LA MISSIONE DI PAOLO
NEGLI ATTI
Si verifica in questi ultimi anni un certo consenso attorno alla modalità di recezione della
memoria di Paolo nelle comunità cristiane. Essa si sarebbe organizzata attorno a tre poli differenti,
ciascuno dei quali valorizza, in funzione della situazione pastorale delle comunità destinatarie, gli
elementi della tradizione che ritiene più appropriati per trasmettere un’immagine viva
dell’Apostolo. Si potrebbe così pensare ad un “polo canonico”, che raccoglie le lettere di Paolo e le
riunisce sotto la forma di una collezione, ad un “polo biografico” che celebra in Paolo il missionario
delle genti, mentre un “polo dottorale”, evidenziando Paolo come “dottore della chiesa”, avrebbe
dato vita alle lettere pseudoepigrafe (Efesini, Colossesi) e Pastorali. Questi tre tipi di recezione sono
paralleli e sincronici e si sviluppano tra gli anni 70 e 100: essi rappresentano tre modi di assorbire
l’assenza dell’Apostolo, sia fissando la memoria della sua vita (eredità biografica), sia preservando i
suoi scritti (eredità canonica), sia infine elevandolo a icona teologica, garante dell’interpretazione
ortodossa del cristianesimo (eredità dottorale)1.
Gli Atti, dunque, si situano sul “polo biografico” della recezione paolina. Ma tale libro non
si caratterizza come una “biografia”, ma si presenta piuttosto come un’opera storiografica degli inizi
del cristianesimo. In questo quadro storiografico, Paolo – a differenza delle Pastorali dove è citato
come un “inizio assoluto” e dove egli riceve lo statuto di un padre che si rivolge ai figli generati
nella fede – è preceduto dalla vicenda di Pietro e degli Apostoli, di Stefano e degli ellenisti. Egli è
dunque sì “l’eroe”, a cui è dedicato più di metà del libro, ma si inserisce dentro un progetto
storiografico che, negli studi recenti, è visto sempre più come finalizzato ad uno scopo “identitario”.
Alle comunità cristiane che vivono un periodo critico, per il distacco definitivo dal giudaismo, per
un futuro che ormai le vede proiettate nel nuovo ambiente dell’impero romano, per la fine del
tempo apostolico e la successione del collegio dei presbiteri nella guida pastorale, Luca intende
fornire un’identità che le rassicuri al loro interno e soprattutto che sia spendibile all’esterno nei
confronti del giudaismo da cui provengono e del mondo romano che sta diventando in prospettiva il
loro habitat futuro2. Sembra essere questa la “asfàleia” che egli si propone, fin dall’inizio della sua
opera (Lc 1,4) di assicurare ai suoi lettori.
La rilettura della figura e della persona di Paolo viene dunque a situarsi dentro questo ampio
progetto. Essa non va perciò vista isolatamente, ma deve essere compresa come il “vettore”
attraverso il quale l’identità del cristianesimo giunge al suo compimento. Nella rilettura lucana,
Paolo ha una parte fondamentale proprio nella costruzione di questa identità cristiana. E’
interessante il fatto che Luca non attui una memoria di Paolo attraverso una rilettura della sua opera
1
2
Vedi MARGUERAT, L’aube du christianisme, 479-480 ; FLICHY, La figure de Paul, 44.
Così REDALIÉ, 129.
1
epistolare, ma attraverso la sua attività di fondatore di comunità: la raccolta e la rilettura delle sue
lettere, infatti, fissa la memoria paolina all’interno della chiesa, mentre invece il racconto degli Atti
si focalizza sostanzialmente sulla sua azione missionaria all’esterno (con l’eccezione di At 20)3.
1. FUNZIONE IDENTITARIA INTRECCLESIALE:
Paolo ponte e garanzia tra traditio apostolica e tempo subapostolico
Accenno subito in forma molto sintetica alla funzione di continuità, che la figura di Paolo
assolve, tra la fondante tradizione apostolica e il tempo della chiesa subapostolica, per poi
soffermarmi più a lungo sul suo rapporto con il giudaismo e con il mondo romano.
E’ noto come – a differenza delle lettere dove Paolo riafferma e difende insistentemente la
sua qualità di “apostolo” – Luca non qualifichi Paolo come “apostolo” se non in passi particolari e
discussi4. Appare, invece, assodato che sia tipica della prospettiva lucana l’identificazione degli
Apostoli con il gruppo dei Dodici. Una tale identificazione appare già chiara nel momento in cui
questo gruppo viene scelto da Gesù: “..chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede
il nome di apostoli” (Lc 6,13). Sotto questo profilo dunque Luca sembra distinguere e distanziare
Paolo dagli Apostoli e dalla loro insostituibile funzione fondatrice.
L’autore degli Atti utilizza invece la qualifica di “testimone” per avvicinare Paolo ai Dodici
Apostoli e segnalare la continuità nella modalità e nel contenuto dell’annuncio. “Testimoni”, infatti,
sono designati in questo libro sia i Dodici (Stefano, per bocca di Paolo in At 22,20) che Paolo.
Come gli Apostoli sono stati costituiti testimoni dal Risorto (cf. Lc 24,48; At 1,8) e come tali sono
stati prescelti da Dio, nel suo disegno salvifico (cf. At 10,41), così il Risorto è apparso a Paolo per
designarlo “ministro e testimone” (At 26,16) e Dio lo ha predestinato, nel suo piano salvifico, a
vedere ed udire il Giusto per diventare testimone di Lui (cf. At 22,14s.). Il contenuto però della
testimonianza degli Apostoli e di Paolo presenta al contempo differenza e continuità. I Dodici, sulla
base di una ininterrotta testimonianza oculare di tutta l’esistenza terrena di Gesù, sono chiamati
collegialmente a testimoniare la resurrezione (cf. At 1,21s.), nel suo significato e valore storicosalvifico universale (cf. Lc 24,44-47), così da assicurare la continuità tra la tradizione prepasquale e
postpasquale di Gesù. Paolo invece è destinato ad essere testimone delle “cose che ha visto e udito”
3
MARGUERAT, 481-482.
Le eccezioni costituite da At 14,4.14, dove vengono chiamati “apostoli” i missionari antiocheni Paolo e Barnaba, non
modificano sostanzialmente la concezione lucana dell’apostolato dei Dodici, ma piuttosto documentano una più ampia
concezione di “apostolo” che include anche i “mandati” da una comunità: così R. PESCH, Atti, 109, che insinua
l’utilizzo di fonti in questi due testi. Vedi anche J. DUPONT, “L’apostolo intermediario”, 106-107, il quale ritiene che
Luca si senta libero di allargare il concetto di “apostolo” quando non c’è più possibilità di ambiguità con i Dodici.
Diversamente G. SCHNEIDER, Atti, I, 314-315, valuta come secondaria, dal punto di vista della critica testuale, la
menzione di apostoli in At 14,14 e offre una interpretazione singolare dell’espressione “essere con gli apostoli in At
14,4: “In questo caso i credenti di Iconio, prestando ascolto a Paolo e Barnaba, si pongono dalla parte degli apostoli, dei
Dodici” (315).
