Stabat mater fiduciosa
Daniele Fortuna
Ho volutamente parafrasato le parole iniziali del famoso canto mariano, non
per sminuire la drammaticità dell’ora che la madre di Gesù ha vissuto ai
piedi della croce, ma per sottolineare come proprio quel momento diventi
per lei il compimento di un cammino di fede che ha radici molto lontane…
Innanzitutto non va dimenticato che Maria è figlia del suo popolo: la sua
fede è quella di Israele, trasmessa “di generazione in generazione” e da lei
ricevuta sin dall’infanzia; le sue preghiere sono quelle dei salmi e della pietà
ebraica; lo stesso Magnificat (Lc 1,46-55) è un compendio di citazioni del
Primo Testamento, in una sintesi contemplativa che tutto abbraccia sotto le
ali della misericordia divina…
Ancor prima di diventare madre, lei è già la figlia di Sion (cf Sof 3,14-15; Zc
2,14 e 9,9), perché appartiene al resto d’Israele1, agli anawim, i poveri del
Signore che attendevano solo da Lui la salvezza. Possiamo dire che di
questo popolo Maria è il frutto più bello, l’espressione più autentica, la fede
più limpida, tutto ciò che il Dio dell’Alleanza aveva atteso dal cuore
d’Israele… lungo le generazioni.
Così la presenta Luca nel racconto dell’annunciazione, come dipingendone
la bellezza della grazia2. Ed anche Elisabetta riconoscerà in lei la “benedetta
fra le donne”, a motivo della sua fede: “…beata colei che ha creduto
nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,39-45).
“Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il
resto d’Israele” (Sof 3,12).
2
Il saluto dell’angelo di Lc1,28, spesso infelicemente tradotto, è composto da tre parti. 1.
chaìre: è il saluto del tempo messianico, preannunciato dai profeti. Si potrebbe tradurre con
le parole di Sofonia: “Gioisci, esulta, rallegrati con tutto il cuore…”. 2. kecharitōménē: in
realtà è un nome nuovo dato alla vergine, come è scritto nel profeta Isaia: “ti si chiamerà
con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà” (Is 62,2). Questo nome è un
participio perfetto passivo del verbo causativo charitòō (nel NT solo qui ed in Ef 1,6): esso
indica un’azione efficace della Grazia di Dio che ha agito in Maria a partire da un tempo
passato e perdura nel presente senza soluzione di continuità, insieme a tutto ciò che tale
azione ha prodotto. Questa accezione di cháris come grazia efficace va distinta da quella
successiva di Lc 1,30, che indica piuttosto il favore divino. Anzi, proprio perché la Grazia
ha fatto di Maria la kecharitōménē, lei ora ha “trovato grazia presso Dio”. 3. Il Signore è
con te: questa parola non è solo un incoraggiamento, ma, come per i profeti ed i servi di
Dio nel Primo Testamento, è anche indice di una missione che le viene affidata. A tale
missione, rivelata successivamente dall’angelo, Maria acconsentirà, presentandosi appunto
in Lc 1,38 come “la serva del Signore”. Cf RENÉ LAURENTIN, I Vangeli dell’infanzia – La
verità del Natale al di là dei miti, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1986, pp. 36-37 e
77-78. Uno studio magistrale di I. de la Potterie sul termine kecharitōménē dal punto di
vista filologico, esegetico e teologico si può trovare in Biblica 68 (1987) alle pagine 357382 e 480-508.
1
1
Luca, inoltre, in occasione della visita dei pastori, ci descrive un tratto
caratteristico della fede di questa giovane donna: “Maria, da parte sua,
serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Qui
l’evangelista usa il verbo syntērein: “un custodire raccolto, confermato dal
[participio successivo] symballousa: ‛meditava’, letteralmente ‘metteva
assieme, collegava, confrontava’ tutte queste cose nel suo cuore, per cercare
di comprendere meglio il senso delle parole e degli eventi”3. Quella di
Maria è, dunque, una fede attiva, una fede che interroga e cerca di capire:
che sia l’angelo Gabriele a parlarle, un oracolo dei profeti proclamato in
sinagoga, o un evento della vita che la coinvolge, Maria è sempre pronta ad
ascoltare, interiorizzare, riflettere… per discernere il dispiegarsi del Mistero
di Dio nella storia degli uomini e nella sua personale vocazione.
Ma anche la fede di Maria deve passare attraverso la prova. È sempre Luca
a rivelarcelo nel racconto dello smarrimento di Gesù nel Tempio, che si
presenta come una prefigurazione della morte e risurrezione del suo Figlio4.
