Strumento di lav. def. per seminario lavoro

Diocesi di Bergamo
Ufficio per la Pastorale Sociale
Socio - politico, Lavoro ed Economia, Giustizia e Pace, Salvaguardia del Creato
Le comunità cristiane
nelle trasformazioni del lavoro
- Strumento di lavoro -
Seminario di studio
22 ottobre ’05
Ciclostilato in proprio
INDICE
Introduzione
pag. 3
1. Modernità e cultura della complessità
pag. 4
2. Spunti di discernimento a partire da alcuni elementi di antropologia
biblica
pag. 6
Allegato. Proposta di riflessione: VIGILARE
pag. 21
3. Modernità e complessità nell’economia e nel lavoro
pag. 22
4. Da credenti nel lavoro
pag. 30
Allegato. Documenti principali della Dottrina Sociale della Chiesa
5. Tracce per percorsi formativi
pag. 33
pag. 35
5.1. Tematiche di riflessioni per percorsi nelle comunità
pag. 35
5.2. Proposta per un itinerario sui cambiamenti economici
e sociali del nostro territorio
pag. 39
Per approfondire
pag. 40
----------------------------------------------Il gruppo di lavoro è composto da: don Gianni Chiesa, Andrea Gaiti, Ettore Gasparini, Ferdinando Piccinini, Francesco
Breviario, Massimo Longhi, Giorgio Lanzi, Davide Capovilla, Simone Biffi, Pino Candiani, Giuseppe Giovanelli, Giovanni
Frigeni, don Lino Casati, don Francesco Poli.
2
Introduzione
LE COMUNITA’ CRISTIANE
NELLE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO
Nel cammino di preparazione al 37° SINODO Diocesano, l’Ufficio per la pastorale
sociale e del lavoro, visto quanto le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e
nella società civile incidono profondamente sul tessuto sociale dei nostri territori, ha
promosso un momento di studio per offrire, nell’ambito del Seminario Le Comunità
cristiane nelle trasformazioni del lavoro, a tutte le comunità alcuni strumenti di
approfondimento, di riflessione e d’intervento su tali problematiche.
Tali strumenti di lavoro, che presentiamo alla Diocesi di Bergamo e alle comunità
impegnate nel cammino Sinodale, sono il frutto delle riflessioni fatte all’interno del
gruppo di lavoro, come contributo al percorso di riflessione sul rapporto Parrocchia –
Territorio.
In questo percorso di approfondimento, l’Ufficio della pastorale sociale ha colto un
diffuso senso d’insicurezza e di difficoltà a vivere le situazioni di crisi da parte di
coloro che ne sono coinvolti.
Questo senso d’insicurezza determina profonde ricadute nel vissuto a livello
famigliare e, laddove si profilano situazioni di crisi occupazionale più estese, viene
meno anche il senso di appartenenza al proprio territorio e, di conseguenza, si
profila un pericolo di disgregazione sociale. Per questo è importante che le comunità
cristiane colgano in tempo questi problemi per ridire PAROLA e recuperare il valore
dell’Incarnazione: per ridare speranza e ritessere legami solidali e per recuperare
senso e coesione sociale là dove queste dimensioni sono poste in discussione dai
cambiamenti in atto.
Occorre, allora, nel saper cogliere per tempo questi cambiamenti, che le comunità
cristiane sulla base di tali contributi promuovano, a livello di territorio, percorsi
formativi e proposte solidali per esprimere vicinanza e ridare senso e speranza
cristiana verso tutti coloro che sono coinvolti dai mutamenti dei processi del lavoro.
Con questo spirito, nel promuovere il Seminario di studio, e nell’offrire questi
strumenti di lavoro, l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro, si rende disponibile
a collaborare con le comunità parrocchiali che vorranno impegnarsi per dare il loro
contributo sui problemi del lavoro, rispetto al cammino sinodale che la Chiesa che è
in Bergamo sta facendo.
3
Capitolo 1
MODERNITA’ E CULTURA DELLA COMPLESSITA’
I cambiamenti nel campo del lavoro e della vita civile in generale debbono
essere compresi e valutati, anche in ordine al compito pastorale, da parte di una
comunità cristiana, nel quadro delle trasformazioni culturali e sociali che
caratterizzano quel fenomeno che va sotto il nome di modernità (con la variante
specifica odierna della post-modernità). Proviamo allora a segnalare semplicemente
alcune delle componenti più significative di questi processi socioculturali. A ciò va
aggiunto, ovviamente, tutta un’analisi sul lavoro e sui suoi cambiamenti, anche
rispetto al vissuto e alla mentalità delle persone.
Va tenuto presente che, sullo sfondo dei cambiamenti moderni, c’è la nascita del
mercato (già nel periodo medioevale) come processo socioeconomico che comincia a
‘sganciare’ la persona da un territorio particolare e a stimolarlo verso una mobilità
continua che gradualmente non riguarda più solo l’economia ma anche la cultura, la
religione, la famiglia e altri aspetti della vita.
1. Tipico della modernità è prima di tutto la mobilità, lo spostarsi continuamente
da un luogo ad un altro dal punto di vista dello spazio, della cultura, delle
possibilità di vita, delle esperienze che toccano il proprio vissuto. Elemento
originario di questo, si diceva prima, è il mercato che tende a ‘separare’ la
persona da tutto il complesso degli elementi della sua attività lavorativa e
produttiva e anche dal proprio ambiente abitativo (anche se non in forma
definitiva specialmente nei primi tempi). Questo comporta che si fanno
circolare merci, persone, capitali, conoscenze, esperienze, anche religiose.
Insieme alla mobilità socioculturale, altro elemento tipico della modernità è il
sorgere del sapere scientifico insieme al suo sviluppo, e l’affermarsi della
tecnica come capacità di riprodurre e modificare la realtà conosciuta mediante
la scienza. Sapere scientifico significa che la realtà è conosciuta nella sua
struttura empirica, nel suo meccanismo di funzionamento e negli effetti che
produce. E’ importante notare che questo sapere non considera gli aspetti di
“senso” e di “significato” che le cose hanno per le persone, ma solo la loro
“obiettività” e il loro funzionamento. E’ un sapere che tende a sostituire le
forme “tradizionali” di conoscenza come la filosofia, la religione, l’etica. Infine è
importante ricordare che la modernità, nella sua connotazione tipicamente
occidentale, significa valorizzazione della soggettività dell’uomo. In altre parole
l’uomo si sente “costruttore” della propria storia e del proprio destino; la sua
identità e i suoi comportamenti non sono più visti come l’espressione di un
ordine naturale o divino, ma come il risultato delle proprie scelte e decisioni.
Nella modernità questa soggettività coincide con i grandi gruppi sociali o i
processi collettivi (liberalismo, socialismo, ideale del progresso…); da qui
sorgono le prassi di emancipazione dei grandi soggetti collettivi verso una
società libera, progredita ed eguale. Nella postmodernità, cioè negli ultimi
venticinque – trent’anni grosso modo, la soggettività si concentra
4
sull’individuo, è cioè il singolo che si sente artefice del suo destino con la sua
libertà fatta di emozioni, bisogni, scelte etiche e religiose diverse, tutte in
qualche modo legittime, purché tolleranti. Questa individualizzazione della
soggettività è il segno della crisi del progetto progressista, cioè dell’idea che ci
sia una costante e inarrestabile crescita collettiva sia a livello tecnico, sia a
livello culturale; in realtà si scoprono le possibili derive negative del cammino
storico sociale dell’uomo. La storia cioè è aperta “a ogni esito” compreso quello
“regressivo”. Da questo punto di vista va in crisi ogni idea di totalità del sapere
e della soggettività. Nelle vicende più recenti, cioè nella post-modernità, la
mobilità assume la forma soprattutto dell’aumento dei soggetti che
interagiscono fra di loro e della crescita delle possibilità di azione e di scelta da
parte dei soggetti stessi. La differenziazione, quindi, delle varie attività e degli
ambiti di vita diventa quasi un esito inevitabile della società: è la società
complessa. Tale differenziazione degli ambiti (famiglia, politica, economia,
lavoro…) è anche l’esito del sapere scientifico che punta molto sulla
specializzazione e particolarizzazione della conoscenza, perdendo di vista
quindi l’intero della realtà. Si conosce a pezzi, si conosce “tutto” anche se non
si conosce “il tutto”. Il problema è di “mettere insieme” i pezzi in modo non
puramente meccanico. La crisi del senso, cioè di una direzione unitaria che
dia ragione consistente alle scelte, è l’esito di questa accentuazione della autoreferenzialità.
2. La ricaduta di questi processi sul piano del vissuto delle persone è variegato e
molteplice. In primo luogo l’identità delle persone si edifica su una molteplicità
di esperienze, di saperi, di incontri, di prove e di verifica dei risultati. Tutto
questo da un lato porta a una forma di “identità aperta” in ricerca, desiderosa
di crescita e di realizzazione di sé senza false illusioni o progetti totalizzanti;
dall’altro lato rischia di produrre un soggetto che non riesce a decidersi in
modo convincente su nulla perché tutto gli appare parziale, utile e attraente
magari, ma mutevole e momentaneo. Il valore e l’importanza delle emozioni,
oggi, è forse indicativo di questa difficoltà a scegliere e a provare tutto senza
essere mai soddisfatto: tale è il consumismo come stile di vita. Un soggetto
quindi, individuale soprattutto, che non si pone più di tanto il problema del
bene e della verità delle cose, quanto piuttosto quello della loro utilità e
rispondenza ai propri bisogni sia materiali che psicologici. Tale soggetto allora
si sente protagonista ma “nel piccolo” della sua individualità e quando sorgono
problemi di carattere civile o di livello globale non vede bene come possa
esercitare la sua responsabilità. Un soggetto che forse fatica a sentirsi ‘figlio’ di
una storia e destinatario di un senso buono che già lo anticipa come una
promessa. Nonostante tutto non manca, anzi viene accentuato, il desiderio di
valorizzazione della propria libertà e delle proprie scelte, la ricerca di un senso
che dia unità, seppure non totalizzante e chiusa, alla propria vita.
All’interno di questo processo, il compito prioritario di una comunità cristiana forse
è quello di un discernimento, cioè di individuare le ambiguità e le derive non umane
di alcune direzioni culturali e insieme di cogliere le opportunità che la situazione
odierna nella sua forma di modernità e post modernità presenta.
5
Capitolo 2
SPUNTI DI DISCERNIMENTO A PARTIRE DA ALCUNI ELEMENTI
DI ANTROPOLOGIA BIBLICA
“La Bibbia è il racconto dell’Altro prima dell’io e che per primo si rivolge all’io …
la Bibbia istituisce la soggettività umana come soggettività ospitale:
non la soggettività razionale che, per il pensiero greco,
contempla e svela il senso dell’essere;
non la soggettività progettuale che, per il pensiero moderno,
costruisce e disegna i suoi sensi;
non la soggettività ludica, debole, destrutturata che, per il pensiero postmoderno,
nega e dissolve qualsiasi ricerca di senso che non sia iscritto nell’io Narciso;
ma la soggettività responsabile la cui identità è di essere per l’altro,
accogliendolo nello spazio della propria libertà buona o bontà,
amandolo di amore di alterità
e assumendone l’estraneità, la diversità, la povertà e la stessa inimicizia”.
C. Di Sante, L’io ospitale, Ed. Lavoro, pp. 9-10.
ELEMENTI DI ANTROPOLOGIA BIBLICA*
La categoria biblica che prendiamo a riferimento, per un orientamento nel
discernimento dei valori da tenere in considerazione all’interno della società
complessa, è quella dell’alleanza “la quale ha le sue origini nella storia degli inizi
del popolo ebraico e l’idea teologica portante ha una struttura tripolare: l’uscita
dall’Egitto, l’offerta della Torah al Sinai e l’ingresso nella terra promessa … [Essa]
non va considerata una tappa successiva alla creazione (Dio prima crea l’uomo e poi
stringe un patto con lui), ma un momento ad essa interno come condizione del suo
realizzarsi. La creazione – cioè il mondo buono e riuscito – non è solo opera di Dio
ma di Dio che associa a sé, in un rapporto di alleanza, l’uomo. La creazione è così
contemporaneamente opera di Dio e dell’uomo”1. Nella categoria dell’alleanza la meta
è la promessa della “terra dove scorre latte e miele” (Es. 3,17) e il percorso è
l’abbandono alla Parola e ai comandi del Signore: Questi sono i comandi, le leggi e le
norme che il Signore vostro Dio ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica
nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso” (Dt. 6,1).
Il tema biblico dell’alleanza serve a definire il rapporto tra l’uomo e Dio, fissando
l’alterità dell’uno rispetto all’altro oltre l’indifferenza e la contrapposizione. Esso è
maturato nel popolo d’Israele sul modello culturale dei “trattati di vassallaggio”
esistenti nell’antico oriente, modello rielaborato per esprimere la sua esperienza
religiosa con il Dio dell’Esodo. Solo successivamente, e in un confronto continuo tra
la memoria dell’alleanza dell’Esodo e le vicende storiche di Israele, la categoria
dell’alleanza ha permeato i libri profetici e sapienzali della bibbia e, come si vedrà
* Le note che seguono sono tratte dai saggi di antropologia biblica di Carmine Di Sante.
1
C. Di Sante, L’Eucarestia terra di benedizione, EDB, Bologna, 1987, p. 215.
6
meglio successivamente, gli autori biblici, proiettando e retrodatando la categoria
dell’alleanza dell’Esodo, hanno riletto la storia dell’umanità, la preistoria d’Israele e
la storia dei Patriarchi nel libro della Genesi2.
Il tema biblico dell’alleanza riassume, perciò, l’antropologia biblica stabilendo
e definendo un triplice rapporto: con Dio, con gli altri e con il mondo e mettendo in
scena due alterità radicalmente irriducibili e asimmetriche (anche se non indifferenti
perché trattasi di alterità di relazione) e una promessa: la terra dove scorre latte e
miele.
 Alterità divina intesa come auto-rivelazione di Dio nella storia dell’uomo,
come Colui che è sempre e sempre sarà con Israele:
Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il
suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono
sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese
verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele” (Es.
3,7-8a).
L’essere di Dio è il suo essere per l’uomo, il suo farsi vicino, il suo liberatore.
La Parola è l’atto con cui Dio interviene nella vita dell’uomo e nella storia.
La Bibbia continuamente ammonisce Israele perché:
- non dimentichi: “Il tuo cuore non inorgoglisca in modo da dimenticare il
Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Dt.8,14);
- continuamente lo ascolti: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore
è uno solo” (Dt. 6,4);
- lo celebri come memoriale e trasmetta ai suoi figli il senso religioso
dell’evento:
Mosè disse al popolo: “Ricordati di questo giorno, nel quale siete usciti
dall’Egitto, dalla condizione servile, perché con mano potente il Signore vi ha
fatti uscire di là… Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del
Cananeo, dell’Hittita, dell’Amorreo, dell’Eveo e del Gebuseo, che ha giurato ai
tuoi padri di dare a te, terra dove scorre latte e miele, allora tu compirai questo
rito in questo mese... In quel giorno tu istruirai tuo figlio: È a causa di quanto
ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto” (Es. 13,3-8).