4
2
(cf. At 22,14s.) nell’epifania di Damasco ed ancora “di quello che ha visto” in questo incontro e
“delle cose per cui il Risorto gli apparirà” (cf. At 26,26). Nonostante l’oscurità di quest’ultima
espressione, sembra abbastanza evidente che la funzione testimoniale di Paolo debba portarsi su
Gesù esaltato, che egli ha visto, e in modo peculiare sulla missione salvifica universale che il
Risorto guida e conduce (cf. At 18,9s.; 22,17-21; 23,11). Di fatto quando Paolo è presentato nella
sua funzione testimoniale, il contenuto di questa concerne la messianicità di Gesù (At 18,15); il
Signore Risorto (cf. At 22,18; 23,11); il “vangelo della grazia di Dio” (At 20,24), cioè il dono
salvifico di Dio attuatosi attraverso al persona di Gesù; il “regno di Dio”, realizzato nella persona di
Gesù risorto (cf. At 28,23).
Va sottolineato ancora, per quanto riguarda la destinazione della testimonianza, che il
mandato del Risorto, nella progressione geografica delineata programmaticamente in At 1,8 è solo
parzialmente attuato dai Dodici Apostoli. Costoro limitano di fatto la loro testimonianza a
Gerusalemme, alla Samaria e alla Giudea e, con Pietro, la destinano, solo in via di principio ai
pagani (cf. At 10,1-48). Sembra invece che che nell’ottica lucana spetti a Paolo il compito di far
progredire verso la realizzazione il programma del Risorto (cf. la successione delle tappe in At
26,20 assimilata a 1,8) e di far pervenire la testimonianza di Cristo a tutti (cf.At 22,15: “testimone
presso tutti gli uomini”) e in particolare ai pagani (cf. At 22,21: “va, perché io ti manderò lontano,
tra i pagani).
Sulla base di queste sintetiche osservazioni, possiamo concludere che se Luca, da una parte,
intende mostrare un ruolo unico e insostituibile dei Dodici, in quanto “garantiscono, con la loro
testimonianza del Terreno e del Risorto, la continuità fondamentale tra Gesù e la chiesa che si sta
costituendo”, dall’altra, desidera presentare Paolo – quale tredicesimo testimone – come colui che
“getta il ponte tra la costituzione della chiesa (già avvenuta per Luca) e la situazione attuale
dell’evangelizzazione dei pagani nel tempo subapostolico, che è quello lucano: egli di fatto porta
avanti, con la sua testimonianza del Risorto, la tradizione apostolica5, e la garantisce quale
fondamento nell’ulteriore cammino di un annuncio, senza falsificazioni, che le comunità e le loro
guide sono chiamate a condurre”6.
Questa funzione di ponte e di garanzia emerge nell’unico discorso intraecclesiale che si
ritrova negli Atti: quello fatto da Paolo a Mileto e destinato ai presbiteri efesini (cf. At 20,17-35),
che ha carattere testamentario ed evidenzia la successione dei presbiteri nella guida pastorale delle
comunità dopo la scomparsa dell’Apostolo. In esso Paolo non solo si propone, con il suo ministero,
5
Per provare come Luca presenti la sua testimonianza di Paolo in una sostanziale continuità con i testimoni originari
basterebbe segnalare le coincidenze tra il mandato apostolico di Lc 24,46-48 e la testimonianza che Paolo afferma di
aver sempre reso secondo At 26,22s. Cf. al riguardo J. DUPONT, “La missione di Paolo secondo Atti 26,16-23 e la
missione degli apostoli secondo Luca 24,44-49 e Atti 1,8”, in: Nuovi studi, 401-408.
6
Così J. ZMIJEWSKI, Atti, 119.
3
come modello della cura (vv. 18-21) e della dedizione (vv. 22-24) pastorale, ma dichiara anche
solennemente che “non si è sottratto dall’annunciare a loro tutta la volontà di Dio” (v. 27). Tale
attestazione precede immediatamente i due (unici) imperativi “fate attenzione a voi e a tutto il
gregge” (v. 28) e “vigilate” (v. 31), lanciati nella prospettiva dei pericoli futuri che le comunità
incontreranno, quando la comparsa di falsi profeti metterà in discussione l’autenticità
dell’esperienza cristiana e la comunione ecclesiale. In tale contesto l’affermazione dell’Apostolo di
aver annunciato “la totalità” del disegno salvifico e delle sue esigenze (=la volontà di Dio) ai
presbiteri lascia trasparire la sua coscienza di aver consegnato ad essi l’integralità della tradizione
apostolica di cui essi soltanto saranno garanti e al contempo contiene una vena polemica nei
confronti dei falsi maestri che nel loro insegnamento si rifanno a rivelazioni esoteriche e private, al
di fuori della traditio apostolica assicurata dalla predicazione paolina.
La conclusione che si può trarre da queste brevi considerazioni è che la missione di Paolo, in
quanto testimone, funziona da fattore identitario intraecclesiale. Egli in quanto si pone in continuità
con la tradizione originaria, offerta dalla testimonianza apostolica, diventa per le comunità, fondate
dalla sua azione missionaria o che a lui si rifanno, la garanzia e la “certezza” della loro autenticità
apostolica a fronte dei pericoli che si stanno profilando nel tempo subapostolico.
2. FUNZIONE IDENTITARIA ALL’ESTERNO
Uno dei più noti studiosi degli Atti ha sintetizzato la finalità del progetto storiografico
lucano nell’espressione “un cristianesimo tra Gerusalemme a Roma”, assumendo i due poli
geografici di inizio e fine della narrazione come emblema di una integrazione che dovrebbe venire a
costituire l’identità cristiana. Gerusalemme è il simbolo del giudaismo in cui il cristianesimo ha
avuto le sue radici, di cui porta in sé l’eredità migliore, ma da cui è costretto a distanziarsi in forza
di un universalismo della salvezza che si scontra con il particolarismo nazionalistico giudaico.
Roma è il simbolo dell’impero romano che con la sua prospettiva universalistica e con l’ideologia
di una fusione di tutti i popoli (con la pax romana) favorisce l’orizzonte universalistico
dell’annuncio cristiano. Erede della lunga storia di salvezza d’Israele e portatore di un
universalismo che può trovare nell’impero romano una nuova possibilità: questo è il tentativo di
integrazione perseguito da Luca che in tal modo può fornire alle sue comunità una nuova identità
spendibile di fronte ai giudei e di fronte al mondo romano.
Paolo con la sua azione evangelizzatrice, oltre che con la sua vicenda personale di giudeo
divenuto, dopo l’incontro con il Risorto, missionario universale, è colui che al meglio rappresenta e
realizza in concreto questo progetto. Conviene allora prendere in considerazione questo duplice
4
versante dell’azione missionaria di Paolo: la sua azione evangelizzatrice nei confronti del mondo
giudaico e la sua attività missionaria nel mondo greco-romano.
