LA MISSIONE DI PAOLO NEGLI ATTI Si verifica in questi ultimi anni un certo consenso attorno alla modalità di recezione della memoria di Paolo nelle comunità cristiane. Essa si sarebbe organizzata attorno a tre poli differenti, ciascuno dei quali valorizza, in funzione della situazione pastorale delle comunità destinatarie, gli elementi della tradizione che ritiene più appropriati per trasmettere un’immagine viva dell’Apostolo. Si potrebbe così pensare ad un “polo canonico”, che raccoglie le lettere di Paolo e le riunisce sotto la forma di una collezione, ad un “polo biografico” che celebra in Paolo il missionario delle genti, mentre un “polo dottorale”, evidenziando Paolo come “dottore della chiesa”, avrebbe dato vita alle lettere pseudoepigrafe (Efesini, Colossesi) e Pastorali. Questi tre tipi di recezione sono paralleli e sincronici e si sviluppano tra gli anni 70 e 100: essi rappresentano tre modi di assorbire l’assenza dell’Apostolo, sia fissando la memoria della sua vita (eredità biografica), sia preservando i suoi scritti (eredità canonica), sia infine elevandolo a icona teologica, garante dell’interpretazione ortodossa del cristianesimo (eredità dottorale)1. Gli Atti, dunque, si situano sul “polo biografico” della recezione paolina. Ma tale libro non si caratterizza come una “biografia”, ma si presenta piuttosto come un’opera storiografica degli inizi del cristianesimo. In questo quadro storiografico, Paolo – a differenza delle Pastorali dove è citato come un “inizio assoluto” e dove egli riceve lo statuto di un padre che si rivolge ai figli generati nella fede – è preceduto dalla vicenda di Pietro e degli Apostoli, di Stefano e degli ellenisti. Egli è dunque sì “l’eroe”, a cui è dedicato più di metà del libro, ma si inserisce dentro un progetto storiografico che, negli studi recenti, è visto sempre più come finalizzato ad uno scopo “identitario”. Alle comunità cristiane che vivono un periodo critico, per il distacco definitivo dal giudaismo, per un futuro che ormai le vede proiettate nel nuovo ambiente dell’impero romano, per la fine del tempo apostolico e la successione del collegio dei presbiteri nella guida pastorale, Luca intende fornire un’identità che le rassicuri al loro interno e soprattutto che sia spendibile all’esterno nei confronti del giudaismo da cui provengono e del mondo romano che sta diventando in prospettiva il loro habitat futuro2. Sembra essere questa la “asfàleia” che egli si propone, fin dall’inizio della sua opera (Lc 1,4) di assicurare ai suoi lettori. La rilettura della figura e della persona di Paolo viene dunque a situarsi dentro questo ampio progetto. Essa non va perciò vista isolatamente, ma deve essere compresa come il “vettore” attraverso il quale l’identità del cristianesimo giunge al suo compimento. Nella rilettura lucana, Paolo ha una parte fondamentale proprio nella costruzione di questa identità cristiana. E’ interessante il fatto che Luca non attui una memoria di Paolo attraverso una rilettura della sua opera 1 2 Vedi MARGUERAT, L’aube du christianisme, 479-480 ; FLICHY, La figure de Paul, 44. Così REDALIÉ, 129. 1 epistolare, ma attraverso la sua attività di fondatore di comunità: la raccolta e la rilettura delle sue lettere, infatti, fissa la memoria paolina all’interno della chiesa, mentre invece il racconto degli Atti si focalizza sostanzialmente sulla sua azione missionaria all’esterno (con l’eccezione di At 20)3. 1. FUNZIONE IDENTITARIA INTRECCLESIALE: Paolo ponte e garanzia tra traditio apostolica e tempo subapostolico Accenno subito in forma molto sintetica alla funzione di continuità, che la figura di Paolo assolve, tra la fondante tradizione apostolica e il tempo della chiesa subapostolica, per poi soffermarmi più a lungo sul suo rapporto con il giudaismo e con il mondo romano. E’ noto come – a differenza delle lettere dove Paolo riafferma e difende insistentemente la sua qualità di “apostolo” – Luca non qualifichi Paolo come “apostolo” se non in passi particolari e discussi4. Appare, invece, assodato che sia tipica della prospettiva lucana l’identificazione degli Apostoli con il gruppo dei Dodici. Una tale identificazione appare già chiara nel momento in cui questo gruppo viene scelto da Gesù: “..chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6,13). Sotto questo profilo dunque Luca sembra distinguere e distanziare Paolo dagli Apostoli e dalla loro insostituibile funzione fondatrice. L’autore degli Atti utilizza invece la qualifica di “testimone” per avvicinare Paolo ai Dodici Apostoli e segnalare la continuità nella modalità e nel contenuto dell’annuncio. “Testimoni”, infatti, sono designati in questo libro sia i Dodici (Stefano, per bocca di Paolo in At 22,20) che Paolo. Come gli Apostoli sono stati costituiti testimoni dal Risorto (cf. Lc 24,48; At 1,8) e come tali sono stati prescelti da Dio, nel suo disegno salvifico (cf. At 10,41), così il Risorto è apparso a Paolo per designarlo “ministro e testimone” (At 26,16) e Dio lo ha predestinato, nel suo piano salvifico, a vedere ed udire il Giusto per diventare testimone di Lui (cf. At 22,14s.). Il contenuto però della testimonianza degli Apostoli e di Paolo presenta al contempo differenza e continuità. I Dodici, sulla base di una ininterrotta testimonianza oculare di tutta l’esistenza terrena di Gesù, sono chiamati collegialmente a testimoniare la resurrezione (cf. At 1,21s.), nel suo significato e valore storicosalvifico universale (cf. Lc 24,44-47), così da assicurare la continuità tra la tradizione prepasquale e postpasquale di Gesù. Paolo invece è destinato ad essere testimone delle “cose che ha visto e udito” 3 MARGUERAT, 481-482. Le eccezioni costituite da At 14,4.14, dove vengono chiamati “apostoli” i missionari antiocheni Paolo e Barnaba, non modificano sostanzialmente la concezione lucana dell’apostolato dei Dodici, ma piuttosto documentano una più ampia concezione di “apostolo” che include anche i “mandati” da una comunità: così R. PESCH, Atti, 109, che insinua l’utilizzo di fonti in questi due testi. Vedi anche J. DUPONT, “L’apostolo intermediario”, 106-107, il quale ritiene che Luca si senta libero di allargare il concetto di “apostolo” quando non c’è più possibilità di ambiguità con i Dodici. Diversamente G. SCHNEIDER, Atti, I, 314-315, valuta come secondaria, dal punto di vista della critica testuale, la menzione di apostoli in At 14,14 e offre una interpretazione singolare dell’espressione “essere con gli apostoli in At 14,4: “In questo caso i credenti di Iconio, prestando ascolto a Paolo e Barnaba, si pongono dalla parte degli apostoli, dei Dodici” (315). 