L’angoscia mortale provata in quell’occasione e l’incapacità di comprendere
le parole di Gesù portano un sensibile cambiamento nella meditazione
interiore di Maria. Il suo “custodire nel cuore”, infatti, non è più vissuto
nella comunione armoniosa, nella luminosità della gioia, bensì nella
dispersione, nella distanza, nell’inquietudine5… E così, se da un lato Maria
continuava a custodire tutte queste cose, dall’altro “nell’incomprensione con
il Figlio si apriva progressivamente alla comprensione del mistero e della
missione di Gesù”6.
Non c’è ancora una distanza fisica da Gesù adolescente. Egli, al contrario,
“Partì dunque con loro e tornò a Nàzaret e stava loro sottomesso” (Lc
2,51). Eppure Maria, sin da questo momento, percepisce e custodisce nel
cuore la sensazione del distacco dal figlio, percezione dolorosa come una
trafittura di spada e destinata ad aumentare progressivamente, man mano
che “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”
(Lc 2,35.52).
Questo distacco di Gesù dalla madre diventa ancor più netto durante la sua
vita pubblica, come ci attesta la comune tradizione sinottica: Giunsero sua
madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto
attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le
tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano
Cf GIOVANNI CERETI, “Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc
2,51) in Aa.Vv., Atti della XLII Sessione di formazione ecumenica, a cura del Segretariato
Attività Ecumeniche, Àncora, Milano 2006, pp.206-207.
4
Cf Lc 2,41-50. Una lectio magistrale di questo passo è stata fatta da CARLO MARIA
MARTINI, Essere nelle cose del Padre, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991.
5
Questo si deduce dal cambiamento dei prefissi nel verbo “custodire”. Infatti: mentre in
2,19 troviamo syn-tērein, il verbo del v. 2,51 è dia-tērein, come fa notare acutamente
Cereti, Op. cit., p. 207.
6
Cereti, Op. cit. p. 207.
3
2
seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la
volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3,31-35 e p.).
Un altro episodio, riportato solo da Luca, è sullo stesso tono: Mentre diceva
questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il ventre
che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Ma egli disse: «Beati
piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,2728).
Per quanto noi possiamo vedere proprio in Maria colei che più di tutti ha
vissuto la beatitudine dell’ascolto obbediente, colei che ha perfettamente
compiuto la volontà di Dio, tuttavia non possiamo nascondere che questo
linguaggio è duro. Gesù ha oggettivamente preso le distanze non solo dal
suo contesto familiare più ampio (Cf Mc 3, 20-21; Mc 6,1-6 e Gv 7,2-10),
ma persino da sua madre. Atteggiamento certamente difficile da
comprendere ed accettare…
E Maria… come avrà reagito? Che cosa avrà significato tutto ciò nel suo
cammino di fede?
Di fronte al silenzio dei sinottici su tale punto, c’è una pagina molto
eloquente consegnataci dal vangelo di Giovanni: le nozze di Cana (Gv 2,112).
Questo “racconto simbolico”7 accade “al terzo giorno”, a compimento della
settimana inaugurale del ministero pubblico di Gesù8, e manifesta che il
tempo delle nozze escatologiche è ormai giunto9. In questa festa nuziale la
madre di Gesù è già presente, mentre Gesù viene invitato successivamente
con i suoi discepoli. E, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice:
«Non hanno più vino».
Fin qui nulla di particolare. Né bisogna immaginare che Maria si aspettasse
già un miracolo da Gesù; più semplicemente ella segnala al Figlio una
carenza che potrebbe generare grave disagio, e lo invita ad intervenire
confidando nella sua bontà10.
Quella che, invece, appare alquanto strana è la risposta data da Gesù alla
madre: «Che cosa (c’è) tra me e te? Donna, non è forse ancora arrivata la
Così lo definisce il Dufour, che ne fa un’ampia trattazione: XAVIER LÉON DUFOUR,
Lettura del Vangelo secondo Giovanni, ed Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990-1998, vol.
I, pp. 282-334. L’aggettivo “simbolico” non sta in opposizione a “storico”: semplicemente
indica una chiave di lettura del racconto giovanneo che, superando il dato biografico,
permette di coglierne più profondamente il messaggio. L’evangelista, infatti, parte sempre
da un dato biografico per cogliere in esso la portata simbolica e rivelativa del mistero del
Verbo incarnato. Così, quelli che nei sinottici sono chiamati “miracoli”, Giovanni li
chiama “segni” e li fa seguire da discorsi esplicativi (cf 6,2-14.26-59; 20,30-31); ma anche
precisi particolari biografici, come la trafittura del costato, con la fuoriuscita di sangue ed
acqua, possono acquistare una valenza rivelativa di primaria importanza (cf 19,33-37).
