riguarda le retribuzioni, dove i meccanismi di rivalsa sui titolari della capacità
economica, sono estremamente rigidi.
369 A tal proposito cfr. L. ANTONINI, La prima giurisprudenza costituzionale sul federalismo fiscale. Il caso dell’IRAP,
in Riv. Dir. Fin. e Sc. Fin., 2003, 97 ss; R. PERRONE CAPANO, Una bussola nel labirinto dell’IRAP, tra pregiudiziali
politiche, limiti giuridici e vincoli di finanza pubblica, in Rass. Trib., 2006, 4, 1231 ss., nonché R. PERRONE CAPANO,
Crisi delle istituzioni ed aumento dell’imposizione, in assenza della politica tributaria, soffocano la ripresa ed espongono l’Italia
agli attacchi della speculazione finanziaria, in Innovazione e diritto, 2011, 5, 3 ss.
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La teoria del federalismo fiscale ha argomentato, tra l’altro, l’utilità dell’autonomia
tributaria370; tuttavia innestandosi in un quadro in cui la funzione e lo scopo erano molto più
semplici e più fondamentali, vale a dire permettere ai territori più dinamici e produttivi del
Paese di tornare a crescere a un ritmo ragionevole, liberandoli da un’oppressione fiscale che
(nei primi anni ‘90) stava ormai soffocando l’economia italiana, sempre meno capace di
espandere l’occupazione, reggere la concorrenza internazionale, innovare prodotti e processi,
crescere sul piano dimensionale (proprio per il peso eccessivo delle imposte). Direi piuttosto
che l’ideale politico che è diventato nel tempo, uno strumento e un mezzo di risanamento
dell’economia e della società italiana; col tempo tuttavia, rischiando di dimenticare la sua
origine e i problemi per risolvere i quali esso ha preso piede in Italia, ha realizzato
meccanismi talvolta poco prudenti e spesso incomprensibili.
Il continuo stravolgimento dei meccanismi di tassazione cui assistiamo da alcuni anni alla
disperata ricerca di un gettito che l’eccesso di fiscalismo contribuisce a far sparire, rende
alquanto improbabile un superamento dell’IRAP, sebbene per il momento il percorso
federalista pare essersi arrestato.
Una situazione piuttosto confusa in cui le diverse manovre intervenute durante l’estate
hanno giocato un ruolo di non poco conto, solo che si consideri l’inasprimento della
situazione finanziaria degli enti locali nel taglio dei trasferimenti e nell’alterazione dei vincoli
imposti dal patto di stabilità, compensati da accresciuti spazi di manovra sui tributi, sempre
più regressivi371.
E al di là di una urgenza di revisione dei patti di stabilità interna (di fronte a comuni e
regioni costretti ad accumulare surplus crescenti per rispettare i patti, tagliando dove possono
tagliare), l’esigenza involge gli schemi perequativi previsti dai decreti attuativi. I divari
370 Si ritiene infatti che i governi sub-centrali (nel caso italiano: regionali, provinciali e comunali) debbano
finanziare una parte significativa delle proprie spese con tributi autonomi, vale a dire con imposte ad aliquote e
imponibili da definirsi discrezionalmente in sede locale, sebbene entro massimi e minimi prefissati a livello
nazionale. La giustificazione di questa tesi è reperibile in una vastissima letteratura teorica ed empirica che qui
non possiamo riassumere. Dell’importanza dell’autonomia di entrata, e in particolare dell’autonomia tributaria,
ricordiamo soltanto un aspetto, che dovrebbe essere apprezzato soprattutto da chi tema l’incremento
incessante delle dimensioni del settore pubblico. Avviene normalmente che le diverse giurisdizioni concorrano
tra loro per assicurarsi nuovi insediamenti produttivi (o per non subire eccessive delocalizzazioni). Se esiste
soltanto una responsabilità autonoma sulla spesa, la competizione si svolge unicamente in termini di offerta di
maggiori e migliori servizi; se è possibile manovrare localmente anche le entrate, la competizione si esplica
anche sul lato della tassazione, promettendo e realizzando sgravi. Nel primo caso, opera un incentivo
strutturale all’aumento della spesa pubblica, nel secondo un freno (a tal proposito cfr. JOUMARD e KONGSRUD,
2003, 191-192).
371 La reintroduzione della tassazione sulla prima casa per i comuni, la previsione di un nuovo tributo
comunale sui rifiuti e sui servizi, l’incremento della addizionale regionale sull’IRPEF e l’introduzione di una
maggiorazione sulle accise per finanziare i trasporti locali.
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territoriali esistenti sono necessariamente incrementati, inutile dirlo, da manovre di riduzione
dei trasferimenti o aumento dei tributi (che hanno caratterizzato gli ultimi tempi).
Nell’IRAP in particolare, con il decreto sul decentramento fiscale regionale, il legislatore
introduce una evidente disparità di trattamento tra le regioni, sulla base della diversa capacità
fiscale per abitante. Le modalità che potrebbero condurre le regioni a ridurre (ed in
prospettiva ad abrogare) il tributo, ignorano semplicemente questo aspetto; in tutti i casi
vietano di utilizzare a questi fini la manovra dell’addizionale IRPEF, e quindi pongono di
fatto un insormontabile impedimento alle regioni economicamente meno favorite a superare
il tributo; una scelta inutilmente centralista che non trova alcun appiglio di ordine giuridico.
E così mentre il governo Prodi nella logica della concertazione (ovvero della scelta che
offre minori resistenze) ha obbligato le regioni con la sanità in disavanzo ad aumentare
l’aliquota dell’IRAP per riportare in equilibrio i conti, come se le imprese fossero
responsabili del deficit sanitario, il governo Berlusconi (nella stessa logica), nell’avviare il
processo di regionalizzazione dell’IRAP, ne ha ulteriormente accentuato il peso nelle regioni
del Mezzogiorno.