2.1. Continuità con la speranza d’Israele e rottura con il giudaismo
Tentiamo di vedere questo aspetto dell’azione missionaria di Paolo attraverso dei sondaggi
sulle scene più rappresentative.
2.1.1 Nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,16-49)
L’omelia di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, durante il primo viaggio
missionario (cf. At 13,16-41), ha certamente una funzione programmatica ed è rappresentativa della
sua predicazione ai giudei. In essa Paolo opera una rilettura della storia della salvezza (vv. 17-25).
Egli pone come soggetto di questa storia “il Dio di questo popolo Israele”, lasciando intendere così
che la storia che sta per rileggere riguarda il suo uditorio fatto di giudei e di timorati di Dio. Egli
presenta poi l’iniziativa divina in una serie di eventi che vanno dall’alleanza con Abramo e la sua
discendenza (ha eletto i nostri padri), all’innalzamento del popolo in Egitto (upsoo: simbologia
cristologica) e all’esodo, alla cura permanente nel deserto e alla concessione della terra in eredità,
con la distruzione di sette popoli (anticipazione della salvezza mediante morte-resurrezione). La
fase successiva (dopo questo) è contrassegnata dal dono dei giudici fino a Samuele “profeta” e dal
dono di Saul, primo re, come offerta di salvezza in risposta al bisogno del popolo, per giungere al
suscitamento (egeiro) di Davide, figura del Messia, su cui c’è una sosta per delineare (in discorso
diretto) la sua fedeltà e soprattutto per operare un passaggio a Gesù, quale compimento della
promessa fatta a Davide (da Natan) di un discendente. L’espressione conclusiva sembra essere una
sintesi di quella storia che ha in Gesù il suo culmine e che a partire da lui è riletta: Dio (di questo
popolo d’Israele) dalla sua discendenza secondo la promessa (fatta da Natan) ha condotto fuori
(come aveva cominciato con l’esodo) il Salvatore (la cui prefigurazione era nei giudici) Gesù, la cui
venuta era stata preparata dalla predicazione di un battesimo di conversione fatta da Giovanni e dal
suo annuncio del più grande (riportato in discorso diretto).
La strategia retorica del discorso, fino a questo punto, è chiara: la storia della salvezza
condotta da Dio prefigurava la sua azione decisiva nella venuta del Salvatore Gesù; il suo culmine è
nella tipologia che si stabilisce tra Davide-Gesù tesa a proclamare la messianicità di quest’ultimo.
Per questo ora Paolo può proclamare che tutta la storia narrata, che è la storia della promessa di
salvezza fatta da Dio ai padri, è arrivata a realizzazione per i suoi uditori giudei nella persona di
Gesù: “a noi è stata inviata questa parola di salvezza” (v. 26) e può dimostrarlo loro ripercorrendo
l’evento di Gesù fino al compimento della promessa visto nella resurrezione di Gesù (vv. 27-31 e
32-37).
5
A partire dalla resurrezione si apre però una prospettiva nuova e sorprendente per i suoi
uditori giudei (vv. 38-41). Questo evento apre per loro l’offerta della salvezza escatologica che
consiste nella “remissione dei peccati”. Ma questa salvezza è ora offerta a tutti (chiunque crede) ed
ha dunque una dimensione universale. Essa ha come unica condizione la fede, mentre la legge
mosaica ha fallito nel conseguimento di questa salvezza. Siamo qui messi davanti, seppur con
attenuazione, ad una tipica teologia paolina della salvezza universale per la sola fede, ma essa è da
Paolo inquadrata nella presentazione della continuità dell’azione salvifica di Dio a favore d’Israele.
L’universalismo della salvezza radicato nella resurrezione di Gesù, che il cristianesimo
annuncia, è dunque in continuità e costituisce il compimento della particolare storia di salvezza fatta
da Dio con Israele. Il cristianesimo è perciò l’erede autentico d’Israele. Per questo Paolo invita i
giudei, nella perorazione finale; ad accogliere la salvezza universale, realizzata per mezzo di Gesù,
come prioritariamente destinata a loro (v. 38), ma anche li mette in guardia (citandi Ab 1,5) perché
accolgano “l’opera” sorprendente attuata da Dio, resuscitando Gesù per la salvezza di tutti,
altrimenti essi sono destinati a “sparire” dalla storia della salvezza.
La reazione alla predicazione di Paolo è dapprima segnalata in un successo (v. 43), ma il
sabato successivo la presenza di quasi tutta la città (v. 44), quindi anche di un uditorio
rappresentativo del mondo pagano, suscita l’opposizione violenta dei giudei (v. 45). A fronte di essa
Paolo riafferma la priorità dei giudei, come destinatari della salvezza ad essi promessa, ma
riafferma anche che tale priorità non deve giocare come fattore di esclusione nei confronti dei
pagani (v. 46). Anzi l’offerta di salvezza ai pagani non è altro che obbedienza alla profezia di Is
49,6: “ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra”
(v. 47). Diventa chiaro in questa finale come la rottura con il giudaismo sta nel fatto che una parte
dei giudei non ha accettato ciò che costituisce il compimento delle loro profezie, quell’opera
sorprendente e definitiva di Dio con cui egli, risuscitando Gesù Cristo, ha aperto a tutti la salvezza.
Il successo che Paolo ottiene ad Antiochia di Pisidia tra i pagani (v. 48s.:” nell’udire ciò i
pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che
erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione”) anticipa già
l’accoglienza positiva che il vangelo è destinato ad avere nell’ambiente pagano del mondo grecoromano.
2.1.2. Le apologie di Paolo (At 22 e 26)
Ciò che Paolo ha reso evidente nella predicazione programmatica di Antiochia di Pisidia,
diventa emblematico nella stessa vicenda personale di Paolo, che egli presenta nelle sue apologie,
sia di fronte ad un uditorio giudaico (At 22) che di fronte ad Agrippa, conoscitore dei costumi e
delle questioni giudaiche.
6
In At 22 è lo zelo per Dio, a cui Paolo era stato formato dentro il giudaismo, la costante
nella sua prodigiosa trasformazione da persecutore a missionario tra i pagani. E’ il Dio dei padri
infatti, a cui egli è rimasto fedele che lo ha predestinato inaspettatamente all’incontro con il Risorto
perché ne diventasse il testimone universale, ed è il Signore che lo ha quasi forzato alla missione tra
i pagani, dopo aver predetto il rifiuto dei giudei a Gerusalemme. Questa dimostrazione della
fondamentale continuità, nell’esperienza di Paolo, con l’autentica giudaicità costituisce dunque il
filo conduttore di questa narrazione autobiografica.