8
Iniziando da Gv 1,19 si noti la sequenza dei giorni in 1,29.35.43 e 2,1.
9
Sempre il Dufour (Op. cit., vol. I, p. 326) fa notare come in Gv questa azione simbolica di
Gesù prenda il posto della proclamazione sinottica: “Il regno di Dio è presente” (Mc 1,15).
10
Cf Dufour, Op. cit., vol. I, p. 285.
7
3
mia ora?». Secondo A. Vanhoye11, qui ci troviamo di fronte a due tipiche
interrogazioni giovannee. Per l’evangelista, infatti, l’interrogazione gioca un
ruolo importante nel progresso della rivelazione, proprio rimanendo una
domanda (cf anche Gv 7,35 e 8,22). Essa lascia così aperte diverse
possibilità di risposta. Pertanto:
 riguardo alla “sua ora”, si può rispondere che è già venuta, perché a
Cana di Galilea effettivamente “Gesù manifestò la sua gloria e i suoi
discepoli cominciarono a credere in lui”; e, nello stesso tempo, si deve
riconoscere che non è ancora venuta, perché la “sua ora”, in senso
stretto, è quella della passione (cf Gv 7,6.8.30; 8,20; 12, 23.27; 13,1;
17,1).
 riguardo all’espressione: «Che cosa (c’è) fra me e te?», Vanhoye
sottolinea ancora che, essendo una domanda, non è né un rifiuto né un
rimprovero, ma solo una messa in questione della relazione esistente fra
“me” e “te”, di fronte alla venuta della “mia ora”. In altre parole, le
nozze di Cana inaugurano questo tempo nuovo che si oppone al tempo
ormai superato dei legami familiari; ciò comporta un necessario
cambiamento della relazione con sua madre, che, in effetti, Gesù chiama
ormai: «Donna» e non più madre.
Ma quale cambiamento, esattamente?
Giovanni non lo dice in modo esplicito, ma ce lo suggerisce attraverso il
comportamento stesso di Maria. Ella rinuncia ad esercitare la sua influenza
su Gesù, bensì la esercita al servizio di Gesù, dicendo ai servi: «Qualunque
cosa vi dica, fatela» 12. La madre di Gesù si presenta, così, come la “Donna
Sion”, cioè l’Israele fedele che, teso verso l’intervento salvifico di Dio,
“accoglie le condizioni ancora sconosciute della Nuova e definitiva
Alleanza che Dio stringerà mediante Gesù”13. “Ella non solo acconsente alla
rinuncia imposta, ma dispone gli altri ad una completa docilità”14.
Eppure Cana è solo “l’inizio dei segni”15: perché tutto si compia, anche il
pellegrinaggio di fede di Maria, bisogna attendere la scena del Calvario16,
11
ALBERT VANHOYE, Interrogation johannique et exégèse de Cana (Jn 2,4), in Biblica 55
(1974), pp.157-167.
12
I. de la Potterie ed altri autori pensano che l’espressione sia da accostare a Es 19,8 e
24,3.7, per il contesto di Alleanza. Ad esso alluderebbe anche l’indicazione iniziale “al
terzo giorno” (Es 19,11.16 e Gv 2,1). Vanhoye e Dufour, senza negare questa ipotesi, vi
vedono piuttosto un riferimento esplicito alle parole del Faraone riguardo a Giuseppe (Gn
41,55).
13
Dufour, Op. cit. vol. I, p 321.
14
Cf Vanhoye, Op. cit., pp. 165-166. La traduzione dal francese è nostra.
15
“Archē tōn sēmeiōn” (Gv 2,11). Il Dufour preferisce tradurre “prototipo dei segni”.
16
Gv 19, 25-27. Tutta una serie di richiami letterari collegano Cana al Calvario: 1.Riappare
il termine “ora” nel v. 27: “E da quell’ora…” ; 2. Maria, che è presente solo in questi due
passi, non è mai chiamata per nome: Gesù la chiama “Donna” e l’evangelista “la
madre…” ; 3. In entrambe le scene, è in questione la relazione madre-figlio e Gesù prende
posizione rispetto a sua madre, trasformando definitivamente il ruolo di lei.
