Diocesi di Bergamo Ufficio per la Pastorale Sociale Socio - politico, Lavoro ed Economia, Giustizia e Pace, Salvaguardia del Creato Le comunità cristiane nelle trasformazioni del lavoro - Strumento di lavoro - Seminario di studio 22 ottobre ’05 Ciclostilato in proprio INDICE Introduzione pag. 3 1. Modernità e cultura della complessità pag. 4 2. Spunti di discernimento a partire da alcuni elementi di antropologia biblica pag. 6 Allegato. Proposta di riflessione: VIGILARE pag. 21 3. Modernità e complessità nell’economia e nel lavoro pag. 22 4. Da credenti nel lavoro pag. 30 Allegato. Documenti principali della Dottrina Sociale della Chiesa 5. Tracce per percorsi formativi pag. 33 pag. 35 5.1. Tematiche di riflessioni per percorsi nelle comunità pag. 35 5.2. Proposta per un itinerario sui cambiamenti economici e sociali del nostro territorio pag. 39 Per approfondire pag. 40 ----------------------------------------------Il gruppo di lavoro è composto da: don Gianni Chiesa, Andrea Gaiti, Ettore Gasparini, Ferdinando Piccinini, Francesco Breviario, Massimo Longhi, Giorgio Lanzi, Davide Capovilla, Simone Biffi, Pino Candiani, Giuseppe Giovanelli, Giovanni Frigeni, don Lino Casati, don Francesco Poli. 2 Introduzione LE COMUNITA’ CRISTIANE NELLE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO Nel cammino di preparazione al 37° SINODO Diocesano, l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro, visto quanto le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e nella società civile incidono profondamente sul tessuto sociale dei nostri territori, ha promosso un momento di studio per offrire, nell’ambito del Seminario Le Comunità cristiane nelle trasformazioni del lavoro, a tutte le comunità alcuni strumenti di approfondimento, di riflessione e d’intervento su tali problematiche. Tali strumenti di lavoro, che presentiamo alla Diocesi di Bergamo e alle comunità impegnate nel cammino Sinodale, sono il frutto delle riflessioni fatte all’interno del gruppo di lavoro, come contributo al percorso di riflessione sul rapporto Parrocchia – Territorio. In questo percorso di approfondimento, l’Ufficio della pastorale sociale ha colto un diffuso senso d’insicurezza e di difficoltà a vivere le situazioni di crisi da parte di coloro che ne sono coinvolti. Questo senso d’insicurezza determina profonde ricadute nel vissuto a livello famigliare e, laddove si profilano situazioni di crisi occupazionale più estese, viene meno anche il senso di appartenenza al proprio territorio e, di conseguenza, si profila un pericolo di disgregazione sociale. Per questo è importante che le comunità cristiane colgano in tempo questi problemi per ridire PAROLA e recuperare il valore dell’Incarnazione: per ridare speranza e ritessere legami solidali e per recuperare senso e coesione sociale là dove queste dimensioni sono poste in discussione dai cambiamenti in atto. Occorre, allora, nel saper cogliere per tempo questi cambiamenti, che le comunità cristiane sulla base di tali contributi promuovano, a livello di territorio, percorsi formativi e proposte solidali per esprimere vicinanza e ridare senso e speranza cristiana verso tutti coloro che sono coinvolti dai mutamenti dei processi del lavoro. Con questo spirito, nel promuovere il Seminario di studio, e nell’offrire questi strumenti di lavoro, l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro, si rende disponibile a collaborare con le comunità parrocchiali che vorranno impegnarsi per dare il loro contributo sui problemi del lavoro, rispetto al cammino sinodale che la Chiesa che è in Bergamo sta facendo. 3 Capitolo 1 MODERNITA’ E CULTURA DELLA COMPLESSITA’ I cambiamenti nel campo del lavoro e della vita civile in generale debbono essere compresi e valutati, anche in ordine al compito pastorale, da parte di una comunità cristiana, nel quadro delle trasformazioni culturali e sociali che caratterizzano quel fenomeno che va sotto il nome di modernità (con la variante specifica odierna della post-modernità). Proviamo allora a segnalare semplicemente alcune delle componenti più significative di questi processi socioculturali. A ciò va aggiunto, ovviamente, tutta un’analisi sul lavoro e sui suoi cambiamenti, anche rispetto al vissuto e alla mentalità delle persone. Va tenuto presente che, sullo sfondo dei cambiamenti moderni, c’è la nascita del mercato (già nel periodo medioevale) come processo socioeconomico che comincia a ‘sganciare’ la persona da un territorio particolare e a stimolarlo verso una mobilità continua che gradualmente non riguarda più solo l’economia ma anche la cultura, la religione, la famiglia e altri aspetti della vita. 1. Tipico della modernità è prima di tutto la mobilità, lo spostarsi continuamente da un luogo ad un altro dal punto di vista dello spazio, della cultura, delle possibilità di vita, delle esperienze che toccano il proprio vissuto. Elemento originario di questo, si diceva prima, è il mercato che tende a ‘separare’ la persona da tutto il complesso degli elementi della sua attività lavorativa e produttiva e anche dal proprio ambiente abitativo (anche se non in forma definitiva specialmente nei primi tempi). Questo comporta che si fanno circolare merci, persone, capitali, conoscenze, esperienze, anche religiose. Insieme alla mobilità socioculturale, altro elemento tipico della modernità è il sorgere del sapere scientifico insieme al suo sviluppo, e l’affermarsi della tecnica come capacità di riprodurre e modificare la realtà conosciuta mediante la scienza. Sapere scientifico significa che la realtà è conosciuta nella sua struttura empirica, nel suo meccanismo di funzionamento e negli effetti che produce. E’ importante notare che questo sapere non considera gli aspetti di “senso” e di “significato” che le cose hanno per le persone, ma solo la loro “obiettività” e il loro funzionamento. E’ un sapere che tende a sostituire le forme “tradizionali” di conoscenza come la filosofia, la religione, l’etica. Infine è importante ricordare che la modernità, nella sua connotazione tipicamente occidentale, significa valorizzazione della soggettività dell’uomo. In altre parole l’uomo si sente “costruttore” della propria storia e del proprio destino; la sua identità e i suoi comportamenti non sono più visti come l’espressione di un ordine naturale o divino, ma come il risultato delle proprie scelte e decisioni. Nella modernità questa soggettività coincide con i grandi gruppi sociali o i processi collettivi (liberalismo, socialismo, ideale del progresso…); da qui sorgono le prassi di emancipazione dei grandi soggetti collettivi verso una società libera, progredita ed eguale. Nella postmodernità, cioè negli ultimi venticinque – trent’anni grosso modo, la soggettività si concentra 4 sull’individuo, è cioè il singolo che si sente artefice del suo destino con la sua libertà fatta di emozioni, bisogni, scelte etiche e religiose diverse, tutte in qualche modo legittime, purché tolleranti. Questa individualizzazione della soggettività è il segno della crisi del progetto progressista, cioè dell’idea che ci sia una costante e inarrestabile crescita collettiva sia a livello tecnico, sia a livello culturale; in realtà si scoprono le possibili derive negative del cammino storico sociale dell’uomo. La storia cioè è aperta “a ogni esito” compreso quello “regressivo”. Da questo punto di vista va in crisi ogni idea di totalità del sapere e della soggettività. Nelle vicende più recenti, cioè nella post-modernità, la mobilità assume la forma soprattutto dell’aumento dei soggetti che interagiscono fra di loro e della crescita delle possibilità di azione e di scelta da parte dei soggetti stessi. La differenziazione, quindi, delle varie attività e degli ambiti di vita diventa quasi un esito inevitabile della società: è la società complessa. Tale differenziazione degli ambiti (famiglia, politica, economia, lavoro…) è anche l’esito del sapere scientifico che punta molto sulla specializzazione e particolarizzazione della conoscenza, perdendo di vista quindi l’intero della realtà. Si conosce a pezzi, si conosce “tutto” anche se non si conosce “il tutto”. Il problema è di “mettere insieme” i pezzi in modo non puramente meccanico. La crisi del senso, cioè di una direzione unitaria che dia ragione consistente alle scelte, è l’esito di questa accentuazione della autoreferenzialità. 2. La ricaduta di questi processi sul piano del vissuto delle persone è variegato e molteplice. In primo luogo l’identità delle persone si edifica su una molteplicità di esperienze, di saperi, di incontri, di prove e di verifica dei risultati. Tutto questo da un lato porta a una forma di “identità aperta” in ricerca, desiderosa di crescita e di realizzazione di sé senza false illusioni o progetti totalizzanti; dall’altro lato rischia di produrre un soggetto che non riesce a decidersi in modo convincente su nulla perché tutto gli appare parziale, utile e attraente magari, ma mutevole e momentaneo. Il valore e l’importanza delle emozioni, oggi, è forse indicativo di questa difficoltà a scegliere e a provare tutto senza essere mai soddisfatto: tale è il consumismo come stile di vita. Un soggetto quindi, individuale soprattutto, che non si pone più di tanto il problema del bene e della verità delle cose, quanto piuttosto quello della loro utilità e rispondenza ai propri bisogni sia materiali che psicologici. Tale soggetto allora si sente protagonista ma “nel piccolo” della sua individualità e quando sorgono problemi di carattere civile o di livello globale non vede bene come possa esercitare la sua responsabilità. Un soggetto che forse fatica a sentirsi ‘figlio’ di una storia e destinatario di un senso buono che già lo anticipa come una promessa. Nonostante tutto non manca, anzi viene accentuato, il desiderio di valorizzazione della propria libertà e delle proprie scelte, la ricerca di un senso che dia unità, seppure non totalizzante e chiusa, alla propria vita. All’interno di questo processo, il compito prioritario di una comunità cristiana forse è quello di un discernimento, cioè di individuare le ambiguità e le derive non umane di alcune direzioni culturali e insieme di cogliere le opportunità che la situazione odierna nella sua forma di modernità e post modernità presenta. 5 Capitolo 2 SPUNTI DI DISCERNIMENTO A PARTIRE DA ALCUNI ELEMENTI DI ANTROPOLOGIA BIBLICA “La Bibbia è il racconto dell’Altro prima dell’io e che per primo si rivolge all’io … la Bibbia istituisce la soggettività umana come soggettività ospitale: non la soggettività razionale che, per il pensiero greco, contempla e svela il senso dell’essere; non la soggettività progettuale che, per il pensiero moderno, costruisce e disegna i suoi sensi; non la soggettività ludica, debole, destrutturata che, per il pensiero postmoderno, nega e dissolve qualsiasi ricerca di senso che non sia iscritto nell’io Narciso; ma la soggettività responsabile la cui identità è di essere per l’altro, accogliendolo nello spazio della propria libertà buona o bontà, amandolo di amore di alterità e assumendone l’estraneità, la diversità, la povertà e la stessa inimicizia”. C. Di Sante, L’io ospitale, Ed. Lavoro, pp. 9-10. ELEMENTI DI ANTROPOLOGIA BIBLICA* La categoria biblica che prendiamo a riferimento, per un orientamento nel discernimento dei valori da tenere in considerazione all’interno della società complessa, è quella dell’alleanza “la quale ha le sue origini nella storia degli inizi del popolo ebraico e l’idea teologica portante ha una struttura tripolare: l’uscita dall’Egitto, l’offerta della Torah al Sinai e l’ingresso nella terra promessa … [Essa] non va considerata una tappa successiva alla creazione (Dio prima crea l’uomo e poi stringe un patto con lui), ma un momento ad essa interno come condizione del suo realizzarsi. La creazione – cioè il mondo buono e riuscito – non è solo opera di Dio ma di Dio che associa a sé, in un rapporto di alleanza, l’uomo. La creazione è così contemporaneamente opera di Dio e dell’uomo”1. Nella categoria dell’alleanza la meta è la promessa della “terra dove scorre latte e miele” (Es. 3,17) e il percorso è l’abbandono alla Parola e ai comandi del Signore: Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore vostro Dio ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso” (Dt. 6,1). Il tema biblico dell’alleanza serve a definire il rapporto tra l’uomo e Dio, fissando l’alterità dell’uno rispetto all’altro oltre l’indifferenza e la contrapposizione. Esso è maturato nel popolo d’Israele sul modello culturale dei “trattati di vassallaggio” esistenti nell’antico oriente, modello rielaborato per esprimere la sua esperienza religiosa con il Dio dell’Esodo. Solo successivamente, e in un confronto continuo tra la memoria dell’alleanza dell’Esodo e le vicende storiche di Israele, la categoria dell’alleanza ha permeato i libri profetici e sapienzali della bibbia e, come si vedrà * Le note che seguono sono tratte dai saggi di antropologia biblica di Carmine Di Sante. 