CAP. 6 – LA DETERMINAZIONE DEL REDDITO NAZIONALE. (Il paragrafo con l’asterisco non fa parte del programma d’esame) 1. La determinazione del livello di produzione, del reddito e dell’occupazione. Il diagramma del flusso circolare del reddito analizzato nel primo capitolo ha messo in evidenza le interazioni tra i mercati e i soggetti che operano nel sistema economico. Di seguito riconsideriamo quel diagramma per analizzare la formazione del reddito nazionale e le sue fluttuazioni. Vogliamo spiegare perché i sistemi economici si muovano ciclicamente e perché il Pil non è sempre al suo livello potenziale. La produzione effettiva oscilla intorno ad un valore tendenziale, alternando periodi di espansione con periodi di recessione. Nell’analizzare la formazione del reddito, ignoreremo le differenze che esistono tra i concetti di reddito nazionale, prodotto nazionale e prodotto interno lordo. Useremo questi termini come sinonimi. Distingueremo solo tra prodotto corrente o attuale e prodotto potenziale e cioè il massimo prodotto che un’economia potrebbe produrre se tutti i fattori della produzione fossero occupati. L’analisi che effettueremo è di breve periodo: solo il prodotto attuale può variare ma non quello potenziale; per modificare quest’ultimo occorre aumentare la dotazione dei fattori produttivi, incrementare la capacità produttiva del sistema economico, cosa che può essere fatta solo nel lungo periodo (cfr cap.7). In un sistema economico ideale il valore reale del Pil dovrebbe crescere nel tempo a un ritmo costante e sostenuto. Inoltre, il livello dei prezzi, misurato dall’indice dei prezzi al consumo o dal deflatore del Pil, dovrebbe rimanere invariato o aumentare leggermente. In altri termini, la disoccupazione e l’inflazione dovrebbero essere trascurabili. Tuttavia, se osserviamo l’andamento dei nostri sistemi economici osserviamo che ci sono periodi caratterizzati da profonde recessioni con disoccupazione, alternati da periodi di prosperità. Si verificano cioè dei cicli economici e cioè l’alternanza di fasi caratterizzate da una diversa intensità dell’attività economica. Essi comprendono due fasi principali, la recessione, la fase decrescente del prodotto nazionale caratterizza da diminuzione dei consumi, aumento delle scorte delle imprese, diminuzione della produzione e aumento della disoccupazione e una di espansione, caratterizzata invece da aumento della produzione e dell’occupazione. In caso di recessione su ampia scala sia per entità sia per durata si suole parlare di depressione (fig. 6.1). Se il prodotto corrente è inferiore a quello potenziale significa che vi sono dei fattori produttivi, ad esempio i lavoratori, non utilizzati. Occorre 181 allora valutare se le forze del mercato riescono a riportare autonomamente la produzione al livello del prodotto potenziale e cioè alla piena occupazione dei fattori produttivi, o occorra invece intervenire per migliorare la performance dell’economia e far fronte alle fluttuazioni cicliche del reddito nazionale. Varie sono le teorie che spiegano le fluttuazioni del reddito, di solito vengono suddivise in due categorie: esogene e endogene. Le teorie esogene individuano l’origine del ciclo economico nelle fluttuazione di fattori al di fuori del sistema economico: negli shock petroliferi, nelle guerre, nel progresso scientifico e nelle nuove invenzioni, ecc. Le teorie endogene cercano invece di individuare all’interno del sistema i meccanismi che causano i cicli economici. Fig. 6.1-. Ciclo economico e trend di crescita. Gli storici economici hanno identificato l’esistenza nel mondo industrializzato di “onde lunghe”, cui corrispondono trasformazioni fondamentali dei sistemi economici anzitutto negli scenari tecnologici, ma anche in quelli socio-economici ed istituzionali. La durata media di tali onde è di circa sessant’anni. I cicli a cui faremo riferimento di seguito sono quelli di intensità più ridotta, di breve e media durata, che hanno caratterizzato in vario modo lo sviluppo delle nostre economie (cfr. appendice I). In genere, questi cicli di breve periodo derivano dai cambiamenti dell’offerta aggregata o della domanda aggregata. Si verificano degli shock che provocano uno spostamento di una delle due curve. Shock dal lato della domanda si verificano quando i consumatori, le imprese o i governi modificano la spesa totale rispetto alla capacità produttive dell’economia. Se la spesa è ridotta, la maggior parte delle imprese non riterrà conveniente produrre grandi quantità di beni e servizi e quindi la produzione, l’occupazione e redditi si ridurranno. 