Non solo, ma nel trasferire dallo Stato alle regioni l’IRAP il legislatore sembra
dimenticare che l’IRAP è un tributo fortemente sperequato sul piano territoriale e che la
perequazione è un vincolo costituzionale a carico del legislatore nazionale, che non può
essere ignorato o peggio aggirato trasferendo il tributo alle regioni372.
A completare il quadro un’assenza che fa frastuono nella bozza della delega fiscale
(l’IRAP appunto); non intervenendo oltretutto la delega (per il momento) neppure su uno
degli aspetti equivoci legati alla stessa, ovvero sull’obbligo o meno di pagamento dei piccoli
imprenditori (nonostante le recenti aperture giurisprudenziali).
Un profilo quest’ultimo che evidenzia quantomeno un contrasto con i principi dello
Statuto del contribuente, quantomeno in termini di chiarezza delle disposizioni tributarie e di
tutela nell’affidamento.
In definitiva la scelta del legislatore di non affrontare i problemi ancora aperti nell’IRAP,
laddove evidentemente il tributo è a tutti gli effetti un tributo statale, rappresenta una
decisione politica poco attenta ai profili di razionalizzazione del sistema tributario, che
dovrebbe costituire la premessa di un avvio virtuoso del processo di decentramento fiscale.
372
Sul punto cfr. E. DE MITA, Sugli sconti IRAP pochi margini alle Regioni, in Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2012, 16.
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5. Conclusioni
Da quanto detto è agevole constatare come talvolta l’emergenza finanziaria, l’urgenza di
provvedere, giustifichino uno stravolgimento dei principi della tassazione; e così è facile che
determinazione della base imponibile e, ancor più spesso, la scelta delle aliquote siano
coinvolte in processi macchinosi e a prima vista incomprensibili messi in moto da scelte
politiche poco attente ai profili giuridici. L’esperienza legata all’IRAP entra a pieno titolo in
questo meccanismo ritorto.
In ogni caso pare opportuno evidenziare che se le vicende legate alla tassazione
involgono profili sensibilmente politici, è pur vero che anche la politica ha (o perlomeno
dovrebbe avere) una logica; sicché quanto più diventa illogica (come con l’IRAP) allora
diventa anche giuridica, perché evidentemente confliggente coi principi di ragionevolezza e
proporzionalità.
O, per meglio dire, la tassazione in termini assoluti involgerebbe, con molta probabilità,
profili politici; ma in termini relativi (con attenzione alla coerenza della tassazione all’interno
del sistema tributario) dovrebbe resistere alla verifica (da parte di chi si occupa di tributi) del
rispetto dei concetti di equità verticale ed orizzontale. Perlomeno se l’intento è salvaguardare
un sistema tributario, sempre che di sistema si possa parlare.
Efficienza ed equità dovrebbero essere i due cardini dell’imposta. Due obiettivi
dovrebbero dirigere le politiche economiche: sviluppo e contemperamento degli interessi. Se
non si riparte dagli obiettivi la complessità può essere difficilmente governabile.
Di qui l’ingenerarsi di decisioni opportunistiche, partorendo soluzioni al di fuori di
qualunque coerenza di sistema.
Si finisce per tassare quello che appare più facile da colpire, in quanto manca una mappa
della ricchezza e dei suoi snodi da tassare.
Sotto questo profilo non sembra più ragionevole riflettere in termini settoriali; il risultato
è solo spostare l’ago della bilancia da una parte o dall’altra senza ottenere un equilibrio solido
e costante. La scelta riguarderà, da questo punto di vista, sempre la strategia concernente il
singolo, quindi quella peggiore, in tal modo trascurando l’efficienza.
Talvolta il problema non è, a ben vedere, l’incostituzionalità legata alle scelte (se si riflette
al fatto che le maglie della c.d. discrezionalità ragionevole del legislatore sono spesso troppo
ampie e le garanzie statutarie aggirate), quanto nella loro inadeguatezza alla competitività del
Paese e delle aziende che vi operano, con conseguente violazione dei principi anche europei
a riguardo (come si è cercato di rappresentare). Forse poter confrontarsi con una politica che
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riflette e non vive sempre nell’emergenza, renderebbe superfluo un giudizio di
incostituzionalità.
Peggio se, poi, ad un sistema di distribuzione del prelievo iniquo ed equivoco (IRAP fra
tutti), ha fatto da contraltare una profonda crisi.
Sicché al di là di ogni precipua congettura ciò che si chiede è solo che dovrebbe
perlomeno essere semplice “verificare” se ed in quale misura le tasse sono dovute. Nel
momento in cui risulta difficile anche tale verifica e la stessa si riveli, oltretutto, poco
rispondente ai più elementari criteri vuol dire che allora qualcosa, forse, inquina il sistema e
che quindi un interrogativo non può mai apparire di troppo
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PARTE SECONDA
AGENZIA DELLE ENTRATE – Risoluzione 31 ottobre 2011, n. 105/E
OGGETTO: Interpello - Art. 11, legge 27 luglio 2000, n. 212 - Agevolazioni “prima casa” Revoca dell’agevolazione
Con l’interpello specificato in oggetto, concernente l’interpretazione dell’art. 13 del D. Lgs.
n. 472 del 1997, è stato esposto il seguente
QUESITO
L’istante fa presente di aver acquistato un’abitazione in data 22 luglio 2010 fruendo
dell’aliquota agevolata IVA (4%) e di essersi impegnato, nell’atto di acquisto, a trasferire la
propria residenza nell’immobile entro il termine di diciotto mesi, come prescritto dalla
disciplina in materia di agevolazioni “prima casa”.
Consapevole di non poter adempiere all’obbligo di trasferimento della propria residenza
nell’immobile acquistato, il contribuente chiede se possa rinunciare, per ragioni personali,
all’agevolazione richiesta, versando la differenza di imposta dovuta sul predetto acquisto.
SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DALL’ISTANTE
L’istante, tenuto conto che non sono ancora decorsi i diciotto mesi dalla data di acquisto
dell’immobile in argomento, ritiene di poter provvedere al pagamento della differenza IVA,
senza applicazione di alcuna sanzione.