1 C. Di Sante, L’Eucarestia terra di benedizione, EDB, Bologna, 1987, p. 215. 6 meglio successivamente, gli autori biblici, proiettando e retrodatando la categoria dell’alleanza dell’Esodo, hanno riletto la storia dell’umanità, la preistoria d’Israele e la storia dei Patriarchi nel libro della Genesi2. Il tema biblico dell’alleanza riassume, perciò, l’antropologia biblica stabilendo e definendo un triplice rapporto: con Dio, con gli altri e con il mondo e mettendo in scena due alterità radicalmente irriducibili e asimmetriche (anche se non indifferenti perché trattasi di alterità di relazione) e una promessa: la terra dove scorre latte e miele. Alterità divina intesa come auto-rivelazione di Dio nella storia dell’uomo, come Colui che è sempre e sempre sarà con Israele: Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele” (Es. 3,7-8a). L’essere di Dio è il suo essere per l’uomo, il suo farsi vicino, il suo liberatore. La Parola è l’atto con cui Dio interviene nella vita dell’uomo e nella storia. La Bibbia continuamente ammonisce Israele perché: - non dimentichi: “Il tuo cuore non inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Dt.8,14); - continuamente lo ascolti: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (Dt. 6,4); - lo celebri come memoriale e trasmetta ai suoi figli il senso religioso dell’evento: Mosè disse al popolo: “Ricordati di questo giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto, dalla condizione servile, perché con mano potente il Signore vi ha fatti uscire di là… Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del Cananeo, dell’Hittita, dell’Amorreo, dell’Eveo e del Gebuseo, che ha giurato ai tuoi padri di dare a te, terra dove scorre latte e miele, allora tu compirai questo rito in questo mese... In quel giorno tu istruirai tuo figlio: È a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto” (Es. 13,3-8). 2 3 Alterità umana che si s-copre come alterità di relazione in cui l’io non è sovrano, ma costituito da un Altro che lo anticipa e lo libera dalla sua pretesa di indipendenza e di autosufficienza e lo costituisce come soggettività accolta (soggettività umana posta sotto lo sguardo di Dio) e accogliente (accolto da Dio l’uomo è chiamato a farsi accogliente troncando definitivamente con “l’io che disegna un mondo di cui è l’epicentro, per istituire il primato dell’altro sull’io”3). L’alterità intesa come soggettività accogliente si caratterizza: - per la sua “anteriorità” rispetto all’io: l’altro è colui che chiede di essere accolto e l’io, nell’accoglienza, si realizza come soggettività; - come portatrice di bisogni: la povertà dell’altro chiede di essere colmata; cf. C. Di Sante, L’io ospitale, Edizioni lavoro, Roma, 2001, pp. 32-34. Ibidem, p. 94. 7 - come forte e autorevole: l’altro/il povero si pone davanti all’io non con paura e vergogna ma come chi chiede ciò che gli spetta; - come pro-vocazione e appello: l’altro non si pone come oggetto di contemplazione, ma come colui che attraverso il suo esserci e il suo esserci bisognoso, fa uscire l’uomo dall’ego e gli affida un compito; - come rivelatrice dell’identità: l’altro è la voce che chiama l’uomo per nome e gli rivela la sua identità. Promessa: l’alterità di relazione asimmetrica è fondata sulla promessa della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e sul dono della terra dove scorre latte e miele: una terra storicamente e geograficamente configurata di cui Israele (l’uomo) è beneficiario e non proprietario, non un altrove inteso metastoricamente (come penserà la tradizione cristiana influenzata dall’ellenismo). In questa terra Israele è costituito come custode e non come signore/proprietario della terra: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv. 25,23). “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti. È lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita” (Sal. 24.1-2). L’alleanza proclama Dio il vero proprietario delle cose, afferma la destinazione universale delle cose a favore dell’uomo (tutto è di Dio ma tutto è per l’uomo), definisce l’impossibilità da parte dell’uomo di appropriarsi della terra (l’uomo non può possederla ma solo accoglierla) e custodirla. La corretta articolazione del triplice rapporto (Dio, l’uomo, il mondo) impedisce sia la separazione sia l’identificazione tra i tre poli dell’Alleanza; La separazione di Dio dall’uomo e dal mondo rendono impossibile qualsiasi discorso teologico che non sia allo stesso tempo antropologico e cosmologico. La logica dell’Alleanza va contro: la separazione dell’uomo da Dio e dal mondo come insegna l’antropologia atea che vuole fare a meno di Dio e quella pseudospirituale che vuole rinnegare il mondo; la separazione del mondo da Dio e dall’uomo, cioè una cosmologia che considera il mondo in se stesso e lo riduce ai suoi aspetti esteriori e strumentali prescindendo dal suo essere creato e dall’impegno e dalla responsabilità dei singoli soggetti umani su di esso. L’identificazione tra i diversi poli del rapporto. L’alleanza rende impossibile qualsiasi identificazione perché: costituisce Dio signore dell’uomo e questi suo servo obbediente e rivela, in questa relazione, il segreto della realizzazione e della pienezza umana; mantiene i confini tra Dio e il mondo, impedendo ogni forma di panteismo, e tra l’uomo e il mondo, impedendo ogni forma di organicismo (concezione dell’uomo come parte del mondo, invece che suo partner autonomo e responsabile). Rispetto all’uomo e al mondo, Dio è l’origine e la norma; rispetto a Dio e al mondo, l’uomo è l’interprete e il beneficiario; rispetto a Dio e all’uomo, il mondo è sacramento e dono. 8 L’esistenza umana, intesa come alterità di relazione asimmetrica fondata sulla promessa della terra dove scorre latte e miele, “emerge non solo nel racconto dell’esodo, ma anche dalla preistoria di Israele e della stessa umanità che gli autori biblici rileggono proiettando e retrodatando su di essa la logica del racconto esodiaco. La storia dei patriarchi che inizia con Abramo, infatti, è letta come un esodo che, da Ur dei Caldei, dove il progenitore d’Israele era “straniero” allo stesso modo degli Ebrei nell’Egitto, conduce, attraverso mille peripezie, verso una terra che sarà, per tutti, una terra di benedizione… La storia dei patriarchi è la storia dell’abbandono a questa promessa e della certezza che, nella sua realizzazione, i figli di Israele troveranno la loro patria […] Ma la pagina biblicamente più alta dove l’alterità umana è presentata come alterità “accolta” in un mondo che è “casa” è il primo racconto della creazione, dove, ad ogni realtà creata, il redattore fa seguire il commento del creatore che era “cosa buona”: e soprattutto il secondo racconto dove, stando al testo, Adamo è collocato da Dio nel “giardino dell’eden” (o paradiso secondo la traduzione dei settanta) in cui vive in armonia piena con sé, con la donna – metafora nell’eden dell’alterità per eccellenza – con il mondo e con Dio. Come la terra promessa, anche il “giardino dell’eden” è dono di Dio e non conquista, e il peccato originale (originale nel senso di originario che è a monte di ogni peccato e ne costituisce la sostanza), che ne è il capovolgimento e il pervertimento, consiste nella negazione dell’alterità alla quale si è affidati e consegnati”4. Per la letteratura neotestamentaria Gesù (Messia – Cristo – Figlio di Dio) è l’uomo nel quale la speranza di un futuro radicalmente riconciliato con Dio e con il mondo (adempimento dell’alleanza nel Regno di Dio) si realizza divenendo presenza e realtà. “L’espressione ‘Gesù Cristo, figlio di Dio’ (Mc. 1,1) non va intesa in senso causativo-generativo (Gesù nato da Dio) ma etico/morale (Gesù docile e obbediente a Dio), indicando non un dato di fatto, ma il peculiare rapporto tra la coscienza di Gesù e la signoria di Dio”5. In questo senso Gesù stesso è il Regno di Dio, non perché lo annuncia, ma perché lo realizza. In questo senso Gesù è l’umanità perfetta. I TRATTI COSTITUTIVI DELL’UOMO SECONDO L’ANTROPOLOGIA BIBLICA A partire dall’analisi sopra richiamata, la ricerca dei tratti costitutivi dell’uomo potrebbe partire dalla consapevolezza dell’“esserci”, dove la cosa importante è il “ci”, “esserci” non soltanto “essere”. L’essere rimanda al metafisico, al non storico… ad un modello teorico/deduttivo; l’esserci rimanda all’antropologico, alle esperienze, alla storia, all’essere dato… ad un modello sperimentale/antropologico. Un esserci da rielaborare continuamente e da interiorizzare non come portato della “norma” o della necessità, ma come valore, opportunità, dato antropologico positivo da cui partire nella ricerca della propria identità personale e collettiva. 4 5 C. Di Sante, L’io ospitale, op. cit., pp. 32-34. A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo”, AVE, Roma, 1972, p. 266. 9 Nel percorso di costruzione del senso della propria esistenza è utile soffermarsi sui seguenti rimandi dell’esserci: L’esserci come storicità, come essere “dato”, dato “qui” e “ora”6 - “Qui”, sta per questo luogo, con le sue specifiche caratteristiche fisiche e morfologiche, così come si è definito nel tempo con l’intervento dell’uomo, con la sua storia, con le sue potenzialità e limiti, con le sue ricchezze ecc. Qui, a Bergamo e non a Calcutta, né a Parigi o altro luogo. - “Ora” sta per questo momento preciso, il 2005 e non il 1800… con tutto quanto ne consegue in termini di conoscenze acquisite, storie personali e collettive vissute, eventi capitati, limiti imposti, opportunità offerte, potenzialità presenti… “Qui e ora” anche rispetto alla specifica famiglia in cui sono nato e vivo, comunità di riferimento, chiesa e fede di appartenenza, possibilità di lavoro e studio, di impegno civico, di divertimento e tempo libero... L’esserci, qui e ora, per essere vissuto intensamente richiede: - consapevolezza della propria “datità”; consapevolezza che tiene conto di quello che si è, di quello che è stato prima di me e di quello che viene dopo di me… - richiede di considerare la vita nella sua pienezza fatta di materialità, relazioni e spiritualità e non solo come pensiero, pensiero assoluto; - di considerare la realtà complessa in cui siamo dati come opportunità non come vincolo, come punto di partenza non come limite invalicabile… in modo storico/antropologico non in modo fatalistico; - accettazione e, se necessario, “riconciliazione” con la propria storia personale e, insieme ad essa, con la propria famiglia, le proprie radici culturali; - il recupero della propria soggettività e unicità7 (coscienza individuale) e, se necessario, il riconciliarsi con il proprio esserci. Questo comporta che ci accettiamo e amiamo così come siamo, senza fughe in avanti, sogni e idealismi, ideologie… senza rifiuti e rancori; - che ci accettiamo come persona data qui e ora, ma anche come persona inserita in un collettivo dato; - che nella nostra esistenza vi sia una ricerca continua della dimensione unitaria della vita8, dimensione che non è mai raggiunta una volta per sempre. L’unità dentro noi stessi è condizione necessaria per rapportarsi al frammento e per esercitare la relazione e la responsabilità. Cfr. - mistero dell’incarnazione - storicità rivendicata dalle religioni rivelate. 7 Cfr. Gen. 1,27-31 Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”. Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno”. 8 Cfr. Ef. 2,14-18 “Cristo a creato in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo”. 6 10 L’esserci come identità aperta all’altro/Altro Il tema di fondo è quello dell’altro/Altro come antidoto all’autoreferenzialità, all’io egotico e ad ogni tentazione egotista, ma anche più semplicemente antidoto alla libertà intesa come indipendenza e mancanza di legami, antidoto alla perdita dell’insieme a favore della mia soggettività individuale9. Nei vari settori dell’agire collettivo (culturale, politico, sociale, economico, religioso…) è antidoto alle logiche che non riconducono a unità perché non rimandano “ad altro”, ma solo a se stesse. L’esserci come identità aperta rimanda: - alle relazioni con il passato (siamo quel che siamo perché qualcuno – non solo individuale, ma anche collettivo – ci ha messo in relazione), con il presente (fatto di storia, di persone con cui vivo, di opportunità) e con il futuro che sarà dopo di noi e che sarà non in modo astratto, ma come portato delle scelte e azioni che facciamo noi, qui e ora10; - alla dimensione della diversità e reciprocità di genere e del dono ricevuto e dato all’interno di questa diversità e reciprocità11; - al tema del collettivo in cui la persona vive, declinabile storicamente con i modelli di clan, di popolo, di comunità (intesa sia come comunità di fede e di amore scelta, che come comunità funzionale in cui siamo inseriti: lavoro, impegno sociale e politico, divertimento ecc.), e dell’assunzione delle responsabilità che il collettivo richiede; - al tema della reciprocità e della comunitarietà come antidoto all’indebolimento dei soggetti e delle forme istituzionali, laiche e religiose. L’esserci come finitezza e limite: il mistero del male Per limite si intende una realtà connaturata nell’uomo, profonda, “ontologica”, e non una carenza che la scienza e la tecnica, se non oggi domani, potrà colmare. Sulla finitezza dell’uomo si scontrano le antropologie religiose e quelle laiche e vertono tutte le alternative immanentiste. Il riferimento fondante dell’antropologia biblica sono i primi undici capitoli della Genesi che raccontano le origini del mondo e dell’umanità12, il mistero del peccato di origine e del castigo13 e della corruzione dell’umanità e dell’incapacità dell’uomo di salvarsi da solo14 e il libro del Deuteronomio che pone “l’uomo ha 9 Tema del volto del Padre e del fratello. Cfr. senso della memoria e del memoriale: Dt. 6,4-9; Lc. 22,19; 1Cor. 11,24-25. 