CISL STUDI E RICERCHE NOTA CONGIUNTURALE 8/2001 2.8.2001 SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI.................................................................................................... 2 1. ECONOMIA ITALIANA .................................................................................................................................................. 2 2. ECONOMIA INTERNAZIONALE ..................................................................................................................................... 5 TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE .............................................................................................................. 8 PRODUZIONE INDUSTRIALE, FATTURATO, ORDINATIVI, VENDITE AL DETTAGLIO ED INDICI DI FIDUCIA ........................... 8 Indice della produzione industriale ........................................................................................................................... 9 Indici generali del fatturato e degli ordinativi dell’industria ................................................................................. 10 Indici del valore delle vendite del commercio fisso al dettaglio a prezzi correnti .................................................. 10 OCCUPAZIONE, CONTRATTI E RETRIBUZIONI, GRANDI IMPRESE .................................................................................... 11 Indici generali delle retribuzioni contrattuali ......................................................................................................... 11 Indici degli occupati alle dipendenze nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi ......................................... 12 Ore lavorate e retribuzioni medie per dipendente nelle grandi imprese dell’industria .......................................... 12 Ore lavorate e retribuzioni medie per dipendente nelle grandi imprese dei servizi ............................................... 13 PREZZI: CONSUMO E PRODUZIONE ................................................................................................................................ 13 Principali indici dei prezzi al consumo ................................................................................................................... 13 Indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali ....................................................................................... 14 BILANCIA COMMERCIALE ............................................................................................................................................. 14 Esportazioni, importazioni e saldi della bilancia commerciale con i paesi extra UE, UE ed in complesso ........... 15 MERCATI FINANZIARI E VALUTARI................................................................................................................................ 15 TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI ............................................................................................ 16 EUROPA ........................................................................................................................................................................ 16 STATI UNITI .................................................................................................................................................................. 18 GERMANIA.................................................................................................................................................................... 21 FRANCIA ....................................................................................................................................................................... 23 GRAN BRETAGNA ......................................................................................................................................................... 24 GIAPPONE ..................................................................................................................................................................... 26 CALENDARIO 8/2001 ................................................................................................................................................... 28 INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO ............................................................................. 29 L’analisi elabora dati acquisiti fino al 2.8.2001 La sintesi di questa nota congiunturale è pubblicata su “Conquiste del lavoro” del 3.8.2001 Fonti: BANCA D’ITALIA/CER/COMIT/CsC/ENEL/ICE/IRS/ISAE/ISTAT/PROMETEIA/UIC/ BLS/DIW/EUROSTAT/FED/FMI/IFO/INSEE/OCSE/OIL/THE ECONOMIST (+ quelle in nota) SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI 1. Economia italiana I dati più recenti sull’attività produttività confermano la battuta d’arresto in linea con gli altri paesi dell’area euro. Produzione industriale, fatturato e ordini alle imprese e clima di fiducia degli imprenditori indicano che la fase di rallentamento del ritmo di crescita ha coinvolto anche, ed appieno, l’economia Italiana. Anche le indagini congiunturali rapide e gli indicatori del clima di fiducia dei consumatori, in linea sempre con quanto avviene negli altri paesi, sono orientati a confermare questo giudizio. Di fatto, la decelerazione dell’economia statunitense ha inciso in maniera particolarmente forte sullo sviluppo economico dell’economia tedesca e ha contribuito, anche per questa via – l’economia nostra è legata a filo doppio proprio a quelle tedesca ed americana –, a frenare da noi molti settori produttivi. La discreta performance dell’interscambio commerciale, sia nei confronti dei paesi dell’Unione europea che nei confronti dei paesi extra-Ue, ci impedisce di scivolare troppo indietro ma costituisce anche, a suo modo, una conferma del rallentamento interno dell’economia. E’ la riduzione della crescita dei consumi delle famiglie e degli investimenti che, limitando l’espansione delle importazioni, ha generato avanzi commerciali consistenti se confrontati a quanto ottenuto nello stesso periodo dello scorso anno. Segnali di ripresa comunque iniziano ad intravvedersi, con alcuni dati positivi dalle vendite al dettaglio (+2,7% in maggio nella grande distribuzione; +1,8% nel totale) e delle immatricolazioni degli autoveicoli. Rimane particolarmente difficile la situazione dell’occupazione nella grande impresa dell’industria e, ormai, anche dei servizi. Nelle aziende di maggior dimensione – com’è noto, in Italia, sottodimensionate: del resto, solo il 20%, più o meno, della forza lavoro complessiva trova qui impiego – la riduzione d’occupazione è una costante che, dopo la precedente fase espansiva, persiste in questa fase di rallentamento del ciclo. E’ il processo di ristrutturazione imposto dallo sviluppo e dall’applicazione delle nuove tecnologie – tutto labor saving perché è sul costo del lavoro, sul processo e non sul prodotto, che in Italia le grandi imprese cercano la competitività e fanno, dunque, la maggior parte dei loro investimenti – non è ancora terminato. E’ più intenso nell’industria, ma comincia ad incidere anche nelle grandi imprese di servizi. Gli ultimi dati sulla dinamica dei prezzi sono positivi, ma il livello rimane rilevante – anche se ha recuperato buona parte del differenziale nei confronti degli altri paesi dell’euro – e rimangono nervose le aspettative degli operatori. In luglio si scende, comunque, in ragione d’anno al 2,9% e sembra del tutto assorbito, ormai, lo shock petrolifero, con segnali di decelerazione, almeno da un mese abbondante, evidenti sia in Italia che negli altri paesi europei. Le previsioni sul tasso di crescita sono più o meno coerenti con una stima di poco superiore al 2% per l’anno in corso mentre per il prossimo anno, tutte le stime sono condizionate dall’evoluzione dell’economia americana, visto che la dinamica dell’economia d’oltre oceano rimane il principale fattore macroeconomico capace di influenzare gli operatori finanziari dei mercati europei e, di riflesso, di Piazza Affari. Ormai, con gli scambi ben ancorati ad un trend nettamente decrescente, guidato dagli indici dei titoli tecnologici, tutti in pesante perdita, è aumentata assai la sensibilità degli operatori alle variazioni degli indicatori congiunturali americani, alle manovre e – visto pure l’immobilismo della Bce – ancor più alle possibili strategie della Federal Reserve. Nel mercato italiano rimangono, poi, alcune “scosse” peculiari e tutte indigene, ancorate di volta in volta ad eventi particolari (nel mese aveva innescato un minimo di vivacità l’affare Montedison). Ancor più peculiarmente nostrano, poi, a fine mese è stato il raid di Tronchetti Provera e soci che ha portato, in un baleno e fuori mercato, all’acquisizione del pacchetto di minoranza – ma di controllo – di Telecom Italia sottratto a Colaninno. La vecchia “razza padrona” si è rifatta con gli interessi dei nuovi finanzieri rampanti, i “capitani coraggiosi” di dalemiana memoria, è tornata all’antico costume mettendo tra parentesi la borsa, ha scavalcato gli azionisti e – in modo assolutamente legittimo ma assolutamente alla barba dello spirito anche se non della lettera della legge Draghi – s’è comprata il controllo del colosso delle telecomunicazioni con la miseria di 14 mila miliardi di lire. Una miseria rispetto al valore del gruppo, ma niente rispetto a quello che sarebbe costato acquistarlo in borsa con un’OPA, sia ostile che anche amichevole. 14 mila miliardi che, in realtà, sono serviti a pagare il doppio del valore di mercato le azioni rastrellate in segreto, l’unico modo possibile, a veder bene, di prendersi il pacchetto di controllo del gruppo. Così la borsa s’è vendicata e gli azionisti frustrati si sono messi a vendere in blocco il 30 luglio, i titoli Olivetti e Pirelli: roba che se non bloccano le contrattazioni per “eccesso di ribasso” li cancellano un altro po’ dal listino. Poi, se volete, è certo possibile leggere dietro l’operazione – l’hanno detto molti in Italia e lo rileva anche il New York Times1 – il fatto che “l’influenza del sig. Colaninno sul governo non sia più quella che era solita essere come grande sostenitore del già primo ministro Massimo D’Alema, sconfitto nelle recenti elezioni da Silvio Berlusconi”: un’osservazione che, col suo raccorciare la storia, eliminando del tutto l’esistenza di Giuliano Amato, da una buona idea della semplificazione con cui gli americani guardano le cose nostre, ma forse coglie anche il nocciolo. In un altro articolo del giorno seguente, e con ben altra autorevolezza di analisi, il giornale poi torna sull’affare2. E’ evidente, rileva, citando il ministro delle Comunicazioni Gasparri (“dice che gli azionisti di minoranza dovrebbero ‘trovare soddisfazione nell’aumento di valore della compagnia’, e riconosce di fatto così che l’affare in sé, però, li ha fregati”), lo “scopo di mantenere in mani italiane il controllo di imprese italiane cruciali”. “Ma è assai meno chiaro come le due recenti acquisizioni [anche quella della FIAT sulla Montedison fatta con la EDF francese] rientrino nelle strategie dei nuovi padroni. La FIAT ha fatto una grosso scommessa sulla produzione di elettricità proprio mentre, con difficoltà, si sforza di ritrovare redditività nel suo core business, auto e veicoli industriali. E, quanto al presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, la sua sfida più grande sarà adesso quella di ridurre il debito di 18 miliardi di euro fatto per finanziarsi il raid su Telecom Italia”. Noi, ha ripetuto il sindacato3, vogliamo sapere se l’operazione, alla fine della fiera, “va nella direzione del rafforzamento” e perciò vogliamo “un chiarimento sul futuro di Telecom che va salvaguardato nella sua integrità per competere con le altre aziende internazionali di telecomunicazioni”. Questo per la Telecom. E, poi, c’è la Pirelli. Della quale già parlano, però, di “disfarsi” del core business, proprio le gomme, guarda un po’ proprio per ridurre il debito di Tronchetti Provera. In corso di mese, di fronte alle evidenti difficoltà di Italia e Germania a rilanciare le loro economie – dicevamo – e, per l’Italia, anche al balletto abbastanza inverecondo di cifre condotto intorno alla New York Times, S. Kapner, Pirelli’s Takeover of Olivetti Is a Reversal for an Executive, La conquista di Olivetti da parte di Pirelli è un rovescio per il capo, 30.7.2001. 2 New York Times, J. Tagliabue, Italian Phone Deal Raises Some Old Insider Issues, L’affare italiano dei telefoni evidenzia alcune antiche questioni di Insider, 31.7.2001. 3 S. Pezzotta, intervista a il Giornale, 29.7.2001. 