4 2 (cf. At 22,14s.) nell’epifania di Damasco ed ancora “di quello che ha visto” in questo incontro e “delle cose per cui il Risorto gli apparirà” (cf. At 26,26). Nonostante l’oscurità di quest’ultima espressione, sembra abbastanza evidente che la funzione testimoniale di Paolo debba portarsi su Gesù esaltato, che egli ha visto, e in modo peculiare sulla missione salvifica universale che il Risorto guida e conduce (cf. At 18,9s.; 22,17-21; 23,11). Di fatto quando Paolo è presentato nella sua funzione testimoniale, il contenuto di questa concerne la messianicità di Gesù (At 18,15); il Signore Risorto (cf. At 22,18; 23,11); il “vangelo della grazia di Dio” (At 20,24), cioè il dono salvifico di Dio attuatosi attraverso al persona di Gesù; il “regno di Dio”, realizzato nella persona di Gesù risorto (cf. At 28,23). Va sottolineato ancora, per quanto riguarda la destinazione della testimonianza, che il mandato del Risorto, nella progressione geografica delineata programmaticamente in At 1,8 è solo parzialmente attuato dai Dodici Apostoli. Costoro limitano di fatto la loro testimonianza a Gerusalemme, alla Samaria e alla Giudea e, con Pietro, la destinano, solo in via di principio ai pagani (cf. At 10,1-48). Sembra invece che che nell’ottica lucana spetti a Paolo il compito di far progredire verso la realizzazione il programma del Risorto (cf. la successione delle tappe in At 26,20 assimilata a 1,8) e di far pervenire la testimonianza di Cristo a tutti (cf.At 22,15: “testimone presso tutti gli uomini”) e in particolare ai pagani (cf. At 22,21: “va, perché io ti manderò lontano, tra i pagani). Sulla base di queste sintetiche osservazioni, possiamo concludere che se Luca, da una parte, intende mostrare un ruolo unico e insostituibile dei Dodici, in quanto “garantiscono, con la loro testimonianza del Terreno e del Risorto, la continuità fondamentale tra Gesù e la chiesa che si sta costituendo”, dall’altra, desidera presentare Paolo – quale tredicesimo testimone – come colui che “getta il ponte tra la costituzione della chiesa (già avvenuta per Luca) e la situazione attuale dell’evangelizzazione dei pagani nel tempo subapostolico, che è quello lucano: egli di fatto porta avanti, con la sua testimonianza del Risorto, la tradizione apostolica5, e la garantisce quale fondamento nell’ulteriore cammino di un annuncio, senza falsificazioni, che le comunità e le loro guide sono chiamate a condurre”6. Questa funzione di ponte e di garanzia emerge nell’unico discorso intraecclesiale che si ritrova negli Atti: quello fatto da Paolo a Mileto e destinato ai presbiteri efesini (cf. At 20,17-35), che ha carattere testamentario ed evidenzia la successione dei presbiteri nella guida pastorale delle comunità dopo la scomparsa dell’Apostolo. In esso Paolo non solo si propone, con il suo ministero, 5 Per provare come Luca presenti la sua testimonianza di Paolo in una sostanziale continuità con i testimoni originari basterebbe segnalare le coincidenze tra il mandato apostolico di Lc 24,46-48 e la testimonianza che Paolo afferma di aver sempre reso secondo At 26,22s. Cf. al riguardo J. DUPONT, “La missione di Paolo secondo Atti 26,16-23 e la missione degli apostoli secondo Luca 24,44-49 e Atti 1,8”, in: Nuovi studi, 401-408. 6 Così J. ZMIJEWSKI, Atti, 119. 3 come modello della cura (vv. 18-21) e della dedizione (vv. 22-24) pastorale, ma dichiara anche solennemente che “non si è sottratto dall’annunciare a loro tutta la volontà di Dio” (v. 27). Tale attestazione precede immediatamente i due (unici) imperativi “fate attenzione a voi e a tutto il gregge” (v. 28) e “vigilate” (v. 31), lanciati nella prospettiva dei pericoli futuri che le comunità incontreranno, quando la comparsa di falsi profeti metterà in discussione l’autenticità dell’esperienza cristiana e la comunione ecclesiale. In tale contesto l’affermazione dell’Apostolo di aver annunciato “la totalità” del disegno salvifico e delle sue esigenze (=la volontà di Dio) ai presbiteri lascia trasparire la sua coscienza di aver consegnato ad essi l’integralità della tradizione apostolica di cui essi soltanto saranno garanti e al contempo contiene una vena polemica nei confronti dei falsi maestri che nel loro insegnamento si rifanno a rivelazioni esoteriche e private, al di fuori della traditio apostolica assicurata dalla predicazione paolina. La conclusione che si può trarre da queste brevi considerazioni è che la missione di Paolo, in quanto testimone, funziona da fattore identitario intraecclesiale. Egli in quanto si pone in continuità con la tradizione originaria, offerta dalla testimonianza apostolica, diventa per le comunità, fondate dalla sua azione missionaria o che a lui si rifanno, la garanzia e la “certezza” della loro autenticità apostolica a fronte dei pericoli che si stanno profilando nel tempo subapostolico. 2. FUNZIONE IDENTITARIA ALL’ESTERNO Uno dei più noti studiosi degli Atti ha sintetizzato la finalità del progetto storiografico lucano nell’espressione “un cristianesimo tra Gerusalemme a Roma”, assumendo i due poli geografici di inizio e fine della narrazione come emblema di una integrazione che dovrebbe venire a costituire l’identità cristiana. Gerusalemme è il simbolo del giudaismo in cui il cristianesimo ha avuto le sue radici, di cui porta in sé l’eredità migliore, ma da cui è costretto a distanziarsi in forza di un universalismo della salvezza che si scontra con il particolarismo nazionalistico giudaico. Roma è il simbolo dell’impero romano che con la sua prospettiva universalistica e con l’ideologia di una fusione di tutti i popoli (con la pax romana) favorisce l’orizzonte universalistico dell’annuncio cristiano. Erede della lunga storia di salvezza d’Israele e portatore di un universalismo che può trovare nell’impero romano una nuova possibilità: questo è il tentativo di integrazione perseguito da Luca che in tal modo può fornire alle sue comunità una nuova identità spendibile di fronte ai giudei e di fronte al mondo romano. Paolo con la sua azione evangelizzatrice, oltre che con la sua vicenda personale di giudeo divenuto, dopo l’incontro con il Risorto, missionario universale, è colui che al meglio rappresenta e realizza in concreto questo progetto. Conviene allora prendere in considerazione questo duplice 4 versante dell’azione missionaria di Paolo: la sua azione evangelizzatrice nei confronti del mondo giudaico e la sua attività missionaria nel mondo greco-romano. 