In subordine, l’istante ritiene applicabile l’istituto del ravvedimento operoso che si
perfezionerebbe provvedendo al versamento nel termine di un anno, decorrente dalla data di
acquisto dell’immobile, dell’imposta, dei relativi interessi e della sanzione calcolata nella
misura ridotta, in applicazione dell’istituto del ravvedimento operoso.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Con riferimento al quesito prospettato dall’istante, si evidenzia quanto segue.
La lettera a) del comma 1 della Nota II-bis) all’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al
DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR), tra i requisiti previsti per la fruizione dell’agevolazione
“prima casa”, richiede che l’immobile da acquistare “sia ubicato nel territorio del comune in
cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza”.
In altri termini, per fruire dell’agevolazione “prima casa” occorre, tra l’altro, che l’acquirente
abbia o si impegni ad ottenere la residenza nel comune in cui intende acquistare l’immobile
abitativo.
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In questo ultimo caso, l’acquirente deve rendere la dichiarazione di impegno nell’atto di
acquisto.
In proposito, la circolare n. 38/E del 12 agosto 2005, parag. 2.4, ha chiarito che “ai fini della
corretta valutazione del requisito di residenza, dovrà considerarsi che il cambio di residenza
si considera avvenuto nella stessa data in cui l’interessato rende al comune, ai sensi
dell’art.18, comma 1 e 2, del DPR 30 maggio 1989, n. 223 (regolamento anagrafico della
popolazione residente) la dichiarazione di trasferimento…” .
La dichiarazione dell’acquirente di volere stabilire la residenza nei diciotto mesi è prevista
dalla legge a “pena di decadenza” dall’agevolazione. Il mancato trasferimento nel termine dei
diciotto mesi comporta, quindi, la perdita dell’agevolazione. La decadenza si verifica alla
scadenza del diciottesimo mese dalla data dell’atto; prima di tale scadenza, infatti, il
contribuente risulta ancora nei termini per adempiere all’impegno preso.
Nella fattispecie rappresentata, l’istante, pur avendo assunto in atto l’impegno a trasferire la
propria residenza nel nuovo comune, decide, in data successiva, di non adempiere a detto
impegno, per motivi personali. Chiede, pertanto, se possa rinunciare alla predetta
agevolazione pagando la differenza tra l’imposta ordinaria e quella agevolata, senza
l’applicazione di sanzioni.
A tal proposito, giova precisare che nessuna disposizione normativa prevede la possibilità di
rinunciare su base volontaria alle agevolazioni “prima casa”.
In linea generale, il rapporto giuridico-tributario che sorge a seguito della dichiarazione resa
in atto dal soggetto acquirente e avente ad oggetto il possesso dei requisiti prescritti dalla
norma di cui alla Nota II-bis) deve ritenersi perfezionato laddove dette condizioni risultino
effettivamente sussistenti.
Pertanto, conseguita l’agevolazione “prima casa” questa non sarà più revocabile dalla parte
(v., tra le altre, Corte di Cassazione, sentenza del 28 giugno 2000 n. 8784).
In particolare, la Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia sopra citata ha chiarito che
“non è possibile conseguire l’agevolazione prevista per l’acquisto della prima casa, …, previa
rinunzia ad un precedente analogo beneficio, conseguito in virtù della medesima disciplina
(…). A parere della suprema Corte, infatti, la dichiarazione di voler fruire del beneficio “non
è revocabile per definizione, tanto meno in vista di un successivo atto di acquisto”.
Dall’orientamento giurisprudenziale richiamato deve escludersi, pertanto, che il soggetto
acquirente, che abbia reso la dichiarazione in atto di possedere i requisiti prescritti dalla
norma di cui alla Nota II-bis), possa in data successiva rinunciare alle agevolazioni “prima
casa” fruite.
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Diverse considerazioni possono svolgersi, a parere della scrivente, laddove la dichiarazione
resa in atto dal contribuente non attenga alla sussistenza delle condizioni necessarie per
fruire dei benefici (impossidenza di una abitazione sita nel medesimo comune dell’immobile
che si intende acquistare, novità nella fruizione dell’agevolazione e residenza nel comune in
cui è sito l’immobile) ma sia, invece, riferita all’impegno che il contribuente assume di
trasferire la propria residenza nel termine di diciotto mesi dalla data dell’atto.
In tal caso, l’effettivo realizzarsi del requisito della residenza prescritto dalla norma dipende,
infatti, da un comportamento che il contribuente dovrà porre in essere in un momento
successivo all’atto.
In sostanza, la dichiarazione resa risulterà mendace e, pertanto, si realizzerà la decadenza
dall’agevolazione, solo qualora, decorsi i diciotto mesi, il contribuente non abbia proceduto
al cambio di residenza.
Proprio in considerazione della peculiarità di tale condizione, il cui verificarsi dipende da un
comportamento del contribuente, si ritiene che laddove sia ancora pendente il termine di
diciotto mesi per il trasferimento della residenza, l’acquirente che si trovi nelle condizioni di
non poter rispettare l’impegno assunto, anche per motivi personali, possa revocare la
dichiarazione di intenti formulata nell’atto di acquisto dell’immobile.
A tal fine, l’acquirente che non intende adempiere all’impegno assunto in atto è tenuto a
presentare una apposita istanza all’ufficio presso il quale l’atto è stato registrato, con la quale
revoca la dichiarazione d’intenti espressa in atto di volere trasferire la propria residenza nel
comune nel termine di diciotto mesi dall’acquisto e richiede la riliquidazione dell’imposta
assolta in sede di registrazione.
Si precisa che tale istanza deve essere presentata sia nel caso in cui l’atto per il quale si sia
fruito delle agevolazioni “prima casa” sia stato assoggettato ad imposta di registro che per
quelli assoggettati ad IVA.