1 cifra del “buco” di bilancio, fior di economisti liberisti e, anzi, decisamente monetaristi, tutt’altro che sospetti di progressismo, come l’americano Rudiger Dornbush e, in modo ancor più deciso, poi, il tedesco capo economista della Deutsche Bank, Norbert Walter, hanno suggerito che4 i due paesi dovrebbero semplicemente “lasciar aumentare i loro disavanzi, tagliare le tasse e non la spesa pubblica”. Perché in Europa non ci sarà recessione, ma non ci sarà presto neanche alcuna vera ripresa economica. E Germania ed Italia – che insieme fanno cotanta parte, sopra il 40% dell’economia dell’Unione – non possono continuare ad essere “i dormiglioni d’Europa”. Il buco di bilancio relativo al rapporto deficit/PIL è stato ridimensionato, pare, dallo stesso nuovo ministro dell’Economia che, comunque, ha dato, smentito e ridato cifre su cifre che variano dagli oltre 60 miliardi a, sì e no, 20-25 mila: cioè, un buchetto come tanti altri in passato, sui 25 mila miliardi, poco più insomma dell’1% del PIL [Corriere della Sera, 19.7.2001]. Alla fine, vedrete, sarà intorno all’1,5. Poi il sottosegretario Baldassarri ha chiarito (sic!) che il prelievo fiscale per ora resta là dov’è, al 42% del Pil. Di abbassare le tasse, come da programma berlusconiano, se ne riparla, forse, dal 2003, non prima— per colpa, si capisce, del buco: anche se poi è meno grosso del paventato. Ma chi osa chiamare questo fatto un “rinvio” mente, sia chiaro, per la gola. Trattasi solo di “rimodulazione del piano”... Superata, così, si fa un po’ per dire, la diatriba, hanno ripensato a rinfocolarla – non certo a chiarirla – prima, molto impropriamente, la delegazione del Fondo monetario internazionale in visita a Roma (che, senza che glielo chiedesse nessuno, ha detto di voler fare i conti, “indipendentemente”: a che titolo e in base a quale diritto non è stato chiarito), poi, molto più pertinentemente, il governatore della Banca d’Italia. Ma, come di solito, a modo suo e un po’ di sguincio… Infatti, non è che dica il falso quando rimprovera, a quelli che chiama i governi dell’Ulivo, di aver tenuto bassa la crescita, rispetto alla media europea, per raggiungere l’euro. Il fatto è che il grand commis dello Stato Antonio Fazio proprio non sa e non vuol perdonare chi ha contribuito in primis a sottrargli i poteri principali (battere moneta e fissare i tassi di sconto) di cui, come capo della Banca d’Italia, godeva a vita. Cioè, Ciampi, ex governatore lui stesso, e l’Ulivo che sapevano perfettamente quel che facevano stringendo la cinghia al paese per arrivare all’euro, quando pure lui, Fazio, aveva fermissimamente, apertamente, anche se mai proprio chiaramente, sconsigliato la scelta. Solo che l’alternativa che lui proponeva – restare fuori – era catastrofica per un paese come il nostro e la strada che appoggia oggi per rilanciare la ripresa economica – tagliare la spesa pubblica: le pensioni, la sanità, ecc. – è masochista, a dir poco. Anzi, si tratta di un’alternativa proprio sadica visto che naturalmente il governatore non mostra neanche lontanamente di smetterla con la sua pertinace opposizione a riportare ad omogeneità con quelli degli altri, dei più, i trattamenti, anche pensionistici, superprivilegiati dei dipendenti della Banca d’Italia. Resta il fatto che, in tutto questo confuso contesto, nessuno sa con certezza a tutt’oggi quale sia il deficit del 2001, anche se ormai sembra proprio – Tremonti ricorda, adesso, lui stesso come “la campagna elettorale è finita”… – che il deficit sarà alla fine più vicino all’1 che all’1,5% del Pil: meglio di Francia e Germania, comunque. Infine, è intervenuta anche la Corte dei Conti che ha valutato tutto l’impianto del DPEF come un mero “esercizio di proiezione tendenziale”, cioè il pedissequo prolungamento dei dati di oggi a domani – senza alcun valore di garanzia né, tanto meno, di impegno politico – e ha criticato a fondo la Tremonti bis (per il 2003 non ha copertura, “è legata a stime e non a elementi certi”, sulla quale, 4 N. Walter, intervista al Corriere della Sera, 13.7.2001. invece, giura Confindustria (perché, dice il CsC, “per rilanciare investimenti e economia è più semplice rispetto agli incentivi Visco”5). E, qui, certo, il problema della credibilità si fa inevitabile e bisogna tenerlo presente, anche a fronte di una previsione del DPEF che vede adesso, per fine 2002, una crescita dell’Italia al 3 e più per cento. Che sarebbe una manna dal cielo, ma resta una cifra impiccata per aria visto che non sembra venir perseguita attraverso un rilancio forte, vero, della concertazione e che sul come arrivarci non c’è, nel documento, alcuna indicazione affidabile6. Vero, il DPEF è documento programmatico e il compito di indicare strumenti e tempi di intervento spetta megli0o alla Finanziaria. Ma, intanto, questo DPEF si allarga, al di là del consueto, fino al 2006. E, poi, visto che già qualifica tutta la politica economica del governo Berlusconi con l’affermazione cardine che si tratta di ridurre, in parallelo, tasse e spese dell’1% all’anno, era opportuno dicesse anche già qualcosa di più, e di più preciso, per dare qualche credibilità non basata solo sulla fiducia – sulla speranza, cioè, e insieme sull’illusione – all’impegno. Perché di credibilità interna, si tratta: quali sono le voci di spesa da tagliare? si fa peccato, qui, a pensar male? Ma forse, e soprattutto, di credibilità internazionale, considerato che il problema del governo è, a questo livello, anche con gli altri governi ma ancor più e, più cruciale, proprio con i mercati (investitori, operatori, imprese) che sulle sue promesse – basta leggere con qualche attenzione e qualche costanza la stampa finanziaria internazionale – restano assolutamente scettici. 2. Economia internazionale Se uno combina la crescita più debole degli Stati Uniti da otto anni in qua, lo stato di recessione cronica del Giappone e la deludente performance delle economie europee, il quadro economico globale fa un po’ impressione. Aggiungendoci, poi, i guai di tanti mercati emergenti – come li chiamano: l’Argentina, la Turchia, adesso... – e il buco nero delle tante, troppe – la maggioranza del mondo – economie in via di sottosviluppo, o in via di affannoso e precario sviluppo, va ancora peggio. Nessuna ragione di, relativo, ottimismo viene certo, questo mese, dal disgraziato G8 di Genova— su cui, in questa Nota, deliberatamente rinunciamo a tornare se non per rilevare la vacuità di quasi tutto quel che prodotto: il giornale ne ha detto, come ha detto, ovviamente, della tragica sequela e del contesto da Indagine al di sopra di ogni sospetto in cui sono riusciti ad iscriverlo. L’unico barlume che s’intravede ala fine del tunnel viene da alcune autorità monetarie – non certo quella europea – che stanno cercando di rispondere rapidamente, e anche con una certa decisione, alla sfida. Gli indicatori reali degli Stati Uniti mostrano un’economia sempre in difficoltà (e, a dire del presidente della Fed, ben lontana da una ripresa seria) ma anche segnali di qualche vivacità interessante (su produzione industriale, indice Napm, quello dei managers degli acquisti del settore manifatturiero, superindice dell’economia e ordini alle imprese). Tuttavia rimangono molti problemi, anzitutto la capacità di utilizzazione degli impianti, che ha toccato livelli minimi, e il forte incremento delle domande di sussidi sul fronte dell’occupazione. Sempre più critica la situazione produttiva nei settori high-tech, mentre le aspettative di imprenditori e consumatori continuano a deteriorarsi e le preoccupazioni sugli utili di molte imprese e conglomerate mantiene i listini di borsa ai livelli minimi. 5 la Repubblica, 25.7.2001. Al contrario, l’ISTAT, nell’audizione del 23.7.2001 alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, avverte che “nel complesso, le informazioni disponibili per il secondo trimestre sembrano indicare un netto indebolimento della crescita” e parla di un PIL che, dunque, molto difficilmente, potrà arrivare già nel 2001 al 2,4% previsto dal DPEF. 6 Nell’area dell’euro, i vari indicatori aggregati continuano a mostrare un peggioramento legato alla progressiva perdita di fiducia di imprese e famiglie: questi, in particolare, riportano la sesta contrazione mensile consecutiva. Pesa il peggioramento dell’attività produttiva e occupazionale nelle maggiori economie europee e, anzitutto, in Germania. Ma anche in Francia e in Italia la riduzione dell’attività produttiva ha comportato un brusco calo delle entrate fiscali e uno sfondamento del parametro fissato in termini di deficit/Pil creando non pochi problemi per il rispetto della convergenza tracciata e garantita nel Patto cosiddetto di stabilità. I prezzi sembrano sotto controllo sia negli Stati Uniti che in Europa dove, negli ultimi due mesi, s’è affermata una forte tendenza al calo del prezzo del greggio e, quindi, della benzina. Il 18 luglio, a New York, il prezzo del petrolio è sceso al minimo da quattordici mesi perdendo $3 in una settimana, con i contratti future – sottoscritti adesso, cioè, per agosto – che sono calati, per otto giorni consecutivi, fino a meno di $24 al barile: portando l’OPEC a decidere in corsa di tagliare la produzione (ma stavolta difficilmente il cartello ci riuscirà, preoccupato com’è per la debolezza delle economie asiatiche e per le nubi di guerra che si vanno addensando fra Israele e Palestina) per far risalire i prezzi di un milione di barili al giorno dal 1° settembre. Vale forse la pena di riflettere un attimo sulla scemenza emersa al G8 di Genova, quando gli otto hanno affermato che il rallentamento dell’economia mondiale in corso è sostanzialmente dovuto “ai prezzi alti e volatili” del greggio petrolifero. E’ un fatto – non un’opinione – che il prezzo medio di un barile di petrolio oggi, diciamo sui $25, è leggermente inferiore, considerata l’inflazione da allora ad adesso, ai $20 dollari al barile dei primi anni ’90. E allora? Questo sul prezzo. Quanto alla volatilità, che costituisce un problema reale, chi ha sempre invocato ed imposto di “lasciar fare al mercato”? opponendosi sempre, ed ancora, a negoziare e concordare cioè un prezzo programmato e stabilizzato per parecchi anni tra venditori e acquirenti? i produttori, forse? Intanto, però, in attesa degli effetti delle nuove decisioni dell’OPEC, il ribasso dei prezzi medi è stato molto concreto e, su di esso, ha influito anche, in particolare, la notizia, diffusa dall’autorità energetica americana, che le riserve del paese sono salite di 7 miliardi di barili, a 315 miliardi accertati. Ma, un po’ stranamente, proprio questa notizia – che l’America ha accresciuto le proprie riserve combustibili – ha avuto un effetto calmieratore più in Europa che negli Stati Uniti d’America. L’inflazione degli ultimi dodici mesi nell’area dell’Unione monetaria, in effetti, col prezzo calante del greggio si è abbassata, a giugno, al 3%, dal 3,4% di maggio, col nocciolo duro – depurato di alimentari e, appunto, energia – che a giugno resta inchiodato dove era a maggio, al 2,1%. La previsione ufficiale della Commissione è, ora, che l’inflazione scenderà sotto il tetto Bce del 2% nei primi mesi del 2002. Negli USA, invece, l’inflazione è salita leggermente più del previsto, dello 0,2% nel mese di giugno su maggio per una crescita complessiva sui dodici mesi del 3,2%. Ma, qui, i prezzi – depurati di quelli maggiormente volatili, energia e alimentari – sono saliti in giugno dello 0,3%: dunque, dello 0,1% in più del tasso d’inflazione media, il che significa che, questo mese, in America sono saliti più che in Europa gli altri prezzi, quelli diversi da alimentari e benzina. Intanto, però, la “fiammata” che aveva investito le maggiori economie europee nei mesi recenti col prezzo del petrolio in aumento ha fatto modificare i target in termini di inflazione e irrigidito ancora – se mai fosse possibile irrigidirsi oltre la catalessi – la Banca centrale europea a fronte di ogni pressione, ma soprattutto anche di ogni ragione, per quanto ancorata essa sia nella realtà delle cose, per un allentamento monetario. Perché, in generale, consumi e investimenti continuano a crescere su tassi modesti e proprio la leva monetaria potrebbe al riguardo svolgere un ruolo incisivo, anche per il margine che le lascia la continua riduzione dei tassi americani. L’euro si è rifatto un po’ sul dollaro, per la crisi manifatturiera americana, fortemente influenzata proprio dal dollaro forte – insostenibile ormai per molti settori aperti ai mercati internazionali – che ha portato a un qualche suo probabilmente temporaneo rilassamento e con la boccata d’ossigeno che le incertezze della crisi finanziaria argentina hanno rovesciato sulla valuta americana e sui mercati valutari. Ma non è affatto un trend consolidato e il profilo della moneta unica resta basso sia per la latitanza titubante della BCE che, naturalmente, per i fondamentali di squilibrio di bilancio ed i problemi strutturali di mercati troppo rigidi – sì, forse anche quello del lavoro; ma altrettanto, e di più, quello dei capitali, quello delle barriere professionali e degli ostacoli a ogni concorrenza, specie nella distribuzione – nelle diverse economie della zona dell’euro. Deludente e non potrebbe essere altrimenti nell’attuale fase congiunturale, l’andamento dei mercati finanziari ben ancorati sul trend discendente che ha riportato ai minimi il Nasdaq e gli altri indici di borsa, dovunque. Sia l’evoluzione preoccupante della situazione economica argentina (l’effetto contagio comincia a farsi sentire e, comunque, a farsi molto temere: che nell’economia finanziaria, poi, è la stessa cosa), sia la grande maggioranza di risultati societari inducono alla prudenza e non aprono prospettive a breve termine. Infine, rimane del tutto stagnante in Giappone (e, anzi, sembra addirittura peggiorare) la situazione economica, tra un’inefficace politica monetaria e un’altrettanto inefficace politica fiscale, fatta di spesa pubblica senza fondo in sussidi al privato, che ha generato un debito pubblico enorme. Rimane depresso anche il mercato azionario giapponese denotando problemi radicati e profondi che coinvolgono il sistema bancario ormai al collasso per i crediti inesigibili sul cui raddrizzamento ha puntato tutta la sua vittoriosa campagna elettorale il nuovo primo ministro, Koizumi. Prima del G8 di Genova, l’incontro dei ministri economici dei G7 aveva pronosticato, forse un po’ speranzosamente, che sta per migliorare la congiuntura economica internazionale: dovunque, hanno detto, e in particolare in America. Non crede a quello che dicono, però, e con autorevolezza almeno altrettanto… autorevole, Alan Greenspan, il presidente della FED che, invece, ha sostenuto – e a lui ha creduto Wall Street, non ai G7 – che “l’economia rimane debole e la ripresa si allontana7”. Intanto, i cosiddetti mercati emergenti ballano di brutto: crollano i buoni del tesoro argentini (non ha funzionato il piano di parità col dollaro del ministro Cavallo: anzi ha accelerato il crac), mentre si diffonde la paura che il paese non sia più in grado di onorare i suoi debiti, colossali, con l’estero e va a fondo anche il real brasiliano, frana pure lira turca e si indeboliscono fiorino ungherese e zloty polacco. Il dollaro di Singapore scende al valore più basso da undici mesi rispetto a quello americano e l’economia entra ufficialmente (due trimestri consecutivi di PIL negativo) in recessione. Sale il Audizione del 18.7.2001 di fronte alla Commissione servizi finanziari del Congresso. Certo – ha spiegato – anch’io spero che il fondo sia stato toccato. Ma è più probabile che, invece, la ripresa sia più lontana. E perciò – ha lasciato capire – saremo ancora obbligati ad abbassare i tassi: affermazione, questa che ha allietato i mercati, mentre quella sulla ripresa lontana li ha allarmati ancora di più, spaventando non poco Wall Street. E un’altra cosa, Greenspan, ha lasciato capire: con il rallentamento di tutto il resto del mondo, innescato proprio da quello americano, si andrà rarefacendo il flusso di capitali dall’estero che, a credito, ha tenuto su il motore dei consumi in America: ora, con la depressione di borsa e il crollo del Nasdaq, con un indebitamento delle famiglie gonfiato fino all’insopportabile, “la ripresa – dice Greenspan – si allontana”. 