2
3
Alterità umana che si s-copre come alterità di relazione in cui l’io non è
sovrano, ma costituito da un Altro che lo anticipa e lo libera dalla sua pretesa
di indipendenza e di autosufficienza e lo costituisce come soggettività accolta
(soggettività umana posta sotto lo sguardo di Dio) e accogliente (accolto da Dio
l’uomo è chiamato a farsi accogliente troncando definitivamente con “l’io che
disegna un mondo di cui è l’epicentro, per istituire il primato dell’altro
sull’io”3). L’alterità intesa come soggettività accogliente si caratterizza:
- per la sua “anteriorità” rispetto all’io: l’altro è colui che chiede di essere
accolto e l’io, nell’accoglienza, si realizza come soggettività;
- come portatrice di bisogni: la povertà dell’altro chiede di essere colmata;
cf. C. Di Sante, L’io ospitale, Edizioni lavoro, Roma, 2001, pp. 32-34.
Ibidem, p. 94.
7
- come forte e autorevole: l’altro/il povero si pone davanti all’io non con paura
e vergogna ma come chi chiede ciò che gli spetta;
- come pro-vocazione e appello: l’altro non si pone come oggetto di
contemplazione, ma come colui che attraverso il suo esserci e il suo esserci
bisognoso, fa uscire l’uomo dall’ego e gli affida un compito;
- come rivelatrice dell’identità: l’altro è la voce che chiama l’uomo per nome e
gli rivela la sua identità.

Promessa: l’alterità di relazione asimmetrica è fondata sulla promessa della
liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e sul dono della terra dove scorre latte e
miele: una terra storicamente e geograficamente configurata di cui Israele
(l’uomo) è beneficiario e non proprietario, non un altrove inteso
metastoricamente (come penserà la tradizione cristiana influenzata
dall’ellenismo). In questa terra Israele è costituito come custode e non come
signore/proprietario della terra: “Le terre non si potranno vendere per sempre,
perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv.
25,23). “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti. È
lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita” (Sal. 24.1-2). L’alleanza
proclama Dio il vero proprietario delle cose, afferma la destinazione
universale delle cose a favore dell’uomo (tutto è di Dio ma tutto è per l’uomo),
definisce l’impossibilità da parte dell’uomo di appropriarsi della terra (l’uomo
non può possederla ma solo accoglierla) e custodirla.
La corretta articolazione del triplice rapporto (Dio, l’uomo, il mondo) impedisce
sia la separazione sia l’identificazione tra i tre poli dell’Alleanza;
La separazione di Dio dall’uomo e dal mondo rendono impossibile qualsiasi discorso
teologico che non sia allo stesso tempo antropologico e cosmologico. La logica
dell’Alleanza va contro:
la separazione dell’uomo da Dio e dal mondo come insegna l’antropologia
atea che vuole fare a meno di Dio e quella pseudospirituale che vuole rinnegare
il mondo;
la separazione del mondo da Dio e dall’uomo, cioè una cosmologia che
considera il mondo in se stesso e lo riduce ai suoi aspetti esteriori e strumentali
prescindendo dal suo essere creato e dall’impegno e dalla responsabilità dei
singoli soggetti umani su di esso.
L’identificazione tra i diversi poli del rapporto. L’alleanza rende impossibile qualsiasi
identificazione perché:
costituisce Dio signore dell’uomo e questi suo servo obbediente e rivela, in
questa relazione, il segreto della realizzazione e della pienezza umana;
mantiene i confini tra Dio e il mondo, impedendo ogni forma di panteismo, e
tra l’uomo e il mondo, impedendo ogni forma di organicismo (concezione
dell’uomo come parte del mondo, invece che suo partner autonomo e
responsabile).
Rispetto all’uomo e al mondo, Dio è l’origine e la norma; rispetto a Dio e al mondo,
l’uomo è l’interprete e il beneficiario; rispetto a Dio e all’uomo, il mondo è
sacramento e dono.
8
L’esistenza umana, intesa come alterità di relazione asimmetrica fondata sulla
promessa della terra dove scorre latte e miele, “emerge non solo nel racconto
dell’esodo, ma anche dalla preistoria di Israele e della stessa umanità che gli autori
biblici rileggono proiettando e retrodatando su di essa la logica del racconto
esodiaco. La storia dei patriarchi che inizia con Abramo, infatti, è letta come un
esodo che, da Ur dei Caldei, dove il progenitore d’Israele era “straniero” allo stesso
modo degli Ebrei nell’Egitto, conduce, attraverso mille peripezie, verso una terra che
sarà, per tutti, una terra di benedizione… La storia dei patriarchi è la storia
dell’abbandono a questa promessa e della certezza che, nella sua realizzazione, i figli
di Israele troveranno la loro patria […] Ma la pagina biblicamente più alta dove
l’alterità umana è presentata come alterità “accolta” in un mondo che è “casa” è il
primo racconto della creazione, dove, ad ogni realtà creata, il redattore fa seguire il
commento del creatore che era “cosa buona”: e soprattutto il secondo racconto dove,
stando al testo, Adamo è collocato da Dio nel “giardino dell’eden” (o paradiso
secondo la traduzione dei settanta) in cui vive in armonia piena con sé, con la donna
– metafora nell’eden dell’alterità per eccellenza – con il mondo e con Dio. Come la
terra promessa, anche il “giardino dell’eden” è dono di Dio e non conquista, e il
peccato originale (originale nel senso di originario che è a monte di ogni peccato e ne
costituisce la sostanza), che ne è il capovolgimento e il pervertimento, consiste nella
negazione dell’alterità alla quale si è affidati e consegnati”4.
Per la letteratura neotestamentaria Gesù (Messia – Cristo – Figlio di Dio) è
l’uomo nel quale la speranza di un futuro radicalmente riconciliato con Dio e con il
mondo (adempimento dell’alleanza nel Regno di Dio) si realizza divenendo presenza e
realtà. “L’espressione ‘Gesù Cristo, figlio di Dio’ (Mc. 1,1) non va intesa in senso
causativo-generativo (Gesù nato da Dio) ma etico/morale (Gesù docile e obbediente a
Dio), indicando non un dato di fatto, ma il peculiare rapporto tra la coscienza di
Gesù e la signoria di Dio”5. In questo senso Gesù stesso è il Regno di Dio, non
perché lo annuncia, ma perché lo realizza. In questo senso Gesù è l’umanità
perfetta.
I TRATTI COSTITUTIVI DELL’UOMO SECONDO L’ANTROPOLOGIA BIBLICA
A partire dall’analisi sopra richiamata, la ricerca dei tratti costitutivi dell’uomo
potrebbe partire dalla consapevolezza dell’“esserci”, dove la cosa importante è il “ci”,
“esserci” non soltanto “essere”. L’essere rimanda al metafisico, al non storico… ad
un modello teorico/deduttivo; l’esserci rimanda all’antropologico, alle esperienze,
alla storia, all’essere dato… ad un modello sperimentale/antropologico.
Un esserci da rielaborare continuamente e da interiorizzare non come portato
della “norma” o della necessità, ma come valore, opportunità, dato
antropologico positivo da cui partire nella ricerca della propria identità
personale e collettiva.
4
5
C. Di Sante, L’io ospitale, op. cit., pp. 32-34.
A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo”, AVE, Roma, 1972, p. 266.
9
Nel percorso di costruzione del senso della propria esistenza è utile soffermarsi sui
seguenti rimandi dell’esserci:

L’esserci come storicità, come essere “dato”, dato “qui” e “ora”6
- “Qui”, sta per questo luogo, con le sue specifiche caratteristiche fisiche e
morfologiche, così come si è definito nel tempo con l’intervento dell’uomo, con la
sua storia, con le sue potenzialità e limiti, con le sue ricchezze ecc. Qui, a
Bergamo e non a Calcutta, né a Parigi o altro luogo.
- “Ora” sta per questo momento preciso, il 2005 e non il 1800… con tutto
quanto ne consegue in termini di conoscenze acquisite, storie personali e
collettive vissute, eventi capitati, limiti imposti, opportunità offerte, potenzialità
presenti…
“Qui e ora” anche rispetto alla specifica famiglia in cui sono nato e vivo,
comunità di riferimento, chiesa e fede di appartenenza, possibilità di lavoro e
studio, di impegno civico, di divertimento e tempo libero...
L’esserci, qui e ora, per essere vissuto intensamente richiede:
- consapevolezza della propria “datità”; consapevolezza che tiene conto di quello
che si è, di quello che è stato prima di me e di quello che viene dopo di me…
- richiede di considerare la vita nella sua pienezza fatta di materialità, relazioni
e spiritualità e non solo come pensiero, pensiero assoluto;
- di considerare la realtà complessa in cui siamo dati come opportunità non
come vincolo, come punto di partenza non come limite invalicabile… in modo
storico/antropologico non in modo fatalistico;
- accettazione e, se necessario, “riconciliazione” con la propria storia personale
e, insieme ad essa, con la propria famiglia, le proprie radici culturali;
- il recupero della propria soggettività e unicità7 (coscienza individuale) e, se
necessario, il riconciliarsi con il proprio esserci. Questo comporta che ci
accettiamo e amiamo così come siamo, senza fughe in avanti, sogni e idealismi,
ideologie… senza rifiuti e rancori;
- che ci accettiamo come persona data qui e ora, ma anche come persona
inserita in un collettivo dato;
- che nella nostra esistenza vi sia una ricerca continua della dimensione
unitaria della vita8, dimensione che non è mai raggiunta una volta per sempre.
L’unità dentro noi stessi è condizione necessaria per rapportarsi al frammento e
per esercitare la relazione e la responsabilità.
Cfr. - mistero dell’incarnazione
- storicità rivendicata dalle religioni rivelate.
7
Cfr. Gen. 1,27-31
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
Dio li benedisse e disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su
ogni essere vivente, che striscia sulla terra”.
Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che
produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che
strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. Dio vide quanto aveva
fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno”.
8
Cfr. Ef. 2,14-18 “Cristo a creato in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo”.
6
10

L’esserci come identità aperta all’altro/Altro
Il tema di fondo è quello dell’altro/Altro come antidoto all’autoreferenzialità,
all’io egotico e ad ogni tentazione egotista, ma anche più semplicemente
antidoto alla libertà intesa come indipendenza e mancanza di legami, antidoto
alla perdita dell’insieme a favore della mia soggettività individuale9. Nei vari
settori dell’agire collettivo (culturale, politico, sociale, economico, religioso…) è
antidoto alle logiche che non riconducono a unità perché non rimandano “ad
altro”, ma solo a se stesse.
L’esserci come identità aperta rimanda:
- alle relazioni con il passato (siamo quel che siamo perché qualcuno – non solo
individuale, ma anche collettivo – ci ha messo in relazione), con il presente (fatto
di storia, di persone con cui vivo, di opportunità) e con il futuro che sarà dopo
di noi e che sarà non in modo astratto, ma come portato delle scelte e azioni che
facciamo noi, qui e ora10;
- alla dimensione della diversità e reciprocità di genere e del dono ricevuto e
dato all’interno di questa diversità e reciprocità11;
- al tema del collettivo in cui la persona vive, declinabile storicamente con i
modelli di clan, di popolo, di comunità (intesa sia come comunità di fede e di
amore scelta, che come comunità funzionale in cui siamo inseriti: lavoro,
impegno sociale e politico, divertimento ecc.), e dell’assunzione delle
responsabilità che il collettivo richiede;
- al tema della reciprocità e della comunitarietà come antidoto all’indebolimento
dei soggetti e delle forme istituzionali, laiche e religiose.