4
dove ritroviamo la Madre presso la croce del Figlio insieme al “discepolo
che Gesù amava”. A differenza degli altri discepoli, che, per la loro
mancanza di fede, si erano dispersi ciascuno per conto suo17, essi “stavano
in piedi” 18 con atteggiamento di attesa fedele…
Ciò non toglie che, in quest’ora culminante, il “distacco” dal Figlio diventi
umanamente terribile per la “Mater dolorosa”, il vuoto che sperimenta è
agghiacciante: solo credendo che “nulla è impossibile a Dio”, “sperando
contro ogni speranza” ed amando Gesù “con tutte le sue forze” (cf Lc
1,37; Rm 4,18 e Dt 6,4), ella ha potuto restare presso di Lui totalmente
immersa nell’oscurità del Mistero.
C’era stato un ritorno a Nazaret dopo lo smarrimento di Gesù nel Tempio;
una discesa a Cafarnao insieme con Lui dopo le nozze di Cana (cf Lc 2,51 e
Gv 2,12)… ma, dopo quest’ora cruciale, cosa potrà accadere? È forse
necessario che Gesù muoia in questo modo, che torni definitivamente presso
il Padre suo19, perché sgorghi il vino della nuova Alleanza, preannunziato a
Cana? Maria, nella sua assoluta fedeltà, è ormai pronta ad essere
profondamente lacerata dalla spada della morte che la separerà
definitivamente dal Figlio tanto amato…
Ma ecco che Gesù le rivela qualcosa di inatteso, qualcosa che la trasformerà
nella sua identità e missione e per cui “tutte le generazioni” (Lc 1,48) 20 la
riconosceranno per madre. Gesù, in un unico sguardo, abbraccia “la madre
e, in piedi presso di lei, il discepolo che amava” e dice alla madre: «Donna,
ecco tuo figlio» E al discepolo: «Ecco tua madre»21.
17
Cf Gv 16,32 e Mt 26,31. In realtà, altre tre donne vengono qui menzionate da Giovanni.
Esse, però, nei sinottici “stavano ad osservare da lontano” e, tranne la Maddalena, non
coincidono con quelle di Gv 19,25 (cf Mc 15,40 e paralleli).
18
I due verbi che qui l’evangelista utilizza hanno la stessa radice del verbo “risorgere”.
Questo “stare in piedi” è indice di quella fede di cui parla Isaia 7,9: “Se non crederete, non
avrete stabilità”, perché “il credere è l’esistere per eccellenza” LUIGI SARTORI, La fede di
Abramo, in “Se aveste fede quanto un granello di senape…” in Aa.Vv., Atti della XLII
Sessione di formazione ecumenica, a cura del Segretariato Attività Ecumeniche, Àncora,
Milano 2006, p. 33.
19
Cf Lc 2,49; Gv 1,18: “…che è tornato nel seno del Padre”; Gv 16,5-7.28; 20,17.
20
Non si può negare che già nella chiesa primitiva (almeno quella che si riflette negli scritti
lucani e nel vangelo di Giovanni) la madre di Gesù fosse guardata con profonda
venerazione, non solo, e forse non tanto, per il suo legame con Gesù “secondo la carne”, ma
ancor di più per la sua testimonianza esemplare di fede e di carità. Non si spiegherebbero
altrimenti le molteplici espressioni che esaltano la persona di Maria in Lc 1-2 e, nonostante
l’apparente contrasto, la beatitudine pronunziata nei suoi confronti da una donna del popolo
con la risposta di Gesù in Lc 11,27-28.
21
Molti autori vedono in questi versetti un esempio di applicazione giovannea dello
“schema di rivelazione”, presente nella letteratura profetica, composto da tre elementi: 1. il
profeta vede una persona; 2. dice qualcosa di nuovo che la riguarda; 3. introduce la
rivelazione con la parola: “ecco”. In Gv questo schema è presente in 1,29.35-36.47 e 19,
26-27. Cf ARISTIDE SERRA, La Madre di Gesù, in Opera Giovannea, Logos, corso di studi
biblici 7, Elledici, Leumann (TO) 2003, p 511.
5
È interessante notare come Maria, mai chiamata per nome, viene qui
menzionata sette volte22:
al v.25: è menzionata due volte come “la madre di Lui” (di Gesù).
al v.26: per due volte è definita“la madre”, e viene chiamata da Gesù:
“Donna”.
al v.27: è ormai la madre del Discepolo (cfr.“tua madre” ed il pronome:“la
accolse”).
La parola “performativa”23 di Gesù ha così realizzato perfettamente ciò che
ha detto: nell’ora suprema del distacco, osservando la relazione che già
univa la Madre ed il Discepolo, li ha donati reciprocamente l’uno all’altra
come ultimo testamento del suo amore.