7 timore, come nel ’97, delle conseguenze di un crac finanziario latino-americano sul resto del mondo, anche sulle economie più sviluppate. I dati appena resi pubblici sull’economia della Cina, che ha vinto con Pechino la designazione per le Olimpiadi del 2008 e su questo input punta per una crescita aggiuntiva dello 0,4% all’anno, dicono tra molte cose importanti che nella prima metà del 2001 è cresciuta del 7,9% (media degli ultimi cinque anni, l’8,3%) con un buon aumento del reddito nelle zone urbane e un rallentamento “preoccupante8”, di quello delle zone rurali. Un arricchimento complessivo di certo ragguardevole dell’economia ma accompagnato, anche, dal manifestarsi in molte zone del paese di un fenomeno, la disoccupazione, al quale molti cinesi erano convinti di essere immuni… La rivista Fortune ha pubblicato la graduatoria delle imprese del pianeta che nel 2000 hanno realizzato il fatturato più consistente. Graduatoria in dollari ovviamente (che, a fine 2000, valevano ciascuno 2.050 lire) e che nei primo dodici posti vede, nell’ordine, quattro aziende americane: Exxon-Mobil, petrolio e benzine con $220 miliardi; grandi magazzini Wal-Mart, con 190; General Motors, 170; Ford Motor, 160; poi, una tedesca, Daimler-Chrysler, una anglo-olandese, Royal Dutch-Shell, ed una britannica, la BP, con $150 miliardi tutte e tre; ancora la General Electric, americana, con $130 miliardi; tre giapponesi: Mitsubishi, 125, Toyota Motor, 120 e Mitsui, 120; e la CitiGroup, infine, sui $110 miliardi, ancora americana. TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE Produzione industriale, fatturato, ordinativi, vendite al dettaglio ed indici di fiducia Rimane piuttosto basso il profilo dell’attività produttiva nell’industria. Il dato di maggio sulla produzione industriale fornito dall’Istat mette in luce un regresso, su base annua, dell’1,9% nei volumi fisici. La produzione media giornaliera rimane in flessione, anch’essa dell’1,9% (data la parità delle giornate lavorative proprio nei due mesi di confronto). Positivo è l’indice destagionalizzato, un +0,3% sul mese precedente viziato, però, dal fatto che nel mese di riferimento (aprile) si era registrata una caduta vistosa (-2%) su quello precedente. Si tratta, quindi, di un dato che riflette più una considerazione statistica (al confronto con un mese particolarmente deludente) che un’effettiva ripresa congiunturale. L’indice grezzo della produzione nell’industria per i mesi che vanno da gennaio a maggio è poi in aumento, ma modesto, dell’1,5% sul periodo corrispondente relativo al 2000. E, sempre nei primi cinque mesi dell’anno, la media giornaliera della produzione raggiunge un incremento inferiore all'1% (+0,9%): rallentamento che è frutto, ormai, di diverse battute d’arresto dei ritmi di crescita, coi dati che semplicemente confermano le difficoltà del settore industriale. Difficoltà, l’abbiamo già rilevato, in parte omogenee a quelle registrate nelle altre economie dell’area euro. L’analisi per destinazione economica rivela la flessione tendenziale più consistente sullo stesso mese dell’anno scorso nel comparto dei beni intermedi (-2,4%), con la produzione di beni di consumo (-1,6%) a seguire e di beni di investimento (-0,7%). In quest’ultima categoria, c’è però la caduta di attività produttiva forse più importante e tra le più vistose, nei mezzi di trasporto (-8%). Nei beni di consumo, la flessione di produzione ha investito per un -9% i beni durevoli di consumo e per il 2,6% i beni non durevoli. Unico risultato positivo, i beni semidurevoli con un incremento di produzione del 4,2%. Rispetto al mese precedente, cioè per il dato congiunturale, si registrano invece incrementi dello 0,9% per i beni di investimento e dello 0,4% per i beni intermedi. Va ricordato anche qui che il confronto col mese precedente di aprile è influenzato dalla secca caduta che si ebbe allora su marzo. Invece, senza equivoci è la flessione di produzione rispetto al mese precedente, dello 0,6%. Dunque, dopo il promettente mese iniziale di gennaio, l’attività produttiva non è risultata capace di riavviare una fase espansiva anche se, deputata dell’effetto calendario, la produzione media 8 Ansa, dichiarazione del portavoce dell’Ufficio centrale di statistica, Ye Zen, 17.7.2001. giornaliera ha continuato a crescere, a ritmi modesti (sul 3,3% contro incrementi registrati nella prima parte del 2000 tra il 4 e l’8%) fino a marzo. Negli ultimi due mesi, un vero e proprio arresto. E un clima che si fa cupo, confermato dalle analisi dell’Isae indirizzate a valutare la fiducia degli imprenditori che, in maggio, rilevano una battuta d’arresto del clima di fiducia delle imprese, in modo del tutto analogo a quanto avviene negli altri maggiori paesi europei (in particolare, in Francia e Germania). Tuttavia, inizia anche a manifestarsi qualche segnale di una inversione di tendenza. Ad esempio, in giugno si riscontra un nuovo slancio delle immatricolazioni, con una crescita del 10,3%. La ripresa del mercato automobilistico è un buon indicatore e, considerato che il 2000 è stato un anno record per il mercato italiano, l’incremento registrato recentemente potrebbe segnalare un recupero dei consumi e dell’attività produttiva nei trasporti. Anche l’indice provvisorio di stima della produzione industriale dell’Irs relativo al mese di luglio segnala una ripresa dell’attività produttiva che si dovrebbe concretizzare con un incremento dell’1,3% rispetto al mese di giugno. Più contenuta la previsione del CsC che parla di uno 0,5% in più di giugno. Ma proprio per giugno la stima Irs è negativa e, se dovesse essere confermata poi dai dati dell’Istat, vedrebbe la produzione industriale in termini destagionalizzati flettere del 2,7%. Un recupero completo potrebbe quindi manifestarsi, forse, nella seconda parte dell’anno con una possibile ripresa dei consumi e degli investimenti dell’area euro. Nel secondo trimestre di quest’anno il grado di utilizzazione degli impianti in Italia è stato del 79,2%, in lieve e diffusa flessione rispetto al primo trimestre. Indice della produzione industriale (base 1995=100)(a) Maggio 2001 INDICI VARIAZIONI % Mag 2001 Mag 2001 Mag 2000 Mag 2001 Apr 2001 Gen-Mag 2001 20002000 2000 Gen-Mag Produzione industriale 115,9 -1,9 - +1,5 Produzione industriale media giornaliera 110,8 -1,9 - +0,9 Produzione industriale: dati destagionalizzati 107,6 - 0,3 - (a) Industria in senso stretto, con esclusione delle costruzioni Lo scarso dinamismo dell’attività produttiva è confermato anche, come è naturale, dagli indicatori dell’Istat riguardanti il fatturato e gli ordinativi dell’industria. In particolare, nel mese di maggio l’indice di fatturato che misura le vendite a prezzi correnti è salito del 2,9% in termini tendenziali, grazie ad un incremento sul mercato nazionale (+3,6%) più che su quello estero (+1,2%), a testimonianza della scarsa vena dell’interscambio mondiale. Mettendo a confronto i dati dei primi cinque mesi del 2001 con quelli dello stesso periodo dell’anno precedente, il fatturato dell’industria risulta aumentato del 5,2%, in conseguenza di un aumento del 4,6 delle vendite sul mercato interno e del 6,7% sul mercato estero. Sul mese di aprile, in termini congiunturali, il fatturato avanza dello 0,5%: +1,4% le vendite interne e -1,4% quelle estere. Gli ordinativi alle imprese hanno subito un rallentamento ancor più vistoso, mostrando, sempre per il mese di maggio, una flessione (su base annua) dell’1,3%. Anche qui la riduzione più vistosa degli ordini proviene dall’estero (-1,9%) mentre la domanda interna cala dello 0,8%. Sempre considerando insieme i dati dei primi cinque mesi 2001, si registra una diminuzione degli ordinativi nel dato tendenziale complessivo dello 0,3%: per il calo dell’1% di quelli provenienti dal mercato interno e dello 0,9 di quelli provenienti dall’estero. E, rispetto all’aprile appena trascorso, a maggio 2001 il dato congiunturale destagionalizzato ha fatto segnare agli ordinativi un +3,6%. La previsione del CsC sulle vendite del settore manifatturiero le vede in calo, a giugno, del1’1% (diminuzione congiunturale dell’1,4 dal mercato interno e dello 0,1% da quello estero) ma, comunque, in buona ripresa perché, nel tendenziale (sullo stesso mese dell’anno scorso) le vendite sono aumentate rispettivamente del 3,6 e del 4%. Indici generali del fatturato e degli ordinativi dell’industria (base1995=100) DATI GREZZI INDICI Mag 2001 Fatturato Totale 129,9 DATI DESTAGIONALIZZATI VARIAZIONI % Mag Mag 2001 2000 +2,9 Maggio 2001 INDICI VARIAZIONI % Mag 2001 Apr 2001 Gen-Mag Gen-Mag 2001 2000 Mag 2001 +5,2 123,6 +0,5 Nazionale 126,4 +3,6 +4,6 119,6 +1,4 Estero 138,8 +1,2 +6,7 133,8 -1,4 Ordinativi Totali 119,7 -1,3 -0,3 114,9 +3,6 Nazionali 117,5 -0,8 -1,0 111,1 +5,8 Esteri 123,5 -1,9 +0,9 121,3 +0,4 Sempre in maggio, l’indice che sintetizza il valore delle vendite al dettaglio in tutti i tipi di distribuzione aumenta, rispetto allo stesso mese del 2000, dell’1,8%, uno 0,4% in meno che nel mese precedente: del 2,7% per la grande distribuzione, mentre le imprese operanti su piccole superfici accrescono le loro vendite dell’1,6%. Aumentano le vendite degli alimentari (+2,1%) e meno, stavolta, quelle dei non alimentari (+1,7) e, anche in questa scansione sempre di più nella grande che nella piccola distribuzione. Indici del valore delle vendite del commercio fisso al dettaglio a prezzi correnti (base 1995=100) per settore merceologico e forma distributiva SETTORI MERCEOLOGICI E FORME DISTRIBUTIVE INDICI Maggio 2001 VARIAZIONI % Mag 01 Mag 01 Mag 00 Gen-Mag 01 Gen-Mag 00 Grande distribuzione 127,1 +3,2 +4,5 Imprese operanti su piccole superfici 109,5 +1,6 +1,1 Totale 114,2 +2,1 +2,1 Grande distribuzione 128,2 +2,2 +6,3 Imprese operanti su piccole superfici 120,9 +1,6 +1,7 Totale 121,7 +1,7 +2,3 Grande distribuzione 127,5 +2,7 +5,2 Imprese operanti su piccole superfici 117,4 +1,6 +1,5 Totale 119,0 +1,8 +2,2 Alimentari Non alimentari Totale L’Isae registra, a giugno, un clima di fiducia delle imprese in peggioramento, meno 6 punti sul livello di maggio, dovuta in gran parte ad aspettative cupe a tre-quattro mesi per la produzione ed al rallentamento del livello delle ordinazioni. Però, sui prezzi, c’è un’aspettativa di dinamica più rallentata e sono in miglioramento le prospettive di evoluzione a breve termine dell’economia in generale. Occupazione, contratti e retribuzioni, Grandi imprese L’indagine mensile di giugno sui contratti collettivi nazionali di lavoro condotta dall’Istat sulla loro vigenza, il monte retribuzioni ed i conflitti relativi alla loro contrattazione (o, meglio, al ritardo dei negoziati al riguardo) porta ad osservare che, a fine mese, i 61 contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore riguardavano 6 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti per il 59,4% del totale dei contratti osservati. Sempre a fine giugno risultavano in attesa di rinnovo 19 accordi collettivi nazionali, il 40,6% di quelli osservati, per 4,9 milioni di lavoratori dipendenti. Le retribuzioni contrattuali orarie sono salite del 2,7% sul giugno 2000 e dello 0,1 su maggio. Si tratta di un aumento sempre un po’ sotto all’inflazione, ma non di molto anche se nel periodo gennaio-giugno l’aumento del 2,3% sullo stesso semestre del 2000 è maggiormente al di sotto. Nel periodo gennaio-giugno 2001 le ore non lavorate per conflitti si sono ridotte del 21,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente ed ammontano a 2,9 milioni, il 77% delle quali per mancato rinnovo del contratto e solo poco più del 9% a rivendicazioni economiche e/o normative. Indici generali delle retribuzioni contrattuali (base: dicembre 1995=100) Giugno 2001 VARIAZIONI % INDICI Giugno 2001 Giugno 2001 Giugno 2001 Gen.-Giu. 2001 Maggio 2001 Giugno 2000 Gen.