L’esserci come finitezza e limite: il mistero del male
Per limite si intende una realtà connaturata nell’uomo, profonda, “ontologica”, e
non una carenza che la scienza e la tecnica, se non oggi domani, potrà colmare.
Sulla finitezza dell’uomo si scontrano le antropologie religiose e quelle laiche e
vertono tutte le alternative immanentiste.
Il riferimento fondante dell’antropologia biblica sono i primi undici capitoli della
Genesi che raccontano le origini del mondo e dell’umanità12, il mistero del
peccato di origine e del castigo13 e della corruzione dell’umanità e dell’incapacità
dell’uomo di salvarsi da solo14 e il libro del Deuteronomio che pone “l’uomo ha
9
Tema del volto del Padre e del fratello.
Cfr. senso della memoria e del memoriale: Dt. 6,4-9; Lc. 22,19; 1Cor. 11,24-25.
11
Cfr. Gen. 1,27”Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”.
12
Cfr. Gen. capp. 1-2.
13
Mistero del male e del peccato d’origine (Gen. 3,1-12).
“Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha
detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino? ”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del
giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete
mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio
sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”.
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese
del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli
occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”.
14
Cfr. Gen. capp. 4-11.
10
11
di fronte la vita e la morte15. “La vita e la morte, l’una simbolo dell’esistenza
umana, la seconda del suo fallimento, dipende esclusivamente dall’uomo la cui
volontà, a seconda se obbediente o ribelle, ha il potere di fare del mondo una
benedizione (volontà di sottomissione) o una maledizione (volontà di dominio).
[…] E’ questo il messaggio più profondo del racconto della creazione e della
caduta di Adamo (Gen. 2-3), il cui scopo è di affermare la non-responsabilità di
Dio nell’origine del male”16.
Il tema dell’esserci come finitezza può essere declinato a partire dall’esperienza
dell’incompiutezza, che è il luogo in cui si gioca l’uomo e la ricerca di senso.
Alcuni percorsi di ricerca:
- L’esserci, in quanto richiede il passaggio dal modello teorico/deduttivo a
quello esperienziale/antropologico, porta alla consapevolezza del limite e
dell’incompiutezza, fa nascere nell’uomo la tensione/desiderio dell’affermazione
di sé e gli affida il compito, mai finito, di tendere alla compiutezza17. La modalità
con cui il desiderio si fa strada “è quella del “sentire”, “dell’essere toccati”, cioè
dell’essere determinati da ciò che è altro dalla coscienza (è una forma di sapere
né teorico né pratico, ma condizione di entrambe) che corrisponde, è relativo, a
ciò che la precede. […] “E’ a partire da questa esperienza affettiva che l’uomo
scopre la verità dell’Altro e di sé, contemporaneamente…”18.
- Un altro percorso per cogliere il mistero della finitezza, partendo sempre
dall’esserci che richiede il passaggio dal modello teorico/deduttivo a quello
esperienziale/antropologico, è quello di mettere a confronto la “via senza uscita”
degli approcci alla realtà secondo schemi ideologici (dove l’ideologia rappresenta
una risposta falsa alla finitezza e al limite), di principio (dove non esiste ricerca
e apertura, ma solo riproposizione rigida di “limiti” assolutizzati) e delle
“welthanshaunng” (intese come visione complessiva della realtà e pretesa di
totalità e di fondamento), con le tragedie che storicamente hanno provocato e
l’angoscia che di fronte alla complessità e al frammento portano con sé.
- Infine c’è il percorso della riflessione sui processi storici di liberazione che
trovano nell’Esodo un riferimento e una modalità interpretativa19.
Cfr. Dt 30,15.19b “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; […] scegli dunque la vita,
perché viva tu e la tua discendenza” .
16
C. Di Sante, L’Eucarestia terra di benedizione, op. cit., pp. 44-45.
17
Cfr. Gen. 3,4-7.22-24.
4 Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i
vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da
mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede
anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di
essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. [ … ]
22 Il Signore Dio disse allora: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora,
egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! ”.
23 Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. 24 Scacciò l’uomo
e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero
della vita”.
e il racconto della torre di babele (porta di Dio): Gen. 11,1-9.
18
M. Salvi, in AAVV, La fede in discussione, Bergamo, 1998, p. 47.
15
19
Esodo con tutto quanto vi è di “paradigmatico” in quella storia di liberazione: Dio, l’uomo, la terra; il popolo eletto;
Mosè; la liberazione; le infedeltà e gli idoli; la fiducia l’abbandono in Yahve; ecc.
12

L’esserci come libero, co-creatore e responsabile
La libertà, aspirazione degli uomini e donne di tutti i tempi, è il tema centrale
della Bibbia.“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto… Sono sceso per
liberarlo” (Es. 3,7-8a).
Per l’antropologia biblica più che proprietà dell’uomo la libertà è dono di Dio; è
l’appello di Dio a creare la libertà e non viceversa. Nella logica dell’alleanza,
come si è visto, interagiscono tre poli: il dono/benedizione di Dio, l’appello
all’obbedienza che crea l’evento, l’istaurarsi della libertà (e di ogni bene della
creazione) alla quale l’uomo acconsente, che ne è il segno di riconoscimento. La
libertà non nasce dall’autonomia dell’uomo (libertà da o libertà contro) ma dalla
sua obbedienza (libertà per); non significa fare quello che si vuole, restando
nell’orizzonte dell’ego, ma “fare quello che vuole Dio”, muovendosi entro la sua
volontà. Il potere decisionale dell’uomo davanti a Dio, oltre che nel libro del
Deuteronomio sopra richiamato, lo troviamo anche nel racconto della creazione:
“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli
alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” Gen. 2,16-17.
Vita e morte, secondo il racconto biblico, sono dipendenti dal potere decisionale
dell’uomo, ma non vanno messe sullo stesso piano perché solo la prima parte
del progetto creazionale, mentre la seconda resta esclusivo prodotto
dell’irresponsabilità umana.
Il potere decisionale dell’uomo lo costituisce co-creatore con Dio.
Il comando rivolto da Dio ad Adamo nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e
lo custodisse, comprensivo del divieto di mangiare dell’albero della conoscenza
del bene e del male (Gen. 2,15-16) vuole significare l’incompiutezza della
creazione, la possibilità di un suo diverso orientamento rispetto al codice
impresso nell’atto creatore (dono di Dio per la gioia dell’uomo) e il possibile
fallimento dell’uomo nell’esercizio della sua responsabilità di “custode del
giardino”: a livello materiale è chiaro che il mondo, per essere fruito, ha bisogno
del lavoro e dell’impegno dell’uomo; a livello intenzionale – è qui che si annidano
le tentazioni di onnipotenza e di dominio assoluto dell’uomo – la creazione
chiede di essere orientata e portata a compimento assecondandone la logica e il
senso ad essa intrinseco, cioè di cose donate, di cose di Dio fatte per l’uomo.
L’ordine di essere “custode del giardino” impedisce all’uomo di possederlo e di
sfruttarlo e chiede che venga amato e immesso nel circuito positivo del dono.
All’interno di questa dinamica l’uomo diventa co-creatore20 e origine di senso e di
20
Cfr. (Gen. 1,28):
Dio li benedisse e disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra”.
13
finalizzazione delle cose create: è questo infatti il senso biblico del “dare il nome”
alle cose create da parte di Adamo nel giardino dell’Eden21, mentre la presenza
del povero e del bisognoso, riconosciuti nella loro alterità di bisogno che
richiede di essere colmata, rappresenta l’appello radicale alla ri-creazione della
dinamica del dono. Appello non rispondente ad una logica di natura morale, o
peggio ancora moralistica, ma ad una logica antropologica-costitutiva che se
disattesa l’uomo cessa di essere uomo e va incontro alla morte e alla
maledizione.
Da qui il rimando al tema della responsabilità.
Lo stare bene o lo stare male per la Bibbia non dipendono fatalisticamente da
Dio, né dalla casualità, ma dal proprio impegno e dalla propria volontà; l’ordine
cosmico e l’ordine sociale sono un’opera da realizzare in collaborazione con Dio.
I libri sapienzali della Bibbia collegano l’agire buono e il mondo buono e, di
rovescio, l’agire cattivo e il mondo cattivo istaurando un rapporto tra la
soggettività disordinata e il disordine ontologico e sociale.
Non è un caso che il codice dell’alleanza sinaitica pone, accanto alla benedizione
divina e all’obbedienza di Israele, la prosperità e l’assenza “di alcun bisognoso in
mezzo a voi” come segno e riconoscimento della sua realizzazione22 e, nel Nuovo
testamento, al centro del giudizio del Figlio dell’uomo, l’aprirsi all’affamato,
all’assetato, al forestiero, all’ignudo e al carcerato (cf. Mt. 25,31-46), figure
storiche insieme all’orfano e alla vedova, della povertà e dell’indigenza secondo
la Bibbia.
L’esserci in modo responsabile, pertanto, richiede apertura e attenzione all’altro,
in primo luogo il bisognoso, capacità di scelta e di discernimento, studio, lavoro,
impegno civico, coraggio e assunzione del rischio… capacità di riconoscere
errori e limiti e capacità di ricominciare dopo i fallimenti… capacità di
perdonare e di lasciarsi perdonare, come utilmente introduce il Nuovo
Testamento23.
21
Cfr. Gen. 2,19
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse
all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri
viventi, quello doveva essere il suo nome”.
22
Cfr. Dt. 15,4-5:
“Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore
tuo Dio ti dà in possesso ereditario, purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di
eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do”.
23
Cfr. Mt. 18,21-22:
“Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro
di me? Fino a sette volte? ”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.
cf. Gv. 13,1-15 La lavanda dei piedi.
14
ALCUNI CRITERI DI DISCERNIMENTO
Per discernimento si intende l’atteggiamento cristiano che sa cogliere l’“oggi” di
Dio nella propria vita alla luce della Parola; L’atteggiamento che sa discernere i
“segni dei tempi”24.
L’uomo come identità aperta e data storicamente è responsabilmente e
attivamente inserito nella società complessa, continuamente in ricerca e “chiamato”
a trasformarla, attraverso il suo lavoro, da terra che produce spine e cardi (cfr. Gen.
3,18) a terra di benedizione (Gen. 22,17).
Gli atteggiamenti suggeriti per agire con discernimento all’interno della realtà
complessa e agire come co-creatore sono:

La meraviglia
La meraviglia è l’antidoto all’inclinazione dell’uomo a sospettare il male negli
altri e sviluppa l’atteggiamento che lo apre ad uno sguardo fiducioso sul
prossimo per amarlo.
La meraviglia ci permette di andare oltre il senso immediato e apparentemente
definibile delle vicende umane per coglierne quello nascosto e fondante,
sottratto allo sguardo superficiale.
La capacità di meravigliarsi è in stretto rapporto con la consapevolezza della
propria finitezza, rende capaci di ricevere tutto con semplicità e come dono e
di condividerlo.
“Il dono della meraviglia si avvicina allo spirito di infanzia […] inteso non come
regressione infantile, ma cammino verso l’infanzia futura, che è dell’ordine del
Regno”25.
La capacità di meravigliarsi è il rovescio della medaglia del rimprovero fatto da
Gesù ai suoi contemporanei relativamente agli occhi che non vedono, agli
orecchi che non odono e al cuore che non si converte 26, e ha molto a che fare
con la capacità di lettura dei “segni dei tempi”.