A seguito della presentazione dell’istanza, l’ufficio procederà alla riliquidazione dell’atto di
compravenduta ed alla notifica di apposito avviso di liquidazione dell’imposta dovuta oltre
che degli interessi calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto di compravendita. Tanto
premesso, nel caso prospettato con la presente istanza di interpello, a seguito della notifica
dell’avviso di liquidazione da parte dell’ufficio, il contribuente sarà tenuto a corrispondere un
importo pari alla differenza tra l’IVA determinata con l’aliquota applicabile in assenza di
agevolazione e quella agevolata. Il contribuente sarà, inoltre, tenuto al versamento degli
interessi, calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto.
Come precisato, non trova, invece, applicazione la sanzione pari al 30 per cento di cui all’art.
1, quarto comma, della Nota II-bis) allegata al TUR in quanto, entro il termine di diciotto
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mesi dalla data dell’atto non può essere imputato al contribuente il mancato adempimento
dell’impegno assunto, cui consegue la decadenza dall’agevolazione.
Decorso il termine di diciotto mesi dalla data dell’atto senza che il contribuente abbia
provveduto a trasferire la residenza o a presentare all’ufficio dell’Agenzia una istanza con la
quale revoca la dichiarazione di intenti di cui sopra, si verifica la decadenza dall’agevolazione
“prima casa” fruita in sede di registrazione dell’atto.
La richiamata Nota II-bis), nell’attuale formulazione, prevede che in caso di decadenza dal
regime di favore fruito per le cessioni di case di abitazione “non di lusso” assoggettate
all’IVA, " ... l'ufficio dell'Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti
deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l'imposta calcolata in assenza
di agevolazioni e quella risultante dall'applicazione dell'aliquota agevolata…”, nonché
irrogare la sanzione amministrativa pari al 30 per cento della differenza medesima.
Ne consegue, quindi, che a seguito della decadenza dal regime di favore, l'acquirente dovrà
corrispondere un importo pari alla differenza tra l’IVA calcolata con l'aliquota applicabile in
assenza di agevolazione e quella agevolata, oltre che gli interessi calcolati a decorrere dalla
data di stipula dell’atto. Il contribuente sarà, inoltre, tenuto al pagamento della sanzione
amministrativa stabilita nella misura del 30 per cento di detto importo. Come ribadito con la
circolare n. 38 del 12 agosto 2005, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui è stato
registrato l'atto, accertata la decadenza dal regime di favore, deve provvedere, ai sensi degli
articoli 16 e 17 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, al recupero delle somme dovute.
Decorso il termine di diciotto mesi per il trasferimento della residenza e verificatasi,
pertanto, la decadenza dall’agevolazione, il contribuente potrà comunque accedere,
ricorrendone i presupposti, all’istituto del ravvedimento operoso che consiste, come noto,
nell’effettuare spontaneamente l’adempimento omesso o irregolarmente eseguito nel rispetto
di scadenze normativamente predeterminate, beneficiando di una riduzione della sanzione.
Pertanto, il contribuente che intenda avvalersi dell’istituto del ravvedimento operoso è
tenuto a presentare apposita istanza all’ufficio dell’Agenzia presso il quale è stato registrato
l’atto, con la quale dichiarare l’intervenuta decadenza dall’agevolazione e richiedere la
riliquidazione dell’imposta e l’applicazione delle sanzioni in misura ridotta.
A seguito della presentazione dell’istanza, l’ufficio procederà alla riliquidazione dell’atto
portato alla registrazione ed alla notifica di apposito avviso di liquidazione dell’imposta
dovuta oltre che gli interessi calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto di
compravendita. Sono, inoltre, dovute le sanzioni pari al 30 per cento dell’imposta
opportunamente ridotta, ricorrendone i presupposti, in applicazione dell’istituto del
ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. n. 472 del 1997).
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Nella particolare fattispecie, i diversi termini a cui l’art. 13 del D.Lgs. n. 472 del 1997
ricollega differenti riduzioni delle sanzioni decorrono dal giorno in cui si è verificata la
decadenza dall'agevolazione (ossia dal giorno in cui maturano i 18 mesi dalla stipula
dell’atto).
Tale procedura deve essere seguita sia con riferimento agli atti assoggettati ad imposta di
registro che ad IVA.
A seguito della liquidazione operata dall'Ufficio, il contribuente potrà perfezionare il
ravvedimento con il pagamento della maggiore imposta, sanzioni ed interessi, nel termine di
sessanta giorni dalla notificazione dell’avviso di liquidazione.
Le Direzioni regionali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la
presente risoluzione vengano puntualmente osservati dagli uffici.
IL DIRETTORE CENTRALE
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Revoca dei benefici fiscali “prima casa” e mancata applicazione delle sanzioni
(Nota alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 31 ottobre 2011, n. 105/E)
di Giuseppina Simioli
SOMMARIO: Premessa – La disciplina delle agevolazioni fiscali “prima casa” – La
decadenza dai benefici per il mancato trasferimento della residenza entro i termini di legge –
Le sanzioni previste in caso di decadenza - Esame della Risoluzione 31 ottobre 2011, n.
105/E.
Premessa
L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 31 ottobre 2011, n. 105/E, ha stabilito che
l’acquirente può rinunciare ai benefici fiscali “prima casa”, evitando l’applicazione della
sanzione, qualora non riesca a trasferire la residenza nel Comune in cui è situato l’immobile
nel termine di diciotto mesi dalla stipula notarile.
Dal citato documento di prassi si evince che colui che ha comprato una casa, senza trasferire
la propria residenza entro tale termine, può chiedere al Fisco la revoca dell’agevolazione
stessa, pagando la differenza con l’imposta ordinaria ed evitando le sanzioni del 30%373.
L’agevolazione374 sulla prima casa, di cui al D.P.R. n. 131/1986, consiste nella riduzione delle
imposte di registro, ipotecaria e catastale, oltre che nella riduzione dell’IVA al 4%375.