11 Cfr. Gen. 1,27”Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. 12 Cfr. Gen. capp. 1-2. 13 Mistero del male e del peccato d’origine (Gen. 3,1-12). “Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino? ”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. 14 Cfr. Gen. capp. 4-11. 10 11 di fronte la vita e la morte15. “La vita e la morte, l’una simbolo dell’esistenza umana, la seconda del suo fallimento, dipende esclusivamente dall’uomo la cui volontà, a seconda se obbediente o ribelle, ha il potere di fare del mondo una benedizione (volontà di sottomissione) o una maledizione (volontà di dominio). […] E’ questo il messaggio più profondo del racconto della creazione e della caduta di Adamo (Gen. 2-3), il cui scopo è di affermare la non-responsabilità di Dio nell’origine del male”16. Il tema dell’esserci come finitezza può essere declinato a partire dall’esperienza dell’incompiutezza, che è il luogo in cui si gioca l’uomo e la ricerca di senso. Alcuni percorsi di ricerca: - L’esserci, in quanto richiede il passaggio dal modello teorico/deduttivo a quello esperienziale/antropologico, porta alla consapevolezza del limite e dell’incompiutezza, fa nascere nell’uomo la tensione/desiderio dell’affermazione di sé e gli affida il compito, mai finito, di tendere alla compiutezza17. La modalità con cui il desiderio si fa strada “è quella del “sentire”, “dell’essere toccati”, cioè dell’essere determinati da ciò che è altro dalla coscienza (è una forma di sapere né teorico né pratico, ma condizione di entrambe) che corrisponde, è relativo, a ciò che la precede. […] “E’ a partire da questa esperienza affettiva che l’uomo scopre la verità dell’Altro e di sé, contemporaneamente…”18. - Un altro percorso per cogliere il mistero della finitezza, partendo sempre dall’esserci che richiede il passaggio dal modello teorico/deduttivo a quello esperienziale/antropologico, è quello di mettere a confronto la “via senza uscita” degli approcci alla realtà secondo schemi ideologici (dove l’ideologia rappresenta una risposta falsa alla finitezza e al limite), di principio (dove non esiste ricerca e apertura, ma solo riproposizione rigida di “limiti” assolutizzati) e delle “welthanshaunng” (intese come visione complessiva della realtà e pretesa di totalità e di fondamento), con le tragedie che storicamente hanno provocato e l’angoscia che di fronte alla complessità e al frammento portano con sé. - Infine c’è il percorso della riflessione sui processi storici di liberazione che trovano nell’Esodo un riferimento e una modalità interpretativa19. Cfr. Dt 30,15.19b “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; […] scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza” . 16 C. Di Sante, L’Eucarestia terra di benedizione, op. cit., pp. 44-45. 17 Cfr. Gen. 3,4-7.22-24. 4 Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. [ … ] 22 Il Signore Dio disse allora: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! ”. 23 Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. 24 Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita”. e il racconto della torre di babele (porta di Dio): Gen. 11,1-9. 18 M. Salvi, in AAVV, La fede in discussione, Bergamo, 1998, p. 47. 15 19 Esodo con tutto quanto vi è di “paradigmatico” in quella storia di liberazione: Dio, l’uomo, la terra; il popolo eletto; Mosè; la liberazione; le infedeltà e gli idoli; la fiducia l’abbandono in Yahve; ecc. 12 L’esserci come libero, co-creatore e responsabile La libertà, aspirazione degli uomini e donne di tutti i tempi, è il tema centrale della Bibbia.“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto… Sono sceso per liberarlo” (Es. 3,7-8a). Per l’antropologia biblica più che proprietà dell’uomo la libertà è dono di Dio; è l’appello di Dio a creare la libertà e non viceversa. Nella logica dell’alleanza, come si è visto, interagiscono tre poli: il dono/benedizione di Dio, l’appello all’obbedienza che crea l’evento, l’istaurarsi della libertà (e di ogni bene della creazione) alla quale l’uomo acconsente, che ne è il segno di riconoscimento. La libertà non nasce dall’autonomia dell’uomo (libertà da o libertà contro) ma dalla sua obbedienza (libertà per); non significa fare quello che si vuole, restando nell’orizzonte dell’ego, ma “fare quello che vuole Dio”, muovendosi entro la sua volontà. Il potere decisionale dell’uomo davanti a Dio, oltre che nel libro del Deuteronomio sopra richiamato, lo troviamo anche nel racconto della creazione: “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” Gen. 2,16-17. Vita e morte, secondo il racconto biblico, sono dipendenti dal potere decisionale dell’uomo, ma non vanno messe sullo stesso piano perché solo la prima parte del progetto creazionale, mentre la seconda resta esclusivo prodotto dell’irresponsabilità umana. Il potere decisionale dell’uomo lo costituisce co-creatore con Dio. Il comando rivolto da Dio ad Adamo nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse, comprensivo del divieto di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male (Gen. 2,15-16) vuole significare l’incompiutezza della creazione, la possibilità di un suo diverso orientamento rispetto al codice impresso nell’atto creatore (dono di Dio per la gioia dell’uomo) e il possibile fallimento dell’uomo nell’esercizio della sua responsabilità di “custode del giardino”: a livello materiale è chiaro che il mondo, per essere fruito, ha bisogno del lavoro e dell’impegno dell’uomo; a livello intenzionale – è qui che si annidano le tentazioni di onnipotenza e di dominio assoluto dell’uomo – la creazione chiede di essere orientata e portata a compimento assecondandone la logica e il senso ad essa intrinseco, cioè di cose donate, di cose di Dio fatte per l’uomo. L’ordine di essere “custode del giardino” impedisce all’uomo di possederlo e di sfruttarlo e chiede che venga amato e immesso nel circuito positivo del dono. All’interno di questa dinamica l’uomo diventa co-creatore20 e origine di senso e di 20 Cfr. (Gen. 1,28): Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”. 13 finalizzazione delle cose create: è questo infatti il senso biblico del “dare il nome” alle cose create da parte di Adamo nel giardino dell’Eden21, mentre la presenza del povero e del bisognoso, riconosciuti nella loro alterità di bisogno che richiede di essere colmata, rappresenta l’appello radicale alla ri-creazione della dinamica del dono. Appello non rispondente ad una logica di natura morale, o peggio ancora moralistica, ma ad una logica antropologica-costitutiva che se disattesa l’uomo cessa di essere uomo e va incontro alla morte e alla maledizione. Da qui il rimando al tema della responsabilità. Lo stare bene o lo stare male per la Bibbia non dipendono fatalisticamente da Dio, né dalla casualità, ma dal proprio impegno e dalla propria volontà; l’ordine cosmico e l’ordine sociale sono un’opera da realizzare in collaborazione con Dio. I libri sapienzali della Bibbia collegano l’agire buono e il mondo buono e, di rovescio, l’agire cattivo e il mondo cattivo istaurando un rapporto tra la soggettività disordinata e il disordine ontologico e sociale. Non è un caso che il codice dell’alleanza sinaitica pone, accanto alla benedizione divina e all’obbedienza di Israele, la prosperità e l’assenza “di alcun bisognoso in mezzo a voi” come segno e riconoscimento della sua realizzazione22 e, nel Nuovo testamento, al centro del giudizio del Figlio dell’uomo, l’aprirsi all’affamato, all’assetato, al forestiero, all’ignudo e al carcerato (cf. Mt. 25,31-46), figure storiche insieme all’orfano e alla vedova, della povertà e dell’indigenza secondo la Bibbia. L’esserci in modo responsabile, pertanto, richiede apertura e attenzione all’altro, in primo luogo il bisognoso, capacità di scelta e di discernimento, studio, lavoro, impegno civico, coraggio e assunzione del rischio… capacità di riconoscere errori e limiti e capacità di ricominciare dopo i fallimenti… capacità di perdonare e di lasciarsi perdonare, come utilmente introduce il Nuovo Testamento23. 21 Cfr. Gen. 2,19 “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”. 22 Cfr. Dt. 15,4-5: “Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti dà in possesso ereditario, purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do”. 23 Cfr. Mt. 18,21-22: “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? ”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. cf. Gv. 13,1-15 La lavanda dei piedi. 14 ALCUNI CRITERI DI DISCERNIMENTO Per discernimento si intende l’atteggiamento cristiano che sa cogliere l’“oggi” di Dio nella propria vita alla luce della Parola; L’atteggiamento che sa discernere i “segni dei tempi”24. L’uomo come identità aperta e data storicamente è responsabilmente e attivamente inserito nella società complessa, continuamente in ricerca e “chiamato” a trasformarla, attraverso il suo lavoro, da terra che produce spine e cardi (cfr. Gen. 3,18) a terra di benedizione (Gen. 22,17). Gli atteggiamenti suggeriti per agire con discernimento all’interno della realtà complessa e agire come co-creatore sono: La meraviglia La meraviglia è l’antidoto all’inclinazione dell’uomo a sospettare il male negli altri e sviluppa l’atteggiamento che lo apre ad uno sguardo fiducioso sul prossimo per amarlo. La meraviglia ci permette di andare oltre il senso immediato e apparentemente definibile delle vicende umane per coglierne quello nascosto e fondante, sottratto allo sguardo superficiale. La capacità di meravigliarsi è in stretto rapporto con la consapevolezza della propria finitezza, rende capaci di ricevere tutto con semplicità e come dono e di condividerlo. “Il dono della meraviglia si avvicina allo spirito di infanzia […] inteso non come regressione infantile, ma cammino verso l’infanzia futura, che è dell’ordine del Regno”25. La capacità di meravigliarsi è il rovescio della medaglia del rimprovero fatto da Gesù ai suoi contemporanei relativamente agli occhi che non vedono, agli orecchi che non odono e al cuore che non si converte 26, e ha molto a che fare con la capacità di lettura dei “segni dei tempi”. L’abbandono L’abbandono è l’antidoto contro la tentazione dell’uomo a diventare come Dio (cf. Gen. 3,5) e di ogni illusione egotica di potere sulla terra e di dominio dell’uomo sull’uomo. Nella Bibbia troviamo diverse figure che rivelano il senso dell’abbandono richiesto da Dio all’uomo. Le più significative sono, per l’antico testamento, quella di Abramo nel brano della vocazione27 e, nel nuovo 24 Cfr. Mt. 16,3: “Egli rispose: Quando si fa sera voi dite: bel tempo perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei Tempi?”. 25 Y. Emery, le don dell’emerveillement, in Letture dei giorni a cura della Comunità Monastica di Bose, Ed. Piemme, p. 417. 26 Cfr. Mt. 13,15 “Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani”. 27 Cfr. Gen. 12,1-4 Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che 15 testamento, quella di Maria nel brano dell’Annunciazione28, entrambe riassunte e ri-significate in chiave anche escatologica da Gesù nel Getsemani (si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” Mt. 26,39) e sulla croce (Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò Lc. 23,46). In tutte queste figure troviamo in diverso modo riproposti i tre poli dell’alleanza: - la signoria con cui Dio agisce nella storia: lui la dispone, la giudica e segna i tempi dei suoi interventi… nel rispetto della libertà dell’uomo, ma sempre come Signore degli avvenimenti; - il consegnarsi totalmente a Dio da parte dell’uomo, un fargli credito in un totale abbandono; - la realizzazione della promessa. L’obbedienza L’esercizio della libertà, dell’essere co-creatore e della responsabilità, per l’antropologia biblica, non si dà al di fuori dell’obbedienza. Essa si inserisce nella corrispondenza tra l’intenzionalità del dono sottesa al mondo e l’uomo che la coglie e l’asseconda, quindi all’interno della categoria biblica dell’Alleanza. Questo accoglimento non riguarda in primo luogo la sfera logico/razionale né psicologico/emozionale, ma quella esistenziale, precedente all’una e all’altra; accoglimento che, in primo luogo, riguarda la propria storia, le proprie origini, il proprio corpo… e che, secondo il messaggio biblico, richiede un agire pratico (il fare responsabile) e un agire obbedienziale. Il senso profondo dell’agire obbedienziale ci è rivelato dal racconto della creazione là dove “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gen. 2,16-17). L’agire obbedienziale, se accolto, fa accedere al mondo come dono offerto e fruito portandolo alla salvezza, mentre, se tradito, contro-pruduce alienazione e morte. La Bibbia, più che l’agire obbediente, racconta e testimonia l’agire disobbediente dell’uomo, causa di violenze, di ingiustizie, di oppressioni e di guerre. Tutto questo è significato, con il genere letterario eziologico, dai primi 11 capitoli della genesi: il peccato ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. 