Stabat mater fiduciosa Daniele Fortuna Ho volutamente parafrasato le parole iniziali del famoso canto mariano, non per sminuire la drammaticità dell’ora che la madre di Gesù ha vissuto ai piedi della croce, ma per sottolineare come proprio quel momento diventi per lei il compimento di un cammino di fede che ha radici molto lontane… Innanzitutto non va dimenticato che Maria è figlia del suo popolo: la sua fede è quella di Israele, trasmessa “di generazione in generazione” e da lei ricevuta sin dall’infanzia; le sue preghiere sono quelle dei salmi e della pietà ebraica; lo stesso Magnificat (Lc 1,46-55) è un compendio di citazioni del Primo Testamento, in una sintesi contemplativa che tutto abbraccia sotto le ali della misericordia divina… Ancor prima di diventare madre, lei è già la figlia di Sion (cf Sof 3,14-15; Zc 2,14 e 9,9), perché appartiene al resto d’Israele1, agli anawim, i poveri del Signore che attendevano solo da Lui la salvezza. Possiamo dire che di questo popolo Maria è il frutto più bello, l’espressione più autentica, la fede più limpida, tutto ciò che il Dio dell’Alleanza aveva atteso dal cuore d’Israele… lungo le generazioni. Così la presenta Luca nel racconto dell’annunciazione, come dipingendone la bellezza della grazia2. Ed anche Elisabetta riconoscerà in lei la “benedetta fra le donne”, a motivo della sua fede: “…beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,39-45). “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12). 2 Il saluto dell’angelo di Lc1,28, spesso infelicemente tradotto, è composto da tre parti. 1. chaìre: è il saluto del tempo messianico, preannunciato dai profeti. Si potrebbe tradurre con le parole di Sofonia: “Gioisci, esulta, rallegrati con tutto il cuore…”. 2. kecharitōménē: in realtà è un nome nuovo dato alla vergine, come è scritto nel profeta Isaia: “ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà” (Is 62,2). Questo nome è un participio perfetto passivo del verbo causativo charitòō (nel NT solo qui ed in Ef 1,6): esso indica un’azione efficace della Grazia di Dio che ha agito in Maria a partire da un tempo passato e perdura nel presente senza soluzione di continuità, insieme a tutto ciò che tale azione ha prodotto. Questa accezione di cháris come grazia efficace va distinta da quella successiva di Lc 1,30, che indica piuttosto il favore divino. Anzi, proprio perché la Grazia ha fatto di Maria la kecharitōménē, lei ora ha “trovato grazia presso Dio”. 3. Il Signore è con te: questa parola non è solo un incoraggiamento, ma, come per i profeti ed i servi di Dio nel Primo Testamento, è anche indice di una missione che le viene affidata. A tale missione, rivelata successivamente dall’angelo, Maria acconsentirà, presentandosi appunto in Lc 1,38 come “la serva del Signore”. Cf RENÉ LAURENTIN, I Vangeli dell’infanzia – La verità del Natale al di là dei miti, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1986, pp. 36-37 e 77-78. Uno studio magistrale di I. de la Potterie sul termine kecharitōménē dal punto di vista filologico, esegetico e teologico si può trovare in Biblica 68 (1987) alle pagine 357382 e 480-508. 1 1 Luca, inoltre, in occasione della visita dei pastori, ci descrive un tratto caratteristico della fede di questa giovane donna: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Qui l’evangelista usa il verbo syntērein: “un custodire raccolto, confermato dal [participio successivo] symballousa: ‛meditava’, letteralmente ‘metteva assieme, collegava, confrontava’ tutte queste cose nel suo cuore, per cercare di comprendere meglio il senso delle parole e degli eventi”3. Quella di Maria è, dunque, una fede attiva, una fede che interroga e cerca di capire: che sia l’angelo Gabriele a parlarle, un oracolo dei profeti proclamato in sinagoga, o un evento della vita che la coinvolge, Maria è sempre pronta ad ascoltare, interiorizzare, riflettere… per discernere il dispiegarsi del Mistero di Dio nella storia degli uomini e nella sua personale