Ai fini del godimento dell’agevolazione “prima casa”, è necessario che l’immobile acquistato
non presenti caratteristiche di lusso376 e che il contribuente trasferisca la propria residenza
entro il termine summenzionato.
Detto regime di favore consegue alla dichiarazione del soggetto, resa nell’atto notarile, con
cui fa presente di possedere tutti i requisiti prescritti dalla Nota II-bis) all’articolo 1 della
Tariffa, parte prima, allegata al TUR377.
Sulla revoca dei benefici “prima casa”, cfr., A. BUSANI, Bonus Prima casa: la sanzione a chi sfora non è
“automatica”, in www.ilsole24ore.com, del 7 novembre 2011.
374 In tema di benefici “prima casa”, si consulti, A. MONTESANO, La decadenza dalle agevolazioni "prima casa", in
Il Fisco, 11, 2011, p. 1672, e A. BUSANI, “Riacquisto” e decadenza delle agevolazioni “prima casa”, in Corriere
Tributario, 30, 2010, p. 2447.
375 Cfr. G. FANNI, Agevolazioni prima casa: il contribuente può ripensarci entro 18 mesi, in www.fisco7.it., dell’11
novembre 2011.
376 Secondo i criteri stabiliti nel Decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 agosto 1969.
Detto D.M. individua le caratteristiche idonee all’individuazione della natura stessa “di lusso” dell’abitazione.
377 Tale agevolazione spetta anche se l’immobile viene acquistato da un minore non emancipato o da altri
incapaci, quali interdetti e inabilitati, sussistendo tutti i requisiti previsti, compreso quello della residenza.
Si veda Ministero delle finanze, circ. n. 1 del 2 marzo 1994, capitolo 1, par. 4, punto 5.
373
223
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Tra i requisiti richiesti figurano:
- il non possesso di un’altra casa di abitazione;
- la novità della fruizione dell’agevolazione e la residenza nel comune in cui è situato
l’immobile378.
Si può revocare379, a determinate condizioni, la dichiarazione resa nell’atto dal contribuente
sull’obbligo di trasferire la residenza entro diciotto mesi dalla stipula, poiché tale
dichiarazione non riguarda la sussistenza delle condizioni necessarie ai fini della fruizione dei
benefici.
Se l’acquirente decade dai benefici380, è tenuto a corrispondere le imposte nella misura
ordinaria, nonché le sanzioni pari al 30% delle imposte e gli interessi di mora, qualora:
- abbia rilasciato una dichiarazione mendace;
- non trasferisca entro il suddetto termine di diciotto mesi la residenza nel Comune in
cui è situato l’immobile oggetto dell’acquisto;
- venda l’abitazione prima di cinque anni dall’acquisto, a meno che non riacquisti,
entro un anno dall’alienazione del precedente, un altro immobile da adibire ad
abitazione principale.
Nella fattispecie in commento, il contribuente, consapevole di non poter adempiere
all’obbligo di trasferimento per motivi personali, ha chiesto di poter rinunciare
volontariamente alla predetta agevolazione versando solo la differenza tra l’imposta ordinaria
e quella agevolata, senza l’applicazione di sanzioni.
La risoluzione de qua esclude la possibilità che l’acquirente possa rinunciare alle agevolazioni
fiscali381 “prima casa”, dopo aver reso la dichiarazione di intenti in sede di stipula dell’atto,
ma ammette che l’effettivo realizzarsi del requisito della residenza prescritto dalla norma
dipenda da un comportamento che il contribuente dovrà porre in essere in un momento
successivo al rogito notarile.
Dunque, la dichiarazione risulterà mendace solo qualora il contribuente non abbia proceduto
a cambiare la propria residenza entro il suddetto termine di legge.
Cfr. F. MARZIA, Agevolazioni fiscali “prima casa”: senza sanzioni il ripensamento a trasferire la residenza entro 18 mesi
dalla stipula dell’atto, in www.lalentesulfisco.it, del 3 novembre 2011.
379 Sulla revoca dei benefici in questione, si veda, F. RICCA, Il recupero dell’imposta per indebita fruizione
dell’agevolazione “prima casa”, in Corriere Tributario, 1, 2004, pag. 31.
380 Per maggiore un approfondimento in materia, si veda, A. MONTESANO, La decadenza dalle agevolazioni
“prima casa” nelle successioni e donazioni con più beneficiari, commento alla Risoluzione n. 33/E del 15 marzo 2011, in
Il Fisco, 13, 2011, p. 2099.
381 R. DE PIRRO, Benefici “prima casa”: ipotesi agevolabili, in Pratica Fiscale, 27 2010, p. 35; A. BUSANI, Mancato
trasferimento della residenza per "forza maggiore", in Corriere Tributario, 11, 2010, p. 851.
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Pertanto, analizzando il caso di specie, viene stabilito che, laddove risulti ancora pendente il
termine di diciotto mesi per il trasferimento della residenza, il compratore, che si trovi nelle
condizioni di non poter rispettare l’impegno assunto, può revocare la dichiarazione
formulata al momento del trasferimento immobiliare, presentando apposita istanza
all’Ufficio presso il quale l’atto è stato registrato e richiedendo la riliquidazione dell’imposta
assolta in sede di registrazione382.
La disciplina delle agevolazioni fiscali “prima casa”
La lettera a) del comma 1 della Nota II-bis all’art. 1 della citata Tariffa, Parte I, allegata al
D.P.R. 26 aprile 1986, n.131, (Testo Unico dell’imposta di registro) dispone l’applicazione
della tassazione agevolata383 per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di case di
abitazione non di lusso e per gli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto,
dell’uso e dell’abitazione relativi alle stesse384.
La fruizione del regime di favore consiste nell’assoggettamento all’imposta di registro con
aliquota del 3% (anziché quella ordinaria del 7%) e delle imposte ipotecaria e catastale in
misura fissa, ed è subordinata al ricorrere congiunto di alcune condizioni soggettive ed
oggettive385.
Tale norma ha suscitato svariati problemi in merito alla sua corretta applicazione386.