-Giu. 2000 Retribuzioni orarie 116,2 0,1 2,7 2,3 Retribuzioni per dipendente 116,0 0,1 2,7 2,2 L’indagine sull’occupazione, gli orari di lavoro e le retribuzioni presso leOccupati grandi imprese, le alle dipendenze nei servizi Occupati alle dipendenze nei servizi imprese dell’industria e dei servizi con 500 e più addetti, relativa al mese di aprile 2001 (sempre Indice destagionalizzato Indice destagionalizzato ricordando che queste imprese occupano, forse, meno del 20% dei dipendentiVariazioni dell’industria del congiunturali e percentuali 0,3 98,0 29% di quelli dei servizi) dice che nel mese, l’indice grezzo degli occupati alle dipendenze nelle 97,8 grandi imprese industriali è sceso dello 0,2% su marzo e quello al0,2netto dei lavoratori in cassa 97,5variazione tendenziale (aprile 2001 su aprile 2000) risulta a -2,3%, integrazione dello 0,3 %; che la 0,1 97,3precedente, e al netto della c.i.g. è di -2,4%. rispetto al -2,4 rilevato nel mese 0,0 97,0 96,8 -0,1 96,5 -0,2 96,3 96,0 -0,3 M AM GL A S ON D GFM AM GL A S ON D GFM ( da m a rzo 1 9 9 9 a m a rzo 2 0 0 1 ) M A M G L A S O N D G ( da m a rzo 2 0 0 0 a m a rzo 2 0 0 1 ) F M Nelle imprese di servizi sopra ai 500 addetti, i dati indicano un’occupazione che resta stabile su marzo, anche per gli occupati al netto di c.i.g.; ma, questo aprile rispetto a quello 2000, entrambi i dati (grezzo e senza c.i.g.) mostrano occupati in calo dello 0,4%. Dunque, mentre il mercato del lavoro nel suo complesso recupera quote importanti di occupazione – grazie alle forti dosi di flessibilità in esso immesse: ad aprile (v. in Nota 7/2001, i dati trimestrali complessivi sull’occupazione) eravamo al 9,6%, il livello più basso dal ’92: col Nord a un 4,3 davvero notevole e il Sud sempre assai distante ma ormai, per la prima volta anche qui da decenni, sotto il 20% – la grande industria non ha affatto smesso di perderne e la perdita si va trasmettendo anche ai servizi di maggior dimensione. E ciò proprio mentre – malgrado o perché? le due letture del fenomeno, anche se danno lo stesso identico risultato sono proprio diverse – migliora la loro redditività: informa, infatti, l’ISTAT che nel 2000, sul ’99, aumenta il fatturato (+12,5%), aumenta il valore aggiunto (+2,4%) e il margine operativo lordo sul valore aggiunto sale al 43%, rispetto al 42 del ’99, grazie alla crescita di produttività nominale (+3,4%) superiore a quella del costo del lavoro per dipendente (+1,6). Gli ultimi dati sono quelli del quadro seguente: Indici degli occupati alle dipendenze nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi (base 1995=100) DATI GREZZI INDICATORI INDICI Apr.2001 VARIAZIONI % Apr.2001 Gen.- Apr.2001 Apr.2000 Gen.- Apr.2000 Aprile 2001 DATI DESTAGIONALIZZATI INDICI VARIAZIONI % Apr. 2001 Apr.2001 Mar. 2001 Occupati alle dipendenze nell'industria 87,6 -2,3 -2,2 88,0 -0,2 Occupati alle dipendenze nell'industria (al netto c.i.g.) 88,5 -2,4 -2,2 88,9 -0,3 Occupati alle dipendenze nei servizi 96,4 -0,4 -0,1 96,7 0,0 Occupati alle dipendenze nei servizi (al netto c.i.g.) 96,4 -0,4 -0,1 96,8 0,0 Sempre in aprile, non si registrano variazioni delle ore effettivamente lavorate per dipendente (senza calcolare l’effetto calendario aumentano, però, del 5,3%), così come rimane invariata l’incidenza dello straordinario. Aumenta invece, il ricorso alla c.i.g. per il 6,3% su base annua. Le retribuzioni medie lorde per dipendente contano un incremento (su base annua) del 4,2%, con la componente continuativa che conta una variazione tendenziale minore e pari al 2,5%, mentre il costo medio del lavoro è salito del 3,2%. Ore lavorate e retribuzioni medie per dipendente nelle grandi imprese dell’industria (base 1995=100) Aprile 2001 INDICI INDICATORI Apr.2001 Ore effettivamente lavorate per dip. (al netto c.i.g.) Incidenza ore straordinarie (a) Ore di cassa integrazione guadagni Retribuzione lorda media per dip. (al netto c.i.g.) di cui retribuzione continuativa Costo del lavoro medio per dip. (al netto c.i.g.) 93,6 4,8 47,0 111,8 114,6 106,6 VARIAZIONI % Apr. 2001 Apr. 2000 0,0 0,0 6,3 4,2 2,5 3,2 Gen.- Apr.2001 Gen.- Apr.2000 0,1 0,0 -5,8 4,1 2,9 3,2 (a) In percentuale delle ore ordinarie; differenza anziché variazioni % Anche nei servizi le ore lavorate sono rimaste invariate con l’incidenza dello straordinario in riduzione dal 5,9 al 5,5%. Se si elimina l’effetto calendario, tuttavia le ore effettivamente lavorate sono salite anche qui del 5,3% (incremento analogo a quello dell’industria). Le retribuzioni medie cadono del 3,8% (su base annua) e la flessione raggiunge il 9,4% nel settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria. Cade anche il costo del lavoro medio per dipendente del 4,2%. Ore lavorate e retribuzioni medie per dipendente nelle grandi imprese dei servizi (base 1995=100) Aprile 2001 INDICI INDICATORI Apr. 2001 Ore effettivamente lavorate per dip. (al netto c.i.g.) Incidenza ore straordinarie (a) Ore di cassa integrazione guadagni Retribuzione lorda media per dip. (al netto c.i.g.) Di cui retribuzione continuativa Costo del lavoro medio per dip. (al netto c.i.g.) 93,0 5,5 47,6 108,5 115,7 102,4 VARIAZIONI % Apr. 2001 Apr. 2000 0,0 -0,4 34,5 -3,8 3,4 -4,2 Gen.- Apr.2001 Gen.- Apr.2000 -1,6 -0,3 51,3 0,7 3,6 0,0 (a) In percentuale delle ore ordinarie; differenza anziché variazioni % L’ultimo Rapporto economico dell’OCSE9, tra le molte cose di grande interesse e le altre, francamente a volte molto banali che sull’Italia segnala, rileva il calo della disoccupazione e prevede che entro il 2002 scenderà di almeno 300 mila unità attestandosi intorno al 9,2%. Ma rileva, anche, segnalando un punto dolente della politica sociale di questo nostro paese, che in Italia “molte famiglie vivono in condizioni di indigenza, col 13,5% del loro totale che dispone di un reddito inferiore ala metà della media nazionale contro la media dell’1,7% che è quella di tutta l’Unione europea”. Prezzi: consumo e produzione La media annua del 2001, preconizza l’Isae10, si dovrebbe attestare al 2,8% scendendo nel 2002 all’1,9 e annullando, in pratica, il differenziale di inflazione con i paesi dell’area euro in questi due anni. Del resto, a luglio, i prezzi al consumo hanno toccato, secondo l’accertamento definitivo nell’anticipo delle città campione effettuato dall’indagine ISTAT, il 2,9% sullo stesso mese dell’anno scorso, salendo dello 0,1 in termini congiunturali rispetto al livello di giugno. Anche nell’indice europeo armonizzato, l’incremento mensile è all’1% ma quello relativo alo stesso mese dell’anno precedente è un po’ più contenuto, al 2,8%. Il dato definitivo per luglio, che non si dovrebbe granché discostare da questo, sarà disponibile solo dopo la metà di agosto. Principali indici dei prezzi al consumo Luglio 2001 INDICI VARIAZIONI % Giugno 2001 Luglio 2001 Lug.01 Giu.01 Lug.01 Lug.00 Per l’intera collettività (base 1995=100) con tabacchi 116,2 116,3 +0,1 +2,9 Armonizzato (base 1996=100) 111,5 111,6 +0,1 +2,8 INDICI DEI PREZZI AL CONSUMO Pesano in modo determinante sui prezzi al consumo i livelli delle tariffe che, quanto a gas e luce, sono al 20% in più della media europea per le famiglie e tra il 25 e, addirittura, il 50% per le imprese. Ora, bisognerà vedere se, dopo la rilevazione e la denuncia 11, qualcuno farà qualcosa per portare alla ragione questo straordinario caro-bollette. Infatti, non basta davvero fissare un po’ più 9 OECD, Economic Outlook, vol. 2001/1, no, 69, June 2001. Rapporto trimestrale, luglio 2001. 11 Nella Relazione annuale, all’Assemblea dell’Authority, del presidente Pippo Ranci, 4.7.2001. 10 in alto di quanto non fosse il tasso programmato se, poi, non si accompagna la cosa – già di per sé ancora insufficiente – con qualche misura attiva sul dente che duole di più. Sulla dinamica dei prezzi, una recente indagine sulle attese d’inflazione di Banca d’Italia-Il Sole24 ore trova le imprese, volte al pessimismo, aspettarsi ora, rispetto alla precedente indagine di marzo dove si prospettava un incremento dei prezzi al 2,8%, una dinamica al 3% per i prossimi 12 mesi. Risultato in contraddizione con le previsioni di molti istituti effettuate in giugno e che stabilivano, addirittura, una caduta dei prezzi al 2%. Ma anche se i suoi associati sono cauti, e pessimisti, a Confindustria basta cogliere il leggero declino di luglio su giugno per tornare a chiedere che il governo abbassi all’1,5% il tasso programmato, nel DPEF, per il 2002 all’1,7%. Nessuno può garantire, ovviamente, che andrà proprio così–– neanche a viale dell’Astronomia controllano, dopotutto, i rubinetti del greggio; e dove, invece, potrebbero fare molto di più, non si sognano neanche di impegnarsi a contenere davvero i listini; né da quella parte si sente mai una parola seria sulla necessità di tenere sul serio le tariffe sotto controllo…E, allora, misure attive di controllo ci vogliono anche perché altro che l’1,5%… neanche l’1,7% di tetto programmato sarà, da sé, sufficiente a difendere il potere d’acquisto di redditi da lavoro e pensioni. Intanto, e per fortuna, i dati sui prezzi alla produzione dei prodotti industriali sono scesi di molto. Già a maggio, al 2,9% di tasso medio annuo, rispetto a quella che ancora ad aprile era una quota del 4,3% e, nel maggio 2000, del 6. Insomma, l’inflazione va accorciando le sue radici (l’effetto calo del petrolio, concentrato in buona parte proprio nelle settimane di maggio) anche se c’è forte reticenza a valle, nelle catene di distribuzione, a trasmetterne gli esiti al costo della vita. E, adesso, a giugno, l’indice dei prezzi alla produzione è diminuito ancora dello 0,2% sul mese precedente, aumentando di conseguenza, solo del 2,3% sul mese di giugno 2000. Al netto dei prodotti petroliferi, di energia elettrica, gas ed acqua, la variazione congiunturale sarebbe nulla e quella tendenziale scenderebbe dall’1,8% del mese scorso all’1,6%. La variazione della media dell’indice negli ultimi dodici mesi rispetto a quello dei dodici mesi precedenti è risultata pari a più 5,3%. Indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali (base 1995=100) INDICE (a) Media Giugno 2001 VARIAZIONI % Giugno 2001 Giu 01 Mag 01 Giu 01 Giu 00 111,6 -0,2 +2,3 Lug 00-Giu 01 (a) Lug 99-Giu 00 (a) +5,3 degli indici relativi ai dodici mesi. Bilancia commerciale I dati disponibili sull’interscambio commerciale riguardano il mese di maggio per il complesso di tutti i paesi cui vendiamo e da cui acquistiamo prodotti, servizi e materie prime. Mentre, per il mese di giugno, è già disponibile, come di consueto, solo il dato sull’interscambio per i soli paesi esterni all’Unione europea. Nel mese di maggio l’interscambio complessivo è risultato positivo per 1.005 miliardi contro un valore negativo registrato nello stesso mese dell’anno precedente (-1.247 miliardi): con esportazioni a +7% ed importazioni a +1,7%. E il saldo complessivo, nei primi cinque mesi dell’anno, ammonta a 1.147 miliardi contro il deficit di 2.791 dello scorso anno. Nel confronto con il precedente mese di aprile 2001, i dati destagionalizzati evidenziano, invece, un calo dello 0,2% dell’export e un aumento dello 0,7 dell’import. Analizzando, poi, i soli dati relativi ai paesi dell’Unione europea, perciò soltanto quelli di maggio, le esportazioni aumentano del 5,7% sullo stesso mese dell’anno 2000 e le importazioni dello 0,7, con saldo commerciale positivo per 365 miliardi, quando era stato negativo per 814 miliardi nello steso mese dell’anno scorso. Positivo anche il saldo complessivo dei primi cinque mesi dell’anno per 552 miliardi di lire (contro il buco di 3.892 dello stesso periodo del 2000). Nel confronto col mese immediatamente precedete di aprile 2001, questo maggio registra per l’interscambio relativo ai paesi dell’UE importazioni stazionarie e un leggero aumento, dello 0,1%, delle esportazioni. Infine, i dati del mese di giugno, disponibili solo per i paesi che sono fuori dell’Unione europea vedono esportazioni in aumento sullo stesso mese del 2000 del 13,6% (a maggio era l’8,6) contro un aumento delle importazioni limitato a meno della metà, al 6% (a maggio, 3%). Saldo positivo per 1.627 miliardi (a solo 222 nello stesso mese del 2000) e, nel periodo gennaio-giugno, saldo sempre positivo per 2.223 miliardi (erano 1.322 negli stessi mesi del 2000). E, sul maggio 2001, al netto della stagionalità, l’export aumenta del 2,7% e l’import dello 0,8. Di fatto, rilevando come a maggio, per il quarto mese consecutivo, la bilancia commerciale fa registrare saldi positivi, anche se le variazioni sono tra le più contenute da più di un anno, fa concludere che l’aumento del surplus complessivo testimonia appieno dell’attuale fase congiunturale: raffreddamento consistente dei ritmi di crescita delle importazioni per la riduzione della domanda interna che ripropone un vecchio trade-off a lungo consueto dell’economia italiana tra equilibrio interno ed equilibrio estero che cercano di bilanciarsi. Esportazioni, importazioni e saldi della bilancia commerciale con i paesi extra UE, UE ed in complesso Maggio e Giugno 2001 DATI DESTAGIONALIZZATI DATI GREZZI MILIARDI DI LIRE Giu.2001 Esportazioni Importazioni Saldi 20.761 19.134 1.627 Mag.2001 Esportazioni Importazioni Saldi 25.268 24.903 365 Esportazioni 46.386 Importazioni Saldi 45.381 1.005 VARIAZIONI % Giu.01 Gen-giu.01 Giu.00 Gen-giu.00 PAESI EXTRA UE 118.930 13,6 12,8 116.707 6,0 12,1 2.223 Mag.01 Gen-mag.01 Gen-mag.01 Mag.00 Gen-mag.00 PAESI UE 118.852 5,7 14,2 118.300 0,7 9,6 552 SCAMBI COMMERCIALI IN COMPLESSO 217.020 7,0 13,5 Gen-giu.01 215.873 1.147 1,7 11,3 MILIARDI DI LIRE VARIAZIONI % Giu.2001 Giu.2001 Mag.2001 20.703 19.196 1.507 2,7 0,8 Mag.2001 Apr.2001 Mag.2001 24.102 23.344 758 0,1 .. 