28 Cfr. Lc. 1,26-38 “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio ”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei”. 16 d’origine e la cacciata dal giardino dell’Eden, l’omicidio di Caino, le vendette di Lamek, la corruzione dell’umanità e il diluvio universale e il racconto della torre di Babele. “Il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’obbedienza del Cristo stesso. […] Al centro di essa vi è la relazione filiale vissuta da Gesù con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli”29. La vigilanza (Vedi anche un testo di C. M. Martini: Sto alla porta, pp. 18.2426, in Letture dei giorni a cura della comunità monastica di Bose, pp. 531-532, riportato in allegato). “Il Nuovo Testamento opponendo la vigilanza allo stato di ubriachezza e a quello della sonnolenza, la definisce come la sobrietà e il ‘tenere gli occhi ben aperti’ di colui che ha un fine preciso da conseguire. […] La vigilanza è dunque lucidità interiore, intelligenza, capacità critica, presenza alla storia, non distrazione e non dissipazione. Unificato dall’Ascolto della Parola di Dio, interiormente attento alle sue esigenza, l’uomo vigilante diviene responsabile. […] Il vigilante è il resistente, colui che combatte per difendere la propria vita interiore […] nell’equilibrio e nell’armonia; vigilante è colui che aderisce alla realtà e non si rifugia nell’immaginazione, nell’idolatria, che lavora e non ozia, che si relaziona, che ama e non è indifferente, che assume con responsabilità il suo impegno storico e lo vive nell’attesa del Regno che verrà. […] Per la simbolica biblica, ma anche per altre culture, cadere nel sonno significa entrare nello spazio della morte. […] Per il cristiano che pone la sua fede nel Cristo morto e risorto, la vigilanza è assunzione intima e profonda della fede nella vittoria della vita sulla morte”30. L’attesa (dell’incontro con il Dio che viene). Il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità e che i nostri giorni sono attesa dell’incontro con il Dio che viene. In questa epoca appiattita sull’immediato e l’attualità, l’attesa pone con forza il tema della memoria, della fedeltà e della perseveranza. Profetiche, a questo proposito, sono le parole di D. Bonhoeffer di oltre cinquant’anni fa: “La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma i beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, ‘memoria’, altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è ‘smemorato’. E io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile”31. L’attesa dell’incontro con il Dio che viene dice che “davanti a sé il cristiano non ha il nulla o il vuoto, ma una speranza certa, un futuro orientato dalla promessa del Signore: ‘Si, verrò presto’ (Ap. 22,20). In realtà ‘attendere’, a partire dalla sua etimologia latina (ad-tendere), indica una ‘tensione verso’, ‘un’attenzione rivolta a’, un movimento centrifugo dello spirito in direzione di 29 Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, Rizzoli 1999, p. 151 Ibidem, pp. 31-33 31 Citato da Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, op. cit., p. 64. 30 17 un altro, di un futuro. […] L’uomo è anche attesa: se questa dimensione antropologica essenziale, che afferma che l’uomo è anche incompiutezza, viene misconosciuta, allora il pericolo dell’idolatria è alle porte, e l’idolatria è sempre autosufficienza del presente. La venuta del Signore invece impone al cristiano attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà. E la pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la frammentazione del presente senza disperare. […] E’ l’attesa del Signore, l’ardente desiderio della sua venuta, che può creare uomini e donne capaci di pazienza nei confronti del tempo e degli altri. […] L’attesa nel credente […] si unisce e dà voce all’attesa della creazione tutta: ‘la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio […] e nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione’ (Rom. 8,19-21). E’ la creazione tutta che attende cieli e terra nuovi, che attende trasfigurazione, che attende il Regno. L’attesa della venuta del Signore da parte dei cristiani diviene così invocazione di salvezza universale, espressione di una fede cosmica che consoffre con ogni uomo e con ogni creatura”32. IL LAVORO ALLA LUCE DELL’ANTROPOLOGIA BIBLICA Per rintracciare nella Parola di Dio alcuni riferimenti antropologici che illuminano particolarmente la condizione umana, anche nel suo rapporto con il lavoro, possiamo fare riferimento a tre narrazioni: a) la creazione così come ci viene descritta nel primo e secondo capitolo del libro della Genesi. Dio viene presentato come uno che lavora e la sua opera rappresenta un modello anche per il lavorare umano. Nel lavoro della creazione Dio imprime nelle creature l’immagine di sé e così parla di sé. La parola creatrice di Dio (Dio disse e…) è lo strumento attraverso il quale manifesta la sua sapienza ed il suo progetto. L’uomo, rispetto agli altri esseri creati, non è estraneo e “terzo” rispetto all’azione di Dio, l’uomo è chiamato a collaborare alla creazione dando il nome alle altre creature nonché coltivando e custodendo il creato. Questo è il giusto senso e “limite” dell’uomo e del suo lavoro: avere la custodia e la responsabilità sulle creature e sul creato; gli viene assegnato il compito di sviluppare e custodire, compito accessorio e complementare all’azione creatrice di Dio. Non è l’uomo, quindi, il creatore delle cose ed il lavoro umano deve essere sempre in posizione relativa rispetto a quella di Dio che detiene la conoscenza del bene e del male. L’uomo quindi non può assolutizzare mai la propria azione che, al di fuori della giusta relazione con l’iniziativa di Dio, finisce per divenire distruttrice del creato. Quando l’uomo vuole essere protagonista assoluto della sua attività diviene sfruttatore del lavoro degli altri uomini e distrugge il creato in una prospettiva “consumistica” lontana dalla sua vocazione co-creatrice. Il fatto di riconoscere che il lavoro è nato per produrre e sviluppare ricchezza, non per distruggerla, conduce all’impegno di osservare criteri di razionalità e di austerità 32 Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, op. cit., pp. 53-55. 18 nell’uso delle risorse naturali e soprattutto impegno a favorire la qualità del lavoro, subordinando lo sviluppo economico alle esigenze morali dell’esistenza umana, compresa la sua dimensione spirituale. Tale oscillazione tra “l’uomo protagonista assoluto” e “l’uomo collaboratore di Dio” è continuamente presente nella storia degli uomini e nell’esperienza di ciascun uomo. E’ una tensione mai risolta ma della quale occorre avere coscienza. Un altro contrasto che emerge dal racconto biblico della creazione è quello tra “lavoro-necessità” e “lavoro-dono”. Spesso si evidenzia che il lavoro è il “castigo” inflitto all’uomo per la sua colpa e quindi è diventato necessario per guadagnarsi da vivere. Conseguenza della disobbedienza è il lavoro come fatica e non il lavoro in se stesso. Il lavoro è soprattutto un dono di Dio e rappresenta una dimensione che integra e completa quello della vita. Nello stesso momento in cui Dio crea l’uomo, gli affida anche lo sviluppo e la cura del creato e quindi lo chiama alla vocazione del “lavoro”, ben prima del successivo castigo. Lo stile di Dio-lavoratore in Genesi conduce al riposo, dopo aver riconosciuto che le opere create sono buone. “Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che Egli creando aveva fatto”. Il riposo è quindi il simbolo della impossibilità dell’uomo di generare il bene esclusivamente con il proprio sforzo, è la chiave per comprendere come ogni atto lavorativo deve essere nel contempo un atto contemplativo. b) Dio continua a ricercare un’alleanza con l’uomo. L’incapacità dell’uomo di rimanere fedele alla sua vocazione di collaboratore di Dio ed il desiderio di sostituirsi a lui porta alla rottura dell’armonia ed a una situazione di infelicità. Dio però non si rassegna a tale situazione e continua a ricercare una nuova alleanza con l’uomo. La chiamata di Abramo è il primo tentativo di questo percorso. “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò (Gen. 12,1)… Alla tua discendenza io do questo paese” (Gen. 15,18). Dopo il peccato di Adamo, Dio, attraverso Abramo, ci invita a compiere un cammino per ritrovare la nostra umanità. Come all’atto della creazione ha affidato ad Adamo lo sviluppo e la custodia del creato, così promette ad Abramo una terra e una discendenza. Ancora una volta è Dio il protagonista; è il Signore che consegna all’uomo una terra da amministrare e sviluppare con il proprio lavoro. Solo fidandosi di Dio e riconoscendo la sua signoria si può avere una terra ed una discendenza e quindi una felicità. Anche il libro dell’Esodo e l’esperienza di Mosé ripercorrono la stessa trama. Un popolo caduto in disgrazia perché non riconosce la signoria di Dio, viene chiamato ad un cammino di liberazione e ad un’alleanza con lui con la promessa di una terra da coltivare e custodire. Ancora una volta Dio riprende l’iniziativa per riparare alla rottura causata dal comportamento dell’uomo che cede alla tentazione della potenza assoluta e della stessa identificazione con Dio. 19 Nel cammino verso la terra promessa, il popolo è spesso tentato di adorare degli idoli, sostituendoli a Dio. c) Gesù è la nuova alleanza L’incarnazione di Cristo è l’ultimo e definitivo atto che Dio compie per salvare l’umanità e riportarla all’originario disegno della creazione. Ancora una volta e definitivamente Dio chiama l’uomo ad un cammino di salvezza per giungere ad una nuova terra promessa che è il Regno nel quale l’alleanza trova il suo compimento. La parabola del seminatore ci riporta a quella che è la condizione essenziale perché il lavoro umano porti frutto. Solo ascoltando la Parola, cioè riconoscendo la signoria di Dio, l’azione dell’uomo arricchisce il creato. Viceversa il rifiuto di Dio fa prevalere la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza e conseguentemente l’azione umana è preda del maligno che la vanifica. La storia ci racconta dell’uomo continuamente minacciato di prestare attenzione e devozione più agli idoli che al Dio vero. In questo modo, l’uomo, invece di riconoscersi fatto a immagine del Dio vivente, preferisce costruirsi un dio o molti dei, a immagine propria. Pertanto, invece di realizzare e perfezionare in sé e fuori di sé l’immagine divina, l’uomo si limita ad adorare l’immagine di sé che ha stampato negli idoli. Tutto ciò si ripercuote sul modo di concepire ed esercitare il lavoro umano. Infatti Dio, creando l’uomo e responsabilizzandolo nei confronti della creazione, lo promuove, perché viva in pienezza e manifesti pienamente ciò che è mediante ciò che fa; gli idoli, invece, fatti dall’uomo a immagine dell’uomo, non sono altro che sfruttatori dell’uomo stesso e portano alla distruzione del creato. 