L’abbandono
L’abbandono è l’antidoto contro la tentazione dell’uomo a diventare come Dio
(cf. Gen. 3,5) e di ogni illusione egotica di potere sulla terra e di dominio
dell’uomo sull’uomo. Nella Bibbia troviamo diverse figure che rivelano il senso
dell’abbandono richiesto da Dio all’uomo. Le più significative sono, per l’antico
testamento, quella di Abramo nel brano della vocazione27 e, nel nuovo
24
Cfr. Mt. 16,3:
“Egli rispose: Quando si fa sera voi dite: bel tempo perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi burrasca, perché
il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei Tempi?”.
25
Y. Emery, le don dell’emerveillement, in Letture dei giorni a cura della Comunità Monastica di Bose, Ed. Piemme, p.
417.
26
Cfr. Mt. 13,15
“Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non
vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani”.
27
Cfr. Gen. 12,1-4
Il Signore disse ad Abram:
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te
un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che
15
testamento, quella di Maria nel brano dell’Annunciazione28, entrambe
riassunte e ri-significate in chiave anche escatologica da Gesù nel Getsemani
(si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: “Padre mio, se è possibile,
passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” Mt. 26,39)
e sulla croce (Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani
consegno il mio spirito”. Detto questo spirò Lc. 23,46).
In tutte queste figure troviamo in diverso modo riproposti i tre poli
dell’alleanza:
- la signoria con cui Dio agisce nella storia: lui la dispone, la giudica e segna
i tempi dei suoi interventi… nel rispetto della libertà dell’uomo, ma sempre
come Signore degli avvenimenti;
- il consegnarsi totalmente a Dio da parte dell’uomo, un fargli credito in un
totale abbandono;
- la realizzazione della promessa.

L’obbedienza L’esercizio della libertà, dell’essere co-creatore e della
responsabilità, per l’antropologia biblica, non si dà al di fuori dell’obbedienza.
Essa si inserisce nella corrispondenza tra l’intenzionalità del dono sottesa al
mondo e l’uomo che la coglie e l’asseconda, quindi all’interno della categoria
biblica dell’Alleanza. Questo accoglimento non riguarda in primo luogo la sfera
logico/razionale né psicologico/emozionale, ma quella esistenziale, precedente
all’una e all’altra; accoglimento che, in primo luogo, riguarda la propria storia,
le proprie origini, il proprio corpo… e che, secondo il messaggio biblico,
richiede un agire pratico (il fare responsabile) e un agire obbedienziale. Il
senso profondo dell’agire obbedienziale ci è rivelato dal racconto della
creazione là dove “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai
mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del
bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti” (Gen. 2,16-17). L’agire obbedienziale, se accolto, fa
accedere al mondo come dono offerto e fruito portandolo alla salvezza, mentre,
se tradito, contro-pruduce alienazione e morte. La Bibbia, più che l’agire
obbediente, racconta e testimonia l’agire disobbediente dell’uomo, causa di
violenze, di ingiustizie, di oppressioni e di guerre. Tutto questo è significato,
con il genere letterario eziologico, dai primi 11 capitoli della genesi: il peccato
ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”.
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot.
28
Cfr. Lc. 1,26-38
“Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine,
promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da
lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava
che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.
Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il
Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non
avrà fine”. Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo
Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà
dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un
figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio ”. Allora Maria disse:
“Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei”.
16
d’origine e la cacciata dal giardino dell’Eden, l’omicidio di Caino, le vendette di
Lamek, la corruzione dell’umanità e il diluvio universale e il racconto della
torre di Babele. “Il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’obbedienza
del Cristo stesso. […] Al centro di essa vi è la relazione filiale vissuta da Gesù
con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli”29.

La vigilanza (Vedi anche un testo di C. M. Martini: Sto alla porta, pp. 18.2426, in Letture dei giorni a cura della comunità monastica di Bose, pp. 531-532,
riportato in allegato). “Il Nuovo Testamento opponendo la vigilanza allo stato di
ubriachezza e a quello della sonnolenza, la definisce come la sobrietà e il
‘tenere gli occhi ben aperti’ di colui che ha un fine preciso da conseguire. […]
La vigilanza è dunque lucidità interiore, intelligenza, capacità critica, presenza
alla storia, non distrazione e non dissipazione. Unificato dall’Ascolto della
Parola di Dio, interiormente attento alle sue esigenza, l’uomo vigilante diviene
responsabile. […] Il vigilante è il resistente, colui che combatte per difendere la
propria vita interiore […] nell’equilibrio e nell’armonia; vigilante è colui che
aderisce alla realtà e non si rifugia nell’immaginazione, nell’idolatria, che
lavora e non ozia, che si relaziona, che ama e non è indifferente, che assume
con responsabilità il suo impegno storico e lo vive nell’attesa del Regno che
verrà. […] Per la simbolica biblica, ma anche per altre culture, cadere nel
sonno significa entrare nello spazio della morte. […] Per il cristiano che pone
la sua fede nel Cristo morto e risorto, la vigilanza è assunzione intima e
profonda della fede nella vittoria della vita sulla morte”30.