Per usufruire di questa particolare disciplina tributaria, dunque, devono sussistere
determinati requisiti di carattere soggettivo ed oggettivo, e precisamente:
- l’immobile non deve avere caratteristiche di lusso, secondo quanto stabilito dal citato D.
M. del 1969387;
G. FANNI, Agevolazioni prima casa: il contribuente può ripensarci entro 18 mesi, op. cit.
Cfr. l’art. 1, comma 1, quarto periodo, della Tariffa, Parte prima, del Tur.
384 Sulla disciplina dei benefici “prima casa”, si veda, A. MONTESANO, La decadenza delle agevolazioni “prima
casa”, in Il Fisco, 11, 2011, p. 1672.
385 Cfr. B. IANNIELLO, Agevolazioni prima casa “salve” con l’iscrizione all’anagrafe del nuovo comune entro tre anni, op.
cit, p. 1416.
386 Cfr. D. RICCIO, La rilevanza dei comportamenti inesigibili ai fini della permanenza delle agevolazioni fiscali, in
Notariato, 5, 2011, p. 591.
387 Come detto in precedenza, l’immobile non deve avere caratteristiche di lusso e nell’atto di acquisto colui che
compra deve dichiarare di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà,
usufrutto, uso e abitazione di altra “casa di abitazione” nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da
acquistare.
Non è più richiesto che l’immobile venga di fatto destinato ad abitazione principale dell’acquirente.
Siffatta condizione deve sussistere soltanto per evitare la decadenza dalle agevolazioni in caso di rivendita
infraquinquennale dell’immobile acquistato con i suddetti benefici e successivo riacquisto, entro un anno dalla
vendita, di altra casa di abitazione.
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- nell’atto di acquisto l’acquirente deve dichiarare di non essere titolare esclusivo o in
comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra “casa di
abitazione” nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
- l’immobile deve essere ubicato nel territorio del comune in cui il compratore ha388 la
propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività ovvero,
se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il
soggetto da cui dipende389.
Dunque, ai fini del godimento dei benefici in parola, il contribuente deve aver (o impegnarsi
a trasferire nel termine di legge) la residenza nel comune in cui intende comprare l’immobile.
In tale ultimo caso, l’acquirente deve rendere la dichiarazione al momento del rogito notarile.
A tal proposito, la risoluzione in esame ricorda la circolare dell’Agenzia delle Entrate 12
agosto 2005, n. 38/E, la quale circolare ha chiarito che “ai fini della corretta valutazione del
requisito di residenza, dovrà considerarsi che il cambio di residenza si consideri avvenuto
nella stessa data in cui l’interessato rende al comune, ai sensi dell’art. 18, comma 1 e 2, del
D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (regolamento anagrafico della popolazione residente) la
dichiarazione di trasferimento…”.
Pertanto, la dichiarazione del contribuente di voler trasferire la residenza nel termine di
diciotto mesi è prevista dalla legge “a pena di decadenza”.
Nel momento del trasferimento immobiliare l’acquirente deve anche dichiarare di non essere
titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale, su tutto il territorio
nazionale, dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di
abitazione acquistata, dallo stesso dichiarante o dal coniuge, con benefici “prima casa”.
I benefici in questione si applicano anche alle pertinenze, acquistate unitamente all’immobile
agevolato o con un atto separato, che siano classificate o classificabili nelle categorie catastali
C/2, C/6 e C/7, limitatamente ad una pertinenza per ciascuna categoria390.
Occorre sottolineare che tale regime agevolativo si applica, sotto il profilo soggettivo, a tutti
i soggetti, a prescindere dalla loro nazionalità391.
O stabilisca entro il suddetto termine di diciotto mesi dal rogito notarile.
Qualora l’acquirente fosse cittadino italiano emigrato all’estero, le agevolazioni in oggetto si applicheranno
se l’immobile viene acquisito come “prima casa” sul territorio italiano.
390 Secondo quanto stabilito dal comma 4 della citata Nota II-bis, si decade dai benefici:
- in caso di dichiarazione mendace sulla presenza dei requisiti richiesti dalla legge;
- se, entro cinque anni dall’acquisto, l’acquirente trasferisce, a qualsiasi titolo, per atto inter vivos, il bene
acquistato;
- se l’acquirente non trasferisce, entro diciotto mesi dall’acquisto, la propria residenza nel comune di ubicazione
dell’immobile acquistato.
391 In tal senso, Circolare Agenzia delle Entrate 12 agosto 2005, n. 38/E.
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La decadenza dai benefici per il mancato trasferimento della residenza entro i termini di
legge
L’art. 1, comma 4, della Nota II-bis della Tariffa, Parte prima, del Tur, elenca le ipotesi di
decadenza dalle agevolazioni fiscali.
Si decade dai summenzionati benefici392 nei seguenti casi:
- in caso di dichiarazione mendace in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge;
- qualora, entro cinque anni dall’acquisto, l’acquirente trasferisca, a qualsiasi titolo, per atto
inter vivos, il bene acquistato;
- se l’acquirente non trasferisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza nel
comune di ubicazione dell’immobile acquistato.
Nel caso si spostasse la residenza dal comune in cui si trova l’immobile oggetto
dell’agevolazione “prima casa” ad un altro comune in un momento successivo alla
registrazione dell’atto non sono revocate le agevolazioni in questione.
Infatti, il soggetto che acquista, con tali benefici, una porzione di fabbricato abitativo nel
comune in cui risiede e a posteriori si trasferisce in un’altra città non decade dalle
agevolazioni “prima casa” .
Abbiamo ricordato che, ai fini dell’utilizzo della tassazione di favore, l’immobile non deve
presentare le caratteristiche di una casa di lusso e che colui che acquista l’unità immobiliare
deve avere la residenza nello stesso comune in cui si trova la medesima unità.
È possibile cambiare residenza entro e non oltre il citato termine di diciotto mesi
dall’acquisto dell’immobile.