20 Allegato. Proposta di riflessione: VIGILARE Il tempo che passa risuona in noi come una continua rivelazione della nostra condizione di esseri limitati e avviati impietosamente senza scampo verso la morte. Di questo, in fondo, abbiamo paura e ce ne difendiamo in tutti i modi. Due sono le vie attraverso le quali cerchiamo di sfuggire il problema della fine irreparabile del tempo, di esorcizzare l’immagine della morte che fa capolino in ogni piccolo o grande affanno della vita. Esse sono l’ostentazione del nostro dominio sul tempo e l’ossessione di sfuggire in tutti i modi possibili al suo dominio su di noi. (…) Tra l'illusione di possedere il tempo e la disperazione per il suo venirci meno sta un atteggiamento completamente diverso, evocato con il termine vigilare. Vigilare significa anzitutto vegliare, stare desti, rimanere all’erta. L'immagine più immediata è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o un fatto straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili. Vigilare impegna, comunque, a fare attenzione, a diventare perspicaci, ad essere svegli nel capire ciò che accade, acuti nell'intuire la direzione degli eventi, preparati a fronteggiare l’emergenza. Rimanere svegli, essere attenti, avere cura, vegliare dunque: veglia la sposa che attende lo sposo, la madre che attende il figlio lontano, la sentinella che scruta nel cuore della notte; veglia l'infermiere accanto al malato, il monaco nella preghiera notturna; vegliano gli uomini e le donne che sono pronti a raccogliere i segnali d’aiuto dei loro amici nel pericolo, dei loro fratelli nel dolore, del loro prossimo nella difficoltà; veglia la comunità dei credenti che è rapida nel reagire alla tiepidezza e alla stanchezza che l'allontanamento dall'amore degli inizi. Veglia una società civile che coglie prontamente i segni del proprio degrado, che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la disaffezione nei confronti del bene comune, che non si rassegna alla deriva delle sue istituzioni pubbliche e alla casualità dei suoi ritmi vitali, che poi significano sempre il trionfo dei prepotenti e dei furbi. Vigilare è la capacità di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità non puramente clinica e commerciale della vita. Il tempo per imparare a riconoscere il significato delle nostre emozioni, impulsi, tensioni, per non rimuoverle troppo in fretta anestetizzando l'eventuale disagio che ci procurano e rendendo così sterile la profondità dell’esperienza nella quale esse potrebbero introdurci. (...) Si può tuttavia dire che tutti i modi di vegliare, che esemplificano le qualità essenziali del vigilare, sono come momenti particolari di quella grande veglia che è l’esistenza umana di fronte al tempo definitivo che viene: il tempo della vita eterna con Dio, che è come la “grande festa” della vita, alla quale ogni uomo che viene nel mondo è destinato. C.M. Martini, Sto alla porta, pp. 18, 24-26 in Letture dei giorni (a cura della comunità monastica di Bose), pp. 531-532, 21 Capitolo 3 MODERNITA’ E COMPLESSITA’ NELL’ECONOMIA E NEL LAVORO 1. Economia e globalizzazione I cambiamenti nel mondo del lavoro sono in gran parte riconducibili al fenomeno della globalizzazione. Un modo per descrivere la globalizzazione è quello di considerarla una particolare fase dello sviluppo del sistema economico mondiale. In tale fase il sistema si muove come in una sorta di unica “rete” che collega, in tempo reale, le economie dei singoli paesi. In realtà, rispetto alla realizzazione di un sistema veramente globale è possibile riscontrare una serie di parzialità, ad esempio per quel che riguarda i suoi effetti, sia positivi sia negativi. Oggi, quella che i paesi avanzati chiamano “la globalizzazione”, interessa effettivamente solo alcune aree e regioni del mondo, lasciandone molte altre ai margini, e oltre la metà della popolazione mondiale non vive nella consapevolezza di questo presunto “villaggio globale”. Possiamo in ogni caso ritenere che almeno le economie avanzate siano sempre più collegate da una serie di transazioni di beni e servizi (l’economia reale), di titoli, valori monetari e creditizi (la finanza globale) che rendono spesso insignificanti o nulle le distanze tra i diversi continenti e in qualche modo “appiattiscono” lo stesso scorrere del tempo. La globalizzazione è l’epoca dell’“ovunque e sempre” anche quando le operazioni avvengono a migliaia di chilometri di distanza tra operatori che non entreranno mai in una relazione reale e fisica: “All’aeroporto di Berlino, dal tramonto fino all’alba, il traffico aereo è diretto dalla California. Così nessuno lavora di notte, e non ci sono straordinari da pagare. Ho controllato: è vero. In effetti, la sublime astuzia di qualche manager è stata in grado di concepire un’astrazione di questo tipo. Come esempio di globalizzazione è affascinante, perché mirabilmente esatto: allude a una tecnologia in grado di azzerare la variabile dello spazio, in modo di dominare meglio la variabile del tempo. Un pianeta compatto e unitario sparato come una pallottola infrangibile nell’incognita del futuro…”33. Nella parte del pianeta maggiormente influenzata dalla globalizzazione si afferma un sistema economico caratterizzato da intense e rapidissime interdipendenze: ciò che accade in un paese può influenzare altri Stati e le transazioni di beni, servizi e moneta sempre più spesso sfuggono al controllo dei governi o dei soggetti che tradizionalmente si occupano di regolamentare i rapporti tra i paesi. Una decisione economica di una certa rilevanza assunta in un’area del pianeta può interessare, 33 A. Baricco, Next, Feltrinelli, 2002, p. 68. 22 anche nel giro di pochi minuti, altre decine di paesi nel mondo, modificando nel tempo le condizioni economiche, produttive e sociali delle persone e delle famiglie. La globalizzazione non è ovviamente un evento naturale, ma rappresenta l’evoluzione del sistema economico mondiale – soprattutto a partire dall’avvento delle tecnologie informatiche e dalla caduta del muro di Berlino – con alcuni aspetti caratteristici, così sinteticamente riassumibili: 1. i mercati mondiali sono sempre più aperti: merci, servizi e denaro sono trasferibili e disponibili in tempo reale da un paese all’altro. La concorrenza tra imprese è globale e imprese concorrenti di diverse aree del pianeta si sfidano a colpi di riduzione di costi, acquisizioni e cessioni di società, predisposizione di nuovi e sempre più sofisticati strumenti finanziari; 2. le imprese manifatturiere sono sempre più mobili sui mercati mondiali. Assistiamo ai variegati fenomeni delle joint-ventures (accordi e partecipazioni tra imprese), dei decentramenti produttivi e delle delocalizzazioni. La decisione su dove produrre e aprire stabilimenti segue considerazioni di abbattimento dei costi e di strategia commerciale (vicinanza ai mercati; clusterizzazione, ovvero raggruppamenti produttivi tra clienti e fornitori ecc.). Parallelamente, la ricerca di valore aggiunto chiede una sempre maggiore integrazione tra prodotti manufatti e servizi accessori, con la conseguenza di dover moltiplicare gli investimenti pubblicitari e di immagine là dove i mercati di sbocco sono più appetibili e significativi; 3. la nuova organizzazione della produzione si basa in modo decisivo sull’impiego delle tecnologie informatiche e della comunicazione (Internet, telefonia cellulare, reti interne dell’azienda, ecc.): ciò consente di tenere sotto controllo in tempo reale imprese, filiali, stabilimenti in ogni angolo del mondo. Non si tratta in realtà di nuovi modelli di controllo e di programmazione/produzione del lavoro: rispetto al passato il vantaggio della rete informatica sta però nel fatto che essa consente di esercitare il controllo e di sviluppare flussi comunicativi molto più complessi e completi; 4. a fianco della grande crescita di potere delle economie private, ovvero delle imprese, delle banche e delle società finanziarie, si verifica un progressivo cambiamento del ruolo dello Stato e in generale del settore pubblico dell’economia. Tutte le economie pubbliche (in particolare quelle dell’Est Europa, ancora alle prese con la riconversione dei sistemi ex comunisti, ma il discorso riguarda anche i paesi occidentali) subiscono significative trasformazioni delle loro attività e del loro ruolo all’interno del sistema economico, spesso abbandonando settori un tempo centrali e strategici ed aprendo il mercato all’iniziativa privata. 2. Modello economico, mercato del lavoro e flessibilità Quello della flessibilità è il modello adottato dalle imprese – ma in generale dall’intero sistema economico globale – per operare in termini di maggiore efficienza produttiva ed organizzativa, cioè producendo di più e a costi inferiori. Al di là dei criteri operativi seguiti dalle imprese all’interno di ogni paese, tale processo è favorito anche dalle strategie suggerite dalle grandi istituzioni economico23 finanziare internazionali (tra le più importanti il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). In virtù della flessibilità operativa, le imprese – sia manifatturiere che terziarie – si concentrano sulle proprie attività strategiche ed “esternalizzano” quelle a minor valore aggiunto o sulle quali non sono in grado di conseguire adeguate economie di scala o di specializzazione. I vantaggi dell’outsourcing e della conseguente attività in rete sono significativi: per le imprese è possibile modificare con maggiore velocità ed economicità la propria struttura produttiva, seguendo molto più da vicino l’andamento del portafoglio ordini e le dinamiche dei mercati. Sul fronte dell’impiego e della natura del lavoro, gli aspetti appena ricordati convergono verso lo sviluppo di un modello d’impresa che vede un nucleo di lavoratori stabili, normalmente ben retribuiti che si cerca di rendere il più possibile leali e fedeli verso l’azienda: sono i portatori dell’esperienza, senza i quali nessuna impresa è in grado di mantenersi e di svilupparsi. Questo nucleo tende a diventare sempre più piccolo, lasciando il rimanente alle aziende terze o ad una molteplicità di lavoratori periferici o fluttuanti: i lavoratori a tempo determinato e parziale, quelli legati a contratti atipici, in una parola, i lavoratori flessibili, grazie ai quali è possibile impiegare l’esatta forza lavoro necessaria in un determinato momento della produzione o della commercializzazione. Perlomeno nelle economie occidentali, parallelamente alla globalizzazione e alla progressiva terziarizzazione delle attività, si verifica dunque una tensione verso la deregolamentazione dei mercati del lavoro. In linea generale essa si traduce in una progressiva introduzione della flessibilità in ambito lavorativo, cioè di forme non tradizionali di lavoro dipendente, con modalità di regolamentazione legislativa e di tutela sindacale spesso in via di definizione. Vista in questo modo, la flessibilità richiama la sostanziale difformità dal contratto di lavoro standard, intendendo con questo termine un rapporto di lavoro dipendente, con contratto a tempo indeterminato, a tempo pieno e con un regime d’orario normale. Questa difformità si caratterizza per almeno uno dei tre seguenti elementi: - forma del contratto (nuove tipologie introdotte nel mercato del lavoro); - durata del rapporto di lavoro (contratti a termine, contratti a tempo determinato); - regime degli orari. Si realizza in questo modo l’informalizzazione del lavoro, ovvero l’adozione di rapporti professionali meno definiti, solidi e duraturi di quelli cui siamo tradizionalmente abituati. 24 La centralità della formazione e il lavoro che ci aspetta34 Le trasformazioni in atto nel sistema economico e produttivo impongono una rilevante riflessione sul ruolo della formazione al fine di attrezzare le persone ad affrontare le nuove sfide dell’occupazione e in generale del lavoro. C’è di più. L’investimento in formazione non deriva, infatti, solo dall’analisi della globalizzazione e delle sue ricadute circa la flessibilità del lavoro. Esso rappresenta anche la scommessa che siamo obbligati ad assumere per entrare nella società del futuro. Gli esperti dell’economia ci insegnano del resto che questo futuro non è remoto: è già alle porte, e sta modellando la demografia, il modo di concepire il lavoro, le imprese, l’intera economia. Dal punto di vista demografico, il fenomeno più evidente che tutti abbiamo sotto gli occhi è la rapida crescita della popolazione anziana e il rapido ridimensionamento delle giovani generazioni. E’ un fenomeno tipico delle società occidentali e anche a Bergamo ce ne stiamo accorgendo. L’Istat effettua delle proiezioni su base regionale, e per la Lombardia stima che il rapporto tra giovani (0-18 anni) e anziani (65+ anni), già adesso deficitario (96%), si ridurrà entro il 2050 al 39%. Nella società in cui vivremo prossimamente i giovani saranno una risorsa scarsa, e dato che già ora il tasso di fertilità femminile è sotto la soglia di riproduzione sociale (2,2 figli), le giovani generazioni si ridurranno al doppio della velocità con cui cresceranno le generazioni più anziane: questo vorrà dire che il numero delle persone in età di lavoro si ridurrà drasticamente di almeno un quarto. Tutti sappiamo, o percepiamo, che fra 20 anni le persone dovranno lavorare, salute permettendo, fino ad oltre 70 anni di età. L’immigrazione è destinata, per ragioni evidenti, ad aumentare, sebbene ciò comporti reazioni di tipo politico e culturale improntate alla chiusura e all’intransigenza. Ma proprio i paesi più attrezzati a gestire l’immigrazione e a favorirne l’integrazione economica e sociale (come gli USA) saranno quelli più avvantaggiati. In ogni caso la leva chiave per stare nel processo di informalizzazione del lavoro sarà rappresentata dal sistema dell’istruzione (pubblica), poiché la prossima società sarà la società della conoscenza. L’investimento in conoscenza, in formazione, in innovazione tecnologica è un passaggio obbligato per lo sviluppo economico. I macroeconomisti ci avvertono, ormai da anni, che la crescita economica dipende crucialmente da fattori interni (endogeni), primariamente dal capitale umano. Questa consapevolezza è ormai anche a livello micro, cioè di singola impresa: il fattore determinante per la competitività dei prossimi anni (decenni) è la conoscenza. Ormai la conoscenza non è più un fattore esogeno, che dall’esterno può influenzare il paradigma produttivo risolvendo alcuni problemi tecnici; ora è un fattore di Per questa parte fare anche riferimento a P. Drucker, The next society, in The Economist, Novembre 2001. 