44.270 42.379 -0,2 0,7 1.891 Mercati finanziari e valutari Le notizie sugli utili societari, in generale non proprio brillanti, l’andamento macrocongiunturale, negativo, e i timori, prepotenti, che incombono su tutte le borse di una crisi irreversibile dell’economia argentina – oltre che di quella turca: e del loro possibile congiungimento nei tempi – non sono stati sicuramente di aiuto ai mercati finanziari. Gli operatori sembrano sempre convinti che la decelerazione economica che ha investito i paesi dell’area euro non sia terminata. Perché, come tutti, non vedono voglia di reazione e di correzione dell’andazzo rallentato da parte della autorità economica realmente unita che esiste – la BCE: perché, è ormai del tutto palese, come volontà di agire, la BCE non esiste – e constatano quanto siano sparpagliate e incapaci di azione congiunta le altre autorità – la Commissione, i governi – che, invece, esistono ma non sono davvero unite né, tanto meno, uniche. Sempre le borse, del resto, vivono con un certo allarme la fiacca ormai acclarata dell’economia e del mercato americano, anche se guardano con interesse e fanno il tifo per la voglia di intervenire della Fed sui mercati. M non sembrano credere a una ripresa forte e vicina. Dal lato degli utili aziendali, a parte pochi colossi, tutto il settore tecnologico è in perdita e non può che deprimere i prezzi. Brutte notizie provengono anche dalla Microsoft che, se ha avuto le redini un po’ allentate sul collo dalle autorità antitrust, ha visto anch’essa ridursi gli utili nel secondo trimestre innescando un’altra ondata di scetticismo sulla capacità di ripresa a breve di tutto l’hitech, sia negli Stati Uniti che in Europa. I tecnologici di Piazza Affari non sono stati, naturalmente, immuni a questo clima ed a questi umori. Del resto, la Borsa è in calma piatta e ha avuto solo qualche sussulto per l’affare Montedison, con trend altrimenti perfettamente in linea con quello delle consorelle europee. Il tutto, nel contesto carico di incertezze che abbiamo già sopra descritto, e torneremo fra breve ad analizzare, per le preoccupazioni di fondo manifestate da Greenspan e per la politica della BCE sempre arroccata sulle posizioni immobiliste di sempre. Incertezza anche sui mercati valutari, con breve pausa di respiro per l’euro grazie alle vicende dell’economia argentina e al secco peggiorando del deficit commerciale e del settore manifatturiero americano: sono aumentati i dubbi sulla forza reale del dollaro anche in America e anche alla Fed. Per molti osservatori una correzione duratura e significativa del cambio dollaro-euro sembra inevitabile ma è difficile quantificarne la rilevanza e, in particolare, i tempi. E anche questa situazione si è riflessa sui mercati finanziari rendendo ancor più cauti gli operatori. Le prospettive non sono esaltanti, però, neanche sul mercato obbligazionario dove i rendimenti dei titoli a reddito fisso stanno ormai ai minimi. Le opinioni degli operatori per i prossimi tre mesi prevedono ancora un lieve ribasso. Ma su tutto rimane l’incognita della sfinge, pardon della BCE, su una cui possibile anche se tanto ritardata manovra potrebbero crescere rilevanti ripercussioni sia sui tassi a breve che a lungo termine. TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI Europa L’euro, alla quarta settimana di giugno, ha ritrovato il valore di cambio più alto da due mesi col dollaro, a livello 0,88. Ma non sembra un recupero duraturo ed è imputabile assai più che a una fiducia rinnovata nella moneta europea (certo, aiuta che l’inflazione sia vista andare più piano e che quindi sembrino meno salde le ultime scuse della Bce ad abbassare i tassi) al traballio, contingente, del dollaro colpito dal pessimismo ribadito di Greenspan e che neanche la giaculatoria del segretario al Tesoro, Paul O’Neill, sulla volontà di Washington “a favore di un dollaro forte”12, riesce stavolta a aiutare. Si diffonde il giudizio – dappertutto, meno che nel direttorio della Bce, a quanto pare – che un po’ in tutta l’area euro il terzo trimestre frenerà la ripresa, anzitutto per la debolezza complessiva e diffusa della domanda interna in molti, troppi, quasi tutti i paesi. Il rallentamento generale dell’export, dovuto al rallentamento generale dell’economia nel resto del mondo e specie in America13, ha in effetti accompagnato, forse anche innescato ma, certo, non di per sé solo provocato, la contrazione economica di tutti all’interno. 12 Dichiarazioni subito prima del G8 a Genova (18.7)e subito dopo Genova (25.7). Ma contraddittorie, ad esempio, rispetto alla denuncia degli “effetti perversi” del dollaro forte concordata a inizio luglio dai ministri dell’economia dei G10, tra cui Paul O’Neill… 13 Secondo IntesaBci, citata da Il Sole24Ore, 20.7.2001, già “nel secondo trimestre il commercio estero americano potrebbe essersi contratto del 15-17% (sia per l’import che per l’export) rispetto al periodo precedente”. E, in effetti, il poco di crescita del PIL che c’è stato nel primo trimestre è stato, praticamente dovunque, conseguenza proprio del contributo delle esportazioni. In Germania, ad esempio, una delle economie più in difficoltà, l’attivo dell’interscambio da solo avrebbe dato una crescita stellare del 3,8% del PIL; ed è stata proprio l’anemico livello dei consumi interni, solo +0,1% sempre nel primo trimestre, a deprimere la performance economica. L’inflazione, che si è accentuata ma sta cominciando a ridursi, ha eroso severamente il potere d’acquisto e scoraggiato, naturalmente, i consumi. E la testarda politica monetaria della Bce contribuisce non poco a deprimere la domanda, sia i consumi che gli investimenti. Dal novembre ’99 la stretta ha fatto aumentare i tassi di 225 punti base e non c’è neanche l’accenno a una riduzione (anche a luglio, da Francoforte, è arrivato secco in tutte le lingue dell’euro, l’ennesimo nyet della Bce). . Anzi, il tasso sembra ormai imbalsamato da una Banca centrale convinta, così, di difendere i redditi dall’inflazione – riuscendoci male – e, soprattutto, la propria autonomia. E da quel Duisenberg, suo presidente, che si rimangia adesso, pubblicamente14, proprio per non comprometterla – dice15 – l’impegno, privato ma noto a tutti, assunto a inizio mandato per essere scelto di dimettersi a metà del periodo. E, ora, la combinazione di un’inflazione in leggera decelerazione e di un abbattimento di tasse che, per ragioni di bilancio e di impegni di tutti verso tutti gli altri, non può che essere assai graduale dovunque, rischia di far materializzare un inizio di ripresa concreta solo nel quarto trimestre dell’anno, se va bene, e in misura consistente solo nel 2002, e non prima. Per accelerare i tempi della ripresa sarebbe essenziale, a questo punto, un contributo diretto e coraggioso della Bce sui tassi: più che per l’effetto immediato di una riduzione – circoscritto: ma garantito, dopo qualche mese, come taglio sugli interessi che la gente paga su carte di credito, ipoteche, mutui e sul numero dei posti di lavoro creati e distrutti nell’economia – per il contraccolpo psicologico che, col suo “eppur si muove!” darebbe ai mercati. Ma, insegna don Abbondio, uno se il coraggio non ce l’ha mica se lo può dare, no? Un atto che, dunque, resta improbabile, a meno che il potere politico (come quello dell’Unione, il Consiglio dei ministri più che la Commissione, dopotutto eletto dai cittadini anche se indirettamente e che ai cittadini, alla fine, è chiamato a rispondere) non faccia capire al potere tecnocratico (il direttorio della Bce è designato da quel potere politico e non è eletto invece da nessuno) che l’indipendenza non può equivalere all’irresponsabilità. C’è un’altra proposta che ormai viene emergendo, quella di ridiscutere il Patto di stabilità a livello di Unione europea. La sta coltivando anche il governo italiano – il ministro dell’Industria Marzano ha avviato, a inizio luglio, sondaggi in materia, lasciando fluttuare voci e rumori in proposito. Sarà importante, però, che l’Italia ne verifichi la reale fattibilità con gli altri governi – non solo il Portogallo, ma Francia e Germania che, come e anche più dell’Italia, sono nei guai per rispettare i parametri di rapporto deficit/PIL fissati nel Patto – e che la proposta, se deve essere fatta, venga avanzata insieme all’Unione. E, dice Stephen Roach, capo economista della Morgan Stanley (Wall Street Journal, 13.7.2001) che ormai gli Stati Uniti hanno trascinato il mondo “da un rallentamento economico alla recessione globale”, perché tale va considerata – secondo lui: è un’opinione, ma non è un’opinione qualsiasi – una crescita mondiale che resti sotto il 2,5%. 14 Lo fa riferire, senza smentite, al Wall Street Journal, il 19.7.2001. 15 Meglio, lo lascia dire “ai suoi uomini”, riferisce la Repubblica, 20.7.2001, che “in vista dell’introduzione dell’euro come moneta corrente, il 1° gennaio prossimo, pensa che un suo abbandono dell’incarico avrebbe effetti negativi sulla moneta unica”… quando, a dire il vero, effetti negativi sembra averli avuti finora – un quarto del proprio valore perduto in due anni – proprio la sua permanenza in quell’incarico… In primo luogo, bisognerà pur ricordarsi, tutti, che il Patto di stabilità si chiama, in realtà, di stabilità e di sviluppo. Anche perché, sulla base di una crescita assai meno sostenuta di quanto tanti avevano pensato e sperato, i limiti stabiliti allora potrebbero ben essere riveduti e corretti adesso da tutti e per tutti i contraenti. Del resto, gli obiettivi del Patto parlavano e parlano di pervenire all’equilibrio nel “medio termine”, non a caso una scadenza definita così vagamente e che solo un malinteso machismo si ostina, ormai, a non riconoscere che sia necessario fissare un poco più in là. Intanto, le borse sono calate un po’ dovunque in Europa, per l’allarme diffuso e persistente sul valore reale dei titoli tecnologici e quella spagnola ancora di più, essendo la più esposta tra quelle preoccupate dal crac finanziario che si va sviluppando in America latina. Stati Uniti I soliti segnali contrapposti dall’economia americana, difficili da leggere coerentemente: va bene? va male? la diagnosi più probabile è che vada così così… La produzione industriale è scesa a giugno dello 0,7%, con una flessione ben superiore alle attese e nono mese di seguito in calo – il periodo più lungo dall’82 – arrivando a quasi il 4% in meno di un anno fa. Particolarmente pesante la flessione di produzione di beni durevoli e di quelli del settore tecnologico (semiconduttori, telecomunicazioni: letteralmente in crollo). Nel secondo trimestre la produzione industriale è caduta del 5,6% sul primo, un po’ meno che nel primo trimestre, quando era calata del 6,8% sull’ultimo del 2000. Anche l’utilizzo degli impianti è calato al 77%, a giugno – dal 77,6% di maggio – il livello più basso dall’agosto dell’83: indice chiaro di un’economia che resta malaticcia anzicheno, “precaria” per dirla con Alan Greenspan16: del resto, il tasso di crescita del PIL nel secondo trimestre del 2001 cresce solo dello 0,7% sul primo (ed è l’incremento più basso dal primo trimestre del lontano ’93) e il PIL del 2000 viene rivisto pesantemente al ribasso dallo strombettato +5% al 4,1% (sempre un ottimo score, si capisce, ma è un’altra cosa)... per ora17. Ed è proprio la produzione industriale che risente al momento di più della frenata di tutta l’economia, con le scorte di magazzino che, a maggio, sono rimaste invariate quando gli analisti prevedevano, e speravano, che scendessero un poco. E questo è un indicatore importante perché la ripresa diventa concretamente possibile, nella realtà delle cose e non solo nelle previsioni, quando le aziende riescono a smaltire le giacenze di magazzino in eccesso. Che sono ancora, e di molto, in eccesso, anche se il rapporto giacenze-vendite scende da 1,44 a 1,42: il che vuol sempre dire che per ogni unità di prodotto venduta ce n’è in magazzino un’altra mezza ancora invenduta.... Il tasso di inflazione, segnato dall’indice dei prezzi al consumo, sale a giugno al 3,2% in più dell’anno scorso. E quello ufficiale della disoccupazione sale lo stesso mese al 4,5%, con i posti persi tutti concentrati nel settore manifatturiero ma con preoccupazioni in aumento. Dice Lawrence Lindsey, consigliere economico della Casa Bianca, alla CNN18 che in estate il tasso di disoccupazione potrebbe arrivare anche sopra al 5%, dal 4,5 di giugno. Ma ci sono, dicevamo, pure segnali di miglioramento, certo dovuti anche al rallentamento dell’economia stesso che migliora il deficit commerciale per un certo aumento delle esportazioni e la rinuncia a comprare molti prodotti importati da parte degli americani: così, il buco19 scende al minimo da 16 mesi, a $28,3 miliardi in maggio, l’11,4% in meno e i livello più basso dal gennaio 2000 quando arrivò a 26,4 miliardi. E come ribadisce, un po’ cupamente, all’Associated Press il capo economista dell’America Associated Capital, Lynn Reaser, il 18.7.2001: “sono numeri che non ci permettono affatto di dire davvero che abbiamo già toccato il fondo”. 17 Dice il dipartimento del Commercio, nel comunicato ufficiale del 27.7.2001. 18 Il 12.7.2001. 19 Dati pubblicati dal dipartimento del Commercio e riportati dall’A.P., il 19.7.2001. 