vocazione. Ma anche la fede di Maria deve passare attraverso la prova. È sempre Luca a rivelarcelo nel racconto dello smarrimento di Gesù nel Tempio, che si presenta come una prefigurazione della morte e risurrezione del suo Figlio4. L’angoscia mortale provata in quell’occasione e l’incapacità di comprendere le parole di Gesù portano un sensibile cambiamento nella meditazione interiore di Maria. Il suo “custodire nel cuore”, infatti, non è più vissuto nella comunione armoniosa, nella luminosità della gioia, bensì nella dispersione, nella distanza, nell’inquietudine5… E così, se da un lato Maria continuava a custodire tutte queste cose, dall’altro “nell’incomprensione con il Figlio si apriva progressivamente alla comprensione del mistero e della missione di Gesù”6. Non c’è ancora una distanza fisica da Gesù adolescente. Egli, al contrario, “Partì dunque con loro e tornò a Nàzaret e stava loro sottomesso” (Lc 2,51). Eppure Maria, sin da questo momento, percepisce e custodisce nel cuore la sensazione del distacco dal figlio, percezione dolorosa come una trafittura di spada e destinata ad aumentare progressivamente, man mano che “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,35.52). Questo distacco di Gesù dalla madre diventa ancor più netto durante la sua vita pubblica, come ci attesta la comune tradizione sinottica: Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano Cf GIOVANNI CERETI, “Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,51) in Aa.Vv., Atti della XLII Sessione di formazione ecumenica, a cura del Segretariato Attività Ecumeniche, Àncora, Milano 2006, pp.206-207. 4 Cf Lc 2,41-50. Una lectio magistrale di questo passo è stata fatta da CARLO MARIA MARTINI, Essere nelle cose del Padre, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991. 5 Questo si deduce dal cambiamento dei prefissi nel verbo “custodire”. Infatti: mentre in 2,19 troviamo syn-tērein, il verbo del v. 2,51 è dia-tērein, come fa notare acutamente Cereti, Op. cit., p. 207. 6 Cereti, Op. cit. p. 207. 3 2 seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3,31-35 e p.). Un altro episodio, riportato solo da Luca, è sullo stesso tono: Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,2728). Per quanto noi possiamo vedere proprio in Maria colei che più di tutti ha vissuto la beatitudine dell’ascolto obbediente, colei che ha perfettamente compiuto la volontà di Dio, tuttavia non possiamo nascondere che questo linguaggio è duro. Gesù ha oggettivamente preso le distanze non solo dal suo contesto familiare più ampio (Cf Mc 3, 20-21; Mc 6,1-6 e Gv 7,2-10), ma persino da sua madre. Atteggiamento certamente difficile da comprendere ed accettare… E Maria… come avrà reagito? Che cosa avrà significato tutto ciò nel suo cammino di fede? Di fronte al silenzio dei sinottici su tale punto, c’è una pagina molto eloquente consegnataci dal vangelo di Giovanni: le nozze di Cana (Gv 2,112). Questo “racconto simbolico”7 accade “al terzo giorno”, a compimento della settimana inaugurale del ministero pubblico di Gesù8, e manifesta che il tempo delle nozze escatologiche è ormai giunto9. In questa festa nuziale la madre di Gesù è già presente, mentre Gesù viene invitato successivamente con i suoi discepoli. E, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice: «Non hanno più vino». Fin qui nulla di particolare. Né bisogna immaginare che Maria si aspettasse già un miracolo da Gesù; più semplicemente ella segnala al Figlio una carenza che potrebbe generare grave disagio, e lo invita ad intervenire confidando nella sua bontà10. Quella che, invece, appare alquanto strana è la risposta data da Gesù alla madre: «Che cosa (c’è) tra me e te? Donna, non è forse ancora arrivata la Così lo definisce il Dufour, che ne fa un’ampia trattazione: XAVIER LÉON DUFOUR, Lettura del Vangelo secondo Giovanni, ed Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990-1998, vol. I, pp. 282-334. L’aggettivo “simbolico” non sta in opposizione a “storico”: semplicemente indica una chiave di lettura del racconto giovanneo che, superando il dato biografico, permette di coglierne più profondamente il messaggio. L’evangelista, infatti, parte sempre da un dato biografico per cogliere in esso la portata simbolica e rivelativa del mistero del Verbo incarnato. Così, quelli che nei sinottici sono chiamati “miracoli”, Giovanni li chiama “segni” e li fa seguire da discorsi esplicativi (cf 6,2-14.26-59; 20,30-31); ma anche precisi particolari biografici, come la trafittura del costato, con la fuoriuscita di sangue ed acqua, possono acquistare una valenza rivelativa di primaria importanza (cf 19,33-37). 8 Iniziando da Gv 1,19 si noti la sequenza dei giorni in 1,29.35.43 e 2,1. 9 Sempre il Dufour (Op. cit., vol. I, p. 326) fa notare come in Gv questa azione simbolica di Gesù prenda il posto della proclamazione sinottica: “Il regno di Dio è presente” (Mc 1,15). 10 Cf Dufour, Op. cit., vol. I, p. 285. 7 3 mia ora?». Secondo A. Vanhoye11, qui ci troviamo di fronte a due tipiche interrogazioni giovannee. Per l’evangelista, infatti, l’interrogazione gioca un ruolo importante nel progresso della rivelazione, proprio rimanendo una domanda (cf anche Gv 7,35 e 8,22). Essa lascia così aperte diverse possibilità di risposta. Pertanto: riguardo alla “sua ora”, si può rispondere che è già venuta, perché a Cana di Galilea effettivamente “Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui”; e, nello stesso tempo, si deve riconoscere che non è ancora venuta, perché la “sua ora”, in senso stretto, è quella della passione (cf Gv 7,6.8.30; 8,20; 12, 23.27; 13,1; 17,1). riguardo all’espressione: «Che cosa (c’è) fra me e te?», Vanhoye sottolinea ancora che, essendo una domanda, non è né un rifiuto né un rimprovero, ma solo una messa in questione della relazione esistente fra “me” e “te”, di fronte alla venuta della “mia ora”. In altre parole, le nozze di Cana inaugurano questo tempo nuovo che si oppone al tempo ormai superato dei legami familiari; ciò comporta un necessario cambiamento della relazione con sua madre, che, in effetti, Gesù chiama ormai: «Donna» e non più madre. Ma quale cambiamento, esattamente? Giovanni non lo dice in modo esplicito, ma ce lo suggerisce attraverso il comportamento stesso di Maria. Ella rinuncia ad esercitare la sua influenza su Gesù, bensì la esercita al servizio di Gesù, dicendo ai servi: «Qualunque cosa vi dica, fatela» 12. La madre di Gesù si presenta, così, come la “Donna Sion”, cioè l’Israele fedele che, teso verso l’intervento salvifico di Dio, “accoglie le condizioni ancora sconosciute della Nuova e definitiva Alleanza che Dio stringerà mediante Gesù”13. “Ella non solo acconsente alla rinuncia imposta, ma dispone gli altri ad una completa docilità”14. Eppure Cana è solo “l’inizio dei segni”15: perché tutto si compia, anche il pellegrinaggio di fede di Maria, bisogna attendere la scena del Calvario16, 11 ALBERT VANHOYE, Interrogation johannique et exégèse de Cana (Jn 2,4), in Biblica 55 (1974), pp.157-167. 12 I. de la Potterie ed altri autori pensano che l’espressione sia da accostare a Es 19,8 e 24,3.7, per il contesto di Alleanza. Ad esso alluderebbe anche l’indicazione iniziale “al terzo giorno” (Es 19,11.16 e Gv 2,1). Vanhoye e Dufour, senza negare questa ipotesi, vi vedono piuttosto un riferimento esplicito alle parole del Faraone riguardo a Giuseppe (Gn 41,55). 13 Dufour, Op. cit. vol. I, p 321. 14 Cf Vanhoye, Op. cit., pp. 165-166. La traduzione dal francese è nostra. 15 “Archē tōn sēmeiōn” (Gv 2,11). Il Dufour preferisce tradurre “prototipo dei segni”. 