Per celebrare meglio…
[ in Servizio della Parola, n. 414 (2010) pp. 3-10 ]
DONARSI LA PACE DI CRISTO
di Silvano Sirboni
Nel linguaggio biblico la pace (= shalom) non è semplice assenza di conflitti armati, ma l'insieme di
tutti quei beni materiali e spirituali che rendono umana e vivibile l'esistenza quotidiana. Infatti il
termine ebraico shalom deriva da una radice linguistica esprime l'essere intatto, non frantumato. Si
tratta quindi di un benessere completo, di una gioia piena (cfr. Pace, in Dizionario dei concetti
biblici del N.T., EDB 1976). Non è senza ragione che questo termine sia diventato nel mondo
medio-orientale la forma di saluto abituale e più significativa. L'abitudine, purtroppo, conduce
facilmente a dimenticare il significato delle parole che si pronunciano e dei gesti che si compiono.
La celebrazione liturgica non è esente da questo micidiale logorio dell'abitudine con il
conseguente rischio di ridurre il segno di pace a un semplice, gesto cerimoniale, ad un semplice
saluto, ad un'obbedienza rubricale, indipendentemente dalla sua collocazione nel contesto della
messa, se prima o dopo la Preghiera eucaristica.
La pace di Cristo
È significativo che lo stesso Gesù, durante la sua ultima cena, abbia sentito la necessità di
precisare ai suoi discepoli le caratteristiche della sua pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace.
Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Il Signore, infatti, intende riferirsi al dono
messianico della pace. Cioè a quella vita riconciliata, di relazioni fraterne che il profeta Isaia
esprime con le note ed eloquenti immagini: «II lupo dimorerà insieme con l'agnello, il
leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un
piccolo fanciullo li guiderà... Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà
la mano nel covo del serpente velenoso» (Is 11,6-8). Quest'ultima immagine è, in qualche modo,
ripresa dall'evangelista Marco quando riporta le parole con le quali Gesù, prima della sua
ascensione, affida ai suoi discepoli la missione elencando i «segni che accompagneranno
quelli che credono» (Mc 16,17). In breve, la missione di Gesù e dei suoi discepoli è quella di
portare la pace promessa da Dio per mezzo dei profeti «agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14).
Anzi, Gesù stesso «è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il
muro di separazione che li divideva, cioè l'inimicizia per mezzo della sua carne... per
riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso
l'inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che
erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo
Spirito» (Ef 2,14-17). Giudei e pagani, ricchi e poveri, bianchi e neri sono chiamati ad essere
una sola cosa nello stesso Spirito di Gesù. È questa la pace che si riceve e si dona nella
celebrazione eucaristica.
Una pace da accogliere e da donare
Non è senza una profonda ragione che secondo il rituale descritto dall'ordo romanus I (VII sec.) il
primo saluto rivolto dal vescovo all'assemblea fosse identico a quello rivolto dal Risorto ai suoi
discepoli: Pax vobis e avesse luogo dopo il canto del Gloria in excelsis Deo et in terra pax
hominibus (cf. J. Jungmann, Missarum Sollemnia) Questo è ancora oggi il primo saluto rivolto
all’assemblea nella messa presieduta dal vescovo (cfr. Cerimoniale dei vescovi, 132). In quasi tutte
le formule alternative per questo saluto iniziale è comunque presente il termine 'pace'. Una
parola ricorrente nella messa per indicare il frutto principale del sacrificio di Cristo: una vita riconciliata all'insegna di rapporti fraterni nella giustizia e nella carità. Se si dimentica questo, non
solo il gesto di pace, ma tutta la messa rischia di diventare una semplice cerimonia o una semplice devozione secondo i propri gusti, per soddisfare esigenze del tutto individuali. Si tratta,
invece, di accogliere un dono, l'offerta di un amore che impegna a stabilire rapporti di