In At 26 Paolo, chiamato a discolparsi di tutte le accuse rivoltegli dai giudei, dichiara che di
fatto egli è sotto processo a motivo della “speranza” d’Israele che egli lascia intravedere nella
speranza farisaica che “Dio resuscita i morti” ed evidenzia che la sua testimonianza (fino ad oggi)
non è stata incentrata su altro che sul compimento delle profezie circa la passione, resurrezione del
Messia che ha come momento culminante “l’annuncio della luce al popolo e ai pagani”. Egli
dunque non fa che proclamare la continuità tra l’autentico giudaismo, erede della storia di salvezza
d’Israele, e l’annuncio cristiano. La sua vicenda personale ne costituisce la prova. Come giudeo
zelante infatti egli ha perseguitato Gesù, ma l’inatteso incontro con il Risorto lo ha costituito
missionario universale (con lo scopo di far passare dalle tenebre alla luce, come era avvenuto a lui),
ed egli con tutta la sua azione evangelizzatrice non ha fatto altro che rendersi obbediente a questo
mandato universale.
Le due apologie non fanno altro che mostrare, l’una sul piano soggettivo della fedeltà, l’altra
sul piano oggettivo del compimento della speranza/promessa d’Israele, la continuità del
cristianesimo, con la sua prospettiva messianica e universalistica, con la storia di salvezza d’Israele.
A questo Paolo apporta come prova la sua esperienza di giudeo zelante e persecutore, divenuto
missionario universale dopo l’epifania del Risorto. In tal modo mette in evidenza come la rottura
con il giudaismo è frutto di un mancato riconoscimento di una parte dei giudei della realizzazione
della loro storia salvifica nel Messia risorto e nella salvezza universale da lui offerta.
Tutte le tappe missionarie di Paolo, dove si attua un primo approccio alla sinagoga,
mostrano questa costante spaccatura dei giudei di fronte all’annuncio che le loro profezie hanno
trovato compimento nel Messia Gesù e nell’offerta universale di salvezza che mediante lui si è
aperta. L’ultima verifica di questa frattura è a Roma (cf. At 28,17-31) nel duplice incontro con i
notabili giudei che si chiude sul richiamo di Is 6,9-10 che denuncia il costante indurimento d’Israele
e l’accoglienza della salvezza da parte dei pagani, mentre si apre l’orizzonte di una predicazione
continuata (due anni) a tutti, senza più impedimenti e senza distinzioni.
7
2.2. L’universalismo cristiano trova casa nel mondo romano
L’altra faccia dell’identità cristiana, di cui Paolo con la sua missione è l’emblema, concerne
l’inserimento di un cristianesimo, segnato dall’universalismo, nel mondo romano.
Luca ha voluto chiaramente mettere in evidenza che la prima e paradigmatica accoglienza di
un pagano nella chiesa è stata opera di Pietro, il primo dei Dodici al culmine della sua carriera
missionaria, nel faticoso incontro con Cornelio (At 10,1-11,18). Altrettanto egli mostra come gli
ellenisti ad Antiochia per la prima volta annunciano il vangelo ai greci, ottenendo un grande numero
di conversioni e dando vita ad una vivace comunità mista (At 11,20s.). Ma è alla fine Paolo con i
suoi viaggi missionari che espande il vangelo tra i pagani e lo innesta nel nuovo mondo grecoromano.
2.2.1. La guida dello Spirito verso il nuovo spazio della missione
E’ interessante notare innanzi tutto come Luca tenda a sottolineare che è lo Spirito a guidare
questa espansione missionaria. Nella breve scena della liturgia ad Antiochia (At 13,1-3), è lo
Spirito a suggerire: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (v. 2).
E’ quest’opera si rivelerà, già nella citazione di Ab 1,5 (13,41) e poi più esplicitamente a
conclusione del viaggio nel reportage alla comunità inviante, l’apertura ai pagani della porta della
fede (cf. 14,26-27). Altrettanto sarà un ripetuto intervento dello Spirito (cf. At 16,6-10), che
impedisce i progetti di Paolo (e Sila), a portarlo a Troade dove la visione notturna del Macedone
sarà dall’équipe missionaria interpretata come una chiamata divina ad annunciare il vangelo in
Macedonia. Non è dunque frutto della progettazione umana l’espansione del vangelo. E’ piuttosto la
guida divina, attraverso l’azione propulsiva dello Spirito, che, mediante l’attività missionaria di
Paolo, spinge il vangelo verso i pagani e nel mondo greco-romano. Attraverso poi le varie tappe di
incontro con il mondo pagano Luca sembra voler illustrare le possibilità, ma anche realisticamente
gli ostacoli, che il cristianesimo potrà incontrare nel nuovo mondo in cui è chiamato ad innervarsi.
2.2.2. Il confronto con il mondo pagano nel primo viaggio
Nel primo viaggio missionario due episodi – che richiamiamo solo sommariamente –
risultano significativi per questo confronto con il nuovo mondo. Il primo episodio è l’incontro a
Pafo con il procuratore romano Sergio Paolo (cf. At 13,6-12). Qui Paolo incontra un primo ostacolo
all’evangelizzazione del mondo romano rappresentato dal mago Bar-Jesus. Questo mago che nel
suo nome ha un qualche richiamo cristiano (figlio di Jesus) potrebbe rappresentare una religiosità
magica di stampo sincretista che poteva servirsi di elementi cristiani (come è il caso successivo
degli esorcisti giudei che usano il nome di Gesù predicato da Paolo in At 19,13-17) e che di fatto
costituisce un ostacolo sulla via dell’evangelizzazione del procuratore romano. Paolo, in qualità di
profeta mosso dallo Spirito, esce vittorioso da questo confronto, riduce in temporanea cecità Bar8
Jesus, lasciandogli lo spazio per un ravvedimento. Con questa vittoria Paolo sconfigge
definitivamente anche il suo passato di Saulo cieco giudeo persecutore, che ha visto rispecchiato
nella cecità e nel brancolamento di Bar-Jesus, e diventa definitivamente Paolo “luce dei popoli
pagani”. Il cambiamento del nome, da Saulo a Paolo, che qui si opera nel racconto è l’indizio di
questo cambiamento e segnala una inculturazione dell’apostolo nel mondo romano che ormai si
apre alla sua azione missionaria. L’annotazione conclusiva sull’iniziale fede di Sergio Paolo mostra
in modo emblematico che il cristianesimo è capace di esercitare attrattiva anche tra gli strati sociali
più alti del mondo romano.