16 Gv 19, 25-27. Tutta una serie di richiami letterari collegano Cana al Calvario: 1.Riappare il termine “ora” nel v. 27: “E da quell’ora…” ; 2. Maria, che è presente solo in questi due passi, non è mai chiamata per nome: Gesù la chiama “Donna” e l’evangelista “la madre…” ; 3. In entrambe le scene, è in questione la relazione madre-figlio e Gesù prende posizione rispetto a sua madre, trasformando definitivamente il ruolo di lei. 4 dove ritroviamo la Madre presso la croce del Figlio insieme al “discepolo che Gesù amava”. A differenza degli altri discepoli, che, per la loro mancanza di fede, si erano dispersi ciascuno per conto suo17, essi “stavano in piedi” 18 con atteggiamento di attesa fedele… Ciò non toglie che, in quest’ora culminante, il “distacco” dal Figlio diventi umanamente terribile per la “Mater dolorosa”, il vuoto che sperimenta è agghiacciante: solo credendo che “nulla è impossibile a Dio”, “sperando contro ogni speranza” ed amando Gesù “con tutte le sue forze” (cf Lc 1,37; Rm 4,18 e Dt 6,4), ella ha potuto restare presso di Lui totalmente immersa nell’oscurità del Mistero. C’era stato un ritorno a Nazaret dopo lo smarrimento di Gesù nel Tempio; una discesa a Cafarnao insieme con Lui dopo le nozze di Cana (cf Lc 2,51 e Gv 2,12)… ma, dopo quest’ora cruciale, cosa potrà accadere? È forse necessario che Gesù muoia in questo modo, che torni definitivamente presso il Padre suo19, perché sgorghi il vino della nuova Alleanza, preannunziato a Cana? Maria, nella sua assoluta fedeltà, è ormai pronta ad essere profondamente lacerata dalla spada della morte che la separerà definitivamente dal Figlio tanto amato… Ma ecco che Gesù le rivela qualcosa di inatteso, qualcosa che la trasformerà nella sua identità e missione e per cui “tutte le generazioni” (Lc 1,48) 20 la riconosceranno per madre. Gesù, in un unico sguardo, abbraccia “la madre e, in piedi presso di lei, il discepolo che amava” e dice alla madre: «Donna, ecco tuo figlio» E al discepolo: «Ecco tua madre»21. 17 Cf Gv 16,32 e Mt 26,31. In realtà, altre tre donne vengono qui menzionate da Giovanni. Esse, però, nei sinottici “stavano ad osservare da lontano” e, tranne la Maddalena, non coincidono con quelle di Gv 19,25 (cf Mc 15,40 e paralleli). 18 I due verbi che qui l’evangelista utilizza hanno la stessa radice del verbo “risorgere”. Questo “stare in piedi” è indice di quella fede di cui parla Isaia 7,9: “Se non crederete, non avrete stabilità”, perché “il credere è l’esistere per eccellenza” LUIGI SARTORI, La fede di Abramo, in “Se aveste fede quanto un granello di senape…” in Aa.Vv., Atti della XLII Sessione di formazione ecumenica, a cura del Segretariato Attività Ecumeniche, Àncora, Milano 2006, p. 33. 19 Cf Lc 2,49; Gv 1,18: “…che è tornato nel seno del Padre”; Gv 16,5-7.28; 20,17. 20 Non si può negare che già nella chiesa primitiva (almeno quella che si riflette negli scritti lucani e nel vangelo di Giovanni) la madre di Gesù fosse guardata con profonda venerazione, non solo, e forse non tanto, per il suo legame con Gesù “secondo la carne”, ma ancor di più per la sua testimonianza esemplare di fede e di carità. Non si spiegherebbero altrimenti le molteplici espressioni che esaltano la persona di Maria in Lc 1-2 e, nonostante l’apparente contrasto, la beatitudine pronunziata nei suoi confronti da una donna del popolo con la risposta di Gesù in Lc 11,27-28. 21 Molti autori vedono in questi versetti un esempio di applicazione giovannea dello “schema di rivelazione”, presente nella letteratura profetica, composto da tre elementi: 1. il profeta vede una persona; 2. dice qualcosa di nuovo che la riguarda; 3. introduce la rivelazione con la parola: “ecco”. In Gv questo schema è presente in 1,29.35-36.47 e 19, 26-27. Cf ARISTIDE SERRA, La Madre di Gesù, in Opera Giovannea, Logos, corso di studi biblici 7, Elledici, Leumann (TO) 2003, p 511. 5 È interessante notare come Maria, mai chiamata per nome, viene qui menzionata sette volte22: al v.25: è menzionata due volte come “la madre di Lui” (di Gesù). al v.26: per due volte è definita“la madre”, e viene chiamata da Gesù: “Donna”. al v.27: è ormai la madre del Discepolo (cfr.