16 Adesso, a maggio, i 116,1 miliardi di import hanno segnato il livello di deficit minore dal febbraio 2000, quando le importazioni sommarono solo 114,8 miliardi. Salgono, invece, le esportazioni: i beni di consumo americani venduti all’estero hanno toccato, a maggio, $8,1 miliardi; i beni capitali (aeroplani, macchinari petroliferi, macchine da ufficio) hanno venduto $28,2 miliardi. E i servizi prodotti in America (brevetti licenze, viaggi aerei, ecc.) hanno venduto all’estero per $24,9 miliardi. Il deficit, insomma, si contrae. Ma resta enorme, a paragone di quello di ogni altro paese ed in assoluto. Nei primi cinque mesi del 2001 era cresciuto fino a $155,3 miliardi, contro i 147,1 dell’anno scorso, quando a fine 2000 si gonfiò fino al record di $375,7 miliardi. Adesso, ad aprile è – su base annua – a $458 miliardi e, a meno di una crisi economica proprio pesante, è praticamente sicuro che sotto i 450 quest’anno non riuscirà a scendere. Si tratta di una bella fetta di PIL, il 4% secco, bruciato così. Nessun altro paese, tra quelli dell’OCSE, è così disastrato. Ma questo deficit commerciale, come quello analogo dei conti correnti, è molto meno importante per gli USA che per qualsiasi altro paese del mondo, perché l’afflusso continuo di capitali, privati e anche pubblici, dall’estero consente all’America di vivere al di sopra dei propri mezzi come nessun altro paese potrebbe – può – a lungo fare. Ma è anche un buco che costituisce un sintomo, importante, di uno squilibrio chiave dovuto al fatto che qui spendono assai più di quanto producano e che dipendono, alla fine, dagli altri (capitali privati, Banca del Giappone, BCE, autorità monetaria dell’Arabia saudita, quant’altro) per poterlo continuare a fare. I testi base di economia del primo anno di qualsiasi università insegnano che la sola maniera per raddrizzare questo squilibrio è quella di lasciare che si deprezzi la moneta, il dollaro, nella quale esso è espresso per consentire agli americani ed ai consumatori stranieri di consumare molti prodotti americani in più di quanto facciano adesso. Ma ci vuole tempo, per farlo e, nei fatti, sta capitando tutto il contrario: malgrado i segnali di frenata dell’economia americana, il dollaro ha raggiunto a metà luglio il potere d’acquisto reale maggiore da 16 anni a questa parte20. E, se la domanda interna resta comunque alta, ci vuole ancora più tempo. In questo caso, solo una politica monetaria più restrittiva ed una politica di bilancio più rigorosa potrebbero aiutare. Cioè, esattamente il contrario di quanto stiano adesso facendo la Federal Reserve (sei ribassi dei tassi consecutivi) e l’amministrazione Bush che taglia le tasse 21 e aumenta molte spese. Come, ad esempio, i $100 miliardi che costerà il primo round della nuova corsa alle guerre stellari, finché – come già successe per il primo tentativo di Reagan – l’impossibilità del compito non li convincerà ancora una volta a desistere, dopo aver bruciato centinaia di miliardi di dollari in ricerca, sviluppo ed esperimenti. Per definizione, però, al contrario di quanto è avvenuto per la corsa allo spazio, nella corsa all’armamento stellare, largamente incapaci di ricadute utili in terra … 20 The Economist, 14.7.2001. A proposito. La novità è che il piatto piange. Cominciano, sì, ad arrivare a domicilio gli assegni delle restituzioni – 600 dollari per coppia, 300 ai single: primo assaggio (avvisa l’Ansa del 31.7.2001) del maxirimborso fiscale di $1.350 miliardi spalmato su dieci anni – ma per spedirli il Tesoro non li prende come aveva detto dal surplus – nella realtà non c’è: questo mese doveva essere di $58 miliardi ma s’è materializzato, invece, uno scostamento di ben $108 miliardi di dollari – ma li trova a prestito, sul mercato, per $51 miliardi, 110 mila miliardi di lire... Torna in mente l’“economia del voodoo” , il termine con cui nell’80 l’allora candidato alla presidenza degli USA George Bush senior caratterizzò le proposte di politica economica del suo rivale, Ronald Reagan... salvo poi diventarne il vicepresidente pochi mesi dopo e trovarsi sul groppone, dopo otto anni, quando lui se ne andò, un debito pubblico moltiplicato per quattro proprio dal voodoo finanziario del suo carismatico predecessore... Buco che Bush jr. si appresta forse a riprodurre, dopo che Bush sr. si guardò ben dal riempire, lasciandone tutto l’onere a Clinton. 21 Dice che in America no, che in America non può succedere, che l’America non è né l’Argentina né la Russia… Ma è già successo che gli americani abbiano dovuto stringere la cinghia anche loro e di brutto. Può succedere, insomma, può succedere ancora. Soprattutto se si accentua la tentazione – alla fine controproducente anche in campo economico – del loro presidente non all’isolazionismo, come dicono molti sbagliando, ma all’unilateralismo decisionale più spinto su tutto in nome del principio suo guida che non c’è un interesse comune, o maggioritario, del genere umano e della comunità internazionale ma prima – prima di tutti e di tutto – viene sempre, e dunque solo va tenuto in considerazione, l’interesse dell’America, così come, ovviamente, lo vede lui: sul clima, sulle armi biologiche, sui paradisi fiscali, sul trattato antibalistico, sulla diffusione delle armi individuali, sui tribunali internazionali per gli altri, per tutti, ma non per gli americani, ecc., ecc., ecc.... L’America fa da sé e fa per sé. Finche può... Il superindice, o indice composito dei maggiori indicatori economici – che misura il comportamento a tre mesi dell’economia – migliora dello 0,3%, a giugno, per il terzo mese di seguito, ma un po’ meno che a maggio22. Inoltre le ultime informazioni provenienti dall’andamento dei consumi e dei redditi personali non sono così pessimistiche. L’indice del costo del lavoro nel secondo trimestre è cresciuto dello 0,9%, in linea più o meno con le previsioni, ed è il segno che il rallentamento economico comincia a farsi sentire contenendo l’aumento delle buste paga. Ma continua a salire, leggermente, a giugno il reddito personale medio, dello 0,3%, così come la spesa per i consumi, dello 0,4%. Coi consumatori che continuano a spendere – finché dura... – più di quanto guadagnano (anche se l’indice di fiducia cala, ancora una volta contraddittoriamente, a luglio di 2,4 punti su giugno23). L’indice dei manager degli acquisti nel settore manifatturiero (indice Napm) risale nel mese di giugno dal 42,1 al 44,7. Anche gli ordini manifatturieri non sono negativi: in maggio sono saliti del 2,5%, contro le aspettative degli operatori ferme all’1,5% (ma in aprile si era riscontrata una flessione del 3,4%). Sta arrivando, poi, al pettine un nodo, diciamo “sociale”, assai intricato, quello della scadenza – dopo cinque anni, come stabilisce la nuova legge del ’96 – di ogni assistenza federale alle famiglie il cui “capo” – donne sole, spesso – nel frattempo non sia riuscito a trovare un “lavoro a tempo pieno”, come dice la legge, anche solo per ragioni di salute o necessità di cura ai bambini. E nessuno sa cosa accadrà, adesso, a queste famiglie…24 Insomma, e in conclusione, non pare che i tagli con cui la Fed sta sforbiciando da mesi il costo del denaro, abbassando i tassi, provochino le sperate reazioni massicce di ripresa immediata. Tuttavia, considerando i debiti ritardi di aggiustamento – dagli otto ai dodici mesi, di regola – di questo sugli altri fattori macroeconomici, non c’è dubbio che gli effetti verranno. E che, intanto, se recessione ancora non c’è è proprio perché la manovra della Banca centrale federale, tenendo su i consumi, mantiene forte “l’unico fattore che negli ultimi nove mesi ha impedito all’economia di cadere già in recessione”25. Quanto all’opinione, diffusa (anche tra i G7 nella riunione di Genova del 7 luglio che ha preceduto il G8) che dalla ripresa americana, quando verrà, uscirà anche la ripresa dell’Europa e degli altri, si 22 Dati del Conference Board, 19.7.2001. Insomma: gli americani sono decisi a continuare a spendere, hanno una solida fiducia di fondo nell’economia del paese e, per spendere, continuano a indebitarsi... Ma l’indice di fiducia traguarda il futuro e su di esso non sono convinti di una ripresa rapida e consistente. 24 New York Times, N. Bernstein, As Welfare Deadline Looms, Answers Don’t Seem So Easy, Con l’incombere della scadenza della pubblica assistenza, le risposte non sembrano facili, 25.6.2001, p. A1. 25 New York Times, D. Leonhardt, Belt Tightening Is Called Threat to the Economy, Stringere la cinghia è una minaccia per l’economia, 15.7.2001, Sez 1, p. 1. 23 tratta probabilmente del solito proiettare al futuro i comportamenti passati, come quando nel ’98 fu appunto l’economia USA a tirar fuori dal rallentamento anche tutte le altre. E’ uno scenario, in effetti, poco plausibile tenendo conto che gli USA hanno il deficit commerciale che dicevamo, il 4% del PIL, cioè che prendono a prestito dall’estero $450 miliardi ogni anno per andare avanti. Per provvedere al resto del mondo il tipo di stimolo del ’98, quel deficit dovrebbe salire al 6% del PIL e gli USA si dovrebbero far prestare dal mondo $700 miliardi all’anno: un livello di indebitamento che neanche gli Stati Uniti potrebbero sostenere, come proprio Greenspan ha mandato a dire chiaro e tondo ai ministri di Genova26. C’è un ultimo elemento che vale la pena di segnalare, al quale ha fatto cenno e sul quale ha, dunque, attirato l’attenzione proprio Greenspan: è un saggio27 che parla delle nuove tecniche contabili con cui le grandi corporations redigono i loro bilanci negli anni recenti. L’analisi mostra che questi nuovi sistemi gonfiano i profitti in media del 60% rispetto al dato che avrebbero evidenziato le vecchie pratiche standard di contabilità: quelle che ancora sono adottate quasi dovunque nel resto del mondo... Germania Alla faccia degli ottimismi sbandierati dalla Bce e anche dalla Bundesbank, un po’ meno a dire il vero dal governo tedesco, aumentano le possibilità che la situazione economica peggiori in Germania e c’è chi parla, autorevolmente e ormai apertamente28, anche se la previsione sembra al momento un po’ esagerata, di un paese in “zona rischio di recessione” (ossia, di due consecutivi trimestri di calo dell’attività economica che si potrebbero – dicono alcuni e con una certa qual voce in capitolo – ormai profilare in un orizzonte temporale ravvicinato). Cresce un po’, dello 0,9% a maggio dopo la caduta del1’1,4% di aprile, la produzione industriale e anche gli ordini dell’industria salgono, a maggio, del 4,4%. Insomma, l’attività produttiva rimane debole ma sembra che qualcosa si muova e resta solida, per fortuna, la fiducia dei consumatori. Ma, intanto, calano le vendite al dettaglio del 2,3% nei primi cinque mesi dell’anno, rallenta pesantemente la crescita dell’export – dal 16,7% nei primi quattro mesi dell’anno al 4,8 alla fine di maggio: e questo, il motore dello sviluppo dell’economia tedesca, è innegabilmente in difficoltà, correlato al calo della domanda mondiale – e cala la fiducia delle imprese, di 1,3 punti a giugno su maggio, nell’indice IFO. Cala, sempre di 1,3 punti, l’indicatore sulle aspettative dell’economia reale, sempre a giugno e sempre nell’indice dell’Institut für Wirtschaftsforschung – Istituto di ricerche economiche, IFO appunto, che certo, a questo punto, corre un po’ il rischio di ogni Cassandra (quello di essere un campanello d’allarme: utilissimo, ma sempre un po’ male accolto) – e, dicono tutti, che è ancora destinato a calare nel futuro prossimo. Il fatto è che la Germania risente della frenata dell’economia mondiale prima e di più degli altri paesi dell’euro. Anche, ormai, sul piano occupazionale: molte società decidono, o annunciano di voler decidere, il taglio di posti e il cancelliere – che della lotta alla disoccupazione aveva annunciato di voler fare il fulcro del programma di governo: “meno di 3 milioni e mezzo di senza lavoro”, era lo slogan, per la data delle elezioni – si allarma, a un anno ormai dalle urne dell’autunno 2002. 26 Washngton Post, S. Pearlstein, US Slowdown Going Global, Il rallentamento americano si va facendo globale, 18.7.2001, p. A1. 27 Washington Post, J. Gillis, Corporate America’s New Math, La nuova matematica dell’America degli affari, 22.7.2001, p. H1. 28 Elga Bartsch della Morgan Stanley, cit. in Il Sole24Ore, 24.7.2001. Nella maggioranza, c’è chi comincia a criticare autorevolmente le imprese perché ricorrono troppo “agli straordinari invece di creare nuovi posti di lavoro” e minaccia apertamente di “intervenire”29 e c’è chi, nel sindacato30, propone di trasferire a livello nazionale la ricetta Volkswagen, in vigore dal ’94: lavorare meno, con meno salario, per lavorare tutti. L’IFO dichiara seccamente che la disoccupazione, comunque, crescerà ed che difficilmente l’obiettivo di abbatterla sotto i 3 milioni e mezzo per ottobre 2002 potrà essere rispettato dal cancelliere31. L’effetto, diciamo così positivo del rallentamento, è sull’inflazione: i prezzi all’ingrosso scendono, a giugno, dello 0,5% su maggio, con l’incremento su base tendenziale che è contenuto, al 3,1%; e i prezzi al consumo scendono dal 3,5% di maggio al 3,1 di giugno e al +2,7% ora, a luglio 32. La speranza è che i consumi, incoraggiati da questo calo dell’aumento dei prezzi (di questo si tratta: non certo di un calo assoluto) possano un poco riprendersi. Dovrebbe aiutare, in tal senso, anche la nuova legge che lascia ogni dettagliante ormai libero di offrire ai clienti gli sconti che vuole e non solo nei periodi canonici dei saldi. Un andamento complessivo che ha riacceso il dibattito sul welfare perfino in Germania— dove resta ancora una delle strutture più robuste d’Europa e del mondo e dove il cancelliere von Bismarck lo “inventò” originariamente, alla fine dell’800. Adesso, è il ministro dell’Economia, Müller – un tecnico – che comincia a parlare e proporre – per ora come per sondare sul terreno soltanto, però – della necessità di esaminare la possibilità – tutto, come vedete, molto al condizionale – di ridimensionare il welfare. Ma non ci credono molti. Il rallentamento dell’economia mondiale e la frenata pesante imposta così anche a quella tedesca, comporta però anche di queste ipotesi. E altre, magari di segno del tutto opposto: sono molti gli economisti di nome a raccomandare – come, del resto, abbiamo visto fa anche all’Italia la Deutsche Bank – che, invece, il Cancelliere e il governo lascino perdere le fisime della Bce su un’inflazione pericolosa ma, come si è visto, in costante discesa e prendano, invece, in maggiore considerazione la congiuntura che va realmente calando: senza fare “l’errore di risparmiare denaro durante un rallentamento economico” e di aumentare, dunque, adesso, la spesa pubblica33. Stanno calando, del 3,5% dice l’Istituto centrale di statistica34, le entrate fiscali, sia statali che regionali, del primo semestre ma nessuno – neanche il governo, in effetti – scommette più che l’1,5% di rapporto deficit/PIL ammesso nel 2001 dai Patti europei, sarà rispettato. A metà luglio la Germania ha “accettato”35 la richiesta della Commissione europea di eliminare completamente – “a medio termine”, però, hanno specificato le autorità tedesche senz’altra precisazione – il sistema federale di aiuti pubblici alle banche pubbliche. Sono le casse di risparmio regionali (le Landesbanken) che il governo tedesco è stato ora obbligato a lasciare a se stesse per Con misure di ordine legislativo: Focus, 30.7.2001, intervista al capogrupoo dell’SPD al Bundestag, Peter Struck. I due maggiori sindacati di categoria, il Ver.Di (banche, servizi, pubblico impiego) e l’IG-Metall (metalmeccanici), col sostegno della confederazione, la Dgb, dicono esplicitamente che – per contratto, però, più che per legge – “la settimana lavorativa di 4 giorni, con corrispettivi tagli di busta paga, non può essere più un tabù”. Dissentono gli industriali (“è una misura che strangolerebbe i timidi segni di ripresa”) e, ovviamente, gli economisti classici (“non risolve i problemi di struttura del mercato del lavoro: serve solo far crescere le paghe meno della produttività”— cosa che, peraltro, non andrebbe sembra di capire applicata ai professori universitari e che, anche se non se ne sono accorti, già avviene nei fatti) e dissente l’opposizione cristiano-democratica (“serve solo una dose massiccia di flessibilità”, pure se non si capisce perché non l’hanno promossa quando erano loro, fino a qualche anno fa e per diciotto anni di seguito, dopotutto, al governo). Tutto il dibattito si sta svolgendo a partire da un grosso servizio della Bild, uscito il 31 luglio. 