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comunione con il prossimo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri
come io ho amato voi» (Gv 15,12). Questo è il frutto della messa. Si tratta quindi di una pace, di
una salvezza che si accoglie per essere donata. È significativo che nel più antico documento
che riporta alcuni elementi di liturgia, la Didaché (i sec.), i fedeli sono esortati a riconoscere i loro
peccati, a riconciliarsi reciprocamente prima di iniziare la loro assemblea domenicale per non
profanare il sacrificio (cfr. 14,2). Nel cuore del II secolo Giustino attesta per la prima volta
esplicitamente il 'bacio di pace' dopo la preghiera universale e prima di quella che oggi noi
chiamiamo liturgia eucaristica. Gesto simbolico e impegnativo che già Clemente Alessandrino (III
sec.) vede a rischio di formalismo: «L'amore non consiste nel bacio, ma nella benevolenza. Alcuni,
invece, non sono buoni che a far risuonare la chiesa con il bacio, senza avere dentro di sé
l'amore» (Pedagogo III,11). Quasi contemporaneamente la Traditio Apostolica di Ippolito (220
circa) adombra un altro pericolo quando esorta a scambiare il bacio di pace «viri cum viris et
mulieres cum mulieribus» (c. 18). Un secolo dopo le Costituzioni apostoliche (350 circa)
ribadiscono la stessa preoccupazione quando dispongono che il bacio di pace venga
scambiato da uomini con uomini e donne con donne, senza confusione tra i sessi (cfr. VIII, 11,
8-9). È probabile che da queste disposizioni riguardanti il bacio di pace si sia instaurata la prassi
di separare nelle chiese gli uomini dalle donne.
Collocazione e prassi del segno di pace
Stando alla testimonianza di Giustino. il segno di pace risulta collocato prima della liturgia
eucaristica. Tuttavia secondo la testimonianza di S. Agostino (+ 430) nel rito romano del v secolo il
segno di pace è invece collocato fra il Padre nostro e la comunione (cfr. Sermo 87 e 227).
Collocazione confermata anche dalla nota lettera di Innocenzo I a Decenzio, vescovo di Gubbio.
che chiedeva chiarimenti proprio su questa prassi diversa da altre Chiese. Il papa difende
tale particolarità e la giustifica quale suggello dell'assemblea al mistero di riconciliazione
celebrato nella Preghiera eucaristica. Anzi, biasima coloro che insistono nel porre questo
gesto prima della Preghiera eucaristica (cfr. Epist. 25,1). Pare che questa particolarità sia stata
originata anche dall'accentuazione penitenziale del Padre nostro, in riferimento alle parole
«rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (cfr. S. Agostino, Sermo 17, 5;
cfr. anche V. Raffa, Liturgia eucaristica, 526). D'altra parte già Cirillo di Gerusalemme scriveva:
«Il bacio santo è un gesto che esprime la volontà di conciliare le anime con il proposito di
dimenticare le vicendevoli offese... Il nostro gesto equivale quindi a una riconciliazione e per
questo si dice bacio santo» (Cat. Mistagogiche, Serm. 15,3). Per una complessa convergenza
di fattori che possiamo sintetizzare nella deriva clericale della liturgia, favorita dall'incomprensione della lingua latina, il bacio di pace finisce per trovarsi in un contesto assembleare che
non ne giustifica più la prassi, non senza ricadute negative sulla decenza stessa di questo gesto
che opportunamente scompare dalla navata e resta relegato all'area presbiteriale per le occasioni
più solenni. Non solo, ma per un esasperato senso della decenza, anche all'interno del
presbiterio il bacio fra il clero viene sostituito dal bacio dato ad un oggetto, in genere ad
un'immagine sacra (= osculatorium, instrumentum pacis). Questa prassi del segno di pace
relegata al presbiterio e solo nella messa solenne fu fissata dal Messale di Pio V (1570). Soltanto
in qualche occasione particolare il segno di pace con lo 'strumento' poteva essere scambiato
con qualche personalità laica, purché di sesso maschile (cfr. Ordo servandus X, 3; cfr. anche L.
Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, 389-390).
Il segno della pace tra ambiguità e scorrettezze
La riforma liturgica promossa dal Vaticano II ha restituito il segno di pace all'assemblea e in tutte le
assemblee, quando ritenuto opportuno. Come per tutti gli altri elementi della celebra zione
liturgica, recuperati e adattati dalla riforma liturgica, an che il segno di pace non è stato esente
da ambiguità e applicazioni scorrette. Rischio inevitabile poiché questo gesto, come tutti i gesti
liturgici, per essere pienamente significativo, presuppone una comunità 'vera'. Infatti, con
questo gesto «i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l'amore vicendevole prima di comunicare al sacramento» (OGMR 82). Quante nostre assemblee esprimono una vera comunione
ecclesiale? In certe circostanze non sarebbe forse opportuno ometterlo, visto e considerato
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che non è obbligatorio? Anzi, in occasione di certi funerali, dove l'aspetto istituzionale civile ha il
sopravvento, ci si potrebbe chiedere addirittura se sia opportuna la messa. Inoltre, come tutti i
segni liturgici, anche il segno della pace, per essere correttamente compreso, praticato e
fruttuoso, ha bisogno di una partecipazione cristianamente attiva e consapevole. In altre
parole, di una catechesi previa e di una presenza di fede. La mancanza di queste due condizioni
conduce inevitabilmente a quelle anomalie che oggi vengono giustamente riprovate e
ingiustamente prese come alibi per condannare la riforma liturgica anziché condannare chi non l'ha
messa in pratica o l'ha attuata scorrettamente. Il segno di pace non è un gesto cameratesco per
scambiarsi i saluti e neppure un gesto sostitutivo di quell'accoglienza che deve trovare spazio prima
della celebrazione (cfr. OGMR 105 d). È pertanto del tutto fuori luogo la ‘passeggiata' del prete
celebrante lungo la navata per stringere la mano a tanti e scambiare quattro chiacchiere di
convenevoli. Le norme precisano saggiamente che «ciascuno dia la pace sol tanto a chi
gli sta più vicino, in modo sobrio» (OGMR 82). È un gesto simbolico di comunione e di
riconciliazione che oggi, nel rito romano, dà visibilità all'accoglienza della richiesta
condizionata che il Signore ha posto sulle nostre labbra: «rimetti a noi i nostri debiti come noi
li rimettiamo ai nostri debitori». Inoltre per una corretta celebrazione di questo rito è necessario
tenere presente che, contrariamente alla prassi che è andata instaurandosi nel tardo
medioevo, non si tratta di comunicare il dono della pace in modo gerarchico (per quanto
significativa anche questa modalità), cioè a partire dal presidente, al clero e infine al popolo.
Si tratta, invece, di esprimere «l'amore vicendevole», il perdono reciproco per essere degni di
partecipare alla mensa eucaristica. Non è quindi corretto (e anche un po' deviante) che i
`chierichetti' (= ministranti) siano inviati nell'aula assembleare con una certa e inopportuna
confusione e non senza il rischio di una certa banalizzazione e infantilizzazione del rito. In alcune
particolari occasioni (matrimoni, funerali o altro) le norme prevedono con molto buon senso
che il sacerdote possa scambiare la pace con alcuni laici con la dovuta discrezione e sobrietà
(cfr. OGMR 154). Sempre con tanto buon senso e capacità di immedesimarsi nelle persone che
compongono l'assemblea, ci possono essere circostanze, certamente marginali, ma che
suggeriscono di omettere il segno di pace; per esempio quando per il caldo si suppone che i
presenti abbiano le mani sudate... Si tratta di una doverosa e sensibile attenzione.
Accompagnare il segno di pace con un canto speciale?