A tal proposito, l’acquirente deve dichiarare espressamente al momento della stipula di voler
procedere al cambio entro detto termine393.
Il compratore deve, inoltre, dichiarare di non essere titolare di un’altra casa di abitazione
nello stesso comune e di un’altra, ubicata in qualsiasi luogo sul territorio nazionale, che abbia
acquistato con le agevolazioni in questione.
Devono esserci specifiche ipotesi, quali l’aver rilasciato dichiarazioni false per beneficiare
delle medesime agevolazioni, o anche qualora la casa presenti caratteristiche di lusso, o anche
qualora colui che compra non risulti essere residente nello stesso comune.
In tema di decadenza da detti benefici, si veda, N. GRUTTADAURIA, Agevolazione “prima casa” - decadenza
dai benefici, in Il Fisco, 3, 2010, p. 415.
393 Sui termini, si veda, B. IANNIELLO, Agevolazioni prima casa “salve” con l’iscrizione all’anagrafe del nuovo comune
entro tre anni, op. cit., p. 1416; A. BORGOGLIO, Agevolazioni prima casa, trasferimento della residenza e rilevanza degli
impedimenti all’uso abitativo, in Il Fisco, 9, 2011, p. 1381;
392
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Ciò porta al pagamento dell’imposta di registro, di quella ipotecaria ed anche di quella
catastale in misura ordinaria, unitamente ad una sanzione del 30% delle imposte e degli
interessi legali.
Può accadere, tuttavia, che il contribuente non riesca a procedere al cambio di residenza nei
termini di legge per cause indipendenti dalla propria volontà.
In tal caso, lo stesso sarà assoggettato alle seguenti conseguenze fiscali:
- il mancato trasferimento, entro il termine suindicato, della residenza nel comune in cui il
nuovo immobile si trova comporta sempre e comunque la decadenza dai benefici;
- qualora venga meno il requisito della residenza e la causa sia imputabile al contribuente, egli
decade dalle agevolazioni “prima casa”; se, invece, la causa dipende da caso di forza
maggiore, il contribuente conserva i benefici394.
Le sanzioni previste in caso di decadenza
Per quanto riguarda il regime sanzionatorio, in caso di decadenza dai benefici “prima casa”,
si prospettano le seguenti ipotesi:
- recupero delle maggiori imposte non versate;
- irrogazione di una sanzione pari al 30% sulla differenza delle imposte di registro, ipotecaria
e catastale;
- applicazione degli interessi di mora previsti dall’art. 55, comma 4, del Tur.
L’Amministrazione finanziaria può revocare entro il termine di tre anni la disciplina di favore
e liquidare le imposte in misura ordinaria e le relative soprattasse.
In tema di revoca dai benefici fiscali, non é facile individuare il dies a quo da cui decorre
detto termine triennale.
La giurisprudenza della Cassazione ha affermato l’applicazione del termine triennale di cui
all’art. 76 del Testo Unico dell’imposta di registro, anziché del termine di prescrizione
decennale di cui all’art. 78 dello medesimo Testo Unico.
La presenza dei presupposti agevolativi, infatti, non sempre può essere accertata in sede di
registrazione dell’atto di acquisto.
Inoltre, non è possibile applicare in modo piano le disposizioni di cui all’art. 76 del T.U.
dell’imposta di registro considerato che detta norma disciplina le ipotesi di liquidazione delle
Per un approfondimento in materia, si consulti, A. MONTESANO, La decadenza delle agevolazioni “prima
casa”, op. cit., p. 1672.
394
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imposte principale e supplementare mentre, nel caso di imposta dovuta a seguito della
decadenza dall’agevolazione, si tratta di imposta di natura complementare395.
Relativamente al dies a quo da cui decorre siffatto termine triennale, occorre, pertanto, fare
una distinzione396:
- qualora la decadenza derivasse da cause rilevabili già al momento della registrazione
dell’atto, da questa data avrebbe inizio il termine triennale, ai fini della revoca della disciplina
agevolativa;
- qualora, invece, la mendacità delle dichiarazioni rese al momento della stipula dipendessero
da cause sopravvenute alla registrazione, il suindicato termine si riferirebbe ad un momento
successivo alla verifica di tale causa397.
Di norma, l’Agenzia delle Entrate verifica al momento della registrazione dell’atto la
sussistenza dei requisiti richiesti ai fini della fruizione del regime agevolativo, ma vi sono
particolari cause di decadenza che possono verificarsi anche in un momento successivo alla
registrazione stessa398.
Tra le cause summenzionate rientrano:
- il mancato trasferimento, entro diciotto mesi dall’acquisto, della residenza dell’acquirente
nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato;
- la rivendita dell’immobile prima che siano decorsi cinque anni dall’acquisto.
Alla luce di quanto esposto, il predetto termine triennale, pertanto, decorrerà dalla
registrazione dell’atto stesso, se oggetto di accertamento è la mendacità delle dichiarazioni
previste dall’art. 1, nota II bis, lettere b) e c), tariffa, parte prima, allegata al Tur399.
Decorrerà, invece, dalla fine del diciottesimo mese successivo alla data di registrazione
dell’atto, se oggetto di accertamento è la “mendacità” della dichiarazione prevista nella
lettera a) della predetta nota400.
Per un esame della giurisprudenza in merito, si veda, B. IANNIELLO, Agevolazioni prima casa “salve” con
l’iscrizione all’anagrafe del nuovo comune entro tre anni, op. cit., p. 1416.
396 Cfr. A. MONTESANO, La decadenza delle agevolazioni “prima casa”, op. cit.
397 Sent. 21 novembre 2000, n. 1196, che ha esaminato una fattispecie regolata ratione temporis dalla L. n.
168/1982.
398 Per maggiore chiarezza occorre sottolineare che è proprio da tale data che si può verificare che l’immobile
non presenti le caratteristiche di lusso dell’abitazione e che l’acquirente non possiede altro immobile nel
comune dove è ubicato l’immobile acquistato.