2.1. Continuità con la speranza d’Israele e rottura con il giudaismo Tentiamo di vedere questo aspetto dell’azione missionaria di Paolo attraverso dei sondaggi sulle scene più rappresentative. 2.1.1 Nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,16-49) L’omelia di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, durante il primo viaggio missionario (cf. At 13,16-41), ha certamente una funzione programmatica ed è rappresentativa della sua predicazione ai giudei. In essa Paolo opera una rilettura della storia della salvezza (vv. 17-25). Egli pone come soggetto di questa storia “il Dio di questo popolo Israele”, lasciando intendere così che la storia che sta per rileggere riguarda il suo uditorio fatto di giudei e di timorati di Dio. Egli presenta poi l’iniziativa divina in una serie di eventi che vanno dall’alleanza con Abramo e la sua discendenza (ha eletto i nostri padri), all’innalzamento del popolo in Egitto (upsoo: simbologia cristologica) e all’esodo, alla cura permanente nel deserto e alla concessione della terra in eredità, con la distruzione di sette popoli (anticipazione della salvezza mediante morte-resurrezione). La fase successiva (dopo questo) è contrassegnata dal dono dei giudici fino a Samuele “profeta” e dal dono di Saul, primo re, come offerta di salvezza in risposta al bisogno del popolo, per giungere al suscitamento (egeiro) di Davide, figura del Messia, su cui c’è una sosta per delineare (in discorso diretto) la sua fedeltà e soprattutto per operare un passaggio a Gesù, quale compimento della promessa fatta a Davide (da Natan) di un discendente. L’espressione conclusiva sembra essere una sintesi di quella storia che ha in Gesù il suo culmine e che a partire da lui è riletta: Dio (di questo popolo d’Israele) dalla sua discendenza secondo la promessa (fatta da Natan) ha condotto fuori (come aveva cominciato con l’esodo) il Salvatore (la cui prefigurazione era nei giudici) Gesù, la cui venuta era stata preparata dalla predicazione di un battesimo di conversione fatta da Giovanni e dal suo annuncio del più grande (riportato in discorso diretto). La strategia retorica del discorso, fino a questo punto, è chiara: la storia della salvezza condotta da Dio prefigurava la sua azione decisiva nella venuta del Salvatore Gesù; il suo culmine è nella tipologia che si stabilisce tra Davide-Gesù tesa a proclamare la messianicità di quest’ultimo. Per questo ora Paolo può proclamare che tutta la storia narrata, che è la storia della promessa di salvezza fatta da Dio ai padri, è arrivata a realizzazione per i suoi uditori giudei nella persona di Gesù: “a noi è stata inviata questa parola di salvezza” (v. 26) e può dimostrarlo loro ripercorrendo l’evento di Gesù fino al compimento della promessa visto nella resurrezione di Gesù (vv. 27-31 e 32-37). 5 A partire dalla resurrezione si apre però una prospettiva nuova e sorprendente per i suoi uditori giudei (vv. 38-41). Questo evento apre per loro l’offerta della salvezza escatologica che consiste nella “remissione dei peccati”. Ma questa salvezza è ora offerta a tutti (chiunque crede) ed ha dunque una dimensione universale. Essa ha come unica condizione la fede, mentre la legge mosaica ha fallito nel conseguimento di questa salvezza. Siamo qui messi davanti, seppur con attenuazione, ad una tipica teologia paolina della salvezza universale per la sola fede, ma essa è da Paolo inquadrata nella presentazione della continuità dell’azione salvifica di Dio a favore d’Israele. L’universalismo della salvezza radicato nella resurrezione di Gesù, che il cristianesimo annuncia, è dunque in continuità e costituisce il compimento della particolare storia di salvezza fatta da Dio con Israele. Il cristianesimo è perciò l’erede autentico d’Israele. Per questo Paolo invita i giudei, nella perorazione finale; ad accogliere la salvezza universale, realizzata per mezzo di Gesù, come prioritariamente destinata a loro (v. 38), ma anche li mette in guardia (citandi Ab 1,5) perché accolgano “l’opera” sorprendente attuata da Dio, resuscitando Gesù per la salvezza di tutti, altrimenti essi sono destinati a “sparire” dalla storia della salvezza. La reazione alla predicazione di Paolo è dapprima segnalata in un successo (v. 43), ma il sabato successivo la presenza di quasi tutta la città (v. 44), quindi anche di un uditorio rappresentativo del mondo pagano, suscita l’opposizione violenta dei giudei (v. 45). A fronte di essa Paolo riafferma la priorità dei giudei, come destinatari della salvezza ad essi promessa, ma riafferma anche che tale priorità non deve giocare come fattore di esclusione nei confronti dei pagani (v. 46). Anzi l’offerta di salvezza ai pagani non è altro che obbedienza alla profezia di Is 49,6: “ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra” (v. 47). Diventa chiaro in questa finale come la rottura con il giudaismo sta nel fatto che una parte dei giudei non ha accettato ciò che costituisce il compimento delle loro profezie, quell’opera sorprendente e definitiva di Dio con cui egli, risuscitando Gesù Cristo, ha aperto a tutti la salvezza. Il successo che Paolo ottiene ad Antiochia di Pisidia tra i pagani (v. 48s.:” nell’udire ciò i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione”) anticipa già l’accoglienza positiva che il vangelo è destinato ad avere nell’ambiente pagano del mondo grecoromano. 2.1.2. Le apologie di Paolo (At 22 e 26) Ciò che Paolo ha reso evidente nella predicazione programmatica di Antiochia di Pisidia, diventa emblematico nella stessa vicenda personale di Paolo, che egli presenta nelle sue apologie, sia di fronte ad un uditorio giudaico (At 22) che di fronte ad Agrippa, conoscitore dei costumi e delle questioni giudaiche. 