Ma tutto ciò non può ridursi ad un semplice e commovente atto di pietà
filiale: l’enfasi con cui Giovanni sottolinea l’evento indica certamente
qualcosa di più!24. La Madre ed il Discepolo, infatti, oltre ad essere
menzionati a titolo personale, assumono per l’evangelista un forte valore
simbolico25. Come abbiamo già visto nel racconto delle nozze di Cana, il
termine Donna evoca la Donna Sion, cioè l’Israele fedele, che attende da
Dio il compimento delle promesse messianiche. Il Discepolo amato26,
invece, “è al di là dell’attesa: avendo riposato sul petto del
Rivelatore…appare come il testimone veritiero e l’interprete autorizzato
della pienezza ormai ricevuta”27.
Se, dunque, Maria ricapitola in sé il popolo dell’Alleanza da cui lo stesso
Cristo è uscito, la sua spiritualità più autentica, le scritture di cui si è nutrito,
Giovanni rappresenta tutti coloro che hanno creduto e crederanno alla
Parola di Gesù. Il passato d’Israele ed il presente del messaggio evangelico
vengono uniti per sempre in un rapporto di reciproco riconoscimento e
accoglienza nelle persone della Madre e del Discepolo. In tal modo Gesù
istituisce una nuova famiglia, quella dei “suoi”28 e si realizza, come primizia
22
Cf IGNACE DE LA POTTERIE, La passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni, ed
Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, pp. 125-126.
23
Cf Dufour, Op.cit., vol. IV, p. 182. Secondo la linguistica contemporanea una parola
performativa, a differenza di quella informativa, crea ciò che dice: tali sono state le parole
di Gesù, per esempio, nei racconti di miracolo.
24
Inoltre, al versetto successivo, l’evangelista rimarca come Gesù sapesse che “tutto era
ormai compiuto” (Gv 19,28). Il tema del compimento, in Gv, è sempre riferito alla missione
che il Figlio ha ricevuto dal Padre.
25
Giovanni “ama fare dei propri attori i rappresentanti di categorie o di modi di essere,
secondo il loro modo di situarsi di fronte alla rivelazione divina” cf Dufour, Op. cit, vol.
IV, p.179.
26
Per questo personaggio si veda: Gv 13,23-26; 19,25-27; 20,1-10; 21,20-24. Altre tre
probabili menzioni, anche se non esplicite, sono: un “altro discepolo” in 18,15 e il
“testimone” di 19,35.
27
Cf Dufour, Op. cit., vol. IV, p.186.
28
Questa è l’interpretazione di Dufour, Op. cit. vol. IV, pp. 185-19. Riguardo
all’accoglienza della Madre da parte del Discepolo, I. de la Lotterie, La Passione, Op. cit.,
p. 129-133, fa uno studio accurato del v. 19,27 ed arriva a queste conclusioni: 1. il verbo
6
ai piedi della croce, l’unità dei figli di Dio, quella per la quale lo stesso
Cristo è morto29.
Qui nasce embrionalmente la Chiesa di Gesù. Tanto è vero che, a differenza
dei sinottici, per Giovanni è proprio l’ora della morte quella in cui il
Glorificato effonde lo Spirito, simboleggiato dall’acqua scaturita dal costato
di Cristo30.
Alla luce di tutto ciò ora ci chiediamo: che cos’è finalmente la fede di
Maria? Quale la sua grandezza? Quale la sua importanza nel disegno di
Dio? In che senso giunge a compimento in lei quel pellegrinaggio di fede
cominciato da Abramo? Che cosa scaturisce da ciò?
Luigi Sartori definisce così il Fiat di Maria: “è un lasciar spazio nella
propria esistenza a Dio che fa; non creare spazi esteriori perché Dio
agisca… ma fare spazio nella coscienza di sé, nella propria interiorità. La
fede è un creare spazio, dare spazio alla libertà di Dio”31. Ora, se questo vale
già al momento dell’Annunciazione, si verifica certamente in pienezza sotto
lambànô, particolarmente significativo nella teologia giovannea, se riferito ad una persona
va tradotto col verbo accogliere. 2. in questa accezione lambànô si riferisce sempre alla
persona di Gesù, alla sua parola, alla sua testimonianza; l’unica eccezione è quella di 19,27,
riferita a sua madre 3. lambànô indica, quindi, un’accoglienza nell’ordine della fede e dei
beni spirituali. 4. di conseguenza eis tà ídia, non indica soltanto e semplicemente: “nella
sua casa”, ma ancor di più:“nella sua intimità”. Infine cita anche un’intuizione di
Ambrogio, riassunta dal card. Toledo: “Accepit eam discipulus in sua, id est inter spiritualia
bona”.