Il secondo episodio è il primo incontro con i pagani, nel momento culminante del primo
viaggio missionario, proprio in Licaonia, a Listra (cf. At 14,8-20), una zona montagnosa e remota
all’interno dell’Asia Minore. Recentemente qualche studioso si è chiesto perché Luca abbia portato
i missionari in questo luogo remoto – la Licaonia – che la letteratura e la mitografia antiche
caratterizzavano come abitata da popolazioni rudi e violente, chiuse al mondo esterno, perché
continuano a parlare il loro dialetto, segnate da una religiosità ingenua e acritica. Luca sembra voler
coscientemente porre il cristianesimo a confronto con questo tipo di cultura e di religiosità. Egli
segnala la situazione rurale (i dintorni), una religiosità popolare rappresentata da un tempietto e da
un unico sacerdote di Zeus e da una festa religiosa, una popolazione che parla il dialetto licaonio e
che credulonamente ravvisa nei due missionari la visita di divinità in forma umana (Filemone e
Bauci). In questo contesto in cui i missionari potrebbero sfruttare la ingenuità religiosa a loro favore
e profitto, essi invece reagiscono con una serie di gesti che nell’antichità connotavano l’uomo
saggio e il filosofo che aborrisce il travisamento operato nei suoi confronti da gente credulona
(stracciarsi le vesti, scendere in pubblico, dichiarare la propria qualità umana, cacciare
violentemente quanti persistono nella creduloneria). Mentre però essi reagiscono contro una
religiosità ingenua e dichiarano la loro umanità, creano lo spazio per presentarsi come messaggeri
di un Dio trascendente che sempre si è preso cura in modo provvidente dei destinatari e per
interpellarli al distacco da questa religiosità idolatrica che li mantiene nell’ignoranza. La
conseguenza è che, anziché essere loro a cacciare i creduloni, sono costoro che, sobillati dai giudei,
li lapidano. Nel contempo, però di sfuggita, Luca lascia intendere che, accanto al paralitico guarito e
divenuto credente, anche qui si è formata una comunità di discepoli che ora aiuta Paolo “creduto
morto” a tornare in città e a ripartire.
Il cristianesimo è così entrato anche in queste zone remote e impenetrabili, senza però
approfittare della creduloneria della gente e senza che i missionari ne traggano vantaggio per se
stessi, ma accettando invece il rischio del confronto e le conseguenze violente.
9
2.2.3. L’ingresso nel mondo romano
Dopo l’Assemblea di Gerusalemme che sancisce ufficialmente l’accoglienza dei pagani,
senza le condizioni del giudaismo (circoncisione e legge), il vangelo, attraverso il secondo viaggio
missionario di Paolo entra nel mondo romano.
La tappa di Filippi (At 16,11-40) è per questo aspetto emblematica. Filippi è denominata
“colonia” romana (prima menzione), e quindi con una legislazione romana, ha funzionari romani
(strateghi), vede per la prima volta avanzare da parte di Paolo la sua condizione di “cittadino
romano”. A Filippi dunque il cristianesimo incontra la romanità (visto che l’arrivo a Roma si
svolgerà su tutt’altro registro). I vari episodi che la preparano (indicazione divina, viaggio) e che la
caratterizzano sembrano ordinato secondo uno schema, anticamente conosciuto, di passaggio di un
nuovo culto in una nuova città.
1. Impulso divino: la visione del Macedone e l’oracolo della schiava con lo spirito pitone.
2. Viaggio: il zig-zag in Asia Minore e il viaggio veloce da Troade a Filippi (in due giorni,
mentre il ritorno ne richiederà cinque.
3. L’opposizione e la vittoria divina su di essa: lo spirito pitone che viene cacciato, le accuse
dei padroni, mosse da interesse e il disinteresse di Paolo; la punizione e l’incarcerazione; le epifanie
divine (grande terremoto e grande voce) finalizzate alla vita e alla salvezza del carceriere e della
sua famiglia; il cambiamento delle autorità.
4. L’instaurazione del culto: che trova spazio nella casa di Lidia e del carceriere romano e
che soprattutto trova accoglienza nelle due comunità che qui si formano.
La tappa di Filippi evidenzia dunque il passaggio del cristianesimo nel mondo romano,
come legittimato da Dio che vince le resistenze e le opposizioni. In particolare le scuse dei
funzionari romani di fronte a Paolo cittadino romano, lasciano intendere che si può essere cittadini
romani e cristiani al contempo con la possibilità di trovare nel diritto romano protezione anche di
fronte ad eventuali abusi dei singoli magistrati.
La solenne tappa di Atene (At 17,16-34) è invece mostrata come luogo del confronto tra
cristianesimo e il mondo culturale greco-romano. La città rappresenta, dal punto di vista
etnografico, l’ambiente costiero, socialmente aperto alle differenze e al confronto, culturalmente
elevato e critico, politicamente democratico. A questa tipicità di Atene, vanno aggiunte alcune note
sul carattere singolare di questa città. Il suo splendore non era più quello dell’epoca classica di
Pericle e di Platone7. Nonostante ciò essa manteneva il suo fascino culturale e molti continuavano a
considerarla il centro spirituale del mondo greco, e specialmente come la capitale del pensiero
7
Cf. J. ROLOFF, Atti, 341.
10
greco8. Un certo turismo culturale, allora consistente, andava a cercare in essa le vestigia
dell’Accademia di Platone, del Liceo dove Aristotele formava i suoi studenti o del Portico dove si
radunavano gli Stoici9. Filone considerava che Atene era per la Grecia quello che la pupilla è per
l’occhio e l’intelligenza per l’anima10. Anche Luca deve aver guardato ad Atene con questo sguardo
di nostalgica meraviglia e ne ha fatto perciò il centro del confronto tra ellenismo e cristianesimo.
Ad Atene il metodo missionario cambia e si adegua all’ambiente. Qui l’azione
evangelizzatrice si svolge nella “agorà”, luogo laico e aperto, simbolo della democrazia e del libero
scambio delle idee. Qui, senza più la protezione di un ambiente religioso, Paolo accetta di
confrontarsi con un mondo pluralistico, con il quale è più faticoso trovare un punto d’interesse e di
incontro comune. All’abbondanza delle immagini idolatriche della città, viene ad aggiungersi la
pluralità delle voci dell’agorà, quasi a delineare plasticamente l’isolamento della parola
dell’annunciatore Per questo forse
Luca sottolinea che nell’agorà l’azione dell’apostolo si
intensifica: il dibattito è quotidiano e i destinatari sono i più diversi, perché sono quelli che
casualmente vi si incontrano.
Lo spazio aperto e pluralista dell’agorà fa da sfondo alla successiva focalizzazione sulla
presenza dei filosofi. Vengono menzionati Epicurei e Stoici, appartenenti, cioè, a due delle
maggiori scuole filosofiche del tempo, presenti anche ad Atene assieme ai Platonici e ai Peripatetici.
La difficoltà del dibattito e del confronto con questi filosofi si percepisce dalle loro reazioni di
disprezzo e di fraintendimento espresse in forma interrogativa o assertiva (v. 18).
Alcuni, domandandosi che cosa Paolo intendesse dire, lo qualificano spregiativamente
come “un ciarlatano”. Altri, invece, ritengono Paolo un annunciatore di “divinità straniere”.
L’apostolo annunciava “Gesù e la resurrezione (anastasis)” e i suoi ascoltatori intendevano “Gesù e
Anastasi” come una coppia di divinità, di cui essi non avevano mai sentito parlare e che perciò
ritenevano “divinità straniere”. Alla squalifica della persona di Paolo si associa dunque il
fraintendimento della sua predicazione. Ma proprio la percezione dell’estraneità del suo messaggio
suscita curiosità nei filosofi e determina la traduzione di Paolo all’Areopago (v. 19).