31 Dichiarazione di Willi Leibfritz, capoeconomista dell’IFO, alla radio SüdWestRundfunk, 29.7.2001. 32 Istituto statistico di Wiesbaden, comunicato del 24.7.2001. 33 E’ il consiglio ufficiale, e pesante, il 23.7.2001, di Klaus Zimmermann, presidente del Diw, l’altro grande Istituto tedesco di ricerca economica che ha anch’esso status semi-ufficiale. 34 V. Nota32. 35 Lo ha reso noto, a Bruxelles, il Commissario alla concorrenza, Mario Monti, il 17.2.2001. 29 30 non incorrere nella procedure di infrazione formale dell’Unione europea. Ma solo dal 18 luglio del 2005, dice l’intesa; e con gli strumenti finanziari emessi dalle banche dei Länder titolati ancora a godere dei “privilegi” attuali fino, addirittura, al… 2015. Sembra un passo avanti più di principio che altro per la Commissione ma sembra anche ragionevole e prudente lasciare alla Germania il tempo necessario alla transizione. E’ anche una lezione di metodo per altri, però: e lo diciamo, qui, per chi dovrà trattare con l’Europa sul fare parti disuguali tra disuguali per il Mezzogiorno d’Italia. Nel senso che, con la Commissione, i problemi si affrontano a viso aperto, in modo trasparente: non con sussurri e grida, né con invocazioni al “volemose bene” o al ”chi ‘a avuto, ‘a avuto, ‘a avuto”… E che le soluzioni si cercano – e alla fine si trovano, ragionevoli – se sono misurate e calibrate tra obiettivi ideali e realtà possibili. Francia Anche se scende l’indice di fiducia delle famiglie, sale nel mese di giugno dell’1,5% su maggio (quando era scesa dello 0,8 su aprile) la spesa in consumi portandone la crescita al livello annuale del 2,7%36, mantenendo così una tendenza che da anni caratterizza positivamente la Francia rispetto agli altri paesi dell’euro. E’ l’effetto combinato di diversi elementi. Anzitutto del calo di ritmo dell’inflazione che, in giugno rispetto al mese precedente, sale dello 0,2% portando il tasso annuale al 2,1%: a maggio, l’incremento dei prezzi aveva toccato lo 0,7% e la variazione annua il 2,5%. Calano, invece, a giugno su maggio, inaspettatamente, i prezzi alla produzione: dello 0,1%, portando l’indice tendenziale ad un assai contenuto 2,3%. Comunque, e nel complesso, la dinamica più recente dei prezzi porta a rivedere al rialzo le stime anche per l’inflazione che nel 2002 dovrebbe ora passare dall’1,2 all’1,5%. Altri fattori che hanno tenuto su livelli abbastanza elevati i consumi sono stati anche l’anticipo della stagione dei saldi – che però farà scendere a luglio, il mese finora tradizionale, l’acquisto di tessili e abbigliamento – e le nuove più numerose immatricolazioni di auto, probabilmente conseguenza, anche qui congiunturale, dell’abolizione della tassa di immatricolazione. Ma è una ripresa tutta fondata su consumi quasi una tantum e la Banca di Francia ha ribassato le proprie previsioni di crescita del 2001 dal 3,3%, che erano a inizio anno, prima al 2,3 (un mese fa) e adesso, forse, all’1,8%. Ed anche il Fondo monetario internazionale ha ribassato le sue previsioni, al 2,3 dal 2,6% di qualche mese fa. Rimangono al 3% le previsioni sul 2002, ma anch’esse si fondano sull’ipotesi di una ripresa dell’economia americana, più che di quella francese o europea. Ed anche qui, come in Germania e in Italia, non sarà possibile rispettare il livello massimo di deficit sul PIL consentito dagli accordi europei (qui l’1%), perché anche qui con la crescita si riducono anche le entrate fiscali (di almeno 15 mila miliardi di franchi, si calcola) quando pure il bilancio prevede diversi incrementi di spesa (l’anno prossimo ci sono le elezioni presidenziali) e 13 mila nuove assunzioni per il pubblico impiego. Sempre la Banca di Francia, in una nota37, osserva – anche se non trova il coraggio almeno della velata autocritica che si imporrebbe visto che, come molti altri, anche la Banca di Francia è correa – che il “rallentamento dell’economia americana” cominciato ormai da quasi un anno “ha sorpreso molti osservatori convinti che l’economia europea fosse più autonoma e, quindi, al riparo dalle onde sismiche provenienti da oltre Atlantico”. Quando non era proprio così. 36 37 Dati dell’Insee, 24.7.2001. Comunicato del 23.7.2001. Si va deteriorando l’interscambio: $150 milioni di deficit nei dodici mesi fino a maggio contro l’attivo di $12,1 miliardi dell’anno scorso. E l’attivo di conto corrente, nello stesso periodo, s’è ridotto a $14 miliardi , meno della metà dell’ano passato. Sale, invece, a maggio dello 0,3% su aprile, quando era scesa dello 0,4%, la produzione industriale. Sul piano occupazionale, l’indice aumenta a giugno dello 0,4% su maggio e porta all’8,8% annuale il numero delle persone in cerca di lavoro. L’obiettivo del governo a fine 2001, l’8,5%, non cambia. Ma, intanto, è rottura con gli industriali che non accettano la mediazione del ministro del Lavoro, Elisabeth Guigou, per l’estensione “controllata” della legge sulle 35 ore anche alle piccole e medie imprese dal 1° gennaio 2002, parzialmente finanziata – qui batte il dente del Medef – con denaro pubblico (13 miliardi di franchi per il 2000 e 3 quest’anno)38. E mentre si fa molto cupo l’indice di fiducia delle imprese (a luglio, -3 punti, il livello più basso dall’aprile del ’99), il presidente degli industriali, Sellière, fa uscire formalmente il Medef dalla gestione paritetica, coi sindacati, della previdenza sociale. E’ una protesta, a modo suo, sacrosanta contro un’invadenza statale che, nei fatti, vanifica in Francia le relazioni industriali, rendendo impossibile, perché vuota, ogni contrattazione significativa. Ma il problema è che, nella realtà delle cose, al Medef è sempre andato, in generale, benissimo che le regole del gioco delle relazioni industriali le dettasse lo Stato: obietta solo adesso, infatti, non perché continua a dettarle come sempre lo Stato, non in linea di principio ma opportunisticamente: perché lo Stato adesso le detta in maniera che – comprensibilmente, dal loro punto di vista – agli industriali non piace. Gran Bretagna Tra i paesi europei, questo è quello che in termini occupazionali e produttivi, si mostra ancora in discreta salute. Anche l’inflazione, che s’è messa nei mesi recenti ad avvampare un po’ ovunque nell’area euro, rimane sotto controllo, sia per i prezzi al consumo che per i prezzi alla produzione. Cala però vistosamente anche qui la crescita del PIL, che sale nel secondo trimestre solo dello 0,3%, rispetto allo 0,5 di quello precedente, cioè in ragione d’anno del 2,1 invece che del 2,7%. E, dicono le previsioni più accreditate, la frenata dell’economia, in generale, e la robustezza, in particolare, della sterlina deprimeranno la crescita nella seconda metà dell’anno 39. E’ la Confindustria, il CBI, a mostrare la preoccupazione maggiore, quando sottolinea il livello scarsissimo di fiducia dei suoi associati nel futuro dell’economia – per colpa proprio della sterlina che, aggiungendo il suo peso frenante alla riduzione di import da USA e Germania, strozza ogni esportazione – e chiede apertamente alla Banca d’Inghilterra di abbassare ancora il costo del denaro40. Si accentuano, insomma, le due velocità di un’economia che spinge forte coi servizi i consumi interni, alimenta quindi una spinta all’inflazione (che, però, nei fatti non sale e resta a giugno là dove era a maggio, al 2,4% nonostante un certo incremento dei generi alimentari, controbilanciato dal calo dei prezzi energetici41) e tiene, perciò, gli interessi abbastanza elevati (al 5,25%, il tasso più elevato dei G7). 38 Le Monde, 25.7.2001. La maggior parte degli analisti, compresi quelli dell’Institute of Directors che riunisce i managers di tutto il paese, dicono (23.7.2001) di una crescita che a fine anno sarà appena all’1,8% (era stata al 3,1 nel 2000), anche se il Tesoro è (istituzionalmente) più ottimista e parla, al minimo, del 2,25%. 40 Nick Reilly, presidente del Comitato economico della Confederation of British Industries lo dice senza mezze parole a The Times, 25.7.2001. 41 E’ soprattutto la crescita, assai contenuta, dei prezzi alla produzione – lo 0,6%in maggio – a rassicurare su un’inflazione che, come si dice, ma realmente, sembra restare sotto controllo. 39 Ma è anche un’economia che, come si affaccia all’estero, nel manifatturiero ma pure in certi servizi (per il valore della sterlina) è ormai incapace di ogni competitività. Lo rileva in questi termini esatti Sir Eddie George, il governatore della Banca centrale. Egli teme, e lo dice esplicitamente, che il pratico annullamento del settore manifatturiero possa portare ormai a “una rapida caduta della sterlina”. Che è, sì, supervalutata ma potrebbe anche letteralmente “sfaldarsi”, dice Sir George42. I sindacati, per parte loro, temono che la supersterlina, se la Banca d’Inghilterra non abbassa ancora, rapidamente e decisamente, i tassi d’interesse – lo chiedono anch’essi, come la Confindustria e per gli stessi motivi – porterà a un livello di distruzione della produzione manifatturiera tale da far perdere almeno 150 mila posti di lavoro di qui alla fine dell’anno43. La Banca d’Inghilterra dovrebbe, dunque, abbassare ancora a breve i suoi tassi: anche perché c’è e chi sarcasticamente comincia a chiedersi a che serve stare fuori dell’euro e della BCE per distruggere l’industria se poi la BoE si comporta esattamente come una DuisenbergBank qualsiasi... E’ ormai probabile che cederà alle pressioni dell’economia reale, portando il livello del tasso di sconto al 5% dal 5,25 cui è già sceso con i tre tagli apportati tra febbraio e maggio. Però, in assoluto, la disoccupazione è al livello più basso dal 1975, a maggio al 4,9% (secondo il calcolo fatto coi parametri dell’Organizzazione internazionale del lavoro che include le persone non aventi diritto all’assegno di disoccupazione ma pur sempre disoccupate reali) o al 3,2 del conto ufficiale governativo (che calcola solo gli aventi diritto all’assegno) mentre rallenta al 4,5% nei tre mesi fino a maggio la crescita annua dei salari. Dopo il tramonto della candidatura Portillo, si delinea un testa a testa finale per la leadership del partito conservatore – e, dunque, per la candidatura alternativa ai laburisti alle prossime elezioni politiche, invero molto lontane – tra Ken Clark, decisamente il politico tory più eurofilo di tutti e Ian Duncan-Smith, uno degli euroscettici della linea dura. Una volta, sui mercati, una candidatura forte ed eurofila come quella di Clarke – mantiene la stessa posizione di Blair: bisogna entrare nell’euro, ma a buone condizioni–– per il momento, però, non bene specificate – avrebbe significato un terremoto. Ora, neanche un po’ d’onda. Forse perché stavolta, per la prima volta, la decisione finale, l’11 settembre, non sarà più solo dei deputati conservatori ma dei 300 mila iscritti al partito dove, si sa, gli euroscettici e gli eurofobi sono largamente maggioritari. La vittoria di Duncan-Smith prolungherebbe, in sostanza, la linea attuale di forte ostilità all’idea stessa dell’euro e all’abbandono, dunque, della sterlina: che è, poi, la linea su cui il capo dei tories, Hague, è andato alla sconfitta. Quella di Clarke porterebbe alla testa anche del terzo tra i principali partiti britannici di un leader favorevole all’euro… a certe condizioni: in sostanza, quelle che pone già Blair, quando cioè le economie dell’Unione monetaria e quella britannica saranno allineate e sempre dopo un referendum popolare. Nel caso dei tories, e prima, anche dopo un referendum interno al partito: che con ogni probabilità, anche ove fosse Clarke l’eletto, vincerebbero gli euroscettici. In definitiva, a decidere alla fine dell’entrata della Gran Bretagna nell’euro – del quando molto più che del se… – saranno i sondaggi d’opinione. Appena saranno maggioritariamente a favore, Blair convocherà il referendum, non certo prima. Si delinea, intanto, uno scontro tra la filosofia del sindacato e quella di Tony Blair, deciso a far passare la sua agenda anche contro i suoi stessi sostenitori, e convinto che il servizio pubblico va migliorato aumentando il ruolo del settore privato. In uno scontro pubblico con uno dei massimi 42 Il Sole24Ore, 26.7.2001. Lo dichiara John Monks, segretario generale del TUC (“il prezzo dell’immobilismo sarebbe questo e la Banca non può”, o meglio non deve, “ignorare il coro di proteste e di richieste che sale da tutto il paese”: conferenza stampa del 31.7.2001. 