“tua madre” ed il pronome:“la accolse”). La parola “performativa”23 di Gesù ha così realizzato perfettamente ciò che ha detto: nell’ora suprema del distacco, osservando la relazione che già univa la Madre ed il Discepolo, li ha donati reciprocamente l’uno all’altra come ultimo testamento del suo amore. Ma tutto ciò non può ridursi ad un semplice e commovente atto di pietà filiale: l’enfasi con cui Giovanni sottolinea l’evento indica certamente qualcosa di più!24. La Madre ed il Discepolo, infatti, oltre ad essere menzionati a titolo personale, assumono per l’evangelista un forte valore simbolico25. Come abbiamo già visto nel racconto delle nozze di Cana, il termine Donna evoca la Donna Sion, cioè l’Israele fedele, che attende da Dio il compimento delle promesse messianiche. Il Discepolo amato26, invece, “è al di là dell’attesa: avendo riposato sul petto del Rivelatore…appare come il testimone veritiero e l’interprete autorizzato della pienezza ormai ricevuta”27. Se, dunque, Maria ricapitola in sé il popolo dell’Alleanza da cui lo stesso Cristo è uscito, la sua spiritualità più autentica, le scritture di cui si è nutrito, Giovanni rappresenta tutti coloro che hanno creduto e crederanno alla Parola di Gesù. Il passato d’Israele ed il presente del messaggio evangelico vengono uniti per sempre in un rapporto di reciproco riconoscimento e accoglienza nelle persone della Madre e del Discepolo. In tal modo Gesù istituisce una nuova famiglia, quella dei “suoi”28 e si realizza, come primizia 22 Cf IGNACE DE LA POTTERIE, La passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni, ed Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, pp. 125-126. 23 Cf Dufour, Op.cit., vol. IV, p. 182. Secondo la linguistica contemporanea una parola performativa, a differenza di quella informativa, crea ciò che dice: tali sono state le parole di Gesù, per esempio, nei racconti di miracolo. 24 Inoltre, al versetto successivo, l’evangelista rimarca come Gesù sapesse che “tutto era ormai compiuto” (Gv 19,28). Il tema del compimento, in Gv, è sempre riferito alla missione che il Figlio ha ricevuto dal Padre. 25 Giovanni “ama fare dei propri attori i rappresentanti di categorie o di modi di essere, secondo il loro modo di situarsi di fronte alla rivelazione divina” cf Dufour, Op. cit, vol. IV, p.179. 26 Per questo personaggio si veda: Gv 13,23-26; 19,25-27; 20,1-10; 21,20-24. Altre tre probabili menzioni, anche se non esplicite, sono: un “altro discepolo” in 18,15 e il “testimone” di 19,35. 27 Cf Dufour, Op. cit., vol. IV, p.186. 28 Questa è l’interpretazione di Dufour, Op. cit. vol. IV, pp. 185-19. Riguardo all’accoglienza della Madre da parte del Discepolo, I. de la Lotterie, La Passione, Op. cit., p. 129-133, fa uno studio accurato del v. 19,27 ed arriva a queste conclusioni: 1. il verbo 6 ai piedi della croce, l’unità dei figli di Dio, quella per la quale lo stesso Cristo è morto29. Qui nasce embrionalmente la Chiesa di Gesù. Tanto è vero che, a differenza dei sinottici, per Giovanni è proprio l’ora della morte quella in cui il Glorificato effonde lo Spirito, simboleggiato dall’acqua scaturita dal costato di Cristo30. Alla luce di tutto ciò ora ci chiediamo: che cos’è finalmente la fede di Maria? Quale la sua grandezza? Quale la sua importanza nel disegno di Dio? In che senso giunge a compimento in lei quel pellegrinaggio di fede cominciato da Abramo? Che cosa scaturisce da ciò? Luigi Sartori definisce così il Fiat di Maria: “è un lasciar spazio nella propria esistenza a Dio che fa; non creare spazi esteriori perché Dio agisca… ma fare spazio nella coscienza di sé, nella propria interiorità. La fede è un creare spazio, dare spazio alla libertà di Dio”31. Ora, se questo vale già al momento dell’Annunciazione, si verifica certamente in pienezza sotto lambànô, particolarmente significativo nella teologia giovannea, se riferito ad una persona va tradotto col verbo accogliere. 2. in questa accezione lambànô si riferisce sempre alla persona di Gesù, alla sua parola, alla sua testimonianza; l’unica eccezione è quella di 19,27, riferita a sua madre 3. lambànô indica, quindi, un’accoglienza nell’ordine della fede e dei beni spirituali. 