29
Cf Gv 11,51-52. L’unità del popolo messianico, che si attua dopo la dispersione, è
simboleggiata anche dalla scena immediatamente precedente, nell’episodio della tunica
senza cuciture: Gv 19,23-24 (cf I. de la Potterie, La Passione…, Op. cit., pp. 109-116) e nel
simbolismo aritmetico del libro dell’Apocalisse, che, moltiplicando 12 x 12 x 1000 =
144.000, vuole indicare l’unico popolo di Dio composto, in una perfetta sintesi, dalle 12
tribù d’Israele e dai 12 apostoli dell’Agnello, divenuti ormai una moltitudine immensa (cf
Ap 7,4-9; 14,1-5 e la descrizione della Gerusalemme messianica in Ap 21,9-21). Per
approfondire questo aspetto si veda UGO VANNI, L’Apocalisse – ermeneutica, esegesi e
teologia, EDB Bologna 1988, pp. 31-61.
30
Nella visione giovannea la glorificazione di Gesù avviene già nell’ora della Croce,
quando viene “innalzato il Figlio dell’uomo”, perché è sulla croce che avviene la
manifestazione suprema del suo amore (cf 3,14-15; 12,28-33 e 13,1). Di conseguenza in
quest’ora viene anche effuso lo Spirito. Nei versetti 19,28-34 sono presenti diverse allusioni
al dono dello Spirito. La “sete” di Gesù, fraintesa dai soldati secondo il tipico stile
giovanneo, in realtà è un desiderio ardente di effondere il suo Spirito (cf 4,13-14; 7,37-39 e
16,7); l’espressione utilizzata per indicare la morte di Gesù è assolutamente originale:
“consegnare lo Spirito”; infine, l’effusione di acqua, dopo quella del sangue dal cuore di
Cristo, simboleggia la comunicazione dello Spirito non come dono separato da Gesù, ma
come Spirito di Gesù, come Lui stesso che rimane presente nel suo Spirito donato ai
credenti (cf I. de la Potterie, Op. cit., 134-157). Giovanni, inoltre, conosce un'altra effusione
dello Spirito ai discepoli riuniti nel Cenacolo dopo la risurrezione (cf 20,19-23).
31
Sartori, Op., cit., p. 29. C’è un precedente della fede di Maria nella rivelazione biblica: il
patriarca Abramo. Per Luigi Sartori essi sono come “uno specchio reciproco, per cui
Abramo si capisce anche in Maria, ma Maria anzitutto si capisce in Abramo”, Op. cit. p. 23.
7
la croce, quando lo “spazio interiore” che Maria può donare all’Onnipotente
è l’immenso vuoto lasciato in Lei dalla perdita umana del suo Figlio Gesù!
E come lo Spirito Santo aveva plasmato32 la Vergine per prepararla alla
maternità del Figlio di Dio ed ha operato l’incarnazione del Verbo, così lo
stesso Spirito creatore può ora agire liberamente in Lei grazie a quel Fiat
che, a compimento di un cammino di fede sostenuto dalla Grazia33, la unisce
indissolubilmente alla obbedienza di Gesù crocifisso.
Forse Maria non se n’è resa subito conto, ma Colui che è “nato da donna”
(Gal 4,4), “da quell’ora” fa rinascere la “Donna” ad una maternità nuova.
Rivelazione, questa, ben compresa dal Discepolo che Gesù amava: egli,
infatti, “accoglierà Maria come una madre che favorisca in lui ed in tutti i
suoi condiscepoli – nella sua chiesa – la formazione ulteriore, la crescita di
Cristo”34. In tal modo Maria diviene “la matrice nella quale nasce e cresce,
si forma e si sviluppa ogni membro del nuovo Israele… è l’Israele credente
in cui gli uomini divengono e sono figli di Dio” 35.
Per fondare una missione così importante ci si aspetterebbe un’apparizione
privilegiata del Risorto alla madre di Gesù. Pietro, i Dodici, Giacomo,
fratello del Signore, S. Paolo, la Maddalena e l’altra Maria, i discepoli di
Emmaus, di cui uno rimane a noi sconosciuto… tutti hanno avuto la loro
personale apparizione (cf 1 Cor 15,5-8; Mt 28,1.9-10; Lc 24,13-35 e Gv
20,11-18). Di Maria, invece, nel NT non si dice nulla: come mai?