6 In At 22 è lo zelo per Dio, a cui Paolo era stato formato dentro il giudaismo, la costante nella sua prodigiosa trasformazione da persecutore a missionario tra i pagani. E’ il Dio dei padri infatti, a cui egli è rimasto fedele che lo ha predestinato inaspettatamente all’incontro con il Risorto perché ne diventasse il testimone universale, ed è il Signore che lo ha quasi forzato alla missione tra i pagani, dopo aver predetto il rifiuto dei giudei a Gerusalemme. Questa dimostrazione della fondamentale continuità, nell’esperienza di Paolo, con l’autentica giudaicità costituisce dunque il filo conduttore di questa narrazione autobiografica. In At 26 Paolo, chiamato a discolparsi di tutte le accuse rivoltegli dai giudei, dichiara che di fatto egli è sotto processo a motivo della “speranza” d’Israele che egli lascia intravedere nella speranza farisaica che “Dio resuscita i morti” ed evidenzia che la sua testimonianza (fino ad oggi) non è stata incentrata su altro che sul compimento delle profezie circa la passione, resurrezione del Messia che ha come momento culminante “l’annuncio della luce al popolo e ai pagani”. Egli dunque non fa che proclamare la continuità tra l’autentico giudaismo, erede della storia di salvezza d’Israele, e l’annuncio cristiano. La sua vicenda personale ne costituisce la prova. Come giudeo zelante infatti egli ha perseguitato Gesù, ma l’inatteso incontro con il Risorto lo ha costituito missionario universale (con lo scopo di far passare dalle tenebre alla luce, come era avvenuto a lui), ed egli con tutta la sua azione evangelizzatrice non ha fatto altro che rendersi obbediente a questo mandato universale. Le due apologie non fanno altro che mostrare, l’una sul piano soggettivo della fedeltà, l’altra sul piano oggettivo del compimento della speranza/promessa d’Israele, la continuità del cristianesimo, con la sua prospettiva messianica e universalistica, con la storia di salvezza d’Israele. A questo Paolo apporta come prova la sua esperienza di giudeo zelante e persecutore, divenuto missionario universale dopo l’epifania del Risorto. In tal modo mette in evidenza come la rottura con il giudaismo è frutto di un mancato riconoscimento di una parte dei giudei della realizzazione della loro storia salvifica nel Messia risorto e nella salvezza universale da lui offerta. Tutte le tappe missionarie di Paolo, dove si attua un primo approccio alla sinagoga, mostrano questa costante spaccatura dei giudei di fronte all’annuncio che le loro profezie hanno trovato compimento nel Messia Gesù e nell’offerta universale di salvezza che mediante lui si è aperta. L’ultima verifica di questa frattura è a Roma (cf. At 28,17-31) nel duplice incontro con i notabili giudei che si chiude sul richiamo di Is 6,9-10 che denuncia il costante indurimento d’Israele e l’accoglienza della salvezza da parte dei pagani, mentre si apre l’orizzonte di una predicazione continuata (due anni) a tutti, senza più impedimenti e senza distinzioni. 7 2.2. L’universalismo cristiano trova casa nel mondo romano L’altra faccia dell’identità cristiana, di cui Paolo con la sua missione è l’emblema, concerne l’inserimento di un cristianesimo, segnato dall’universalismo, nel mondo romano. Luca ha voluto chiaramente mettere in evidenza che la prima e paradigmatica accoglienza di un pagano nella chiesa è stata opera di Pietro, il primo dei Dodici al culmine della sua carriera missionaria, nel faticoso incontro con Cornelio (At 10,1-11,18). Altrettanto egli mostra come gli ellenisti ad Antiochia per la prima volta annunciano il vangelo ai greci, ottenendo un grande numero di conversioni e dando vita ad una vivace comunità mista (At 11,20s.). Ma è alla fine Paolo con i suoi viaggi missionari che espande il vangelo tra i pagani e lo innesta nel nuovo mondo grecoromano. 2.2.1. La guida dello Spirito verso il nuovo spazio della missione E’ interessante notare innanzi tutto come Luca tenda a sottolineare che è lo Spirito a guidare questa espansione missionaria. Nella breve scena della liturgia ad Antiochia (At 13,1-3), è lo Spirito a suggerire: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (v. 2). E’ quest’opera si rivelerà, già nella citazione di Ab 1,5 (13,41) e poi più esplicitamente a conclusione del viaggio nel reportage alla comunità inviante, l’apertura ai pagani della porta della fede (cf. 14,26-27). Altrettanto sarà un ripetuto intervento dello Spirito (cf. At 16,6-10), che impedisce i progetti di Paolo (e Sila), a portarlo a Troade dove la visione notturna del Macedone sarà dall’équipe missionaria interpretata come una chiamata divina ad annunciare il vangelo in Macedonia. Non è dunque frutto della progettazione umana l’espansione del vangelo. E’ piuttosto la guida divina, attraverso l’azione propulsiva dello Spirito, che, mediante l’attività missionaria di Paolo, spinge il vangelo verso i pagani e nel mondo greco-romano. Attraverso poi le varie tappe di incontro con il mondo pagano Luca sembra voler illustrare le possibilità, ma anche realisticamente gli ostacoli, che il cristianesimo potrà incontrare nel nuovo mondo in cui è chiamato ad innervarsi. 2.2.2. Il confronto con il mondo pagano nel primo viaggio Nel primo viaggio missionario due episodi – che richiamiamo solo sommariamente – risultano significativi per questo confronto con il nuovo mondo. Il primo episodio è l’incontro a Pafo con il procuratore romano Sergio Paolo (cf. At 13,6-12). Qui Paolo incontra un primo ostacolo all’evangelizzazione del mondo romano rappresentato dal mago Bar-Jesus. Questo mago che nel suo nome ha un qualche richiamo cristiano (figlio di Jesus) potrebbe rappresentare una religiosità magica di stampo sincretista che poteva servirsi di elementi cristiani (come è il caso successivo degli esorcisti giudei che usano il nome di Gesù predicato da Paolo in At 19,13-17) e che di fatto costituisce un ostacolo sulla via dell’evangelizzazione del procuratore romano. Paolo, in qualità di profeta mosso dallo Spirito, esce vittorioso da questo confronto, riduce in temporanea cecità Bar8 Jesus, lasciandogli lo spazio per un ravvedimento. Con questa vittoria Paolo sconfigge definitivamente anche il suo passato di Saulo cieco giudeo persecutore, che ha visto rispecchiato nella cecità e nel brancolamento di Bar-Jesus, e diventa definitivamente Paolo “luce dei popoli pagani”. Il cambiamento del nome, da Saulo a Paolo, che qui si opera nel racconto è l’indizio di questo cambiamento e segnala una inculturazione dell’apostolo nel mondo romano che ormai si apre alla sua azione missionaria. L’annotazione conclusiva sull’iniziale fede di Sergio Paolo mostra in modo emblematico che il cristianesimo è capace di esercitare attrattiva anche tra gli strati sociali più alti del mondo romano. Il secondo episodio è il primo incontro con i pagani, nel momento culminante del primo viaggio missionario, proprio in Licaonia, a Listra (cf. At 14,8-20), una zona montagnosa e remota all’interno dell’Asia Minore. Recentemente qualche studioso si è chiesto perché Luca abbia portato i missionari in questo luogo remoto – la Licaonia – che la letteratura e la mitografia antiche caratterizzavano come abitata da popolazioni rudi e violente, chiuse al mondo esterno, perché continuano a parlare il loro dialetto, segnate