4. di conseguenza eis tà ídia, non indica soltanto e semplicemente: “nella sua casa”, ma ancor di più:“nella sua intimità”. Infine cita anche un’intuizione di Ambrogio, riassunta dal card. Toledo: “Accepit eam discipulus in sua, id est inter spiritualia bona”. 29 Cf Gv 11,51-52. L’unità del popolo messianico, che si attua dopo la dispersione, è simboleggiata anche dalla scena immediatamente precedente, nell’episodio della tunica senza cuciture: Gv 19,23-24 (cf I. de la Potterie, La Passione…, Op. cit., pp. 109-116) e nel simbolismo aritmetico del libro dell’Apocalisse, che, moltiplicando 12 x 12 x 1000 = 144.000, vuole indicare l’unico popolo di Dio composto, in una perfetta sintesi, dalle 12 tribù d’Israele e dai 12 apostoli dell’Agnello, divenuti ormai una moltitudine immensa (cf Ap 7,4-9; 14,1-5 e la descrizione della Gerusalemme messianica in Ap 21,9-21). Per approfondire questo aspetto si veda UGO VANNI, L’Apocalisse – ermeneutica, esegesi e teologia, EDB Bologna 1988, pp. 31-61. 30 Nella visione giovannea la glorificazione di Gesù avviene già nell’ora della Croce, quando viene “innalzato il Figlio dell’uomo”, perché è sulla croce che avviene la manifestazione suprema del suo amore (cf 3,14-15; 12,28-33 e 13,1). Di conseguenza in quest’ora viene anche effuso lo Spirito. Nei versetti 19,28-34 sono presenti diverse allusioni al dono dello Spirito. La “sete” di Gesù, fraintesa dai soldati secondo il tipico stile giovanneo, in realtà è un desiderio ardente di effondere il suo Spirito (cf 4,13-14; 7,37-39 e 16,7); l’espressione utilizzata per indicare la morte di Gesù è assolutamente originale: “consegnare lo Spirito”; infine, l’effusione di acqua, dopo quella del sangue dal cuore di Cristo, simboleggia la comunicazione dello Spirito non come dono separato da Gesù, ma come Spirito di Gesù, come Lui stesso che rimane presente nel suo Spirito donato ai credenti (cf I. de la Potterie, Op. cit., 134-157). Giovanni, inoltre, conosce un'altra effusione dello Spirito ai discepoli riuniti nel Cenacolo dopo la risurrezione (cf 20,19-23). 31 Sartori, Op., cit., p. 29. C’è un precedente della fede di Maria nella rivelazione biblica: il patriarca Abramo. Per Luigi Sartori essi sono come “uno specchio reciproco, per cui Abramo si capisce anche in Maria, ma Maria anzitutto si capisce in Abramo”, Op. cit. p. 23. 7 la croce, quando lo “spazio interiore” che Maria può donare all’Onnipotente è l’immenso vuoto lasciato in Lei dalla perdita umana del suo Figlio Gesù! E come lo Spirito Santo aveva plasmato32 la Vergine per prepararla alla maternità del Figlio di Dio ed ha operato l’incarnazione del Verbo, così lo stesso Spirito creatore può ora agire liberamente in Lei grazie a quel Fiat che, a compimento di un cammino di fede sostenuto dalla Grazia33, la unisce indissolubilmente alla obbedienza di Gesù crocifisso. Forse Maria non se n’è resa subito conto, ma Colui che è “nato da donna” (Gal 4,4), “da quell’ora” fa rinascere la “Donna” ad una maternità nuova. Rivelazione, questa, ben compresa dal Discepolo che Gesù amava: egli, infatti, “accoglierà Maria come una madre che favorisca in lui ed in tutti i suoi condiscepoli – nella sua chiesa – la formazione ulteriore, la crescita di Cristo”34. In tal modo Maria diviene “la matrice nella quale nasce e cresce, si forma e si sviluppa ogni membro del nuovo Israele… è l’Israele credente in cui gli uomini divengono e sono figli di Dio” 35. Per fondare una missione così importante ci si aspetterebbe un’apparizione privilegiata del Risorto alla madre di Gesù. Pietro, i Dodici, Giacomo, fratello del Signore, S. Paolo, la Maddalena e l’altra Maria, i discepoli di Emmaus, di cui uno rimane a noi sconosciuto… tutti hanno avuto la loro personale apparizione (cf 1 Cor 15,5-8; Mt 28,1.9-10; Lc 24,13-35 e Gv 20,11-18). Di Maria, invece, nel NT non si dice nulla: come mai? “Perché non c’era bisogno” direbbe don Tonino Bello36. Per tutti gli altri, infatti, le apparizioni erano necessarie: bisognava rifondare la fede dopo lo scandalo della croce; capire come tutto rientrasse nel disegno di salvezza di Dio per il suo popolo, come il Signore avesse vinto la morte e gli inferi… Il periodo delle apparizioni nei vangeli è indispensabile perché i discepoli, come S. Tommaso, non si perdano nell’incredulità, ma diventino credenti, “Nessuna meraviglia quindi se presso i santi Padri invalse l’uso di chiamare la Madre di Dio la Tutta santa e immune da ogni macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa nuova creatura” LG 56. 