L’attesa (dell’incontro con il Dio che viene).
Il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità e che i nostri giorni sono attesa
dell’incontro con il Dio che viene.
In questa epoca appiattita sull’immediato e l’attualità, l’attesa pone con forza
il tema della memoria, della fedeltà e della perseveranza. Profetiche, a questo
proposito, sono le parole di D. Bonhoeffer di oltre cinquant’anni fa: “La perdita
della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli,
dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si
radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma i beni come la
giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni
richiedono tempo, stabilità, ‘memoria’, altrimenti degenerano. Chi non è disposto
a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è
‘smemorato’. E io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una
persona simile”31.
L’attesa dell’incontro con il Dio che viene dice che “davanti a sé il cristiano
non ha il nulla o il vuoto, ma una speranza certa, un futuro orientato dalla
promessa del Signore: ‘Si, verrò presto’ (Ap. 22,20). In realtà ‘attendere’, a
partire dalla sua etimologia latina (ad-tendere), indica una ‘tensione verso’,
‘un’attenzione rivolta a’, un movimento centrifugo dello spirito in direzione di
29
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, Rizzoli 1999, p. 151
Ibidem, pp. 31-33
31
Citato da Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, op. cit., p. 64.
30
17
un altro, di un futuro. […] L’uomo è anche attesa: se questa dimensione
antropologica essenziale, che afferma che l’uomo è anche incompiutezza, viene
misconosciuta, allora il pericolo dell’idolatria è alle porte, e l’idolatria è sempre
autosufficienza del presente. La venuta del Signore invece impone al cristiano
attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà.
E la pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la
frammentazione del presente senza disperare. […] E’ l’attesa del Signore,
l’ardente desiderio della sua venuta, che può creare uomini e donne capaci di
pazienza nei confronti del tempo e degli altri. […] L’attesa nel credente […] si
unisce e dà voce all’attesa della creazione tutta: ‘la creazione attende con
impazienza la rivelazione dei figli di Dio […] e nutre la speranza di essere
liberata dalla schiavitù della corruzione’ (Rom. 8,19-21). E’ la creazione tutta
che attende cieli e terra nuovi, che attende trasfigurazione, che attende il
Regno. L’attesa della venuta del Signore da parte dei cristiani diviene così
invocazione di salvezza universale, espressione di una fede cosmica che
consoffre con ogni uomo e con ogni creatura”32.
IL LAVORO ALLA LUCE DELL’ANTROPOLOGIA BIBLICA
Per rintracciare nella Parola di Dio alcuni riferimenti antropologici che
illuminano particolarmente la condizione umana, anche nel suo rapporto con il
lavoro, possiamo fare riferimento a tre narrazioni:
a) la creazione così come ci viene descritta nel primo e secondo capitolo del
libro della Genesi.
Dio viene presentato come uno che lavora e la sua opera rappresenta un modello
anche per il lavorare umano. Nel lavoro della creazione Dio imprime nelle
creature l’immagine di sé e così parla di sé. La parola creatrice di Dio (Dio disse
e…) è lo strumento attraverso il quale manifesta la sua sapienza ed il suo
progetto. L’uomo, rispetto agli altri esseri creati, non è estraneo e “terzo” rispetto
all’azione di Dio, l’uomo è chiamato a collaborare alla creazione dando il nome
alle altre creature nonché coltivando e custodendo il creato. Questo è il giusto
senso e “limite” dell’uomo e del suo lavoro: avere la custodia e la responsabilità
sulle creature e sul creato; gli viene assegnato il compito di sviluppare e
custodire, compito accessorio e complementare all’azione creatrice di Dio. Non è
l’uomo, quindi, il creatore delle cose ed il lavoro umano deve essere sempre in
posizione relativa rispetto a quella di Dio che detiene la conoscenza del bene e del
male. L’uomo quindi non può assolutizzare mai la propria azione che, al di fuori
della giusta relazione con l’iniziativa di Dio, finisce per divenire distruttrice del
creato. Quando l’uomo vuole essere protagonista assoluto della sua attività
diviene sfruttatore del lavoro degli altri uomini e distrugge il creato in una
prospettiva “consumistica” lontana dalla sua vocazione co-creatrice. Il fatto di
riconoscere che il lavoro è nato per produrre e sviluppare ricchezza, non per
distruggerla, conduce all’impegno di osservare criteri di razionalità e di austerità
32
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, op. cit., pp. 53-55.
18
nell’uso delle risorse naturali e soprattutto impegno a favorire la qualità del
lavoro, subordinando lo sviluppo economico alle esigenze morali dell’esistenza
umana, compresa la sua dimensione spirituale. Tale oscillazione tra “l’uomo
protagonista assoluto” e “l’uomo collaboratore di Dio” è continuamente presente
nella storia degli uomini e nell’esperienza di ciascun uomo. E’ una tensione mai
risolta ma della quale occorre avere coscienza. Un altro contrasto che emerge dal
racconto biblico della creazione è quello tra “lavoro-necessità” e “lavoro-dono”.
Spesso si evidenzia che il lavoro è il “castigo” inflitto all’uomo per la sua colpa e
quindi è diventato necessario per guadagnarsi da vivere. Conseguenza della
disobbedienza è il lavoro come fatica e non il lavoro in se stesso. Il lavoro è
soprattutto un dono di Dio e rappresenta una dimensione che integra e completa
quello della vita. Nello stesso momento in cui Dio crea l’uomo, gli affida anche lo
sviluppo e la cura del creato e quindi lo chiama alla vocazione del “lavoro”, ben
prima del successivo castigo. Lo stile di Dio-lavoratore in Genesi conduce al
riposo, dopo aver riconosciuto che le opere create sono buone. “Dio benedisse il
settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che Egli
creando aveva fatto”. Il riposo è quindi il simbolo della impossibilità dell’uomo di
generare il bene esclusivamente con il proprio sforzo, è la chiave per
comprendere come ogni atto lavorativo deve essere nel contempo un atto
contemplativo.
b) Dio continua a ricercare un’alleanza con l’uomo.
L’incapacità dell’uomo di rimanere fedele alla sua vocazione di collaboratore di
Dio ed il desiderio di sostituirsi a lui porta alla rottura dell’armonia ed a una
situazione di infelicità.
Dio però non si rassegna a tale situazione e continua a ricercare una nuova
alleanza con l’uomo.
La chiamata di Abramo è il primo tentativo di questo percorso.
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese
che io ti indicherò (Gen. 12,1)… Alla tua discendenza io do questo paese” (Gen.
15,18).
Dopo il peccato di Adamo, Dio, attraverso Abramo, ci invita a compiere un
cammino per ritrovare la nostra umanità.
Come all’atto della creazione ha affidato ad Adamo lo sviluppo e la custodia del
creato, così promette ad Abramo una terra e una discendenza.
Ancora una volta è Dio il protagonista; è il Signore che consegna all’uomo una
terra da amministrare e sviluppare con il proprio lavoro.
Solo fidandosi di Dio e riconoscendo la sua signoria si può avere una terra ed
una discendenza e quindi una felicità.
Anche il libro dell’Esodo e l’esperienza di Mosé ripercorrono la stessa trama.
Un popolo caduto in disgrazia perché non riconosce la signoria di Dio, viene
chiamato ad un cammino di liberazione e ad un’alleanza con lui con la promessa
di una terra da coltivare e custodire.
Ancora una volta Dio riprende l’iniziativa per riparare alla rottura causata dal
comportamento dell’uomo che cede alla tentazione della potenza assoluta e della
stessa identificazione con Dio.
19
Nel cammino verso la terra promessa, il popolo è spesso tentato di adorare degli
idoli, sostituendoli a Dio.
c) Gesù è la nuova alleanza
L’incarnazione di Cristo è l’ultimo e definitivo atto che Dio compie per salvare
l’umanità e riportarla all’originario disegno della creazione.
Ancora una volta e definitivamente Dio chiama l’uomo ad un cammino di salvezza
per giungere ad una nuova terra promessa che è il Regno nel quale l’alleanza
trova il suo compimento.
La parabola del seminatore ci riporta a quella che è la condizione essenziale
perché il lavoro umano porti frutto. Solo ascoltando la Parola, cioè riconoscendo
la signoria di Dio, l’azione dell’uomo arricchisce il creato.
Viceversa il rifiuto di Dio fa prevalere la preoccupazione del mondo e l’inganno
della ricchezza e conseguentemente l’azione umana è preda del maligno che la
vanifica.
La storia ci racconta dell’uomo continuamente minacciato di prestare
attenzione e devozione più agli idoli che al Dio vero. In questo modo, l’uomo, invece
di riconoscersi fatto a immagine del Dio vivente, preferisce costruirsi un dio o molti
dei, a immagine propria. Pertanto, invece di realizzare e perfezionare in sé e fuori di
sé l’immagine divina, l’uomo si limita ad adorare l’immagine di sé che ha stampato
negli idoli.
Tutto ciò si ripercuote sul modo di concepire ed esercitare il lavoro umano. Infatti
Dio, creando l’uomo e responsabilizzandolo nei confronti della creazione, lo
promuove, perché viva in pienezza e manifesti pienamente ciò che è mediante ciò
che fa; gli idoli, invece, fatti dall’uomo a immagine dell’uomo, non sono altro che
sfruttatori dell’uomo stesso e portano alla distruzione del creato.
20
Allegato. Proposta di riflessione: VIGILARE
Il tempo che passa risuona in noi come una continua rivelazione della nostra
condizione di esseri limitati e avviati impietosamente senza scampo verso la morte.
Di questo, in fondo, abbiamo paura e ce ne difendiamo in tutti i modi.
Due sono le vie attraverso le quali cerchiamo di sfuggire il problema della fine
irreparabile del tempo, di esorcizzare l’immagine della morte che fa capolino in ogni
piccolo o grande affanno della vita. Esse sono l’ostentazione del nostro dominio sul
tempo e l’ossessione di sfuggire in tutti i modi possibili al suo dominio su di noi. (…)
Tra l'illusione di possedere il tempo e la disperazione per il suo venirci meno
sta un atteggiamento completamente diverso, evocato con il termine vigilare.
Vigilare significa anzitutto vegliare, stare desti, rimanere all’erta. L'immagine
più immediata è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo
incombe o un fatto straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa
badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto
prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili. Vigilare
impegna, comunque, a fare attenzione, a diventare perspicaci, ad essere svegli nel
capire ciò che accade, acuti nell'intuire la direzione degli eventi, preparati a
fronteggiare l’emergenza.
Rimanere svegli, essere attenti, avere cura, vegliare dunque: veglia la sposa
che attende lo sposo, la madre che attende il figlio lontano, la sentinella che scruta
nel cuore della notte; veglia l'infermiere accanto al malato, il monaco nella preghiera
notturna; vegliano gli uomini e le donne che sono pronti a raccogliere i segnali
d’aiuto dei loro amici nel pericolo, dei loro fratelli nel dolore, del loro prossimo nella
difficoltà; veglia la comunità dei credenti che è rapida nel reagire alla tiepidezza e
alla stanchezza che l'allontanamento dall'amore degli inizi.
Veglia una società civile che coglie prontamente i segni del proprio degrado,
che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la disaffezione nei confronti
del bene comune, che non si rassegna alla deriva delle sue istituzioni pubbliche e
alla casualità dei suoi ritmi vitali, che poi significano sempre il trionfo dei prepotenti
e dei furbi.
Vigilare è la capacità di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver
cura della qualità non puramente clinica e commerciale della vita. Il tempo per
imparare a riconoscere il significato delle nostre emozioni, impulsi, tensioni, per non
rimuoverle troppo in fretta anestetizzando l'eventuale disagio che ci procurano e
rendendo così sterile la profondità dell’esperienza nella quale esse potrebbero
introdurci. (...) Si può tuttavia dire che tutti i modi di vegliare, che esemplificano le
qualità essenziali del vigilare, sono come momenti particolari di quella grande veglia
che è l’esistenza umana di fronte al tempo definitivo che viene: il tempo della vita
eterna con Dio, che è come la “grande festa” della vita, alla quale ogni uomo che
viene nel mondo è destinato.
C.M. Martini, Sto alla porta, pp. 18, 24-26 in Letture dei giorni (a cura della comunità
monastica di Bose), pp. 531-532,
21
Capitolo 3
MODERNITA’ E COMPLESSITA’
NELL’ECONOMIA E NEL LAVORO
1. Economia e globalizzazione
I cambiamenti nel mondo del lavoro sono in gran parte riconducibili al fenomeno
della globalizzazione.
Un modo per descrivere la globalizzazione è quello di considerarla una particolare
fase dello sviluppo del sistema economico mondiale. In tale fase il sistema si muove
come in una sorta di unica “rete” che collega, in tempo reale, le economie dei singoli
paesi.
In realtà, rispetto alla realizzazione di un sistema veramente globale è possibile
riscontrare una serie di parzialità, ad esempio per quel che riguarda i suoi effetti, sia
positivi sia negativi. Oggi, quella che i paesi avanzati chiamano “la globalizzazione”,
interessa effettivamente solo alcune aree e regioni del mondo, lasciandone molte
altre ai margini, e oltre la metà della popolazione mondiale non vive nella
consapevolezza di questo presunto “villaggio globale”.
Possiamo in ogni caso ritenere che almeno le economie avanzate siano sempre più
collegate da una serie di transazioni di beni e servizi (l’economia reale), di titoli,
valori monetari e creditizi (la finanza globale) che rendono spesso insignificanti o
nulle le distanze tra i diversi continenti e in qualche modo “appiattiscono” lo stesso
scorrere del tempo.
La globalizzazione è l’epoca dell’“ovunque e sempre” anche quando le operazioni
avvengono a migliaia di chilometri di distanza tra operatori che non entreranno mai
in una relazione reale e fisica: “All’aeroporto di Berlino, dal tramonto fino all’alba, il
traffico aereo è diretto dalla California. Così nessuno lavora di notte, e non ci sono
straordinari da pagare. Ho controllato: è vero. In effetti, la sublime astuzia di qualche
manager è stata in grado di concepire un’astrazione di questo tipo. Come esempio di
globalizzazione è affascinante, perché mirabilmente esatto: allude a una tecnologia in
grado di azzerare la variabile dello spazio, in modo di dominare meglio la variabile del
tempo. Un pianeta compatto e unitario sparato come una pallottola infrangibile
nell’incognita del futuro…”33.
Nella parte del pianeta maggiormente influenzata dalla globalizzazione si afferma un
sistema economico caratterizzato da intense e rapidissime interdipendenze: ciò che
accade in un paese può influenzare altri Stati e le transazioni di beni, servizi e
moneta sempre più spesso sfuggono al controllo dei governi o dei soggetti che
tradizionalmente si occupano di regolamentare i rapporti tra i paesi. Una decisione