“Perché non c’era bisogno” direbbe don Tonino Bello36. Per tutti gli altri,
infatti, le apparizioni erano necessarie: bisognava rifondare la fede dopo lo
scandalo della croce; capire come tutto rientrasse nel disegno di salvezza di
Dio per il suo popolo, come il Signore avesse vinto la morte e gli inferi… Il
periodo delle apparizioni nei vangeli è indispensabile perché i discepoli,
come S. Tommaso, non si perdano nell’incredulità, ma diventino credenti,
“Nessuna meraviglia quindi se presso i santi Padri invalse l’uso di chiamare la Madre di
Dio la Tutta santa e immune da ogni macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo
e resa nuova creatura” LG 56.
33
Il fatto che kecharitōménē di Lc 1,28 sia un participio perfetto (e non un participio
aoristo), sta ad indicare che l’azione della grazia in Maria non è solo un avvenimento
passato, circoscritto, ma, continuando nel presente, si prolunga nel futuro. Tanto più se si
interpreta kecharitōménē come il “nome nuovo” dato alla Vergine.
34
Vanni, Op. cit., p 341, che aggiunge: “Come altre ricorrenze di Giovanni ci mostrano
chiaramente (1,11; 13,1; 16,32), l’espressione eis tà ídia, può significare il proprio
ambiente umano, la propria gente… Al tempo in cui venne redatto il quarto Vangelo
esisteva un ambiente umano tipico di Giovanni e della scuola giovannea. È in questo
ambiente, in questa chiesa, che il discepolo accoglie Maria. Con ciò viene ancora di più
evidenziata la dimensione ecclesiale e concreta della sua maternità.
35
Dufour, Op. cit., vol. I, p. 332. Per questo si possono applicare anche a Maria,
nell’esercizio della sua maternità spirituale verso i fedeli, le parole che S. Paolo rivolge ai
Galati: “figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in
voi” (Gal 4,19).
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ANTONIO BELLO, Maria – donna dei nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1993, p. 96.
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8
perché lo stesso Simon Pietro possa ravvedersi e confermare i suoi fratelli
(cf Gv 20,27 e Lc 22,32). Essi devono poter verificare che il Vivente, risorto
dai morti, è lo stesso Gesù che avevano conosciuto negli anni della sua vita
terrena37: solo così potranno diventare suoi testimoni, partendo da
Gerusalemme “fino agli estremi confini della terra” (At 1,3-8).
A differenza di tutti loro, però, Maria già nell’ora della croce riceve da
Gesù, in modo definitivo e senza bisogno di ulteriori conferme, la missione
che dovrà svolgere verso i discepoli del Signore nel tempo che li separa dal
Suo ritorno. Ciò vuol dire che la sua fede è già fondata perfettamente sulla
roccia della Parola di Dio, è già uno “stare in piedi” pronta a compiere la
volontà del Padre, è già un’attesa fiduciosa che, al di là di ogni evidenza,
“Dio, mio salvatore” compirà le sue promesse nei confronti di “Israele, suo
servo”, nei confronti di Gesù, “discendenza di Abramo”(cf Mt 7,24-25; Lc
1,47.54-55 e Gal 3,16).
Ciò non toglie che “Maria, donna del terzo giorno”38, abbia certamente
sperimentato la presenza del Figlio risorto dopo la morte. La stessa allusione
al “terzo giorno” quando Maria ritrova nel Tempio il Figlio smarrito e
quando Gesù fa sgorgare il vino nuovo alla presenza della madre, per don
Tonino Bello è un chiaro indizio di ciò. Tuttavia, il suo “incontro del
Vivente”39 resta nel segreto di una relazione unica fra Madre e Figlio, che
noi possiamo soltanto intravedere all’interno delle modalità attraverso cui
Gesù Risorto si manifesta ai suoi40.
Sta di fatto che ritroviamo “Maria, la Madre di Gesù” a Gerusalemme nel
Cenacolo insieme con gli apostoli, alcune donne ed i fratelli di Gesù:
“tutti…assidui e concordi nella preghiera” in attesa dello Spirito promesso
(cf At 1,12.14). Quindi, Maria è divenuta subito una presenza molto
significativa dentro del gruppo dei discepoli, all’interno di un contesto di
preghiera, concordia ed attesa, che sono i tratti caratterizzanti della sua
spiritualità da anawim. Come negare che la sua presenza “materna” abbia
esercitato un prezioso influsso per preparare i cuori all’accoglienza dello
Spirito?