da una religiosità ingenua e acritica. Luca sembra voler coscientemente porre il cristianesimo a confronto con questo tipo di cultura e di religiosità. Egli segnala la situazione rurale (i dintorni), una religiosità popolare rappresentata da un tempietto e da un unico sacerdote di Zeus e da una festa religiosa, una popolazione che parla il dialetto licaonio e che credulonamente ravvisa nei due missionari la visita di divinità in forma umana (Filemone e Bauci). In questo contesto in cui i missionari potrebbero sfruttare la ingenuità religiosa a loro favore e profitto, essi invece reagiscono con una serie di gesti che nell’antichità connotavano l’uomo saggio e il filosofo che aborrisce il travisamento operato nei suoi confronti da gente credulona (stracciarsi le vesti, scendere in pubblico, dichiarare la propria qualità umana, cacciare violentemente quanti persistono nella creduloneria). Mentre però essi reagiscono contro una religiosità ingenua e dichiarano la loro umanità, creano lo spazio per presentarsi come messaggeri di un Dio trascendente che sempre si è preso cura in modo provvidente dei destinatari e per interpellarli al distacco da questa religiosità idolatrica che li mantiene nell’ignoranza. La conseguenza è che, anziché essere loro a cacciare i creduloni, sono costoro che, sobillati dai giudei, li lapidano. Nel contempo, però di sfuggita, Luca lascia intendere che, accanto al paralitico guarito e divenuto credente, anche qui si è formata una comunità di discepoli che ora aiuta Paolo “creduto morto” a tornare in città e a ripartire. Il cristianesimo è così entrato anche in queste zone remote e impenetrabili, senza però approfittare della creduloneria della gente e senza che i missionari ne traggano vantaggio per se stessi, ma accettando invece il rischio del confronto e le conseguenze violente. 9 2.2.3. L’ingresso nel mondo romano Dopo l’Assemblea di Gerusalemme che sancisce ufficialmente l’accoglienza dei pagani, senza le condizioni del giudaismo (circoncisione e legge), il vangelo, attraverso il secondo viaggio missionario di Paolo entra nel mondo romano. La tappa di Filippi (At 16,11-40) è per questo aspetto emblematica. Filippi è denominata “colonia” romana (prima menzione), e quindi con una legislazione romana, ha funzionari romani (strateghi), vede per la prima volta avanzare da parte di Paolo la sua condizione di “cittadino romano”. A Filippi dunque il cristianesimo incontra la romanità (visto che l’arrivo a Roma si svolgerà su tutt’altro registro). I vari episodi che la preparano (indicazione divina, viaggio) e che la caratterizzano sembrano ordinato secondo uno schema, anticamente conosciuto, di passaggio di un nuovo culto in una nuova città. 1. Impulso divino: la visione del Macedone e l’oracolo della schiava con lo spirito pitone. 2. Viaggio: il zig-zag in Asia Minore e il viaggio veloce da Troade a Filippi (in due giorni, mentre il ritorno ne richiederà cinque. 3. L’opposizione e la vittoria divina su di essa: lo spirito pitone che viene cacciato, le accuse dei padroni, mosse da interesse e il disinteresse di Paolo; la punizione e l’incarcerazione; le epifanie divine (grande terremoto e grande voce) finalizzate alla vita e alla salvezza del carceriere e della sua famiglia; il cambiamento delle autorità. 4. L’instaurazione del culto: che trova spazio nella casa di Lidia e del carceriere romano e che soprattutto trova accoglienza nelle due comunità che qui si formano. La tappa di Filippi evidenzia dunque il passaggio del cristianesimo nel mondo romano, come legittimato da Dio che vince le resistenze e le opposizioni. In particolare le scuse dei funzionari romani di fronte a Paolo cittadino romano, lasciano intendere che si può essere cittadini romani e cristiani al contempo con la possibilità di trovare nel diritto romano protezione anche di fronte ad eventuali abusi dei singoli magistrati. La solenne tappa di Atene (At 17,16-34) è invece mostrata come luogo del confronto tra cristianesimo e il mondo culturale greco-romano. La città rappresenta, dal punto di vista etnografico, l’ambiente costiero, socialmente aperto alle differenze e al confronto, culturalmente elevato e critico, politicamente democratico. A questa tipicità di Atene, vanno aggiunte alcune note sul carattere singolare di questa città. Il suo splendore non era più quello dell’epoca classica di Pericle e di Platone7. Nonostante ciò essa manteneva il suo fascino culturale e molti continuavano a considerarla il centro spirituale del mondo greco, e specialmente come la capitale del pensiero 7 Cf. J. ROLOFF, Atti, 341. 10 greco8. Un certo turismo culturale, allora consistente, andava a cercare in essa le vestigia dell’Accademia di Platone, del Liceo dove Aristotele formava i suoi studenti o del Portico dove si radunavano gli Stoici9. Filone considerava che Atene era per la Grecia quello che la pupilla è per l’occhio e l’intelligenza per l’anima10. Anche Luca deve aver guardato ad Atene con questo sguardo di nostalgica meraviglia e ne ha fatto perciò il centro del confronto tra ellenismo e cristianesimo. Ad Atene il metodo missionario cambia e si adegua all’ambiente. Qui l’azione evangelizzatrice si svolge nella “agorà”, luogo laico e aperto, simbolo della democrazia e del libero scambio delle idee. Qui, senza più la protezione di un ambiente religioso, Paolo accetta di confrontarsi con un mondo pluralistico, con il quale è più faticoso trovare un punto d’interesse e di incontro comune. All’abbondanza delle immagini idolatriche della città, viene ad aggiungersi la pluralità delle voci dell’agorà, quasi a delineare plasticamente l’isolamento della parola dell’annunciatore Per questo forse Luca sottolinea che nell’agorà l’azione dell’apostolo si intensifica: il dibattito è quotidiano e i destinatari sono i più diversi, perché sono quelli che casualmente vi si incontrano. Lo spazio aperto e pluralista dell’agorà fa da sfondo alla successiva focalizzazione sulla presenza dei filosofi. Vengono menzionati Epicurei e Stoici, appartenenti, cioè, a due delle maggiori scuole filosofiche del tempo, presenti anche ad Atene assieme ai Platonici e ai Peripatetici. La difficoltà del dibattito e del confronto con questi filosofi si percepisce dalle loro reazioni di disprezzo e di fraintendimento espresse in forma interrogativa o assertiva (v. 18). Alcuni, domandandosi che cosa Paolo intendesse dire, lo qualificano spregiativamente come “un ciarlatano”. Altri, invece, ritengono Paolo un annunciatore di “divinità