La struttura tematica del discorso, che si articola sui due elementi della conversione al Dio
vero e dell’annuncio del giudizio ad opera di colui che Dio ha risuscitato, potrebbe essere ricondotta
ad uno schema tradizionale di predicazione ai pagani (cf. 1Ts 1,9s.; Eb 6,1s.) di origine cristiana
giudeo-ellenistica A chi non ha una fede monoteista occorre prima annunciare il “Dio vivo e vero”
della fede ebraico cristiana. Questo Dio vivo e vero non è frutto di un procedimento razionale –
8
Cf. STAHLIN, Atti degli Apostoli, 402-403.
Cf. BOSSUYT-RADERMAKERS, “Recontre de l’incroyant et inculturation. Paul à Athène (Ac 17,16-34) », Nouvelle
Revue Theologique 117 (1995) 21.
10
Filone, Quod Omn.Prob., 140, citato da GILL, “Achaia”, 442.
9
11
Luca mostra di non soddisfare il desiderio di conoscenza dei filosofi ateniesi - ma di un annuncio.
Tale annuncio è fatto dal Paolo lucano con sottigliezza retorica e con una straordinaria capacità di
parlare sul doppio registro del linguaggio filosofico corrente (soprattutto di matrice stoica) e della
visione creazionale biblica, in un ardito tentativo di transculturazione. Lo scopo è quello,
utilizzando espressioni che riescono abituali e comprensibili ad un uditorio greco, di annunciare il
Dio biblico della creazione, in modo fa favorire il passaggio dall’orizzonte panteistico greco a
quello creazionale biblico.
Nell’esordio va notata subito la sottigliezza con cui Luca evita di identificare semplicemente
“il dio ignoto” degli ateniesi con il contenuto del suo annuncio. L’uso del neutro nei due pronomi
“ciò…questo”, accentuati enfaticamente, erige come un sipario tra il dio sconosciuto adorato dagli
ateniesi e il Dio che Paolo intende annunciare: l’uno non è l’altro! Il dio ignoto, in quanto parte del
pantheon greco, non può essere l’unico Dio Creatore. Il punto di contatto è che, di fronte all’uno e
all’altro, gli ateniesi sono “nell’ignoranza”, e che questa ignoranza concerne “qualcosa” che viene
venerato e che quindi ha a che vedere con “il divino”11. E’ un punto di contatto sottile che assolve
un duplice compito apologetico e propedeutico. Esso tende a liberare l’oratore dal sospetto di
annunciare “divinita nuove e straniere” (cf. v. 18) e al contempo mantiene aperta la comunicazione
tra annunciatore e uditori, tentando di predisporre questi ultimi alla proclamazione dell’unico Dio.
Ma è altrettanto chiaro che questo punto di contatto richiede di essere liberato dalla genericità e
dall’ambiguità che in esso è presente e quindi c’è da attendersi che circa i due motivi dell’ignoranza
e del divino, oggetto di venerazione, l’oratore apporti chiarificazioni e confutazioni12.
Lo sviluppo dell’argomentazione kerigmatica parte dal rapporto del dio creatore con il
mondo (vv. 24-25) per giungere al rapporto tra Dio creatore e l’uomo, che ha come finalità l’abitare
la terra, ma soprattutto “cercare Dio”
(vv. 26-27), una ricerca il cui esito è possibile ma non è
assicurato. La possibilità di conoscere Dio è radicata nella sua vicinanza. Il fatto che Dio non è
lontano da ciascuno di noi è spiegato dalla duplice affermazione: “in lui viviamo, ci muoviamo e
siamo” (v.28a) e “di lui siamo stirpe” (v. 28c). Queste espressioni sono un chiaro accomodamento
all’uditorio ellenistico che però vanno rilette dentro l’orizzonte creazionale dell’oratore cristiano.
Soprattutto il “di lui siamo stirpe” – citazione del poeta Arato –, mentre riflette l’idea dell’uomo
creato ad immagine di Dio, valorizza positivamente il pensiero stoico della parentela dell’uomo con
Dio (liberandolo dall’orizzonte panteistico). Inoltre, presentando l’espressione di Arato con una
formula di citazione – come hanno detto i vostri poeti - Luca sembra dare ad essa quasi il valore di
Vedi J. DUPONT, “Il discorso dell’Areopago (At 17,22-31). Luogo di incontro tra cristianesimo ed ellenismo”, in:
ID., Nuovi studi, 396-397.
12
Vedi per queste osservazioni D. ZWECK, “The Exordium of the Apeopagus Speech, Acts 17.22,23”, 102.
11
12
una prova scritturistica13. e appellarsi ad essa quasi come ad una “bibbia pagana”14. che entra in
consonanza con la Scrittura normativa. Egli rende così possibile l’integrazione tra la verità
filosofico-religiosa, la parola dei poeti e la verità della rivelazione15.
Mentre sviluppa questa argomentazione, Paolo conduce una critica serrata alla religiosità
pagana e alle sue manifestazioni cultuali idolatriche, una critica già nota al pensiero giudeoellenista, ma che era condivisa in gran parte anche dall’élite filosofica.
La perorazione finale qualifica la tappa pre-cristiana ed extrabiblica dell’umanità, quella
della ricerca di Dio a tentoni, come “tempi dell’ignoranza”., a cui contrappone una necessità della
conversione “per tutti gli uomini e in ogni luogo” che viene a marcare una svolta decisiva nella
storia della salvezza. L’urgenza della richiesta universale di conversione viene rafforzata con il
rimando all’escatologico giudizio di Dio su tutta l’umanità (v. 31a), un motivo noto al mondo greco.
L’orizzonte universalistico, che aveva segnato tutto il discorso a partire dall’ottica creazionale,
viene ora ribadito in questa svolta storico-salvifica e nella prospettiva del giudizio finale. Nuova e
significativa, innanzi tutto è l’affermazione che il giudizio divino avverrà “per mezzo di un uomo
che Dio ha designato” (v. 31b). Sorprende che non ci sia qui un riferimento esplicito a Gesù..
Qualche autore spiega questa allusione sottile, senza una menzione chiara di Gesù, con l’utilizzo
voluto, da parte di Luca, dello strumento retorico della “insinuazione”, che deve suscitare
nell’uditore la curiosità e il desiderio di un approfondimento. L’accenno alla resurrezione, come
prova che quest’uomo è stato costituito nella sua funzione giudiziale riporta il discorso là dove
l’annuncio era iniziato (Gesù e la resurrezione) ed era stato frainteso. Ora nell’orizzonte del Dio
unico Creatore e giudice finale Gesù e la resurrezione non possono più essere fraintesi come
divinità straniere!