34 25 produzione, che ridimensiona l’importanza delle risorse naturali e delle risorse umane come si sono sempre intese, cioè come “forza lavoro = braccia”. La risorsa fondamentale nelle attività economiche, dunque, non sarà più il lavoro tradizionalmente inteso, o il capitale, o le risorse naturali, ma la conoscenza: i “lavoratori della conoscenza” rappresenteranno il gruppo dominante di quella che per secoli abbiamo chiamato forza lavoro. Oggi, parlando di “lavoratori della conoscenza” intendiamo riferirci a professionisti con un considerevole bagaglio teorico: dottori, avvocati, insegnanti, scienziati, … ma in futuro dobbiamo aspettarci una crescita straordinaria di “tecnologi della conoscenza”, figure intermedie quali tecnici informatici, sviluppatori software, analisti medici, biologi, tecnologi di produzione, paralegali, infermieri, cioè professionisti che non si limitano ad usare il cervello per svolgere il proprio lavoro, dal momento che eseguono numerose operazioni manuali, ma che in ogni caso sono portatori di un rilevante bagaglio di conoscenze teoriche assai particolari e specialistiche, che non possono essere apprese sul campo, bensì necessitano di percorsi formativi specifici e mirati. Muterà dunque sempre più – sta già mutando sotto i nostri occhi – la composizione della forza lavoro: sempre meno lavoratori manuali, e sempre meno nel secondario. Di tutti i paesi occidentali, gli USA hanno oggi la proporzione più bassa di addetti al secondario in mansioni operative (15%). I “lavoratori della conoscenza”, collettivamente considerati, saranno invece i nuovi capitalisti della prossima società economica, poiché saranno i soggetti possessori dei mezzi di produzione strategici nel futuro. Questi lavoratori, che possono essere considerati dei professionisti più che dei “lavoratori”, e che si identificano con il sapere di cui sono portatori, avranno due bisogni fondamentali: 1) un’istruzione formale di base, che ne delinei la professionalità; 2) una formazione continua che ne tenga aggiornate le conoscenze. Diverse le conseguenze: a) la mobilità professionale è destinata ad aumentare, perché siamo destinati a riscontrare sempre nuovi rapporti di lavoro, e con essi nuovi paradigmi produttivi e organizzativi (la conoscenza, infatti, non è organizzabile gerarchicamente); b) anche la mobilità sociale è destinata a crescere: la conoscenza, che è un tratto caratteristico della persona e ne è “incorporata”, non può essere ereditata o trasmessa come un patrimonio, ma deve essere acquisita ex novo da ciascun individuo; c) è urgente trovare standard formativi adeguati che facilitino la trasmissibilità e la mobilità (e quindi la pubblica accessibilità) delle conoscenze incorporate negli individui; 26 d) nei prossimi decenni, perciò, le istituzioni educative che preparano i “tecnologi della conoscenza” cresceranno rapidamente in tutti i paesi, e qui sta la scommessa anche per quei territori che partono svantaggiati in questa lunga rincorsa verso un futuro brain intensive – cioè a forte impiego della conoscenza – perché caratterizzati da storici ritardi nei livelli di istruzione formale della propria popolazione. 3. La flessibilità del lavoro, rischi ed opportunità Il modello della flessibilità non è dunque privo di conseguenze sulle prospettive e sulle modalità di lavoro delle persone, e dunque sulla loro stessa esistenza. Il tema della flessibilità, particolarmente quella applicata al lavoro, è dunque, per i nostri tempi, il tema ineludibile di confronto in campo economico, politico e sociale. Si tratta indubbiamente di un tema complesso, sul quale è difficile evitare pregiudizi ideologici, e che invece chiede un approccio costruttivo, basato sulla consapevolezza che i cambiamenti dell’economia possono essere affrontati e gestiti mediando tra situazioni e necessità diverse. Vista da una parte, la flessibilità è senz’altro una grande risorsa, forse la risorsa necessaria per il sistema economico in questo momento storico e a questo livello di sviluppo. Ciò vale per le imprese – alle quali si liberano spazi di manovra e di competitività nell’allocazione dei fattori di produzione – ma anche per gli stessi lavoratori: a partire dalla ricerca di spazi che essi invocano per la qualità della propria vita (un esempio per tutti, il lavoro part time) fino a situazioni più sostanziali, legate alla possibilità di ricoprire, con maggiore consapevolezza, un diverso ruolo all’interno del sistema economico, in termini di competenze, abilità e capacità. Nella logica del bicchiere mezzo pieno, quanto più il mercato sarà libero e flessibile, tanto più esso potrà permettere a ciascun lavoratore di esprimersi nel migliore dei modi, assumendo la sfida dell’autovalorizzazione attraverso impegno, formazione, innovazione, ricerca continua della propria migliore collocazione nel sistema produttivo. Sull’altro fronte, inevitabilmente, sta l’individuazione dei rischi e dei limiti che questo sistema di organizzazione del lavoro porta con sé: rendere più flessibile il rapporto lavorativo significa, infatti, inserire un fattore stressante nella vicenda dell’uomo, delle famiglie e delle comunità. La flessibilità per definizione si fonda sul cambiamento e sulla capacità di adattamento delle persone, magari forzando i ritmi e i tempi della vita, delle relazioni interpersonali, delle prospettive per i lavoratori. Situazioni nelle quali il lavoratore è coinvolto nelle dimensioni più personali ma che non mancano di avere significative ricadute di ordine sociale e collettivo. 27 Il limite tra la flessibilità – che potrebbe essere apprezzata come una gestione attiva, responsabile e positiva dei cambiamenti in atto – e la precarietà – una gestione viceversa subita e passiva degli stessi – è spesso di ben difficile individuazione. Da qui le questioni assai significative che sono poste al sistema economico e sociale: il venire meno, per molte persone, di prospettive certe e stabili di occupazione a medio e lungo termine; il senso di appartenenza all’impresa, ma anche al territorio e alla comunità, che si fa più debole e precario; la necessità per il lavoratore di acquisire un’adeguata consapevolezza dei cambiamenti in atto: di conseguenza, il bisogno di una formazione continua che gli permetta di stare al passo con i cambiamenti; la definizione, pur nella transizione verso modelli produttivi ed organizzativi diversi da quelli tradizionali e noti, di strategie per l’attualizzazione delle garanzie e delle tutele acquisite. 4. Una flessibilità sostenibile Una società che si interroga sul proprio futuro – a maggiore ragione una comunità cristiana – non può esimersi dalla riflessione su questi aspetti cruciali e più in generale sul senso delle mutazioni cui assistiamo nel sistema economico. Non si tratta, infatti, di questioni che possono essere affidate al solo calcolo di convenienza fra costi e benefici. Una considerazione per tutte: quella educativa, di senso e valore dei cambiamenti in atto per le giovani generazioni, che di fronte a questo modello di economia e di vita si trovano ad essere prive di adeguati sostegni e soprattutto di un sensato “passaggio generazionale” di testimonianze, di pratiche di vita, di strumenti anche concettuali per affrontare il futuro. Per la riflessione in una comunità cristiana, il necessario strumento dell’economia procede continuamente al passo con la crescita e lo sviluppo integrale della persona, della rete di relazioni che essa costruisce, della comunità in cui essa è inserita. C’è dunque materia e spazio per il confronto e la discussione, per l’elaborazione di opinioni condivise e di proposte per costruire la società del futuro. Alla ricerca dell’equilibrio, precario ma ineludibile, tra i cambiamenti culturali e di mentalità, che paiono necessari per affrontare il domani, e la necessità di una riflessione approfondita sul senso degli stessi cambiamenti, sulle condizioni alla base al nostro modo di lavorare, ma ancora di più di vivere, di fare famiglia e comunità. La questione in gioco è resa ancora più difficile dal fatto che su un tema complesso come quello della flessibilità si intrecciano livelli di lettura e di considerazione a volte troppo divergenti, diversi da persona a persona, diversi – per la stessa persona – a seconda dei momenti dell’esistenza. 28 Un conto è ragionare di flessibilità per l’impresa, altro è per il lavoratore; diversa è la flessibilità in entrata (quella di chi – spesso in giovane età – cerca un lavoro, e mette in conto grossi sacrifici pur di aprirsi una prospettiva) rispetto a quella in uscita (quella di chi – magari ad età avanzata – si trova senza occupazione e senza reale possibilità di inventarsi alternative significative); un ventenne affronta le questioni lavorative in modo radicalmente diverso da un quarantenne, così come una donna da un uomo; un esperto informatico ha aspettative professionali diverse da un operaio o da un impiegato amministrativo… Come se non bastasse, non cambiano solo i lavori, e non è dunque solo questione di strumenti giuridico-contrattuali: cambia la famiglia, cambia la società, mutano le relazioni tra le persone e le generazioni. Il rischio è che confusione, incertezza ed ansia possano farla da padrone, annichilendo le necessarie capacità di mediazione e di elaborazione che il tema richiede. Se flessibilità deve essere, dunque, che essa sempre più possa essere una flessibilità sostenibile: che sappia aprire squarci di futuro, che punti a mantenere – attualizzandole – le attenzioni alle persone, che provi a tutelare i nuovi arrivati senza penalizzare chi c’è già e ci sarà ancora per un tempo più o meno lungo. Una flessibilità che – partendo dall’attenzione agli ultimi e ai meno attrezzati – possa coniugare la sfida dell’evoluzione e del cambiamento con quella del senso e dello sviluppo del lavoro per la persona, la famiglia, la comunità, tenendo insieme diversi livelli: la professionalità, le competenze acquisite, la capacità progettuale ed imprenditive delle persone, ma anche la storia, l’appartenenza al proprio lavoro, il vissuto dei lavoratori, le relazioni che essi hanno saputo creare con le donne e gli uomini, dentro le comunità in cui sono stati attivi. Flessibilità sostenibile è anche la capacità di creare condizioni di promozione, di valorizzazione e di autotutela del lavoratore: con criteri e metodi propri della società civile, oltre che del sistema dell’impresa. La tutela di chi costruisce dal basso le risorse quotidiane: la formazione, la certificazione delle competenze, la centralità delle famiglie, l’accompagnamento solidale a favore di chi vive situazioni di precarietà, la pratica di stili di vita più attenti verso le persone (vicine e lontane), le cose, l’ambiente. E ancora: la valorizzazione della comunità come ambito privilegiato di confronto e conforto, la capacità di rilanciare il futuro attraverso l’azione solidale e corresponsabile di famiglie, imprese ed istituzioni nel ricercare congiuntamente soluzioni alle fatiche e alle sfide del quotidiano, la riscoperta della politica come pratica di servizio e di assunzione della gestione della complessità. I cristiani ci possono provare con la propria sensibilità ed attenzione: cercando di comprendere senza posizioni preconcette, insistendo per la priorità della valorizzazione dell’uomo: una persona con le proprie relazioni, i propri vissuti; una vicenda umana che si sviluppa e ha senso anche in tempi di cambiamento radicale, un’avventura spirituale che proprio nel cammino quotidiano trova senso ed applicazione. 