straniere”. L’apostolo annunciava “Gesù e la resurrezione (anastasis)” e i suoi ascoltatori intendevano “Gesù e Anastasi” come una coppia di divinità, di cui essi non avevano mai sentito parlare e che perciò ritenevano “divinità straniere”. Alla squalifica della persona di Paolo si associa dunque il fraintendimento della sua predicazione. Ma proprio la percezione dell’estraneità del suo messaggio suscita curiosità nei filosofi e determina la traduzione di Paolo all’Areopago (v. 19). La struttura tematica del discorso, che si articola sui due elementi della conversione al Dio vero e dell’annuncio del giudizio ad opera di colui che Dio ha risuscitato, potrebbe essere ricondotta ad uno schema tradizionale di predicazione ai pagani (cf. 1Ts 1,9s.; Eb 6,1s.) di origine cristiana giudeo-ellenistica A chi non ha una fede monoteista occorre prima annunciare il “Dio vivo e vero” della fede ebraico cristiana. Questo Dio vivo e vero non è frutto di un procedimento razionale – 8 Cf. STAHLIN, Atti degli Apostoli, 402-403. Cf. BOSSUYT-RADERMAKERS, “Recontre de l’incroyant et inculturation. Paul à Athène (Ac 17,16-34) », Nouvelle Revue Theologique 117 (1995) 21. 10 Filone, Quod Omn.Prob., 140, citato da GILL, “Achaia”, 442. 9 11 Luca mostra di non soddisfare il desiderio di conoscenza dei filosofi ateniesi - ma di un annuncio. Tale annuncio è fatto dal Paolo lucano con sottigliezza retorica e con una straordinaria capacità di parlare sul doppio registro del linguaggio filosofico corrente (soprattutto di matrice stoica) e della visione creazionale biblica, in un ardito tentativo di transculturazione. Lo scopo è quello, utilizzando espressioni che riescono abituali e comprensibili ad un uditorio greco, di annunciare il Dio biblico della creazione, in modo fa favorire il passaggio dall’orizzonte panteistico greco a quello creazionale biblico. Nell’esordio va notata subito la sottigliezza con cui Luca evita di identificare semplicemente “il dio ignoto” degli ateniesi con il contenuto del suo annuncio. L’uso del neutro nei due pronomi “ciò…questo”, accentuati enfaticamente, erige come un sipario tra il dio sconosciuto adorato dagli ateniesi e il Dio che Paolo intende annunciare: l’uno non è l’altro! Il dio ignoto, in quanto parte del pantheon greco, non può essere l’unico Dio Creatore. Il punto di contatto è che, di fronte all’uno e all’altro, gli ateniesi sono “nell’ignoranza”, e che questa ignoranza concerne “qualcosa” che viene venerato e che quindi ha a che vedere con “il divino”11. E’ un punto di contatto sottile che assolve un duplice compito apologetico e propedeutico. Esso tende a liberare l’oratore dal sospetto di annunciare “divinita nuove e straniere” (cf. v. 18) e al contempo mantiene aperta la comunicazione tra annunciatore e uditori, tentando di predisporre questi ultimi alla proclamazione dell’unico Dio. Ma è altrettanto chiaro che questo punto di contatto richiede di essere liberato dalla genericità e dall’ambiguità che in esso è presente e quindi c’è da attendersi che circa i due motivi dell’ignoranza e del divino, oggetto di venerazione, l’oratore apporti chiarificazioni e confutazioni12. Lo sviluppo dell’argomentazione kerigmatica parte dal rapporto del dio creatore con il mondo (vv. 24-25) per giungere al rapporto tra Dio creatore e l’uomo, che ha come finalità l’abitare la terra, ma soprattutto “cercare Dio” (vv. 26-27), una ricerca il cui esito è possibile ma non è assicurato. La possibilità di conoscere Dio è radicata nella sua vicinanza. Il fatto che Dio non è lontano da ciascuno di noi è spiegato dalla duplice affermazione: “in lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (v.28a) e “di lui siamo stirpe” (v. 28c). Queste espressioni sono un chiaro accomodamento all’uditorio ellenistico che però vanno rilette dentro l’orizzonte creazionale dell’oratore cristiano. Soprattutto il “di lui siamo stirpe” – citazione del poeta Arato –, mentre riflette l’idea dell’uomo creato ad immagine di Dio, valorizza positivamente il pensiero stoico della parentela dell’uomo con Dio (liberandolo dall’orizzonte panteistico). Inoltre, presentando l’espressione di Arato con una formula di citazione – come hanno detto i vostri poeti - Luca sembra dare ad essa quasi il valore di Vedi J. DUPONT, “Il discorso dell’Areopago (At 17,22-31). Luogo di incontro tra cristianesimo ed ellenismo”, in: ID., Nuovi studi, 396-397. 12 Vedi per queste osservazioni D. ZWECK, “The Exordium of the Apeopagus Speech, Acts 17.22,23”, 102. 11 12 una prova scritturistica13. e appellarsi ad essa quasi come ad una “bibbia pagana”14. che entra in consonanza con la Scrittura normativa. Egli rende così possibile l’integrazione tra la verità filosofico-religiosa, la parola dei poeti e la verità della rivelazione15. Mentre sviluppa questa argomentazione, Paolo conduce una critica serrata alla religiosità pagana e alle sue manifestazioni cultuali idolatriche, una critica già nota al pensiero giudeoellenista, ma che era condivisa in gran parte anche dall’élite filosofica. La perorazione finale qualifica la tappa pre-cristiana ed extrabiblica dell’umanità, quella della ricerca di Dio a tentoni, come “tempi dell’ignoranza”., a cui contrappone una necessità della conversione “per tutti gli uomini e in ogni luogo” che viene a marcare una svolta decisiva nella storia della salvezza. L’urgenza della richiesta universale di conversione viene rafforzata con il rimando all’escatologico giudizio di Dio su tutta l’umanità (v. 31a), un motivo noto al mondo greco. L’orizzonte universalistico, che aveva segnato tutto il discorso a partire dall’ottica creazionale, viene ora ribadito in questa svolta storico-salvifica e nella prospettiva del giudizio finale. Nuova e significativa, innanzi tutto è l’affermazione che il giudizio divino avverrà “per mezzo di un uomo che Dio ha designato” (v. 31b). Sorprende che non ci sia qui un riferimento esplicito a Gesù.. Qualche autore spiega questa allusione sottile, senza una menzione chiara di Gesù, con l’utilizzo voluto, da parte di Luca, dello strumento retorico della “insinuazione”, che deve suscitare nell’uditore la curiosità e il desiderio di un approfondimento. L’accenno alla resurrezione, come prova che quest’uomo è stato costituito nella sua funzione giudiziale riporta il discorso là dove l’annuncio era iniziato (Gesù e la resurrezione) ed era stato frainteso. Ora nell’orizzonte del Dio unico Creatore e giudice finale Gesù e la resurrezione non possono più essere fraintesi come divinità straniere! La reazione