La reazione è in parte negativa e in parte sorprendente. Quel ti ascolteremo “un’altra volta”
potrebbe essere più che una derisione l’effetto voluto dalla “insinuatio”, dettata dalla convinzione
che occorra mantenere aperto un confronto prolungato perché possa attuarsi un processo di reale
cambiamento di mentalità.
A Corinto, al di là della rottura con la sinagoga e l’ingresso in casa di Tizio Giusto (18,7)
come anche della visione notturna, il fatto più rilevante è l’incontro con Gallione (18,12-17). Il suo
pronunciamento sulle accuse mosse a Paolo- e quindi al cristianesimo (costui istiga la gente a
venerare Dio in modo contrario alla legge) – è significativo. Egli ritiene l’accusa mossa a Paolo
una questione interna al giudaismo, senza nessuna rilevanza penale per l’ordinamento giudiziario
romano. In tal modo, il cristianesimo, rappresentato da Paolo, è scagionato da ogni sospetto di
13
Cf. J. ROLOFF, Atti, 351.
Così R. PENNA, “Paolo nell’agorà e all’Areopago di Atene (Atti 17,16-34)”,666.
15
Così R. PESCH, Atti, 682.
14
13
illegalità. Gallione poi conclude con un’espressione che nella struttura sembra avere particolare
enfasi: “Io non voglio essere giudice di queste cose” (v. 15c). Con essa il proconsole romano
dichiara che egli non è competente a fungere da giudice nelle dispute teologiche interne al
giudaismo e perciò non intende esercitare tale ruolo. A nostro avviso, questa sentenza di Gallione
esprime il punto di vista di Luca: l’autorità romana riconosce la propria incompetenza a giudicare il
cristianesimo, considerato questione interna al giudaismo, e non vuole intromettersi con valutazioni
su di esso. Questo relativo disinteresse verso il cristianesimo, che si riflette in un atteggiamento
neutrale, mostrerebbe che il potere romano non ha nulla contro di esso i.
Questo episodio, unito ad altri soprattutto nella fase processuale di Paolo, evidenzia la
sostanziale fiducia che Luca mostra nell’apparato giuridico romano, nell’aequitas romana,
nonostante qualche ombra che i magistrati presentano. L’impero romano, con la sua struttura
giuridica, sembra garantire ai cristiani una certa protezione contro l’odio che si può scatenare nei
loro confronti. Da questo significativo precedente, i cristiani delle chiese lucane troveranno motivo
di alimentare la fiducia che dalle strutture dell’impero, in cui sono chiamati a vivere e ad espandere
la buona novella, non saranno, nonostante le debolezze di chi le guida, inquisiti e perseguiti, ma
potranno trovare una certa protezione.
La sommessa ad Efeso (19,23-40). E’ quasi superfluo richiamare il fatto che in questo
racconto Luca rivela una conoscenza approfondita dell’ambiente efesino. E’ preciso nell’indicare le
cariche politiche e amministrative (Asiarchi, cancelliere, proconsole) e le istituzioni democratiche e
giuridiche (assemblea, popolo, sessioni giudiziarie). Sa della presenza di “corporazioni” che
possono diventare motivo di turbativa dell’ordine pubblico. Mette in risalto, con aderenza alla
realtà, il legame di Efeso con la “grande” dea Artemide e il suo tempio rinomato e delinea bene
l’intreccio tra economia, culto e vita cittadina. Ma al di là del “colorito locale”, che segna
chiaramente tutta la scena, che cosa poteva cogliere il lettore contemporaneo di Luca da questa
narrazione del tumulto efesino?
E’ importante, a nostro avviso, tenere presente come, fin dall’introduzione (cf. v. 23), Luca
segnali che il grande “tumulto” di Efeso non concerna i singoli missionari, e neppure Paolo che
resta solo sullo sfondo, ma “la via”, cioè il cristianesimo come realtà comunitaria e sociale. E’
dunque a riguardo del cristianesimo, come tale, che il racconto della sommossa intende comunicare
qualcosa.
E’ stato messo in evidenza, da qualche studioso, che nella apologetica di scrittori giudeoellenisti, in particolare di Giuseppe Flavio, dominava un’argomentazione nei casi di sommossa che
vedeva coinvolti i giudei nelle diverse città del Mediterraneo. Se erano stati i Giudei a provocare la
violenza, essi subivano da parte dell’autorità una severa punizione (vedi Giuseppe Flavio Guerra
14
giudaica 2.18.7-8 §§ 487-498). Se, al contrario, erano stati i Giudei le vittime di tumulti e violenze
scatenate dai pagani, allora essi vedevano confermati i diritti che erano stai loro concessi (vedi
Giuseppe Flavio Antichità giudaiche 14.10.21 §§ 244-246; 16.2.5§§58-60; 19.5.2 §§ 284-285;
Guerra giudaica 7.5.2 §§ 107-111). Da tale argomentazione si evince un principio: i diritti delle
vittime di sommosse devono essere confermati. E’ possibile che Luca si sia ispirato a questo
modello nel narrare la sommossa di Efeso, tanto più che i cristiani, come abbiamo notato nel corso
della spiegazione, non sempre venivano adeguatamente distinti dai Giudei. Mettendo in evidenza il
tumulto come opera di una corporazione che ha messo in subbuglio la città contro i cristiani, Luca
avanza indirettamente la richiesta che al cristianesimo siano riaffermati i diritti di un proprio modo
di vivere e di organizzarsi, come era concesso ai Giudei. La scena della sommossa potrebbe essere
stata dunque per Luca e per i suoi lettori una tecnica di legittimazione del movimento cristianoii.
Oltre a questo possibile messaggio globale, però, altre prospettive emergono chiaramente
dal racconto. Certamente c’è la denuncia – come già era stato evidenziato a Filippi con la schiava
divinatrice (cf. At 16,16-21) – dell’intreccio che nella religiosità pagana si stabiliva tra culto, affari
e vita cittadina: intreccio che, nella prospettiva lucana, è messo in crisi dalla predicazione cristiana.
Emergono inoltre motivi caratteristici dell’ apologetica lucana. Al cristianesimo non sono
imputabili azioni criminose o sovvertimenti dell’ordine pubblico e a riconoscere questo sono le
stesse autorità delle istituzioni locali o dell’impero romano. Al contrario il cristianesimo gode di
simpatie tra personaggi di alto rango, come è il caso degli Asiarchi, e trova protezione nella
legislazione là dove essa è correttamente applicata da magistrati imparziali.
C’è, infine, da non trascurare l’eco del grandioso effetto che Luca attribuisce alla
predicazione cristiana, e in particolare alla missione di Paolo da poco giunta al suo termine, e che
affiora indirettamente nelle parole di Demetrio. Il successo della missione ad Efeso e in tutta l’Asia
Minore, sia tra i giudei che tra i greci, riafferma in questa tappa conclusiva l’universalismo cristiano
e proietta una luce di speranza sul prosieguo della missione cristiana.