economica di una certa rilevanza assunta in un’area del pianeta può interessare,
33
A. Baricco, Next, Feltrinelli, 2002, p. 68.
22
anche nel giro di pochi minuti, altre decine di paesi nel mondo, modificando nel
tempo le condizioni economiche, produttive e sociali delle persone e delle famiglie.
La globalizzazione non è ovviamente un evento naturale, ma rappresenta l’evoluzione
del sistema economico mondiale – soprattutto a partire dall’avvento delle tecnologie
informatiche e dalla caduta del muro di Berlino – con alcuni aspetti caratteristici,
così sinteticamente riassumibili:
1. i mercati mondiali sono sempre più aperti: merci, servizi e denaro sono trasferibili
e disponibili in tempo reale da un paese all’altro. La concorrenza tra imprese è
globale e imprese concorrenti di diverse aree del pianeta si sfidano a colpi di
riduzione di costi, acquisizioni e cessioni di società, predisposizione di nuovi e
sempre più sofisticati strumenti finanziari;
2. le imprese manifatturiere sono sempre più mobili sui mercati mondiali.
Assistiamo ai variegati fenomeni delle joint-ventures (accordi e partecipazioni tra
imprese), dei decentramenti produttivi e delle delocalizzazioni. La decisione su dove
produrre e aprire stabilimenti segue considerazioni di abbattimento dei costi e di
strategia commerciale (vicinanza ai mercati; clusterizzazione, ovvero raggruppamenti
produttivi tra clienti e fornitori ecc.). Parallelamente, la ricerca di valore aggiunto
chiede una sempre maggiore integrazione tra prodotti manufatti e servizi accessori,
con la conseguenza di dover moltiplicare gli investimenti pubblicitari e di immagine
là dove i mercati di sbocco sono più appetibili e significativi;
3. la nuova organizzazione della produzione si basa in modo decisivo sull’impiego
delle tecnologie informatiche e della comunicazione (Internet, telefonia cellulare, reti
interne dell’azienda, ecc.): ciò consente di tenere sotto controllo in tempo reale
imprese, filiali, stabilimenti in ogni angolo del mondo. Non si tratta in realtà di nuovi
modelli di controllo e di programmazione/produzione del lavoro: rispetto al passato
il vantaggio della rete informatica sta però nel fatto che essa consente di esercitare il
controllo e di sviluppare flussi comunicativi molto più complessi e completi;
4. a fianco della grande crescita di potere delle economie private, ovvero delle
imprese, delle banche e delle società finanziarie, si verifica un progressivo
cambiamento del ruolo dello Stato e in generale del settore pubblico dell’economia.
Tutte le economie pubbliche (in particolare quelle dell’Est Europa, ancora alle prese
con la riconversione dei sistemi ex comunisti, ma il discorso riguarda anche i paesi
occidentali) subiscono significative trasformazioni delle loro attività e del loro ruolo
all’interno del sistema economico, spesso abbandonando settori un tempo centrali e
strategici ed aprendo il mercato all’iniziativa privata.
2. Modello economico, mercato del lavoro e flessibilità
Quello della flessibilità è il modello adottato dalle imprese – ma in generale
dall’intero sistema economico globale – per operare in termini di maggiore efficienza
produttiva ed organizzativa, cioè producendo di più e a costi inferiori.
Al di là dei criteri operativi seguiti dalle imprese all’interno di ogni paese, tale
processo è favorito anche dalle strategie suggerite dalle grandi istituzioni economico23
finanziare internazionali (tra le più importanti il Fondo Monetario Internazionale, la
Banca Mondiale e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
In virtù della flessibilità operativa, le imprese – sia manifatturiere che terziarie – si
concentrano sulle proprie attività strategiche ed “esternalizzano” quelle a minor
valore aggiunto o sulle quali non sono in grado di conseguire adeguate economie di
scala o di specializzazione.
I vantaggi dell’outsourcing e della conseguente attività in rete sono significativi: per le
imprese è possibile modificare con maggiore velocità ed economicità la propria
struttura produttiva, seguendo molto più da vicino l’andamento del portafoglio
ordini e le dinamiche dei mercati.
Sul fronte dell’impiego e della natura del lavoro, gli aspetti appena ricordati
convergono verso lo sviluppo di un modello d’impresa che vede un nucleo di
lavoratori stabili, normalmente ben retribuiti che si cerca di rendere il più possibile
leali e fedeli verso l’azienda: sono i portatori dell’esperienza, senza i quali nessuna
impresa è in grado di mantenersi e di svilupparsi.
Questo nucleo tende a diventare sempre più piccolo, lasciando il rimanente alle
aziende terze o ad una molteplicità di lavoratori periferici o fluttuanti: i lavoratori a
tempo determinato e parziale, quelli legati a contratti atipici, in una parola, i
lavoratori flessibili, grazie ai quali è possibile impiegare l’esatta forza lavoro
necessaria
in
un
determinato
momento
della
produzione
o
della
commercializzazione.
Perlomeno nelle economie occidentali, parallelamente alla globalizzazione e alla
progressiva terziarizzazione delle attività, si verifica dunque una tensione verso la
deregolamentazione dei mercati del lavoro. In linea generale essa si traduce in una
progressiva introduzione della flessibilità in ambito lavorativo, cioè di forme non
tradizionali di lavoro dipendente, con modalità di regolamentazione legislativa e di
tutela sindacale spesso in via di definizione.
Vista in questo modo, la flessibilità richiama la sostanziale difformità dal contratto
di lavoro standard, intendendo con questo termine un rapporto di lavoro dipendente,
con contratto a tempo indeterminato, a tempo pieno e con un regime d’orario
normale. Questa difformità si caratterizza per almeno uno dei tre seguenti elementi:
-
forma del contratto (nuove tipologie introdotte nel mercato del lavoro);
-
durata del rapporto di lavoro (contratti a termine, contratti a tempo determinato);
-
regime degli orari.
Si realizza in questo modo l’informalizzazione del lavoro, ovvero l’adozione di rapporti
professionali meno definiti, solidi e duraturi di quelli cui siamo tradizionalmente
abituati.
24
La centralità della formazione e il lavoro che ci aspetta34
Le trasformazioni in atto nel sistema economico e produttivo impongono una
rilevante riflessione sul ruolo della formazione al fine di attrezzare le persone ad
affrontare le nuove sfide dell’occupazione e in generale del lavoro.
C’è di più. L’investimento in formazione non deriva, infatti, solo dall’analisi della
globalizzazione e delle sue ricadute circa la flessibilità del lavoro. Esso rappresenta
anche la scommessa che siamo obbligati ad assumere per entrare nella società del
futuro. Gli esperti dell’economia ci insegnano del resto che questo futuro non è
remoto: è già alle porte, e sta modellando la demografia, il modo di concepire il
lavoro, le imprese, l’intera economia.
Dal punto di vista demografico, il fenomeno più evidente che tutti abbiamo sotto gli
occhi è la rapida crescita della popolazione anziana e il rapido ridimensionamento
delle giovani generazioni. E’ un fenomeno tipico delle società occidentali e anche a
Bergamo ce ne stiamo accorgendo. L’Istat effettua delle proiezioni su base regionale,
e per la Lombardia stima che il rapporto tra giovani (0-18 anni) e anziani (65+ anni),
già adesso deficitario (96%), si ridurrà entro il 2050 al 39%.
Nella società in cui vivremo prossimamente i giovani saranno una risorsa scarsa, e
dato che già ora il tasso di fertilità femminile è sotto la soglia di riproduzione sociale
(2,2 figli), le giovani generazioni si ridurranno al doppio della velocità con cui
cresceranno le generazioni più anziane: questo vorrà dire che il numero delle
persone in età di lavoro si ridurrà drasticamente di almeno un quarto. Tutti
sappiamo, o percepiamo, che fra 20 anni le persone dovranno lavorare, salute
permettendo, fino ad oltre 70 anni di età.
L’immigrazione è destinata, per ragioni evidenti, ad aumentare, sebbene ciò
comporti reazioni di tipo politico e culturale improntate alla chiusura e
all’intransigenza. Ma proprio i paesi più attrezzati a gestire l’immigrazione e a
favorirne l’integrazione economica e sociale (come gli USA) saranno quelli più
avvantaggiati.
In ogni caso la leva chiave per stare nel processo di informalizzazione del lavoro sarà
rappresentata dal sistema dell’istruzione (pubblica), poiché la prossima società sarà
la società della conoscenza.
L’investimento in conoscenza, in formazione, in innovazione tecnologica è un
passaggio obbligato per lo sviluppo economico. I macroeconomisti ci avvertono,
ormai da anni, che la crescita economica dipende crucialmente da fattori interni
(endogeni), primariamente dal capitale umano. Questa consapevolezza è ormai
anche a livello micro, cioè di singola impresa: il fattore determinante per la
competitività dei prossimi anni (decenni) è la conoscenza.
Ormai la conoscenza non è più un fattore esogeno, che dall’esterno può influenzare il
paradigma produttivo risolvendo alcuni problemi tecnici; ora è un fattore di
Per questa parte fare anche riferimento a P. Drucker, The next society, in The Economist, Novembre
2001.
34
25
produzione, che ridimensiona l’importanza delle risorse naturali e delle risorse umane
come si sono sempre intese, cioè come “forza lavoro = braccia”.
La risorsa fondamentale nelle attività economiche, dunque, non sarà più il lavoro
tradizionalmente inteso, o il capitale, o le risorse naturali, ma la conoscenza: i
“lavoratori della conoscenza” rappresenteranno il gruppo dominante di quella che
per secoli abbiamo chiamato forza lavoro.
Oggi, parlando di “lavoratori della conoscenza” intendiamo riferirci a professionisti
con un considerevole bagaglio teorico: dottori, avvocati, insegnanti, scienziati, … ma
in futuro dobbiamo aspettarci una crescita straordinaria di “tecnologi della
conoscenza”, figure intermedie quali tecnici informatici, sviluppatori software,
analisti medici, biologi, tecnologi di produzione, paralegali, infermieri, cioè
professionisti che non si limitano ad usare il cervello per svolgere il proprio lavoro,
dal momento che eseguono numerose operazioni manuali, ma che in ogni caso sono
portatori di un rilevante bagaglio di conoscenze teoriche assai particolari e
specialistiche, che non possono essere apprese sul campo, bensì necessitano di
percorsi formativi specifici e mirati.
Muterà dunque sempre più – sta già mutando sotto i nostri occhi – la composizione
della forza lavoro: sempre meno lavoratori manuali, e sempre meno nel secondario.
Di tutti i paesi occidentali, gli USA hanno oggi la proporzione più bassa di addetti al
secondario in mansioni operative (15%).
I “lavoratori della conoscenza”, collettivamente considerati, saranno invece i nuovi
capitalisti della prossima società economica, poiché saranno i soggetti possessori dei
mezzi di produzione strategici nel futuro. Questi lavoratori, che possono essere
considerati dei professionisti più che dei “lavoratori”, e che si identificano con il
sapere di cui sono portatori, avranno due bisogni fondamentali:
1) un’istruzione formale di base, che ne delinei la professionalità;
2) una formazione continua che ne tenga aggiornate le conoscenze.
Diverse le conseguenze:
a)
la mobilità professionale è destinata ad aumentare, perché siamo destinati a
riscontrare sempre nuovi rapporti di lavoro, e con essi nuovi paradigmi produttivi e
organizzativi (la conoscenza, infatti, non è organizzabile gerarchicamente);
b)
anche la mobilità sociale è destinata a crescere: la conoscenza, che è un tratto
caratteristico della persona e ne è “incorporata”, non può essere ereditata o
trasmessa come un patrimonio, ma deve essere acquisita ex novo da ciascun
individuo;
c)
è urgente trovare standard formativi adeguati che facilitino la trasmissibilità e la
mobilità (e quindi la pubblica accessibilità) delle conoscenze incorporate negli
individui;
26
d)
nei prossimi decenni, perciò, le istituzioni educative che preparano i “tecnologi
della conoscenza” cresceranno rapidamente in tutti i paesi, e qui sta la scommessa
anche per quei territori che partono svantaggiati in questa lunga rincorsa verso un
futuro brain intensive – cioè a forte impiego della conoscenza – perché caratterizzati
da storici ritardi nei livelli di istruzione formale della propria popolazione.
3. La flessibilità del lavoro, rischi ed opportunità
Il modello della flessibilità non è dunque privo di conseguenze sulle prospettive e
sulle modalità di lavoro delle persone, e dunque sulla loro stessa esistenza.
Il tema della flessibilità, particolarmente quella applicata al lavoro, è dunque, per i
nostri tempi, il tema ineludibile di confronto in campo economico, politico e sociale.
Si tratta indubbiamente di un tema complesso, sul quale è difficile evitare pregiudizi
ideologici, e che invece chiede un approccio costruttivo, basato sulla consapevolezza
che i cambiamenti dell’economia possono essere affrontati e gestiti mediando tra
situazioni e necessità diverse.
Vista da una parte, la flessibilità è senz’altro una grande risorsa, forse la risorsa
necessaria per il sistema economico in questo momento storico e a questo livello di
sviluppo.
Ciò vale per le imprese – alle quali si liberano spazi di manovra e di competitività
nell’allocazione dei fattori di produzione – ma anche per gli stessi lavoratori: a
partire dalla ricerca di spazi che essi invocano per la qualità della propria vita (un
esempio per tutti, il lavoro part time) fino a situazioni più sostanziali, legate alla
possibilità di ricoprire, con maggiore consapevolezza, un diverso ruolo all’interno del
sistema economico, in termini di competenze, abilità e capacità.
Nella logica del bicchiere mezzo pieno, quanto più il mercato sarà libero e flessibile,
tanto più esso potrà permettere a ciascun lavoratore di esprimersi nel migliore dei
modi, assumendo la sfida dell’autovalorizzazione attraverso impegno, formazione,
innovazione, ricerca continua della propria migliore collocazione nel sistema
produttivo.
Sull’altro fronte, inevitabilmente, sta l’individuazione dei rischi e dei limiti che
questo sistema di organizzazione del lavoro porta con sé: rendere più flessibile il
rapporto lavorativo significa, infatti, inserire un fattore stressante nella vicenda
dell’uomo, delle famiglie e delle comunità.
La flessibilità per definizione si fonda sul cambiamento e sulla capacità di
adattamento delle persone, magari forzando i ritmi e i tempi della vita, delle relazioni
interpersonali, delle prospettive per i lavoratori. Situazioni nelle quali il lavoratore è
coinvolto nelle dimensioni più personali ma che non mancano di avere significative
ricadute di ordine sociale e collettivo.
27
Il limite tra la flessibilità – che potrebbe essere apprezzata come una gestione attiva,
responsabile e positiva dei cambiamenti in atto – e la precarietà – una gestione
viceversa subita e passiva degli stessi – è spesso di ben difficile individuazione. Da
qui le questioni assai significative che sono poste al sistema economico e sociale:

il venire meno, per molte persone, di prospettive certe e stabili di occupazione a
medio e lungo termine;

il senso di appartenenza all’impresa, ma anche al territorio e alla comunità, che
si fa più debole e precario;

la necessità per il lavoratore di acquisire un’adeguata consapevolezza dei
cambiamenti in atto: di conseguenza, il bisogno di una formazione continua che gli
permetta di stare al passo con i cambiamenti;

la definizione, pur nella transizione verso modelli produttivi ed organizzativi
diversi da quelli tradizionali e noti, di strategie per l’attualizzazione delle garanzie e
delle tutele acquisite.
4. Una flessibilità sostenibile
Una società che si interroga sul proprio futuro – a maggiore ragione una comunità
cristiana – non può esimersi dalla riflessione su questi aspetti cruciali e più in
generale sul senso delle mutazioni cui assistiamo nel sistema economico.
Non si tratta, infatti, di questioni che possono essere affidate al solo calcolo di
convenienza fra costi e benefici. Una considerazione per tutte: quella educativa, di
senso e valore dei cambiamenti in atto per le giovani generazioni, che di fronte a
questo modello di economia e di vita si trovano ad essere prive di adeguati sostegni e
soprattutto di un sensato “passaggio generazionale” di testimonianze, di pratiche di
vita, di strumenti anche concettuali per affrontare il futuro.
Per la riflessione in una comunità cristiana, il necessario strumento dell’economia
procede continuamente al passo con la crescita e lo sviluppo integrale della persona,
della rete di relazioni che essa costruisce, della comunità in cui essa è inserita.
C’è dunque materia e spazio per il confronto e la discussione, per l’elaborazione di
opinioni condivise e di proposte per costruire la società del futuro. Alla ricerca
dell’equilibrio, precario ma ineludibile, tra i cambiamenti culturali e di mentalità,
che paiono necessari per affrontare il domani, e la necessità di una riflessione
approfondita sul senso degli stessi cambiamenti, sulle condizioni alla base al nostro
modo di lavorare, ma ancora di più di vivere, di fare famiglia e comunità.
La questione in gioco è resa ancora più difficile dal fatto che su un tema complesso
come quello della flessibilità si intrecciano livelli di lettura e di considerazione a volte
troppo divergenti, diversi da persona a persona, diversi – per la stessa persona – a
seconda dei momenti dell’esistenza.
28
Un conto è ragionare di flessibilità per l’impresa, altro è per il lavoratore; diversa è la
flessibilità in entrata (quella di chi – spesso in giovane età – cerca un lavoro, e mette
in conto grossi sacrifici pur di aprirsi una prospettiva) rispetto a quella in uscita
(quella di chi – magari ad età avanzata – si trova senza occupazione e senza reale
possibilità di inventarsi alternative significative); un ventenne affronta le questioni
lavorative in modo radicalmente diverso da un quarantenne, così come una donna
da un uomo; un esperto informatico ha aspettative professionali diverse da un
operaio o da un impiegato amministrativo… Come se non bastasse, non cambiano
solo i lavori, e non è dunque solo questione di strumenti giuridico-contrattuali:
cambia la famiglia, cambia la società, mutano le relazioni tra le persone e le
generazioni. Il rischio è che confusione, incertezza ed ansia possano farla da
padrone, annichilendo le necessarie capacità di mediazione e di elaborazione che il
tema richiede.
Se flessibilità deve essere, dunque, che essa sempre più possa essere una flessibilità
sostenibile: che sappia aprire squarci di futuro, che punti a mantenere –
attualizzandole – le attenzioni alle persone, che provi a tutelare i nuovi arrivati senza
penalizzare chi c’è già e ci sarà ancora per un tempo più o meno lungo.
Una flessibilità che – partendo dall’attenzione agli ultimi e ai meno attrezzati – possa
coniugare la sfida dell’evoluzione e del cambiamento con quella del senso e dello
sviluppo del lavoro per la persona, la famiglia, la comunità, tenendo insieme diversi
livelli: la professionalità, le competenze acquisite, la capacità progettuale ed
imprenditive delle persone, ma anche la storia, l’appartenenza al proprio lavoro, il
vissuto dei lavoratori, le relazioni che essi hanno saputo creare con le donne e gli
uomini, dentro le comunità in cui sono stati attivi.
Flessibilità sostenibile è anche la capacità di creare condizioni di promozione, di
valorizzazione e di autotutela del lavoratore: con criteri e metodi propri della società
civile, oltre che del sistema dell’impresa. La tutela di chi costruisce dal basso le
risorse quotidiane: la formazione, la certificazione delle competenze, la centralità
delle famiglie, l’accompagnamento solidale a favore di chi vive situazioni di
precarietà, la pratica di stili di vita più attenti verso le persone (vicine e lontane), le
cose, l’ambiente. E ancora: la valorizzazione della comunità come ambito privilegiato
di confronto e conforto, la capacità di rilanciare il futuro attraverso l’azione solidale e
corresponsabile di famiglie, imprese ed istituzioni nel ricercare congiuntamente
soluzioni alle fatiche e alle sfide del quotidiano, la riscoperta della politica come
pratica di servizio e di assunzione della gestione della complessità.
I cristiani ci possono provare con la propria sensibilità ed attenzione: cercando di
comprendere senza posizioni preconcette, insistendo per la priorità della
valorizzazione dell’uomo: una persona con le proprie relazioni, i propri vissuti; una
vicenda umana che si sviluppa e ha senso anche in tempi di cambiamento radicale,
un’avventura spirituale che proprio nel cammino quotidiano trova senso ed
applicazione.
29
Capitolo 4
DA CREDENTI NEL LAVORO
E’ importante che si possa guardare con attenzione alla realtà del lavoro, sia
come singoli che come comunità cristiana, cercando gli elementi per decifrarla, per
coglierne le risorse, per capire a fondo i problemi, per denunciare fattivamente le
ingiustizie. Proprio perché la Chiesa vive in un’epoca di forte secolarizzazione, oggi
abbiamo bisogno di ricondurre il lavoro al primato del Regno, denunciando innanzitutto il limite del lavoro: tutto viene dopo il Regno, anche la professione.
Attraverso il proprio impiego, elemento di libertà e di responsabilità, l'uomo può
salvarsi o può perdersi. Non dimentichiamo, ad esempio, che, oltre al problema della
disoccupazione (chi lavora poco o nulla), esiste anche quello del “lavorismo” (chi
lavora troppo o svolge più lavori), spesso determinato da un carovita che pone molte
famiglie in grande difficoltà economica, o da una spinta sociale ad ottenere risultati
eccellenti, sempre più soldi, un potere riconosciuto.
Recuperare il limite del lavoro significa rendersi conto che il lavoro può essere
generatore di oppressione e ingiustizia. La testimonianza dei valori cristiani e la
chiarezza della denuncia sono aspetti concreti della evangelizzazione, che si esprime
anche nella capacità di prendersi cura dei colleghi o dei propri dipendenti,
soprattutto quando si sviluppano ingiustizie.
Contemplazione e azione, operosità e riposo. Il primato del Regno ci colloca
nella prospettiva di non eliminare nessuna delle due polarità. Il cristiano sa anche
vedere il lavoro con un certo distacco se esso ostacola e rende problematica la
sequela di Gesù.
Occorre legare la vita quotidiana alla luce della Parola e all'Eucaristia per
vivere la radicalità evangelica anche sul lavoro. Ai cristiani, insieme alla comunità di
fede, è chiesto di imparare a fare discernimento nella quotidianità. Lo stesso
Magistero, da Giovanni XXIII in poi, ha suggerito il metodo della “revisione di vita”
attraverso il “vedere, giudicare, agire”. Si tratta di imparare a riflettere sulla storia e
sulla vita, per poter arrivare alle scelte operative, alla luce della Parola di Dio.
Strumento a servizio della evangelizzazione è il riferimento alla Dottrina Sociale della
Chiesa: rappresenta lo sforzo di riflessione etica sul mondo dell'economia, della
politica, del lavoro. Il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa non sostituisce
tuttavia la necessità e il compito di un’ulteriore elaborazione per porre le scelte,
frutto di un discernimento personale e comunitario, con attenzione all’attuale
contesto storico.
Proponiamo alcuni temi da approfondire per vivere da credenti nel mondo del
lavoro:
 vivere con fiducia nella Provvidenza, perché il Signore ci vuole bene e non ci
abbandona. “Ecco perché vi dico: Non vi affannate per la vostra vita, di ciò che
mangerete o di ciò che berrete, né per il vostro corpo o di ciò che vestirete” (Mt 6,
30