è in parte negativa e in parte sorprendente. Quel ti ascolteremo “un’altra volta” potrebbe essere più che una derisione l’effetto voluto dalla “insinuatio”, dettata dalla convinzione che occorra mantenere aperto un confronto prolungato perché possa attuarsi un processo di reale cambiamento di mentalità. A Corinto, al di là della rottura con la sinagoga e l’ingresso in casa di Tizio Giusto (18,7) come anche della visione notturna, il fatto più rilevante è l’incontro con Gallione (18,12-17). Il suo pronunciamento sulle accuse mosse a Paolo- e quindi al cristianesimo (costui istiga la gente a venerare Dio in modo contrario alla legge) – è significativo. Egli ritiene l’accusa mossa a Paolo una questione interna al giudaismo, senza nessuna rilevanza penale per l’ordinamento giudiziario romano. In tal modo, il cristianesimo, rappresentato da Paolo, è scagionato da ogni sospetto di 13 Cf. J. ROLOFF, Atti, 351. Così R. PENNA, “Paolo nell’agorà e all’Areopago di Atene (Atti 17,16-34)”,666. 15 Così R. PESCH, Atti, 682. 14 13 illegalità. Gallione poi conclude con un’espressione che nella struttura sembra avere particolare enfasi: “Io non voglio essere giudice di queste cose” (v. 15c). Con essa il proconsole romano dichiara che egli non è competente a fungere da giudice nelle dispute teologiche interne al giudaismo e perciò non intende esercitare tale ruolo. A nostro avviso, questa sentenza di Gallione esprime il punto di vista di Luca: l’autorità romana riconosce la propria incompetenza a giudicare il cristianesimo, considerato questione interna al giudaismo, e non vuole intromettersi con valutazioni su di esso. Questo relativo disinteresse verso il cristianesimo, che si riflette in un atteggiamento neutrale, mostrerebbe che il potere romano non ha nulla contro di esso i. Questo episodio, unito ad altri soprattutto nella fase processuale di Paolo, evidenzia la sostanziale fiducia che Luca mostra nell’apparato giuridico romano, nell’aequitas romana, nonostante qualche ombra che i magistrati presentano. L’impero romano, con la sua struttura giuridica, sembra garantire ai cristiani una certa protezione contro l’odio che si può scatenare nei loro confronti. Da questo significativo precedente, i cristiani delle chiese lucane troveranno motivo di alimentare la fiducia che dalle strutture dell’impero, in cui sono chiamati a vivere e ad espandere la buona novella, non saranno, nonostante le debolezze di chi le guida, inquisiti e perseguiti, ma potranno trovare una certa protezione. La sommessa ad Efeso (19,23-40). E’ quasi superfluo richiamare il fatto che in questo racconto Luca rivela una conoscenza approfondita dell’ambiente efesino. E’ preciso nell’indicare le cariche politiche e amministrative (Asiarchi, cancelliere, proconsole) e le istituzioni democratiche e giuridiche (assemblea, popolo, sessioni giudiziarie). Sa della presenza di “corporazioni” che possono diventare motivo di turbativa dell’ordine pubblico. Mette in risalto, con aderenza alla realtà, il legame di Efeso con la “grande” dea Artemide e il suo tempio rinomato e delinea bene l’intreccio tra economia, culto e vita cittadina. Ma al di là del “colorito locale”, che segna chiaramente tutta la scena, che cosa poteva cogliere il lettore contemporaneo di Luca da questa narrazione del tumulto efesino? E’ importante, a nostro avviso, tenere presente come, fin dall’introduzione (cf. v. 23), Luca segnali che il grande “tumulto” di Efeso non concerna i singoli missionari, e neppure Paolo che resta solo sullo sfondo, ma “la via”, cioè il cristianesimo come realtà comunitaria e sociale. E’ dunque a riguardo del cristianesimo, come tale, che il racconto della sommossa intende comunicare qualcosa. E’ stato messo in evidenza, da qualche studioso, che nella apologetica di scrittori giudeoellenisti, in particolare di Giuseppe Flavio, dominava un’argomentazione nei casi di sommossa che vedeva coinvolti i giudei nelle diverse città del Mediterraneo. Se erano stati i Giudei a provocare la violenza, essi subivano da parte dell’autorità una severa punizione (vedi Giuseppe Flavio Guerra 14 giudaica 2.18.7-8 §§ 487-498). Se, al contrario, erano stati i Giudei le vittime di tumulti e violenze scatenate dai pagani, allora essi vedevano confermati i diritti che erano stai loro concessi (vedi Giuseppe Flavio Antichità giudaiche 14.10.21 §§ 244-246; 16.2.5§§58-60; 19.5.2 §§ 284-285; Guerra giudaica 7.5.2 §§ 107-111). Da tale argomentazione si evince un principio: i diritti delle vittime di sommosse devono essere confermati. E’ possibile che Luca si sia ispirato a questo modello nel narrare la sommossa di Efeso, tanto più che i cristiani, come abbiamo notato nel corso della spiegazione, non sempre venivano adeguatamente distinti dai Giudei. Mettendo in evidenza il tumulto come opera di una corporazione che ha messo in subbuglio la città contro i cristiani, Luca avanza indirettamente la richiesta che al cristianesimo siano riaffermati i diritti di un proprio modo di vivere e di organizzarsi, come era concesso ai Giudei. La scena della sommossa potrebbe essere stata dunque per Luca e per i suoi lettori una tecnica di legittimazione del movimento cristianoii. Oltre a questo possibile messaggio globale, però, altre prospettive emergono chiaramente dal racconto. Certamente c’è la denuncia – come già era stato evidenziato a Filippi con la schiava divinatrice (cf. At 16,16-21) – dell’intreccio che nella religiosità pagana si stabiliva tra culto, affari e vita cittadina: intreccio che, nella prospettiva lucana, è messo in crisi dalla predicazione cristiana. Emergono inoltre motivi caratteristici dell’ apologetica lucana. Al cristianesimo non sono imputabili azioni criminose o sovvertimenti dell’ordine pubblico e a riconoscere questo sono le stesse autorità delle istituzioni locali o dell’impero romano. Al contrario il cristianesimo gode di simpatie tra personaggi di alto rango, come è il caso degli Asiarchi, e trova protezione nella legislazione là dove essa è correttamente applicata da magistrati imparziali. C’è, infine, da non trascurare l’eco del grandioso effetto che Luca attribuisce alla predicazione cristiana, e in particolare alla missione di Paolo da poco giunta al suo termine, e che affiora indirettamente nelle parole di Demetrio. Il successo della missione ad Efeso e in tutta l’Asia Minore, sia tra i giudei che tra i greci, riafferma in questa tappa conclusiva l’universalismo cristiano e proietta una luce di speranza sul prosieguo della missione cristiana. Da