Da ultimo sarebbe da ricordare la sintesi della figura di Paolo come mediatore della salvezza
universale nel viaggio per mare verso Roma (At 27). A parte la descrizione del viaggio e della
tempesta, a dominare tutto il racconto è la promessa che Dio “farà grazia” a Paolo di tutti i suoi
compagni (v. 24) . E’ questa promessa che dominerà e regolerà tutta la dinamica del racconto: le
esortazioni e i gesti di Paolo (vv. 31.34-35), la collaborazione dei passeggeri rianimati (v. 36), i
tentativi frustrati dei marinai (v. 30) e dei soldati (v. 42), la decisione positiva del centurione (v. 43)
e il felice esito finale per cui “tutti si salvano” (v. 44). Il salvataggio di tutti quanti erano ormai
disperati (v. 20), quale frutto dell’iniziativa gratuita di Dio, è la prospettiva che pervade tutta la
narrazione. A nostro avviso, dato il significativo uso lucano del vocabolario della salvezza e
15
l’accento posto sulla totalità, non è difficile intravedere in questo motivo dominante una valenza
simbolica. Luca, a cui sta a cuore il tema della salvezza universale, suggerisce al lettore, attraverso
questo episodio drammatico e minaccioso di una tempesta e di un naufragio, che Dio realmente
intende offrire a tutti la sua salvezza e che vuole realizzarla in quella forma comunitaria che trova
visibilità storica nella chiesa. E’ significativo anche che questa “salvezza di tutti” sia un dono che
Dio fa a Paolo, il testimone e lo strumento per eccellenza di questo disegno salvifico universale.
Dentro questo quadro dell’offerta universale di salvezza, acquista rilievo il gesto di Paolo
che allude all’esperienza eucaristica e che ha valore in qualche modo sacramentale. Se l’apostolo
aveva esortato i suoi compagni disperati ad “essere di buon animo” (vv. 22.25) sul fondamento
della “parola” promissoria rivelatagli dall’angelo (v. 24), è solo attraverso il gesto dello spezzare il
pane che egli ottiene efficacemente quella condizione di apertura alla fiducia e alla speranza (v. 36)
che permette ai suoi compagni di collaborare, prendendo quel cibo che era necessario per la loro
salvezza (v. 34). A nostro avviso, è abbastanza chiaro che Luca intende suggerire al lettore che la
salvezza che Dio offre a tutti è gia anticipatamente e simbolicamente realizzata nel banchetto
eucaristico e che questo gesto genera quella fede che rende possibile cominciare a fare esperienza di
questa salvezza.
L’insieme degli episodi che abbiamo brevemente richiamato aiutano i lettori di Luca e le
comunità a cui egli si rivolge a guardare positivamente all’inserimento del cristianesimo nel mondo
greco-romano che costituirà il loro futuro, cercando di scoprire le possibilità che esso offre con le
sue strutture viarie (le grandi arterie che permettono l’espansione missionaria, con il suo
ordinamento giuridico, con la sua tensione universalista e con il suo senso della pax romana. certo
non sarà più l’imperatore a creare questa pace e non sarà più l’impero a riunire i popoli, ma –Luca
lo lascia capire sottilmente e polemicamente – sarà il Signore Gesù Cristo il portatore della pace e
sarà l’annuncio di lui ad offrire a tutti i popoli la salvezza e l’unità.
16
2. NAUFRAGIO E SALVEZZA (vv. 21-44)
A. Predizione di Paolo (vv. 21-26)
21 Poiché
c’era stata una prolungata astinenza dal cibo,
Paolo, stando ritto in mezzo a loro, disse:
“Bisognava, o uomini, dando retta a me,
non salpare da Creta ed evitare questo rischio e questo danno.
22 Ma
ora vi esorto ad essere di buon animo,
non ci sarà, infatti, nessuna perdita di vite tra voi, ma solo della nave.
23 Mi
è apparso, infatti, questa notte un angelo del Dio,
a cui io appartengo e al quale servo,
24 dicendomi:
‘ Non temere, Paolo,
bisogna che tu compaia davanti a Cesare
ed ecco Dio ti fa grazia di tutti quelli che navigano con te.
25 Per
questo siate di buon animo, o uomini.
Ho, infatti, fiducia in Dio che sarà così come mi è stato detto.
26 Bisogna
però che andiamo a finire in qualche isola
B. Compimento pieno della predizione (vv. 27-44)
a. Paolo impedisce la fuga dei marinai (vv. 27-32)
17
27
Come giunse la quattordicesima notte
da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico
verso la mezzanotte i marinai ebbero l’impressione
che una qualche terra si avvicinasse.
28 Gettando
lo scandaglio, trovarono venti braccia;
dopo un breve intervallo, gettato di nuovo lo scandaglio, trovarono quindici braccia.
29 Temendo
che finissimo contro gli scogli,
dopo aver gettato da poppa quattro ancore,
aspettavano con ansia che si facesse giorno.
30 Ma
poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave
e calavano la scialuppa in mare con il pretesto
di gettare le ancore da prua,
31 Paolo
disse al centurione e ai soldati:
“Se costoro non rimangono sulla nave,
voi non potete salvarvi”.
32 Allora
i soldati recisero le funi della scialuppa
e la lasciarono cadere.
b. Paolo esorta a mangiare (vv. 33-38)
33 Fino
a che non stava per farsi giorno,
Paolo esortava tutti a prendere cibo, dicendo:
“Oggi è il quattordicesimo giorno che rimanete digiuni in attesa,
senza prendere nulla.
34
Per questo vi esorto a prendere cibo;
questo, infatti, è necessario per la vostra salvezza.
Neanche un capello, infatti, del vostro capo andrà perduto.
35 Detto
questo, dopo aver preso il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti
e, dopo averlo spezzato, cominciò a mangiare.
36 Allora,
rimessisi tutti di buon animo, anch’essi presero cibo.
37 Eravamo
38 Dopo
in tutti sulla nave duecentosettantasei persone.
essersi saziati del cibo, alleggerivano la nave,
gettando il frumento nel mare.
c. Impedita l’uccisione dei prigionieri, tutti si salvano (vv. 39-44)
39 Quando
venne giorno, non riconoscevano quella terra,
ma notavano un’insenatura che aveva una spiaggia,
18
verso la quale, decidevano, se era possibile, di spingere la nave.
40 Tolte
le ancore, le lasciarono andare in mare;
al contempo, allentate le funi dei timoni e levata la vela maestra al vento,
muovevano verso la spiaggia.
41 Incappati
però in una secca, spinsero la nave sulla sabbia;
mentre la prua arenata rimaneva immobile,
la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde.
42 I
soldati presero allora la decisione di uccidere i prigionieri,
affinché qualcuno non fuggisse a nuoto.
43 Ma
il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro (di attuare) la decisione ;
ordinò che quelli che sapevano nuotare,
gettandosi per primi, raggiungessero la terra;
44
poi gli altri, chi su tavole, chi su alcuni rottami della nave.
E così avvenne che tutti si salvarono sulla terraferma.
i
Vedi ZMIJEWSKI, 661
ii
19