A partire da una scorretta interpretazione del segno di pace, inteso come semplice gesto di
cordialità, è inevitabile la tentazione di accompagnare questo rito con qualche canto festoso,
magari a scapito dell'Agnello di Dio che segue il segno di pace e accompagna la frazione del
pane. Non è raro sentire durante il segno di pace il noto canto Pace a te, fratello mio... Canto
certamente adatto per altri momenti di preghiera, ma assai meno per questo momento
rituale quando invece sarebbe molto meglio far seguire il canto dell'Agnello di Dio che
ricorda come la pace che si intende significare è quella che proviene dal sacrificio di Cristo (cfr.
OGMR 63). Lo dice chiaramente colui che presiede quando introduce il gesto di pace con
l'augurio: «La pace del Signore sia sempre con voi». Lo precisano anche le premesse alla terza
edizione del Messale romano per la formula che potrebbe accompagnare lo scambio di pace
tra i fedeli: «La pace del Signore sia sempre con te». La risposta prevista è «Amen» (cfr. OGMR
154). Non si comprende questa risposta quando certamente il fedele che riceve la pace sarà
certamente portato a rispondere: «E con il tuo spirito»; come del resto era previsto nella prassi
precedente. Le norme del Messale lasciano opportunamente alle Conferenze Episcopali di
stabilire le concrete modalità per il rito della pace, nel rispetto delle diverse culture e
sensibilità. In ogni caso, per dare verità e spontaneità a questo gesto è opportuno educare
anche al rispetto delle diverse relazioni fra le persone. Che senso ha che un genitore stringa
la mano ai propri figli? E forse scandaloso che due coniugi si abbraccino? In genere non si
abbracciano forse anche i concelebranti, pur con una certa libertà, secondo il grado di
conoscenza tra loro e la materiale collocazione della loro persona? Per questo non è corretto
che il diacono o un sacerdote, cambiando e banalizzando la formula proposta dal Messale, esorti
al, segno di pace dicendo: «Datevi una stretta di mano!».
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Una distrazione per la comunione?
Una scorretta prassi del rito della pace ha condotto il sinodo dei vescovi (2005) a porsi alcuni
interrogativi sulla collocazione di questo gesto nella celebrazione della messa secondo il rito
romano. Si dice che questo segno «in certi casi assume un peso che può divenire
problematico, quando si protrae troppo a lungo o addirittura suscita qualche confusione
proprio prima di ricevere la comunione» (Proposizione 23). Questa osservazione ha trovato
spazio anche nell'esortazione postsinodale di Benedetto XVI nel 2007: «Tenendo conto di
consuetudini antiche e venerabili e dei desideri espressi dai Padri sinodali, ho chiesto ai
competenti dicasteri di studiare la possibilità di collocare lo scambio della pace in altro
momento, per esempio prima della presentazione dei doni all'altare» (Sacramentum Caritatis,
49, nota 150). Le osservazioni di alcuni Padri sinodali sono senza dub bio giustif icat e. Ci si
pu ò ch iede re tu ttavia , pe rch é, an ziché correggere gli abusi si debba rinunziare a una
tradizione peculiare del rito romano antica di sedici secoli. Inoltre dietro questa richiesta, sembra
esserci una visione esclusivamente intimistica della partecipazione alla mensa eucaristica
secondo una prassi preconciliare. Se il segno della pace fosse eseguito come previsto dalle norme
non sarebbe affatto una distrazione. Anzi, nella consapevolezza che questo segno è, nel rito
romano, intimamente legato al Padre nostro e di fatto anche al canto dell'Agnello di Dio,
aiuterebbe a ricordare come la condivisione della mensa eucaristica impegni a quella
solidarietà e fraterna comunione che è lo scopo di tutta la messa: «Tu hai bevuto il sangue del
Signore e non riconosci tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno
di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa»
(Giovanni Crisostomo, Omelia su 1 Cor. 27,4).
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