ultimo sarebbe da ricordare la sintesi della figura di Paolo come mediatore della salvezza universale nel viaggio per mare verso Roma (At 27). A parte la descrizione del viaggio e della tempesta, a dominare tutto il racconto è la promessa che Dio “farà grazia” a Paolo di tutti i suoi compagni (v. 24) . E’ questa promessa che dominerà e regolerà tutta la dinamica del racconto: le esortazioni e i gesti di Paolo (vv. 31.34-35), la collaborazione dei passeggeri rianimati (v. 36), i tentativi frustrati dei marinai (v. 30) e dei soldati (v. 42), la decisione positiva del centurione (v. 43) e il felice esito finale per cui “tutti si salvano” (v. 44). Il salvataggio di tutti quanti erano ormai disperati (v. 20), quale frutto dell’iniziativa gratuita di Dio, è la prospettiva che pervade tutta la narrazione. A nostro avviso, dato il significativo uso lucano del vocabolario della salvezza e 15 l’accento posto sulla totalità, non è difficile intravedere in questo motivo dominante una valenza simbolica. Luca, a cui sta a cuore il tema della salvezza universale, suggerisce al lettore, attraverso questo episodio drammatico e minaccioso di una tempesta e di un naufragio, che Dio realmente intende offrire a tutti la sua salvezza e che vuole realizzarla in quella forma comunitaria che trova visibilità storica nella chiesa. E’ significativo anche che questa “salvezza di tutti” sia un dono che Dio fa a Paolo, il testimone e lo strumento per eccellenza di questo disegno salvifico universale. Dentro questo quadro dell’offerta universale di salvezza, acquista rilievo il gesto di Paolo che allude all’esperienza eucaristica e che ha valore in qualche modo sacramentale. Se l’apostolo aveva esortato i suoi compagni disperati ad “essere di buon animo” (vv. 22.25) sul fondamento della “parola” promissoria rivelatagli dall’angelo (v. 24), è solo attraverso il gesto dello spezzare il pane che egli ottiene efficacemente quella condizione di apertura alla fiducia e alla speranza (v. 36) che permette ai suoi compagni di collaborare, prendendo quel cibo che era necessario per la loro salvezza (v. 34). A nostro avviso, è abbastanza chiaro che Luca intende suggerire al lettore che la salvezza che Dio offre a tutti è gia anticipatamente e simbolicamente realizzata nel banchetto eucaristico e che questo gesto genera quella fede che rende possibile cominciare a fare esperienza di questa salvezza. L’insieme degli episodi che abbiamo brevemente richiamato aiutano i lettori di Luca e le comunità a cui egli si rivolge a guardare positivamente all’inserimento del cristianesimo nel mondo greco-romano che costituirà il loro futuro, cercando di scoprire le possibilità che esso offre con le sue strutture viarie (le grandi arterie che permettono l’espansione missionaria, con il suo ordinamento giuridico, con la sua tensione universalista e con il suo senso della pax romana. certo non sarà più l’imperatore a creare questa pace e non sarà più l’impero a riunire i popoli, ma –Luca lo lascia capire sottilmente e polemicamente – sarà il Signore Gesù Cristo il portatore della pace e sarà l’annuncio di lui ad offrire a tutti i popoli la salvezza e l’unità. 16 2. NAUFRAGIO E SALVEZZA (vv. 21-44) A. Predizione di Paolo (vv. 21-26) 21 Poiché c’era stata una prolungata astinenza dal cibo, Paolo, stando ritto in mezzo a loro, disse: “Bisognava, o uomini, dando retta a me, non salpare da Creta ed evitare questo rischio e questo danno. 22 Ma ora vi esorto ad essere di buon animo, non ci sarà, infatti, nessuna perdita di vite tra voi, ma solo della nave. 23 Mi è apparso, infatti, questa notte un angelo del Dio, a cui io appartengo e al quale servo, 24 dicendomi: ‘ Non temere, Paolo, bisogna che tu compaia davanti a Cesare ed ecco Dio ti fa grazia di tutti quelli che navigano con te. 25 Per questo siate di buon animo, o uomini. Ho, infatti, fiducia in Dio che sarà così come mi è stato detto. 26 Bisogna però che andiamo a finire in qualche isola B. Compimento pieno della predizione (vv. 27-44) a. Paolo impedisce la fuga dei marinai (vv. 27-32) 17 27 Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico verso la mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinasse. 28 Gettando lo scandaglio, trovarono venti braccia; dopo un breve intervallo, gettato di nuovo lo scandaglio, trovarono quindici braccia. 29 Temendo che finissimo contro gli scogli, dopo aver gettato da poppa quattro ancore, aspettavano con ansia che si facesse giorno. 30 Ma poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e calavano la scialuppa in mare con il pretesto di gettare le ancore da prua, 31 Paolo disse al centurione e ai soldati: “Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potete salvarvi”. 32 Allora i soldati recisero le funi della scialuppa e la lasciarono cadere. b. Paolo esorta a mangiare (vv. 33-38) 33 Fino a che non stava per farsi giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo, dicendo: “Oggi è il quattordicesimo giorno che rimanete digiuni in attesa, senza prendere nulla. 34 Per questo vi esorto a prendere cibo; questo, infatti, è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello, infatti, del vostro capo andrà perduto. 35 Detto questo, dopo aver preso il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti e, dopo averlo spezzato, cominciò a mangiare. 36 Allora, rimessisi tutti di buon animo, anch’essi presero cibo. 37 Eravamo 38 Dopo in tutti sulla nave duecentosettantasei persone. essersi saziati del cibo, alleggerivano la nave, gettando il frumento nel mare. c. Impedita l’uccisione dei prigionieri, tutti si salvano (vv. 39-44) 39 Quando venne giorno, non riconoscevano quella terra, ma notavano un’insenatura che aveva una spiaggia, 18 verso la quale, decidevano, se era possibile, di spingere la nave. 40 Tolte le ancore, le lasciarono andare in mare; al contempo, allentate le funi dei timoni e levata la vela maestra al vento, muovevano verso la spiaggia. 41 Incappati però in una secca, spinsero la nave sulla sabbia; mentre la prua arenata rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde. 42 I soldati presero allora la decisione di uccidere i prigionieri, affinché qualcuno non fuggisse a nuoto. 43 Ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro (di attuare) la decisione ; ordinò che quelli che sapevano nuotare, gettandosi per primi, raggiungessero la terra; 44 poi gli altri, chi su tavole, chi su alcuni rottami della nave. E così avvenne che tutti si salvarono sulla terraferma. i Vedi ZMIJEWSKI, 661 ii 19