33 Il fatto che kecharitōménē di Lc 1,28 sia un participio perfetto (e non un participio aoristo), sta ad indicare che l’azione della grazia in Maria non è solo un avvenimento passato, circoscritto, ma, continuando nel presente, si prolunga nel futuro. Tanto più se si interpreta kecharitōménē come il “nome nuovo” dato alla Vergine. 34 Vanni, Op. cit., p 341, che aggiunge: “Come altre ricorrenze di Giovanni ci mostrano chiaramente (1,11; 13,1; 16,32), l’espressione eis tà ídia, può significare il proprio ambiente umano, la propria gente… Al tempo in cui venne redatto il quarto Vangelo esisteva un ambiente umano tipico di Giovanni e della scuola giovannea. È in questo ambiente, in questa chiesa, che il discepolo accoglie Maria. Con ciò viene ancora di più evidenziata la dimensione ecclesiale e concreta della sua maternità. 35 Dufour, Op. cit., vol. I, p. 332. Per questo si possono applicare anche a Maria, nell’esercizio della sua maternità spirituale verso i fedeli, le parole che S. Paolo rivolge ai Galati: “figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi” (Gal 4,19). 36 ANTONIO BELLO, Maria – donna dei nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 96. 32 8 perché lo stesso Simon Pietro possa ravvedersi e confermare i suoi fratelli (cf Gv 20,27 e Lc 22,32). Essi devono poter verificare che il Vivente, risorto dai morti, è lo stesso Gesù che avevano conosciuto negli anni della sua vita terrena37: solo così potranno diventare suoi testimoni, partendo da Gerusalemme “fino agli estremi confini della terra” (At 1,3-8). A differenza di tutti loro, però, Maria già nell’ora della croce riceve da Gesù, in modo definitivo e senza bisogno di ulteriori conferme, la missione che dovrà svolgere verso i discepoli del Signore nel tempo che li separa dal Suo ritorno. Ciò vuol dire che la sua fede è già fondata perfettamente sulla roccia della Parola di Dio, è già uno “stare in piedi” pronta a compiere la volontà del Padre, è già un’attesa fiduciosa che, al di là di ogni evidenza, “Dio, mio salvatore” compirà le sue promesse nei confronti di “Israele, suo servo”, nei confronti di Gesù, “discendenza di Abramo”(cf Mt 7,24-25; Lc 1,47.54-55 e Gal 3,16). Ciò non toglie che “Maria, donna del terzo giorno”38, abbia certamente sperimentato la presenza del Figlio risorto dopo la morte. La stessa allusione al “terzo giorno” quando Maria ritrova nel Tempio il Figlio smarrito e quando Gesù fa sgorgare il vino nuovo alla presenza della madre, per don Tonino Bello è un chiaro indizio di ciò. Tuttavia, il suo “incontro del Vivente”39 resta nel segreto di una relazione unica fra Madre e Figlio, che noi possiamo soltanto intravedere all’interno delle modalità attraverso cui Gesù Risorto si manifesta ai suoi40. Sta di fatto che ritroviamo “Maria, la Madre di Gesù” a Gerusalemme nel Cenacolo insieme con gli apostoli, alcune donne ed i fratelli di Gesù: “tutti…assidui e concordi nella preghiera” in attesa dello Spirito promesso (cf At 1,12.14). Quindi, Maria è divenuta subito una presenza molto significativa dentro del gruppo dei discepoli, all’interno di un contesto di preghiera, concordia ed attesa, che sono i tratti caratterizzanti della sua spiritualità da anawim. Come negare che la sua presenza “materna” abbia esercitato un prezioso influsso per preparare i cuori all’accoglienza dello Spirito? Ma questa missione materna verso i discepoli del Signore per quanto tempo si estende? Il NT non ci dà altri riferimenti espliciti su Maria. Possiamo, però, trovare un indizio indiretto nel vangelo di Giovanni. Secondo la parola e la volontà di Gesù in 21,22 il “discepolo che Gesù amava” è destinato a “rimanere” fino al suo ritorno. Ovviamente, Gesù non voleva dire che egli 37 Il riconoscimento della medesima identità fra il Gesù crocifisso ed il Cristo risorto è ben rimarcato dal fatto che, apparendo ai dodici, Gesù mostra le sue piaghe (cf Lc 24,39-40 e Gv 20,20.25-27). 