29 Capitolo 4 DA CREDENTI NEL LAVORO E’ importante che si possa guardare con attenzione alla realtà del lavoro, sia come singoli che come comunità cristiana, cercando gli elementi per decifrarla, per coglierne le risorse, per capire a fondo i problemi, per denunciare fattivamente le ingiustizie. Proprio perché la Chiesa vive in un’epoca di forte secolarizzazione, oggi abbiamo bisogno di ricondurre il lavoro al primato del Regno, denunciando innanzitutto il limite del lavoro: tutto viene dopo il Regno, anche la professione. Attraverso il proprio impiego, elemento di libertà e di responsabilità, l'uomo può salvarsi o può perdersi. Non dimentichiamo, ad esempio, che, oltre al problema della disoccupazione (chi lavora poco o nulla), esiste anche quello del “lavorismo” (chi lavora troppo o svolge più lavori), spesso determinato da un carovita che pone molte famiglie in grande difficoltà economica, o da una spinta sociale ad ottenere risultati eccellenti, sempre più soldi, un potere riconosciuto. Recuperare il limite del lavoro significa rendersi conto che il lavoro può essere generatore di oppressione e ingiustizia. La testimonianza dei valori cristiani e la chiarezza della denuncia sono aspetti concreti della evangelizzazione, che si esprime anche nella capacità di prendersi cura dei colleghi o dei propri dipendenti, soprattutto quando si sviluppano ingiustizie. Contemplazione e azione, operosità e riposo. Il primato del Regno ci colloca nella prospettiva di non eliminare nessuna delle due polarità. Il cristiano sa anche vedere il lavoro con un certo distacco se esso ostacola e rende problematica la sequela di Gesù. Occorre legare la vita quotidiana alla luce della Parola e all'Eucaristia per vivere la radicalità evangelica anche sul lavoro. Ai cristiani, insieme alla comunità di fede, è chiesto di imparare a fare discernimento nella quotidianità. Lo stesso Magistero, da Giovanni XXIII in poi, ha suggerito il metodo della “revisione di vita” attraverso il “vedere, giudicare, agire”. Si tratta di imparare a riflettere sulla storia e sulla vita, per poter arrivare alle scelte operative, alla luce della Parola di Dio. Strumento a servizio della evangelizzazione è il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa: rappresenta lo sforzo di riflessione etica sul mondo dell'economia, della politica, del lavoro. Il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa non sostituisce tuttavia la necessità e il compito di un’ulteriore elaborazione per porre le scelte, frutto di un discernimento personale e comunitario, con attenzione all’attuale contesto storico. Proponiamo alcuni temi da approfondire per vivere da credenti nel mondo del lavoro: vivere con fiducia nella Provvidenza, perché il Signore ci vuole bene e non ci abbandona. “Ecco perché vi dico: Non vi affannate per la vostra vita, di ciò che mangerete o di ciò che berrete, né per il vostro corpo o di ciò che vestirete” (Mt 6, 30 25-34); lavorare con competenza. A ciascuno di noi è chiesto, innanzi tutto, di svolgere bene il proprio lavoro quotidiano, con cura, con abilità, con puntualità, con precisione. Esercitarsi, studiare, aggiornarsi sono azioni non meno importanti della disponibilità e della generosità. Sarebbe, anzi, un grave errore se il credente pensasse di sostituire la competenza con la dedizione in nome del Vangelo; scegliere il proprio lavoro. L'uomo, per il fatto di essere uomo, è parte del disegno divino e con la sua vita risponde ad una chiamata libera, che include anche il lavoro. Se la propria occupazione quotidiana è scelta di libertà, essa può restituire una vita realizzata. Nella comunità deve nascere una particolare attenzione per chi non può vivere il suo lavoro come una scelta libera, perché insufficiente al sostentamento, perché troppo duro, perché non in grado di valorizzare le sue doti, perché segnato da un’insoddisfazione di fondo; vivere con gratuità, sapendo che a noi è chiesto di rapportarci all'altro vivendo la giustizia di Dio che, come ci ricorda Paolo, è il Figlio crocefisso: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi l'un l'altro. Come io ho amato voi, così anche voi dovete amarvi l'un l'altro” (Gv 13,34). Anche nella professione, è l'amore di Dio e non il mansionario del lavoratore a dare la misura della disponibilità e della dedizione del cristiano; vivere nella convivenza, nella relazionalità fino alla comunione. Nel lavoro capita di vivere le relazioni in modo funzionale. Si tratta allora di imparare ad incoraggiare, rasserenare, essere attenti, dialogare. Prima ancora che far scattare la solidarietà occorre dare spazio, tra lavoratori, a delle relazioni aperte e costruttive; vivere nella gioia. Spesso i cristiani, come diceva Mazzolari, sono i carcerieri della gioia. L'amore di Dio dona gioia e le nostre vite sono chiamate a testimoniarla (Gv 15,10-11). Nel lavoro, questo atteggiamento si traduce in accoglienza, in comprensione delle persone, in stili di vita che sostengono e prendono parte alle scelte di valori e di diritti dove sono calpestati. Questo suppone anche lo schierarsi e il lottare con il rispetto di ogni persona ma con la responsabilità della giustizia; esprimere l'attenzione ai più poveri. Come per Gesù, anche per noi i poveri devono avere una preferenza e spesso il lavoro quotidiano è il luogo in cui essi ci sono compagni e maestri, se li sappiamo ascoltare e servire. Incontriamo ad esempio molti immigrati, persone che aspirano ad essere riconosciute nella dignità e anche nella capacità che possono esprimere di lavorare legalmente e di assumersi delle responsabilità; custodire il tempo, i ritmi e il riposo. È importante che tutta la società si faccia carico dei valori che le diverse chiese propongono, ma che spesso sono doni per l'intera umanità. Ci accorgiamo con preoccupazione che il lavoro domenicale si estende sempre più oltre i servizi essenziali. Bisogna saper interrompere quando è troppo, e non mischiare il lavoro con la festa ed il consumo, privilegiando le relazioni interpersonali anche oltre il lavoro, vivendo bene la festa, tipico spazio delle relazioni gratuite; cercare il difficile equilibrio tra volontariato e lavoro. Se il lavoro non deve 31 essere messo avanti a tutto, fino ad impedire degli impegni volontari nel tempo libero, occorre evitare che l'attività volontaria sia un rifugio, una fuga, dalla vita quotidiana e dalle contraddizioni che il lavoro reca con sé. Senza mescolare il lavoro con il volontariato, va cercata una fecondazione reciproca. In Italia, infatti, abbiamo tanta gente che fa un lavoro volontario ma è restia ad impegnarsi sul posto di lavoro nei rapporti sindacali, nella responsabilizzazione sui temi della convivenza e nell'impegno credente in azienda. Il lavoro non si offre solo come occasione di evangelizzazione per il singolo, ma come autentico luogo di evangelizzazione, nel quale sono possibili azioni collettive ed organizzate in nome del Vangelo. Perché ciò avvenga, sarebbe importante che i cristiani di una stessa azienda o di una stessa professione si collegassero tra loro con momenti di preghiera e di riflessione, al di fuori dell'orario di lavoro, per offrire con la loro presenza un segno di solidarietà e coerenza e per educarsi al discernimento in relazione ai valori cristiani. Questa esperienza, sviluppatasi negli anni '60 al tempo dei grandi complessi industriali, ha portato molta consapevolezza e sostegno nel mondo del lavoro. Ancora oggi sono sopravvissuti alcuni gruppi in grandi complessi. Le parrocchie, insieme con associazioni, movimenti e gruppi, possono essere un riferimento concreto per favorire intuizioni nuove e per incoraggiare incontri tra lavoratori della stessa azienda o di aziende diverse promuovendo: impegno nelle strutture del lavoro: partecipazione alle assemblee; impegno o semplice attenzione alle RSU (rappresentanti sindacali unitari); attenzione ai giovani che iniziano per aiutarli a conoscere il mondo del lavoro e ad inserirsi in esso; impegno nella formazione continua per sviluppare sempre più competenza e sostegno perché nell'azienda sia proposta un’intelligente formazione, soprattutto per i giovani; attenzione e monitoraggio per le forme di sicurezza che l'azienda deve disporre per l'incolumità dei lavoratori. L'animazione cristiana si estende dal luogo di lavoro a tutto il territorio quando ci si fa promotori di: reti familiari e di volontariato, soprattutto per le situazioni familiari in difficoltà, che si occupano della custodia dei figli minorenni dei lavoratori; forme sempre più strette di collaborazione; volontariato e cooperazione, in collaborazione anche con le istituzioni, per procurare lavoro soprattutto alle fasce deboli; proposte d'accoglienza e disponibilità ad affrontare fattivamente i problemi della casa; varie forme di impegno politico; gruppi con progetti aperti sul mondo. 32 Allegato. Documenti principali della Dottrina Sociale della Chiesa La Dottrina sociale della Chiesa, così come la conosciamo noi, iniziò alla fine del secolo XIX, con il risveglio del senso di giustizia di fronte alle condizioni disumane dei salariati. In seguito, si è allargata ad aspetti sociali come la pace, i rapporti tra i popoli, la famiglia, l'educazione, il consumo... Rerum novarum (RN) (Delle cose nuove), enciclica promulgata dal papa Leone XIII (15 maggio 1891), primo grande documento sociale della Chiesa. Tal enciclica fu accolta con entusiasmo da chi si preoccupava, in modo particolare, per l'ingiusta situazione degli operai e rifiutata negli ambienti che si opponevano al cambiamento (e ciò anche all'interno della Chiesa). Denuncia le condizioni disumane dei lavoratori e propone i principi fondamentali per un ordine giusto (cf Commissione Povertà e Giustizia, L'insegnamento sociale della Chiesa, per i documenti pontifici anteriori al 1984). Quadragesimo anno (QA) (Quarant'anni dopo dalla Rerum novarum), enciclica promulgata da Pio XI (15 maggio 1931) ai tempi della recessione mondiale e della feroce dittatura di Stalin. Pio XII offrì notevoli insegnamenti sui diritti umani, l'ordine giuridico internazionale, eccetera. Tra i suoi interventi in questo campo, si distinguono i radiomessaggi di Pentecoste del 1941 (La solennità, a cinquant'anni dalla Rerum novarum), quello di Natale del 1942 e quello del 1944 (Benignitas et humanitas), sulla Chiesa e la democrazia. Mater et Magistra (MM) (la Chiesa, Madre e Maestra), enciclica di Giovanni XXIII settant'anni dopo la Rerum novarum (15.05.1961). Il papa si fa carico dei progressi scientifici, sociali e politici e, nel nuovo contesto, riafferma e completa gli insegnamenti dei suoi predecessori. Pacem in terris (PT) (La pace sulla terra), enciclica di Giovanni XXIII (11.04.1963). Affronta il tema della pace e dei diritti umani, fondati sul rispetto della persona. Gaudium et spes (CS) (La gioia e la speranza), costituzione pastorale del concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (07.12.65). La Prima Parte è dedicata a considerazioni sulla dignità umana e sulla missione sociale dei fedeli. La Seconda Parte dibatte i grandi temi attuali. Populorum progressio (PP) (Lo sviluppo dei popoli), enciclica di Paolo VI (26.03.1967). Sviluppa la Dottrina sul rapporto tra gli individui e tra le nazioni. E un vigoroso richiamo alla giustizia e alla solidarietà universale, rivolge la sua critica al «capitalismo liberale» (26 e 58). E' ispirata dal profondo spirito umanitario ed evangelico di Paolo VI. Octogesima adveniens (OA) (Ad ottant'anni dalla Rerum novarum), enciclica di Paolo VI (15.05.1971). Il papa ricorda come i suoi viaggi per il mondo gli abbiano permesso di vedere la miseria di tanti e udire il loro grido, di constatare le flagranti differenze 33 nello sviluppo dei popoli, l'emarginazione dei poveri. La Chiesa vuole «conoscerli, aiutarli e difendere il loro posto e la loro dignità in una società indurita dalla rivalità e dal fascino del successo» (n. 15). Giustizia nel mondo, documento del terzo Sinodo dei vescovi (1971). « L'amore per il prossimo e la giustizia sono inseparabili ». I vescovi auspicano con urgenza che, all'interno della Chiesa, sia visibile il modello del rispetto per i diritti di ognuno; chiedono che si adotti lo stile di vita che faccia superare la miserrima situazione di tanti; sottolineano l'impegno educativo, che deve partire dal riconoscimento del peccato nelle sue manifestazioni individuali e sociali (nn. 17-19). Laborem exercens (LE) (Nel realizzare il lavoro), enciclica di Giovanni Paolo II a novant'anni dalla Rerum novarum (14.09.1981); non poté essere pubblicata il 15 maggio a causa dell'attentato di cui fu vittima il papa due giorni prima. E’ scritta da un uomo che ha vissuto in un paese sottoposto all'ideologia e all'organizzazione marxista, ma che ha anche studiato i sistemi capitalisti. Al centro del pensiero del papa è la persona umana, più importante del lavoro e questo più importante del capitale. Sollicitudo rei socialis (SRS) (La preoccupazione per gli affari sociali), enciclica di Giovanni Paolo II (30.12.1987), per commemorare i vent'anni della Populorum progressio. L’enciclica condanna con energia l'oppressione marxista, che sopprime le libertà e reprime la creatività (cf n. 15). Ma il capitalismo liberale è anche un imperialismo oppressore. «Il processo dello sviluppo e della liberazione si concretizza nell'esercizio della solidarietà, vale a dire dell'amore e del servizio al prossimo, in particolare ai più poveri» (n. 46). Centesimus annus (CA) (Nel centenario), enciclica di Giovanni Paolo II a cent'anni dalla Rerum novarum. (01.05.1991). Il Papa, oltre a ricordare i criteri più caratteristici della RN, espone le linee essenziali della Dottrina sociale della Chiesa con lo sguardo rivolto più al futuro che al passato. Essenziale è la concezione corretta della persona, intesa in modo erroneo dal marxismo e dal capitalismo. La Pontificia Commissione "Giustizia e Pace" pubblicò vari documenti di portata sociale: (1986). Che hai fatto di tuo fratello senza tetto? La Chiesa di fronte alla crisi della casa (1987). Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esigenze del cristianesimo (1994). Per una migliore distribuzione della terra (1997). 34 Capitolo 5 TRACCE PER PERCORSI FORMATIVI 5.1. Tematiche di riflessioni per percorsi nelle comunità Papa Benedetto XVI ci esorta a non eliminare Dio dalla vita pubblica, poiché questo conduce alla scomparsa di ogni nozione di bene autentico circa la persona e la comunità sociale. Questo messaggio vale innanzi tutto per gli stessi cristiani, che sono chiamati a testimoniare la propria fede nei vari ambiti di vita in cui operano. La realtà del lavoro si trova in una profonda trasformazione che comporta opportunità ed anche rischi. Il cristiano non può rischiare di condurre a posizioni che vedono solo il negativo e profetizzano il peggio, ma non vale neppure un generico ottimismo. Egli, infatti, è chiamato a spendersi nel quotidiano alla luce della Parola e del vissuto delle comunità. Strumento di riflessione e di scelta è il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa: rappresenta lo sforzo di attenzione etica sul mondo dell'economia, della politica, del lavoro. Il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa non sostituisce, tuttavia, la necessità e il compito di un’ulteriore elaborazione per porre le scelte, frutto di un discernimento personale e comunitario, con attenzione all’attuale contesto storico. Le tematiche e il cammino di formazione che si propone mira ad aiutare il credente a porsi nel modo adeguato nei confronti della realtà dell’economia e del lavoro in quanto dimensioni essenziali dell’esistenza umana, fattore di socialità, occasione di bene, ma nel contempo anche esperienza critica per la persona, la comunità e la vita sociale in genere. Tramite questa proposta si intende sostenere e accompagnare una testimonianza cristiana nella realtà del lavoro come caratteristica indispensabile di tutti i cristiani che sono chiamati tramite le loro opere e le responsabilità civili e sociali a dare ragione della speranza che è in loro. Il metodo prevede un cammino di “revisione di vita” composto da tre tappe: - preghiera, ovvero alimentazione personale a partire dalla Parola di Dio; - discernimento, ovvero analisi e riflessone sulla realtà odierna; - azione, ovvero indicazioni operative in rapporto alla responsabilità di ciascuno. 5.1.1. Da credenti nel lavoro La pista di lavoro introduce i partecipanti al tema del lavoro e della professionalità consentendo loro di cogliere le principali dinamiche del cambiamento. Ciò con lo scopo di dotarli degli strumenti di conoscenza essenziale e di stimolare la capacità di cogliere opportunità e rischi del fenomeno. 35 Preghiera Gen. 1,28 Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”. Gen. 2,19 “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” Discernimento - Come si modifica il lavoro scompaginando le tradizionali nozioni di spazio e di tempo; - Nuova divisione del lavoro planetaria (interdipendenza tra le economie locali); - Società della conoscenza/competenza e cultura del lavoro; - Cambiamenti del lavoro e trasformazioni del territorio; - Formazione e professionalità per stare nel lavoro; - Lavoro come occasione di integrazione della persona. Azione Ad ogni gruppo di lavoro è chiesto di elaborare una scheda su cui si indicano, in riferimento ad alcune situazioni di lavoro tipiche della attuale stagione, le opportunità ed i rischi. * *** * Caratteristiche del relatore: una persona che conosca le principali dinamiche della realtà del lavoro e delle professioni, sia documentata, equilibrata e non ideologica. 5.1.2. Etica del lavoro La pista di lavoro intende mettere a fuoco soprattutto il rapporto lavoro, in riferimento alle responsabilità etiche che un tale ruolo soggetto che lo esercita. Si vuole far emergere la consapevolezza circa disporre di criteri morali circa il “lavoro ben fatto” connesso al dell’altro. 36 tra persona e attribuisce al la necessità di maggior bene Preghiera Gen. 35,30-35; 36,1 Mosé disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento, rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso. Gli ha anche messo nel cuore il dono di insegnare e così anche ha fatto con Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. Li ha riempiti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso, e di tessitore: capaci di realizzare ogni sorta di lavoro e ideatori di progetti”. Bezaleel, Ooliab e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza, perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario, fecero ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato. Discernimento Origine divina del lavoro: saggezza, intelligenza e scienza come vocazione; Etica del lavoro; Deontologia del lavoro di cura: non basta la professione; Un’etica per il lavoro autonomo e professionale. Azione Ad ogni gruppo di lavoro è chiesto di individuare i contenuti più importanti della “carta etica” relativa al lavoro nei servizi pubblici. * *** * Caratteristiche del relatore: una persona preparata in tema di lavoro e professionalità con preparazione in scienze umane (psicologo, sociologo, antropologo, giurista…) e conoscenza del lavoro pubblico, specie di cura (educazione, assistenza, sanità, cura del territorio). In alternativa, può anche essere valido un confronto fra due testimoni appartenenti a queste categorie di professionisti. 5.1.3. Lavoro e comunità La pista di lavoro mira a rendere i partecipanti consapevoli della necessità di una coscienza morale dei singoli, delle famiglie e della comunità circa il pericolo di un lavoro che superi i limiti di una sana distribuzione dei tempi e delle cure. Tale consapevolezza viene espressa in un’iniziativa pubblica da realizzare nell’ambito del territorio. 37 Preghiera 2 Ts 3, 6-15 Vi ordiniamo pertanto fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonirtelo come un fratello. Discernimento Lavori che contribuiscono a creare comunità; Lavori (e modi di organizzazione del lavoro) che scompaginano il tessuto familiare e comunitario; Lavoro e giorno del Signore; Lavoro, riposo, tempo libero: regole di un lavoro “sano”; Dignità umana e lavoro: l’uomo non dispone di se stesso. Azione Si chiede di delineare un intervento pubblico mirante a sensibilizzare la popolazione del territorio circa la necessità di scandire la settimana e l’anno secondo una giusta alternanza di lavoro, riposo, vita familiare e comunitaria, tempo libero. * *** * Caratteristiche del relatore: una persona preparata in tema di lavoro e professionalità con preparazione in scienze umane (psicologo, sociologo, antropologo, giurista…) e conoscenza del rapporto tra lavoro e vita familiare e comunitaria. In alternativa, può anche essere valido un confronto fra due testimoni che riflettono sulla loro vita circa il rapporto tra lavoro e comunità. 38 5.2. Proposta per un itinerario sui cambiamenti economici e sociali del nostro territorio A confronto con le sfide del lavoro. I cambiamenti del lavoro assumono, con il passare del tempo, contorni di sempre maggiore rilevanza e complessità. La sfida della globalizzazione amplifica la competizione e ridefinisce le coordinate dell’azione produttiva, economica e sociale. Nascono nuove domande rispetto alle strategie, al bisogno di formazione, ai cambiamenti del lavoro e dunque all’identità dei lavoratori, delle famiglie, della stessa società. Conoscere i cambiamenti in atto è il primo passo per poter raccontare delle fatiche, delle attese e delle speranze delle persone. - Dove va l’economia bergamasca? Cosa sta cambiando dal punto di vista economico e produttivo nel territorio bergamasco? Quali caratteristiche assume il cambiamento in atto? Si confermano alcuni punti di forza, ma si aprono anche preoccupanti prospettive per settori che hanno fatto la storia della nostra bergamasca. E, intanto, altre “aperture” verso nuovi settori sembrano offrire nuovi spiragli e possibilità… - Se la Cina è vicina: l’economia bergamasca a confronto con il sistema globale Come si attrezza l’economia bergamasca di fronte all’avanzare della competizione globale? La Cina è l’esempio di un’apertura dei mercati dentro la quale occorre ridefinire punti di forza e di competitività del “made in Bergamo”. Quali opportunità dall’apertura dell’economia? Quali limiti e quali rischi? Quali cambiamenti culturali e organizzativi si rendono necessari per il nostro sistema economico? - Non scordiamoci il lavoratore…. Quando parliamo di cambiamenti dell’economia rischiamo di fare categorie generali. In ogni svolta stanno però prima di tutto le storie delle persone: le opportunità e le fatiche che quotidianamente si pongono all’attenzione delle lavoratrici e dei lavoratori. Come vivono le nostre famiglie i cambiamenti in atto? Con quali preoccupazioni, strategie, condizioni di vita nelle fabbriche, negli uffici, nell’ambiente di lavoro? - Parole di senso, responsabilità e speranza. La riflessione sui cambiamenti del mondo del lavoro non può prescindere dalla consapevolezza personale relativa alle aspettative in ambito professionale, né può dimenticare la dimensione sociale del lavoro. Una dimensione da ripensare * Questo percorso è stato sperimentato dai circoli ACLI della zona Valle Seriana nell’anno 2005. 39 rimanendo nel solco dell’attenzione ai valori che da sempre accompagnano il pensiero cattolico in materia di economia. Come fare memoria viva, e dunque azione, della Dottrina sociale della Chiesa? Quali insegnamenti, proposte e attenzioni valorizzare per un’economia a servizio dell’uomo? PER APPROFONDIRE 1. Sulle trasformazioni del lavoro Beck U., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi, Torino, 2000. Damiano C., Treu T., Conversazione sul lavoro, Rosenberg & Sellier, Torino, 2004. Donati P., Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. Accornero A., Era il secolo del Lavoro, Il Mulino, Bologna, 1997. Fullin G., Vivere l’instabilità del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2004. Gallino L., Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma, 2001. Magatti M., Fullin G., Percorsi di lavoro flessibile, Carocci, Roma, 2002. Zucchetti E., Nuovi attori nel mercato del lavoro italiano, Angeli, Milano, 2004. Martinelli M., Il legame incrinato. Lavoro e società in trasformazione nell’epoca della Globalità,Vita e Pensiero, Milano, 2003. Mordicchio E., Povertà ed esclusione sociale, La prospettiva del mercato del lavoro, Edizioni Lavoro, 2005. Pugliese E., Rebeggiani E., Occupazione e Disoccupazione in Italia, Edizioni Lavoro. Ponzellini A.M., A.Tempia, Quando il lavoro è amico, Edizioni Lavoro. Un’agenda del lavoro per l’Italia, ACLI, Roma, 2005 - www.acli.it 2. Sul lavoro decente Bureau International du Travail (BIT), Un travail décent, Geneva, 1999. 40 Gallino L., Le culture del lavoro e l’idea di lavoro decente, in Per una nuova cultura industriale, a cura di Provasi C., Maccabelli T., Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 99 116. Margalit, A., La società decente, Guerini e Associati, Milano, 2004. Pontificio Consiglio della giustizia e della pace (a cura di), Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004. 3. Sull’integrazione lavoro, consumo, risparmio Bauman Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina (En), 2004. Bruni L., Zamagni S., Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004. Iref (a cura), VIII Rapporto sull’associazionismo sociale. Il sottile filo della responsabilità civica, Milano, 2003. 4. Sul fattore tempo Bassi A., La dimensione temporale della società. Tempo, lavoro e politiche sociali nelle società post-moderne, Longo, Ravenna, 2002. Forum delle Associazioni familiari, Documento “Quale lavoro per quale famiglia” www.forumfamiglie.org Acli, In cammino con le famiglie, Aesse 2000. 5. Sulla società a rete e sull’economia globale Castells M., La nascita della società in rete (L’età dell’informazione, volume I), Ube, Milano, 2004. Mance E.A., La rivoluzione delle reti, Emi, Bologna, 2003. Deaglio M., Postglobal, Laterza, Roma-Bari, 2004. 6. Sul contesto italiano Bonomi A., Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino, 1997. 41 Cisl, Progetto Mezzogiorno. Gli interventi prioritari per migliorare le condizioni di contesto per il lavoro e la competitività, 2004 - www.cisl.it. 7. Chiesa, morale e lavoro AA.Vv., Economia, politica e morale nella società dell'Occidente, EDB, Bologna, 1990. AA.Vv., L'insegnamento sociale della chiesa, Vita e Pensiero, Milano, 1988. AA.Vv., Una Repubblica fondata sul lavoro, AVE, Roma, 1988. Chenu M.D., Per una teologia del lavoro, Borla, 1964. 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