25-34);
lavorare con competenza. A ciascuno di noi è chiesto, innanzi tutto, di
svolgere bene il proprio lavoro quotidiano, con cura, con abilità, con puntualità, con precisione. Esercitarsi, studiare, aggiornarsi sono azioni non meno
importanti della disponibilità e della generosità. Sarebbe, anzi, un grave errore
se il credente pensasse di sostituire la competenza con la dedizione in nome
del Vangelo;
scegliere il proprio lavoro. L'uomo, per il fatto di essere uomo, è parte del
disegno divino e con la sua vita risponde ad una chiamata libera, che include
anche il lavoro. Se la propria occupazione quotidiana è scelta di libertà, essa
può restituire una vita realizzata. Nella comunità deve nascere una particolare
attenzione per chi non può vivere il suo lavoro come una scelta libera, perché
insufficiente al sostentamento, perché troppo duro, perché non in grado di
valorizzare le sue doti, perché segnato da un’insoddisfazione di fondo;
vivere con gratuità, sapendo che a noi è chiesto di rapportarci all'altro
vivendo la giustizia di Dio che, come ci ricorda Paolo, è il Figlio crocefisso: “Vi
do un comandamento nuovo: amatevi l'un l'altro. Come io ho amato voi, così
anche voi dovete amarvi l'un l'altro” (Gv 13,34). Anche nella professione, è
l'amore di Dio e non il mansionario del lavoratore a dare la misura della
disponibilità e della dedizione del cristiano;
vivere nella convivenza, nella relazionalità fino alla comunione. Nel lavoro
capita di vivere le relazioni in modo funzionale. Si tratta allora di imparare ad
incoraggiare, rasserenare, essere attenti, dialogare. Prima ancora che far
scattare la solidarietà occorre dare spazio, tra lavoratori, a delle relazioni
aperte e costruttive;
vivere nella gioia. Spesso i cristiani, come diceva Mazzolari, sono i carcerieri
della gioia. L'amore di Dio dona gioia e le nostre vite sono chiamate a testimoniarla (Gv 15,10-11). Nel lavoro, questo atteggiamento si traduce in
accoglienza, in comprensione delle persone, in stili di vita che sostengono e
prendono parte alle scelte di valori e di diritti dove sono calpestati. Questo
suppone anche lo schierarsi e il lottare con il rispetto di ogni persona ma con
la responsabilità della giustizia;
esprimere l'attenzione ai più poveri. Come per Gesù, anche per noi i poveri
devono avere una preferenza e spesso il lavoro quotidiano è il luogo in cui essi
ci sono compagni e maestri, se li sappiamo ascoltare e servire. Incontriamo ad
esempio molti immigrati, persone che aspirano ad essere riconosciute nella
dignità e anche nella capacità che possono esprimere di lavorare legalmente e
di assumersi delle responsabilità;
custodire il tempo, i ritmi e il riposo. È importante che tutta la società si
faccia carico dei valori che le diverse chiese propongono, ma che spesso sono
doni per l'intera umanità. Ci accorgiamo con preoccupazione che il lavoro
domenicale si estende sempre più oltre i servizi essenziali. Bisogna saper
interrompere quando è troppo, e non mischiare il lavoro con la festa ed il
consumo, privilegiando le relazioni interpersonali anche oltre il lavoro, vivendo
bene la festa, tipico spazio delle relazioni gratuite;
cercare il difficile equilibrio tra volontariato e lavoro. Se il lavoro non deve
31
essere messo avanti a tutto, fino ad impedire degli impegni volontari nel tempo
libero, occorre evitare che l'attività volontaria sia un rifugio, una fuga, dalla
vita quotidiana e dalle contraddizioni che il lavoro reca con sé. Senza
mescolare il lavoro con il volontariato, va cercata una fecondazione reciproca.
In Italia, infatti, abbiamo tanta gente che fa un lavoro volontario ma è restia
ad impegnarsi sul posto di lavoro nei rapporti sindacali, nella
responsabilizzazione sui temi della convivenza e nell'impegno credente in
azienda. Il lavoro non si offre solo come occasione di evangelizzazione per il
singolo, ma come autentico luogo di evangelizzazione, nel quale sono possibili
azioni collettive ed organizzate in nome del Vangelo. Perché ciò avvenga,
sarebbe importante che i cristiani di una stessa azienda o di una stessa
professione si collegassero tra loro con momenti di preghiera e di riflessione, al
di fuori dell'orario di lavoro, per offrire con la loro presenza un segno di
solidarietà e coerenza e per educarsi al discernimento in relazione ai valori
cristiani. Questa esperienza, sviluppatasi negli anni '60 al tempo dei grandi
complessi industriali, ha portato molta consapevolezza e sostegno nel mondo
del lavoro. Ancora oggi sono sopravvissuti alcuni gruppi in grandi complessi.
Le parrocchie, insieme con associazioni, movimenti e gruppi, possono essere
un riferimento concreto per favorire intuizioni nuove e per incoraggiare incontri
tra lavoratori della stessa azienda o di aziende diverse promuovendo:
 impegno nelle strutture del lavoro: partecipazione alle assemblee; impegno o
semplice attenzione alle RSU (rappresentanti sindacali unitari);
 attenzione ai giovani che iniziano per aiutarli a conoscere il mondo del lavoro e ad
inserirsi in esso;
 impegno nella formazione continua per sviluppare sempre più competenza e
sostegno perché nell'azienda sia proposta un’intelligente formazione, soprattutto
per i giovani; attenzione e monitoraggio per le forme di sicurezza che l'azienda
deve disporre per l'incolumità dei lavoratori.
L'animazione cristiana si estende dal luogo di lavoro a tutto il territorio
quando ci si fa promotori di:
 reti familiari e di volontariato, soprattutto per le situazioni familiari in difficoltà,
che si occupano della custodia dei figli minorenni dei lavoratori;
 forme sempre più strette di collaborazione;
 volontariato e cooperazione, in collaborazione anche con le istituzioni, per
procurare lavoro soprattutto alle fasce deboli;
 proposte d'accoglienza e disponibilità ad affrontare fattivamente i problemi della
casa;
 varie forme di impegno politico;
 gruppi con progetti aperti sul mondo.
32
Allegato. Documenti principali della Dottrina Sociale della Chiesa
La Dottrina sociale della Chiesa, così come la conosciamo noi, iniziò alla fine del
secolo XIX, con il risveglio del senso di giustizia di fronte alle condizioni disumane
dei salariati. In seguito, si è allargata ad aspetti sociali come la pace, i rapporti tra i
popoli, la famiglia, l'educazione, il consumo...
Rerum novarum (RN) (Delle cose nuove), enciclica promulgata dal papa Leone XIII
(15 maggio 1891), primo grande documento sociale della Chiesa. Tal enciclica fu
accolta con entusiasmo da chi si preoccupava, in modo particolare, per l'ingiusta
situazione degli operai e rifiutata negli ambienti che si opponevano al cambiamento
(e ciò anche all'interno della Chiesa). Denuncia le condizioni disumane dei lavoratori
e propone i principi fondamentali per un ordine giusto (cf Commissione Povertà e
Giustizia, L'insegnamento sociale della Chiesa, per i documenti pontifici anteriori al
1984).
Quadragesimo anno (QA) (Quarant'anni dopo dalla Rerum novarum), enciclica
promulgata da Pio XI (15 maggio 1931) ai tempi della recessione mondiale e della
feroce dittatura di Stalin.
Pio XII offrì notevoli insegnamenti sui diritti umani, l'ordine giuridico internazionale,
eccetera. Tra i suoi interventi in questo campo, si distinguono i radiomessaggi di
Pentecoste del 1941 (La solennità, a cinquant'anni dalla Rerum novarum), quello di
Natale del 1942 e quello del 1944 (Benignitas et humanitas), sulla Chiesa e la
democrazia.
Mater et Magistra (MM) (la Chiesa, Madre e Maestra), enciclica di Giovanni XXIII
settant'anni dopo la Rerum novarum (15.05.1961). Il papa si fa carico dei progressi
scientifici, sociali e politici e, nel nuovo contesto, riafferma e completa gli
insegnamenti dei suoi predecessori.
Pacem in terris (PT) (La pace sulla terra), enciclica di Giovanni XXIII (11.04.1963).
Affronta il tema della pace e dei diritti umani, fondati sul rispetto della persona.
Gaudium et spes (CS) (La gioia e la speranza), costituzione pastorale del concilio
Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (07.12.65). La Prima Parte è
dedicata a considerazioni sulla dignità umana e sulla missione sociale dei fedeli. La
Seconda Parte dibatte i grandi temi attuali.
Populorum progressio (PP) (Lo sviluppo dei popoli), enciclica di Paolo VI
(26.03.1967). Sviluppa la Dottrina sul rapporto tra gli individui e tra le nazioni. E un
vigoroso richiamo alla giustizia e alla solidarietà universale, rivolge la sua critica al
«capitalismo liberale» (26 e 58). E' ispirata dal profondo spirito umanitario ed
evangelico di Paolo VI.
Octogesima adveniens (OA) (Ad ottant'anni dalla Rerum novarum), enciclica di Paolo
VI (15.05.1971). Il papa ricorda come i suoi viaggi per il mondo gli abbiano permesso
di vedere la miseria di tanti e udire il loro grido, di constatare le flagranti differenze
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nello sviluppo dei popoli, l'emarginazione dei poveri. La Chiesa vuole «conoscerli,
aiutarli e difendere il loro posto e la loro dignità in una società indurita dalla rivalità
e dal fascino del successo» (n. 15).
Giustizia nel mondo, documento del terzo Sinodo dei vescovi (1971). « L'amore per
il prossimo e la giustizia sono inseparabili ». I vescovi auspicano con urgenza che,
all'interno della Chiesa, sia visibile il modello del rispetto per i diritti di ognuno;
chiedono che si adotti lo stile di vita che faccia superare la miserrima situazione di
tanti; sottolineano l'impegno educativo, che deve partire dal riconoscimento del
peccato nelle sue manifestazioni individuali e sociali (nn. 17-19).
Laborem exercens (LE) (Nel realizzare il lavoro), enciclica di Giovanni Paolo II a
novant'anni dalla Rerum novarum (14.09.1981); non poté essere pubblicata il 15
maggio a causa dell'attentato di cui fu vittima il papa due giorni prima. E’ scritta da
un uomo che ha vissuto in un paese sottoposto all'ideologia e all'organizzazione
marxista, ma che ha anche studiato i sistemi capitalisti. Al centro del pensiero del
papa è la persona umana, più importante del lavoro e questo più importante del
capitale.
Sollicitudo rei socialis (SRS) (La preoccupazione per gli affari sociali), enciclica di
Giovanni Paolo II (30.12.1987), per commemorare i vent'anni della Populorum
progressio. L’enciclica condanna con energia l'oppressione marxista, che sopprime le
libertà e reprime la creatività (cf n. 15). Ma il capitalismo liberale è anche un
imperialismo oppressore. «Il processo dello sviluppo e della liberazione si concretizza
nell'esercizio della solidarietà, vale a dire dell'amore e del servizio al prossimo, in
particolare ai più poveri» (n. 46).
Centesimus annus (CA) (Nel centenario), enciclica di Giovanni Paolo II a cent'anni
dalla Rerum novarum. (01.05.1991). Il Papa, oltre a ricordare i criteri più
caratteristici della RN, espone le linee essenziali della Dottrina sociale della Chiesa
con lo sguardo rivolto più al futuro che al passato. Essenziale è la concezione
corretta della persona, intesa in modo erroneo dal marxismo e dal capitalismo.
La Pontificia Commissione "Giustizia e Pace" pubblicò vari documenti di portata
sociale: (1986). Che hai fatto di tuo fratello senza tetto? La Chiesa di fronte alla crisi
della casa (1987). Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esigenze
del cristianesimo (1994). Per una migliore distribuzione della terra (1997).
34
Capitolo 5
TRACCE PER PERCORSI FORMATIVI
5.1. Tematiche di riflessioni per percorsi nelle comunità
Papa Benedetto XVI ci esorta a non eliminare Dio dalla vita pubblica, poiché questo
conduce alla scomparsa di ogni nozione di bene autentico circa la persona e la
comunità sociale.
Questo messaggio vale innanzi tutto per gli stessi cristiani, che sono chiamati a
testimoniare la propria fede nei vari ambiti di vita in cui operano.
La realtà del lavoro si trova in una profonda trasformazione che comporta
opportunità ed anche rischi. Il cristiano non può rischiare di condurre a posizioni
che vedono solo il negativo e profetizzano il peggio, ma non vale neppure un generico
ottimismo. Egli, infatti, è chiamato a spendersi nel quotidiano alla luce della Parola
e del vissuto delle comunità. Strumento di riflessione e di scelta è il riferimento alla
Dottrina Sociale della Chiesa: rappresenta lo sforzo di attenzione etica sul mondo
dell'economia, della politica, del lavoro. Il riferimento alla Dottrina Sociale della
Chiesa non sostituisce, tuttavia, la necessità e il compito di un’ulteriore elaborazione
per porre le scelte, frutto di un discernimento personale e comunitario, con
attenzione all’attuale contesto storico.
Le tematiche e il cammino di formazione che si propone mira ad aiutare il credente a
porsi nel modo adeguato nei confronti della realtà dell’economia e del lavoro in
quanto dimensioni essenziali dell’esistenza umana, fattore di socialità, occasione di
bene, ma nel contempo anche esperienza critica per la persona, la comunità e la vita
sociale in genere.
Tramite questa proposta si intende sostenere e accompagnare una testimonianza
cristiana nella realtà del lavoro come caratteristica indispensabile di tutti i cristiani
che sono chiamati tramite le loro opere e le responsabilità civili e sociali a dare
ragione della speranza che è in loro.
Il metodo prevede un cammino di “revisione di vita” composto da tre tappe:
- preghiera, ovvero alimentazione personale a partire dalla Parola di Dio;
- discernimento, ovvero analisi e riflessone sulla realtà odierna;
- azione, ovvero indicazioni operative in rapporto alla responsabilità di ciascuno.
5.1.1. Da credenti nel lavoro
La pista di lavoro introduce i partecipanti al tema del lavoro e della professionalità
consentendo loro di cogliere le principali dinamiche del cambiamento. Ciò con lo
scopo di dotarli degli strumenti di conoscenza essenziale e di stimolare la capacità di
cogliere opportunità e rischi del fenomeno.
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Preghiera
Gen. 1,28
Dio li benedisse e disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra”.
Gen. 2,19
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli
uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in
qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello
doveva essere il suo nome”
Discernimento
- Come si modifica il lavoro scompaginando le tradizionali nozioni di spazio e di
tempo;
- Nuova divisione del lavoro planetaria (interdipendenza tra le economie locali);
- Società della conoscenza/competenza e cultura del lavoro;
- Cambiamenti del lavoro e trasformazioni del territorio;
- Formazione e professionalità per stare nel lavoro;
- Lavoro come occasione di integrazione della persona.
Azione
Ad ogni gruppo di lavoro è chiesto di elaborare una scheda su cui si indicano, in
riferimento ad alcune situazioni di lavoro tipiche della attuale stagione, le
opportunità ed i rischi.
* *** *
Caratteristiche del relatore: una persona che conosca le principali dinamiche della
realtà del lavoro e delle professioni, sia documentata, equilibrata e non ideologica.
5.1.2. Etica del lavoro
La pista di lavoro intende mettere a fuoco soprattutto il rapporto
lavoro, in riferimento alle responsabilità etiche che un tale ruolo
soggetto che lo esercita. Si vuole far emergere la consapevolezza circa
disporre di criteri morali circa il “lavoro ben fatto” connesso al
dell’altro.
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tra persona e
attribuisce al
la necessità di
maggior bene
Preghiera
Gen. 35,30-35; 36,1
Mosé disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha chiamato per nome Bezaleel,
figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ha riempito dello spirito di Dio,
perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per
concepire progetti e realizzarli in oro, argento, rame, per intagliare le pietre da
incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso. Gli
ha anche messo nel cuore il dono di insegnare e così anche ha fatto con
Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. Li ha riempiti di saggezza per
compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, di ricamatore in
porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso, e di tessitore: capaci di
realizzare ogni sorta di lavoro e ideatori di progetti”.
Bezaleel, Ooliab e tutti gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e
d’intelligenza, perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del
santuario, fecero ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato.
Discernimento
 Origine divina del lavoro: saggezza, intelligenza e scienza come vocazione;
 Etica del lavoro;
 Deontologia del lavoro di cura: non basta la professione;
 Un’etica per il lavoro autonomo e professionale.
Azione
Ad ogni gruppo di lavoro è chiesto di individuare i contenuti più importanti della
“carta etica” relativa al lavoro nei servizi pubblici.
* *** *
Caratteristiche del relatore: una persona preparata in tema di lavoro e
professionalità con preparazione in scienze umane (psicologo, sociologo, antropologo,
giurista…) e conoscenza del lavoro pubblico, specie di cura (educazione, assistenza,
sanità, cura del territorio).
In alternativa, può anche essere valido un confronto fra due testimoni appartenenti a
queste categorie di professionisti.
5.1.3. Lavoro e comunità
La pista di lavoro mira a rendere i partecipanti consapevoli della necessità di una
coscienza morale dei singoli, delle famiglie e della comunità circa il pericolo di un
lavoro che superi i limiti di una sana distribuzione dei tempi e delle cure. Tale
consapevolezza viene espressa in un’iniziativa pubblica da realizzare nell’ambito del
territorio.
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Preghiera
2 Ts 3, 6-15
Vi ordiniamo pertanto fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di
tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non
secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete
imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo
mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e
sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne
avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti
quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare
neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente,
senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo esortandoli nel
Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi fratelli,
non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a
quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti,
perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonirtelo come
un fratello.
Discernimento
 Lavori che contribuiscono a creare comunità;
 Lavori (e modi di organizzazione del lavoro) che scompaginano il tessuto
familiare e comunitario;
 Lavoro e giorno del Signore;
 Lavoro, riposo, tempo libero: regole di un lavoro “sano”;
 Dignità umana e lavoro: l’uomo non dispone di se stesso.
Azione
Si chiede di delineare un intervento pubblico mirante a sensibilizzare la popolazione
del territorio circa la necessità di scandire la settimana e l’anno secondo una giusta
alternanza di lavoro, riposo, vita familiare e comunitaria, tempo libero.
* *** *
Caratteristiche del relatore: una persona preparata in tema di lavoro e
professionalità con preparazione in scienze umane (psicologo, sociologo, antropologo,
giurista…) e conoscenza del rapporto tra lavoro e vita familiare e comunitaria.
In alternativa, può anche essere valido un confronto fra due testimoni che riflettono
sulla loro vita circa il rapporto tra lavoro e comunità.
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5.2. Proposta per un itinerario sui cambiamenti economici e sociali del nostro
territorio
A confronto con le sfide del lavoro.
I cambiamenti del lavoro assumono, con il passare del tempo, contorni di sempre
maggiore rilevanza e complessità. La sfida della globalizzazione amplifica la
competizione e ridefinisce le coordinate dell’azione produttiva, economica e sociale.
Nascono nuove domande rispetto alle strategie, al bisogno di formazione, ai
cambiamenti del lavoro e dunque all’identità dei lavoratori, delle famiglie, della stessa
società.
Conoscere i cambiamenti in atto è il primo passo per poter raccontare delle fatiche,
delle attese e delle speranze delle persone.
- Dove va l’economia bergamasca?
Cosa sta cambiando dal punto di vista economico e produttivo nel territorio
bergamasco? Quali caratteristiche assume il cambiamento in atto? Si confermano
alcuni punti di forza, ma si aprono anche preoccupanti prospettive per settori che
hanno fatto la storia della nostra bergamasca. E, intanto, altre “aperture” verso
nuovi settori sembrano offrire nuovi spiragli e possibilità…
- Se la Cina è vicina: l’economia bergamasca a confronto con il sistema globale
Come si attrezza l’economia bergamasca di fronte all’avanzare della competizione
globale? La Cina è l’esempio di un’apertura dei mercati dentro la quale occorre
ridefinire punti di forza e di competitività del “made in Bergamo”. Quali opportunità
dall’apertura dell’economia? Quali limiti e quali rischi? Quali cambiamenti culturali
e organizzativi si rendono necessari per il nostro sistema economico?
- Non scordiamoci il lavoratore….
Quando parliamo di cambiamenti dell’economia rischiamo di fare categorie generali.
In ogni svolta stanno però prima di tutto le storie delle persone: le opportunità e le
fatiche che quotidianamente si pongono all’attenzione delle lavoratrici e dei
lavoratori. Come vivono le nostre famiglie i cambiamenti in atto? Con quali
preoccupazioni, strategie, condizioni di vita nelle fabbriche, negli uffici, nell’ambiente
di lavoro?
- Parole di senso, responsabilità e speranza.
La riflessione sui cambiamenti del mondo del lavoro non può prescindere dalla
consapevolezza personale relativa alle aspettative in ambito professionale, né può
dimenticare la dimensione sociale del lavoro. Una dimensione da ripensare
* Questo percorso è stato sperimentato dai circoli ACLI della zona Valle Seriana nell’anno 2005.
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rimanendo nel solco dell’attenzione ai valori che da sempre accompagnano il
pensiero cattolico in materia di economia. Come fare memoria viva, e dunque azione,
della Dottrina sociale della Chiesa? Quali insegnamenti, proposte e attenzioni
valorizzare per un’economia a servizio dell’uomo?
PER APPROFONDIRE
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Damiano C., Treu T., Conversazione sul lavoro, Rosenberg & Sellier, Torino, 2004.
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Globalità,Vita e Pensiero, Milano, 2003.
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2. Sul lavoro decente
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4. Sul fattore tempo
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5. Sulla società a rete e sull’economia globale
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43