È, inoltre, possibile verificare, sempre in quella sede, che lo stesso non possieda altro immobile, acquistato con
i benefici prima casa, in altro comune.
399 Si fa riferimento alle dichiarazioni rese dal compratore di non possedere altro immobile acquistato, con o
senza agevolazioni, nello stesso comune dove è ubicato il nuovo immobile ovvero acquistato, con le
agevolazioni “prima casa”, in altro comune.
400 Si tratta della dichiarazione resa dall’acquirente di voler trasferire la propria residenza nel comune dove è
ubicato l’immobile, entro diciotto mesi dall’acquisto.
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Decorrerà, poi, dallo spirare dell’anno successivo al trasferimento a titolo oneroso o gratuito
dell’immobile trasferito, se oggetto di accertamento è la rivendita infraquinquennale401.
Esame della Risoluzione 31 ottobre 2011, n. 105/E
Il documento di prassi in esame ricorda che nella disciplina sulle agevolazioni fiscali “prima
casa” non vi è la possibilità di rinunciare volontariamente al regime di favore.
La lettera a) del comma 1 della Nota II-bis) all’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al
citato D.P.R. del 1986, tra i requisiti richiesti per la fruizione dell’agevolazione in oggetto,
richiede che l’immobile da acquistare “sia ubicato nel territorio del comune in cui
l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza”.
I benefici “prima casa” conseguono alla dichiarazione dell’acquirente, resa nell’atto notarile,
con cui fa presente di possedere tutti i requisiti prescritti dalla summenzionata Nota II- bis)
all’articolo 1 della Tariffa, parte prima, allegata al Tur402.
Con la risoluzione n. 105/E, dunque, è stato precisato che entro il termine di diciotto mesi
dall’atto di acquisto dell’immobile è possibile la rinuncia a detti benefici, senza incorrere
nell’applicazione del relativo regime sanzionatorio.
Il problema della rinuncia volontaria non era stato mai affrontato dal Fisco a livello centrale.
A livello regionale, invece, avevano negato la possibilità di rinunciare a tale trattamento
agevolativo sia la Direzione Regionale della Lombardia403 che quella del Piemonte404.
La giurisprudenza ha sempre negato, in modo univoco, l’esclusione della possibilità di poter
rinunciare alle agevolazioni in oggetto405.
Nel caso di specie, non essendo ancora passato tale termine, l’acquirente non sarà soggetto al
mancato adempimento dell’impegno a trasferire la propria residenza nel nuovo comune406.
Pertanto, qualora non fosse decorso il termine di legge e l’acquirente non fosse in grado di
Come anzidetto, la norma di favore stabilisce la decadenza dalle agevolazioni qualora l’immobile oggetto
d’acquisto fosse rivenduto prima del termine quinquennale dalla compravendita, a meno che entro un anno
dal trasferimento non si proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale.
402 Tra i requisiti richiesti abbiamo in precedenza ricordato il non possesso di un’altra casa di abitazione, la
novità della fruizione dell’agevolazione e la residenza nel comune in cui è situato l’immobile.
403 Cfr. Nota 904-6879/2004 del 16 febbraio 2004.
404 Cfr. Nota 2005/45291 del 6 ottobre 2005.
405 Cfr. A. BUSANI, Possibile la rinuncia agli sconti “prima casa”, in www.casa24.ilsole24ore.com, del 1° novembre
2011.
406 Questa opportunità viene concessa in considerazione del fatto che trasferimento della residenza costituisce
una dichiarazione di intenti, cui l’acquirente si impegna a tener fede in un momento successivo alla stipula
dell’atto.
401
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adempiere all’impegno assunto, anche per motivi personali, è ammessa la revoca della
dichiarazione di intenti resa al momento della stipula.
La revoca della dichiarazione dell’acquirente, resa nell’atto notarile, è possibile in presenza di
determinate condizioni.
È possibile tale revoca, in quanto la citata dichiarazione non riguarda la sussistenza delle
condizioni necessarie ai fini del godimento di tale trattamento agevolativo.
Ciò è facilmente dimostrabile dal fatto che il concreto realizzarsi del requisito della residenza
prescritto dalla norma sarà attuato da colui che acquista successivamente alla stipula dell’atto.
Orbene, risulterà mendace la dichiarazione resa dal contribuente e, pertanto, si realizzerà la
decadenza dall’agevolazione solo qualora, decorsi i diciotto mesi, il contribuente non abbia
proceduto al cambio di residenza.
A tal fine, l’acquirente che non intende trasferire la propria residenza deve presentare
un’apposita istanza all’Ufficio presso il quale l’atto è stato registrato, con cui revoca la
dichiarazione resa in atto e richiede la riliquidazione dell’imposta assolta in sede di
registrazione.
L’istanza in questione va presentata sia nel caso in cui l’atto per il quale si sia fruito delle
agevolazioni “prima casa” sia stato assoggettato ad imposta di registro che per quelli
assoggettati ad IVA407.
E’ l’ufficio che deve notificare l’avviso di liquidazione dell’imposta dovuta, insieme agli
interessi calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto di compravendita.
Qualora, invece, il contribuente decadesse dai benefici in parola, in quanto decorso il
termine di diciotto mesi, può usufruire del ravvedimento operoso, presentando apposita
istanza all’Agenzia delle Entrate.
In tal caso, la riduzione della sanzione ricorre dal giorno in cui si è verificata la decadenza
dall’agevolazione prima casa.
Tale principio, precisato nella risoluzione de qua, si applica, come anzidetto, per gli atti di
compravendita soggetti all’imposta di registro ed anche per quelli soggetti all’imposta sul
valore aggiunto.
Dopo la presentazione di tale istanza, l’ufficio competente procederà alla riliquidazione dell’atto di acquisto
ed alla notifica di apposito avviso di liquidazione dell’imposta dovuta oltre che degli interessi calcolati a
decorrere dalla data di stipula dell’atto di compravendita.
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