43 leaders sindacali44 Blair ha spiegato che alla gente non importa chi renda loro un servizio, ma che il servizio sia reso al meglio. Il sindacato non nega in assoluto l’assunto, sostiene però che solo con il coinvolgimento e l’impegno del personale ospedaliero, ad esempio, si migliora davvero il servizio sanitario, non affidando le decisioni a consulenti esterni che pensano esclusivamente al bilancio e ai profitti. Giappone La Banca centrale resiste: non intende abbassare ancora – è vero che sono già a livello nominale davvero infimo – i tassi di interesse per aiutare il governo, che glielo chiede, finché il governo stesso non applicherà le misure di riforma strutturale che il primo ministro Koizumi ha annunciato. C’è una certa logica, per quanto vetero ed obsoleta, in questa scelta. Ma c’è anche la decisione pervicace di continuare a ignorare, come vanno facendo da anni, le uniche ricette che non hanno ancora testate e che economisti di fama e di peso da anni raccomandano, facendo rilevare come ormai l’ostacolo principale a una ripresa dell’economia giapponese sia proprio – e, dicono loro45, anzitutto – la Banca centrale. Perché la linea da seguire sarebbe – è ormai da almeno due anni – quella di regalare al Giappone un po’ di inflazione, visto che il guaio, qui, è la deflazione (anche a giugno i prezzi al consumo sono proprio calati, dello 0,3% su maggio). E la Banca potrebbe iniettare nell’economia una dose controllata di inflazione semplicemente, decidendo di stampare un po’ di moneta. Ridurrebbe il tasso di interesse reale (quello nominale meno quello d’inflazione) e stimolerebbe consumi ed investimenti. E ridurrebbe, anche, il peso del debito su imprese, banche e lo stesso governo. Ma non si può fare. Perché? sostanzialmente, perché farebbe brutto, perché una banca centrale che “favorisce l’inflazione” anche in deflazione farebbe brutta figura con le altre banche e perché, come suggerisce Krugman46, “l’atteggiamento della Banca del Giappone sembra l’esatto contrario di quello del signor Koizumi: non sembrano disposti a prendere misure che probabilmente possono funzionare per la paura che potrebbero anche non farlo”. E c’è da dire che, per la prima volta, a metà luglio, il ministro dell’Economia e del Bilancio, Heizo Takenaka, ha preso pubblicamente posizione47 a favore della ricetta Krugman: chiedendo alla Banca centrale di aumentare la liquidità, stampando moneta e rendendo così più flessibile il credito senza toccare i tassi che non sono, ormai, più riducibili. 44 John Edmonds, del sindacato GMB che sta lanciando una grande campagna di stampa a difesa del ruolo del settore pubblico; ne riferisce The Guardian, N. Watt, Blair defies unions on reform, Blair sfida i sindacati sulle riforme, 16.7.2001. 45 Come Jeffrey Sachs e Paul Krugman,. Il quale ultimo ha scritto l’8.7.2001, su The New York Times (A Leap in the Dark, Un salto nel buio) che se i funzionari e i managers che uno incontra in Giappone fossero “testardi e cretini”, lui si sentirebbe assai meglio. Invece, sono gente ben informata, capace di vedere il fondo dei problemi che hanno e, al contrario di quindici anni fa, capace anche di criticare la politica economica ufficiale del loro paese... Sono tutti convinti che ha ragione il primo ministro, quando parla di riforme strutturali ormai indispensabili. Ma se gli chiede cosa voglia dire, poi, “strutturale” pare che sia solo “forzare le banche a cancellare dai libri i crediti irredimibili e far diminuire i programmai di lavori pubblici”. Entrambe, sia chiaro, misure indispensabili: infatti, “prima o poi bisognerà che le banche decidano di tenere conti onesti e prender nota che i lavori pubblici non sono solo inefficienti, sono anche un’area di vasta corruzione”. Solo che il problema di fondo del Giappone, non è la disonestà dei conti, o l’inefficienza. E’ una domanda che resta “inadeguata e che le misure del signor Koizumi – se, come spero, poi passeranno – non raddrizzeranno, anzi nell’immediato peggioreranno”. Insomma, il problema non è qui dell’offerta, ma chiarissimamente – basta guardare ai fondamentali – più che altrove, ogni dove, della domanda. E la maniera di rilanciarla è quella che, appunto, Krugman e altri con lui, come Sachs, suggeriscono e che qui riassumiamo nel prossimo paragrafo: un po’ di inflazione. 46 Cit. in Nota45. 47 The International Herald Tribune, 14-15.7.2001, Money-Supply Plea Rejected in Japan (Respinta in Giappone la richiesta di [maggiore] liquidità). La Banca resta ferma–– per ora: dopo le elezioni sarà un altro affare, però. Anche se essa stessa dipinge sempre più di nero il futuro economico del paese: congiuntura “in ulteriore indebolimento”, dice il Tankan48, perché precipitano insieme produzione industriale, investimenti pubblici e privati e profitti delle imprese e “non si intravedono segni di ripresa nell’immediato futuro”, anche se a luglio almeno i consumi privati, in contrazione costante da mesi, “non sono peggiorati”. Continua a flettere, intanto, anche l’attivo della bilancia commerciale, soprattutto per la riduzione dell’import americano, malgrado l’indebolimento dello yen nell’ultimo anno quasi esclusivamente rispetto al dollaro. In giugno, il calo ha toccato il 36% su base annua, con tre mesi consecutivi di rapida discesa. E, siccome una discreta parte, ormai, della produzione giapponese di semiconduttori e macchinari viene esternalizzata negli altri paesi asiatici per essere lì lavorata in ragione del contenimento dei costi e, poi, riesportata in America, il declino dell’import americano si fa anche sentire su questa parte di quel che il Giappone, in maniera indiretta, produce. Lo yen, che ha resistito incredibilmente per mesi a valori altissimi, è destinato a veder contrarre pesantemente il proprio valore nel prossimo futuro: non esiste – con l’eccezione nota del dollaro, dovuta al suo signoraggio – alcuna moneta che possa tenere fermo il proprio valore con l’economia in recessione, esportazioni in calo e importazioni comunque in aumento. Il primo ministro Koizumi ha trionfato nelle elezioni per il rinnovo del senato, facendo volare in alto (ma è stata piuttosto bassa, col 56%, la frequenza alle urne) sulle ali della sua popolarità tutta la lista del partito liberaldemocratico che solo tre mesi fa sembrava andare alla catastrofe: 64 dei 121 seggi e maggioranza assoluta, anche se pure il principale partito di opposizione ha migliorato i suoi risultati. Adesso, lui sembra deciso a mantenere dritta la barra sulle riforme “strutturali”: quella della contabilità nazionale, che mette in allarme tutta l’immensa burocrazia su cui si regge il paese, e quella finanziaria che vuole imporre alle banche l’obbligo di cancellare i debiti non più esigibili e, insieme, intende accelerare una politica di deregolamentazione e di liberalizzazione di molti mercati, lasciando più spazio alle privatizzazioni. Ma Rudiger Dornbush – tutt’altro, dunque, che uno statalista – torna proprio dopo la sua vittoria elettorale a ricordare che proprio “per aver tentato di fare quello che il primo ministro Koizumi ora vuole fare49” l’America di Hoover, nel 29, andò al grande crash... Intanto, dall’opposizione qualcuno50 ha anche fatto osservare che “l’atteggiamento coraggioso del primo ministro per le riforme non è in alcun modo riflesso dalla piattaforma del suo partito liberaldemocratico”: ed è assolutamente vero. Tanto che lo stesso Koizumi s’era sentito costretto a minacciare di mollare il PLD “se continuerà a considerarmi solo uno strumento per vincere le elezioni51”. E la gente comincia a rendersi conto che, se poi quelle misure fossero implementate davvero, il costo – anche quello sociale in posti di lavoro che andranno perduti con la chiusura forzata delle molte imprese che i debiti non riusciranno a pagarli – sarà molto alto. Infatti, l’occupazione, considerata a lungo un fattore acquisito di stabilità, comincia a preoccupare. Ancora è al 4,9% ufficiale, che se fosse un computo davvero credibile – è contato però alla giapponese: secondo quei sistemi statistici che Koizumi dice bisogna rifare da capo, cioè... – sarebbe un livello straordinariamente soddisfacente. Ma quel 4,9% è, comunque, il massimo storico e la paura sale. 48 Il Rapporto trimestrale della Banca del Giappone, pubblicato il 15.7.2001. la Repubblica, 31.7.2001. 50 Yukio Hatoyama, leader del Partito democratico giapponese, sul Japan Times, 12.7.2001. 51 Yomiuri Shimbun, 10.7.2001. 49 Nientepopodimeno che Il presidente del Nikkeiren, l’associazione degli industriali (presidente anche della Toyota), Hiroshi Okuda, ha chiesto ufficialmente52 che il gabinetto Koizumi, oltre a far raddrizzare i conti alle banche e a far scendere la spesa pubblica – tutte cose che considera buone e necessarie, s’intende – dovrebbe preoccuparsi però “con urgenza delle conseguenze che ne deriveranno, creando una qualche rete di sicurezza per i lavoratori delle imprese cui minore spesa pubblica e banche chiuderanno i rubinetti del credito”. CALENDARIO 8/2001 • Elezioni in Pakistan, solo provinciali però. Il governo militare del gen Pervez Musharraf ha promesso elezioni politiche libere a ottobre del 2002. Non ci credono in molti, considerando anche la fine che il generale ha fatto fare ai suoi predecessori eletti, loro, democraticamente… più o meno. • Elezioni parlamentari in Norvegia. • 40 anni fa, nell’agosto del 1961, l’Unione Sovietica e la Repubblica democratica tedesca erigevano il muro di Berlino: simbolo (e dura realtà: più di 100 morti, nel tentativo di scavalcarlo) per quarant’anni di una guerra fredda ormai superata dalla storia e dalla buona volontà degli uomini ma dell’ordine assicurato dalla quale qualcuno, nel caos odierno, esprime anche una qualche nostalgia… soprattutto, certo, perché grazie a Dio ormai è impossibile riaverlo. • Inizia (Rosh Hashanah) il 5.762° anno del calendario ebraico e, sempre nel mese, cade lo Yom Kippur, il giorno più santo dell’anno. • Moriva, nell’agosto di 25 anni fa, il grande timoniere. E i cinesi non sono ancora decisi se piangerlo o rallegrarsi delle morte, e soprattutto, della vita di Mao tsetung. Probabilmente, faranno le due cose insieme. • Comincia il 31 agosto a Durban, in Sudafrica, la Prima conferenza mondiale organizzata dall’ONU contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza. Come tutti questi grandi megaeventi è molto ritualizzata, preparata e strutturata molto prima di svolgersi, e come in tutte le iniziative consimili, ormai, sarà accompagnata da una controconferenza che, inevitabilmente, la appaierà ma dalla quale, forse – al contrario di occasioni analoghe – si lascerà interpellare e con la quale, sperabilmente, saprà in qualche modo dialogare. All’ultimo minuto, però, emergono problemi per la partecipazione degli Stati Uniti che si oppongono a due questioni inserite, o in qualche modo, riflesse nell’agenda: la definizione del sionismo come una forma di razzismo (formalmente corretta, perché in Israele vige un’esplicita e dichiarata discriminazione per legge tra chi è ebreo e chi no: ma politicamente anche inaccettabile perché, al minimo, troppo semplificatoriae, comunque, di certo, non un caso unico); e la richiesta di diversi paesi africani di discutere delle “colpe storiche” dello schiavismo e di un qualche “indennizzo” da parte di chi ne ha approfittato verso chi ne ha sofferto (che, infatti, è questione assai discutibile: se le colpe dei padri ricadano, anzitutto, sui figli....; se ha senso, oggi, indennizzare non chi ne ha sofferto – ed, ormai, da generazioni è scomparso – ma i suoi discendenti, ecc., ecc....). Questa decisione, però, se alla fine si materializzasse, sarebbe solo l’ennesima dimostrazione concreta dell’unilateralismo bushiano (o buscesco?): che non cerca alleanze, fa quello che vuole perché lo può fare e, degli altri, chi se ne frega... 52 Sempre Yomiuri Shinbun, 14.7.2001, Okuda urges safety net for jobless (Okuda chiede una rete di sicurezza per i disoccupati). INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO % di variazione su base annua PIL 1° trim PRODUZIONE INDUSTRIALE 1 anno VENDITE AL DETTAGLIO (volume) 1 anno 1 anno DISOCCUPAZ. % Ultimo 1 anno Dato fa INFLAZIONE SALARI 1 anno 1 anno fa 1 anno 1 anno fa RENDIMENTI TITOLI DECENNALI DI STATO [al 18 luglio ITALIA 2,8 2,4 -1,9 Mag -0,8 Apr 9,6 Apr 10,7 3,0 Giu 2,7 2,7 Mag 2,3 STATI UNITI 1,2 2,5 -3,6 Giu 2,5 Apr 4,5 Giu 4,0 3,2 Mag 3,7 4,2 Giu 3,7 5,09 GERMANIA 1,5 1,6 -1,8 Mag -2,3 Mag 9,3 Giu 9,6 3,1 Giu 1,9 1,4 Apr 2,3 FRANCIA 2,0 2,7 1,9 Mag -2,5 Mag 8,7 Mag 9,6 2,1 Giu 1,7 4,3 5,2 GRAN BRETAGNA 1,7 2,7 -1,9 Mag 6,4 Mag 4,9 Mag 5,6 1,9 Giu 3,3 4,5 Mag 4,6 5,09 GIAPPONE -0,8 -0,1 -3,9 Mag 0,1 Apr 4,9 Mag 4,6 -0,5 Mag -0,7 0,0 Mag 2,1 1,35 SPAGNA 4,1 3,3 -0,4 Mag 12,9 Mag 14,3 4,2 Giu 3,4 2,2 2,4 EURO-11 2,0 2,6 1,6 Apr 8,3 Mag 8,9 3,0 Giu 2,4 2,6 2,4 4,94 PAESI n.d. 1,5 BILANCIA CONTI CORRENTI COMMERCIALE $ mldi in % del PIL ($ miliardi) ultimi previsioni 12 mesi 2001 Apr RAPPORTO DEFICIT PIL 2001 VALORE DEL CAMBIO In valuta locale ( per $ ) ( per euro) al 18.7.2001 1 anno fa ultimi 12 mesi 2,2 Apr - 6,1 Apr - 0,3 - 1,3 2.222 2.095 1.936 -458,2 Apr -449,3 - 4,1 2,1 – – 0,87 57,4 Mag - 17,4 Mag - 0,8 - 1,7 2,24 2,12 1,96 FRANCIA - 0,2 Mag 1,44 Mag 1,7 - 0,5 7,53 7,10 6,56 GRAN BRETAGNA - 44,0 Mag - 19,2 - 2,1 1,2 0,71 0,67 0,62 95,6 Mag 102,3 Mag 2,2 - 6,3 124 108 108 SPAGNA - 38,9 Apr - 15,9 Apr - 2,8 – 191 180 166 EURO-11 - 6,8 Apr - 30,0 Apr - 0,3 - 0,6 1,15 1,08 – ITALIA STATI UNITI GERMANIA GIAPPONE [Dove non indicata con -, la percentuale di cambiamento è +] 1° trimestre 2001 4° trimestre 2000 REN DI M DE TRI dal gennaio 1999, tra i paesi dell’euro e dell’Unione monetaria governata dalla Bce, non ci sono più differenti “prime rates” né tassi diversi sui titoli pubblici sia a breve che a lungo. Quelli qui riportati per l’Euro-11 valgono, infatti, dal 4 gennaio 1999, per tutti i paesi europei della nostra lista consueta eccetto la Gran Bretagna che è restata fuori (cioè per Germania, Francia, Spagna e Italia) Indice Dow Jones Indice Nasdaq FONTE: The Economist, 21.7.2001 Economic and Financial Indicators