38 L’espressione è di don Tonino Bello, Op. cit. pp. 96-99. 39 Così il Dufour, Op. cit., vol IV, p.337, preferisce chiamare le apparizioni “per essere fedeli al linguaggio giovanneo”. 40 Rimanendo nel Vangelo di Giovanni si veda per esempio: 14,19-20.23.26-27; 15,5.9.11; 16,16.21-23; 17,22-26. 9 non sarebbe morto, bensì che la Rivelazione di cui il Discepolo è il testimone si sarebbe mantenuta sino alla fine dei tempi. Ora, come abbiamo visto in 19,27, Maria, con tutto ciò che lei significa e rappresenta, è stata definitivamente accolta nella vita del Discepolo e della sua comunità; di conseguenza, anche lei è destinata a “rimanere” nella grande Chiesa cristiana41. *** A questo punto sorge spontanea una domanda: se certamente la Madre di Gesù avrà continuato ad esercitare per tutta la sua vita la maternità spirituale verso i discepoli del Signore, “finito il corso della sua vita terrena” 42, che cosa ne è stato di Lei? Dal NT non possiamo più ricavare nulla. A livello ecumenico, si manifestano distanze di interpretazione fra i cristiani, a seconda di come si interpreti la formulazione del credo riguardo la “comunione dei santi” all’interno dell’unico corpo di Cristo. Da cattolico io credo e, permettetemi di dirlo, sperimento che la sua presenza materna è continua all’interno della relazione che mi unisce a Gesù Risorto. La parola del crocifisso: “Ecco tuo figlio…ecco tua madre” mi riempie di gioia e consolazione e trovo in questa dolcissima madre, nella sua spiritualità ed umanità, una fonte inesauribile di ispirazione ed incoraggiamento nel mio cammino di fede. Secondo me, inoltre, sarebbe impensabile l’enorme sviluppo della devozione mariana in questi 2000 anni di cristianesimo (nonostante le umane deviazioni e superstizioni, le aberrazioni teologiche…), se Maria non fosse stata percepita come una presenza viva e solidale soprattutto dai poveri, i discendenti degli anawim, di cui Lei rimarrà per sempre l’espressione più bella. A lei si sono rivolte generazioni di credenti per cercare un sostegno nel cammino della vita. In particolare “nell’ora della nostra morte” viene invocata la sua presenza materna. Lei, infatti, come mater fiduciosa, può insegnarci a vivere con fede la morte nostra o dei nostri cari come un distacco certamente doloroso, ma necessario, affinché possiamo ritrovarci tutti in Dio nella nuova modalità di relazione che il Risorto ha inaugurato43. I rapporti fra la chiesa giovannea e le altre chiese (paolina, petrina, giudeocristiana…) sono piuttosto complessi da definire. A noi basta osservare che, una volta avvenuta a cavallo del I secolo la riunificazione della chiesa giovannea con la grande Chiesa (Gv 21, appunto, ne è una traccia evidente), tutta l’eredità del “discepolo che Gesù amava” è diventata patrimonio comune della cristianità. 42 L’espressione è della LG 59. Con tale formulazione, appositamente vaga, si è voluto lasciare aperto il dibattito teologico circa l’eventuale morte di Maria prima della sua assunzione al cielo. 43 Si può immaginare che, mentre “perdeva” suo Figlio nella morte, Maria si sia ricordata delle parole di Gesù: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta la salverà” (Lc 17,33). L’accettazione di perdere Gesù, di rinunziare a Lui, accogliendo quella morte che le strappava la Vita dagli occhi, diventa per Maria la condizione che le permetterà di ricevere Gesù da Dio, nella sua nuova vita di Risorto: “se il 41 10 chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). 11