Ma questa missione materna verso i discepoli del Signore per quanto tempo
si estende? Il NT non ci dà altri riferimenti espliciti su Maria. Possiamo,
però, trovare un indizio indiretto nel vangelo di Giovanni. Secondo la parola
e la volontà di Gesù in 21,22 il “discepolo che Gesù amava” è destinato a
“rimanere” fino al suo ritorno. Ovviamente, Gesù non voleva dire che egli
37
Il riconoscimento della medesima identità fra il Gesù crocifisso ed il Cristo risorto è ben
rimarcato dal fatto che, apparendo ai dodici, Gesù mostra le sue piaghe (cf Lc 24,39-40 e
Gv 20,20.25-27).
38
L’espressione è di don Tonino Bello, Op. cit. pp. 96-99.
39
Così il Dufour, Op. cit., vol IV, p.337, preferisce chiamare le apparizioni “per essere
fedeli al linguaggio giovanneo”.
40
Rimanendo nel Vangelo di Giovanni si veda per esempio: 14,19-20.23.26-27; 15,5.9.11;
16,16.21-23; 17,22-26.
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non sarebbe morto, bensì che la Rivelazione di cui il Discepolo è il
testimone si sarebbe mantenuta sino alla fine dei tempi. Ora, come abbiamo
visto in 19,27, Maria, con tutto ciò che lei significa e rappresenta, è stata
definitivamente accolta nella vita del Discepolo e della sua comunità; di
conseguenza, anche lei è destinata a “rimanere” nella grande Chiesa
cristiana41.
***
A questo punto sorge spontanea una domanda: se certamente la Madre di
Gesù avrà continuato ad esercitare per tutta la sua vita la maternità spirituale
verso i discepoli del Signore, “finito il corso della sua vita terrena” 42, che
cosa ne è stato di Lei? Dal NT non possiamo più ricavare nulla. A livello
ecumenico, si manifestano distanze di interpretazione fra i cristiani, a
seconda di come si interpreti la formulazione del credo riguardo la
“comunione dei santi” all’interno dell’unico corpo di Cristo.
Da cattolico io credo e, permettetemi di dirlo, sperimento che la sua
presenza materna è continua all’interno della relazione che mi unisce a Gesù
Risorto. La parola del crocifisso: “Ecco tuo figlio…ecco tua madre” mi
riempie di gioia e consolazione e trovo in questa dolcissima madre, nella sua
spiritualità ed umanità, una fonte inesauribile di ispirazione ed
incoraggiamento nel mio cammino di fede.
Secondo me, inoltre, sarebbe impensabile l’enorme sviluppo della
devozione mariana in questi 2000 anni di cristianesimo (nonostante le
umane deviazioni e superstizioni, le aberrazioni teologiche…), se Maria non
fosse stata percepita come una presenza viva e solidale soprattutto dai
poveri, i discendenti degli anawim, di cui Lei rimarrà per sempre
l’espressione più bella.
A lei si sono rivolte generazioni di credenti per cercare un sostegno nel
cammino della vita. In particolare “nell’ora della nostra morte” viene
invocata la sua presenza materna. Lei, infatti, come mater fiduciosa, può
insegnarci a vivere con fede la morte nostra o dei nostri cari come un
distacco certamente doloroso, ma necessario, affinché possiamo ritrovarci
tutti in Dio nella nuova modalità di relazione che il Risorto ha inaugurato43.
I rapporti fra la chiesa giovannea e le altre chiese (paolina, petrina, giudeocristiana…)
sono piuttosto complessi da definire. A noi basta osservare che, una volta avvenuta a
cavallo del I secolo la riunificazione della chiesa giovannea con la grande Chiesa (Gv 21,
appunto, ne è una traccia evidente), tutta l’eredità del “discepolo che Gesù amava” è
diventata patrimonio comune della cristianità.
42
L’espressione è della LG 59. Con tale formulazione, appositamente vaga, si è voluto
lasciare aperto il dibattito teologico circa l’eventuale morte di Maria prima della sua
assunzione al cielo.
43
Si può immaginare che, mentre “perdeva” suo Figlio nella morte, Maria si sia ricordata
delle parole di Gesù: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà
perduta la salverà” (Lc 17,33). L’accettazione di perdere Gesù, di rinunziare a Lui,
accogliendo quella morte che le strappava la Vita dagli occhi, diventa per Maria la
condizione che le permetterà di ricevere Gesù da Dio, nella sua nuova vita di Risorto: “se il
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chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto
frutto” (Gv 12,24).
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