182 Una seconda possibile causa di fluttuazioni economiche riguarda l’offerta aggregata. Poiché gli shock dell’offerta hanno un impatto diretto sul livello generale dei prezzi, spesso vengono chiamati anche shock di prezzo. Gli shock negativi (diminuzione produzione agricola, aumento prezzo petrolio, ecc) spingono i costi verso l’alto mentre gli shock positivi hanno l’effetto di ridurre i costi e quindi i prezzi. Ancora una volta, la domanda e l’offerta sono gli strumenti che ci permettono di analizzare la formazione del reddito e le sue fluttuazioni. La differenza rispetto ai capitoli precedenti, dove domanda ed offerta indicavano quantità e prezzi di singoli beni, è che ora si parla di domanda ed offerta aggregata per riferirci alla produzione nazionale. La domanda aggregata (DA) esprime infatti la relazione tra la spesa in beni e servizi e il livello dei prezzi; essa è data dalla somma della spesa dei consumatori, delle aziende e dello Stato (consumi, investimenti, spesa pubblica e esportazioni nette). L’offerta aggregata (OA) mostra la relazione fra la quantità di produzione delle imprese e il livello dei prezzi. L’interazione tra domanda ed offerta aggregata determinano il livello di produzione nazionale e quello dei prezzi. 2. La teoria neoclassica della determinazione del reddito. Iniziamo l’analisi della determinazione del prodotto nazionale ricorrendo alla teoria neoclassica: il mercato, lasciato a se stesso, funziona bene e tende alla piena occupazione. La capacità di autoregolamentazione del mercato si basa sulla flessibilità dei prezzi e dei salari che permetterebbe di eliminare qualsiasi eccesso di domanda o offerta, ricreando una situazione di equilibrio. L’analisi si basa sulla legge di Say o “legge degli sbocchi” (Say 17671822): «ogni offerta crea la sua domanda» o, meglio, «ogni offerta genera una domanda di importo equivalente». La domanda globale, non solo cresce al crescere della produzione, ma risulta sufficiente a garantire che tutto quanto si produce possa essere venduto; il potere d’acquisto delle famiglie è infatti determinato dal livello dell’attività produttiva e ciò perché le imprese quando producono distribuiscono reddito ai proprietari dei fattori produttivi (salari, interessi, rendite). La legge afferma che il potere d’acquisto dipende dalla produzione corrente ma anche che: - ogni produzione genera un reddito di importo equivalente; 183 - il reddito viene sempre interamente speso, direttamente o indirettamente, nell’acquisto di merci. Il reddito nazionale dipende dunque esclusivamente dalle decisioni di produzione delle imprese: la produzione, l’offerta aggregata, determina una domanda aggregata equivalente. In realtà, l’uguaglianza tra produzione e reddito non è sempre assicurata, perché la produzione può restare in parte invenduta. Parte del reddito potrebbe essere risparmiato e non si trasformerebbe in domanda di beni e servizi, per cui si avrebbe una sottrazione di reddito dal flusso circolare del reddito. Gli economisti neoclassici sostengono comunque che, anche se il reddito viene in parte consumato e in parte risparmiato, la parte del reddito risparmiata affluisce ai mercati finanziari e, attraverso questi, viene messa a disposizione delle imprese per effettuare investimenti, rientrando così nel flusso circolare del reddito. La domanda globale finisce così per essere uguale al reddito. Poiché il sistema di mercato è in grado di autoregolamentarsi, l’intervento dell’operatore pubblico è superfluo, anzi dannoso. La politica economica più adeguata è il liberismo, il laissez faire. Per analizzare come viene determinato il reddito occorre fare riferimento al funzionamento del mercato del lavoro e a quello delle merci. a) Il mercato del lavoro - Nel mercato del lavoro, data una funzione di produzione, si ottiene il livello occupazionale che, con il capitale, determina il reddito nazionale. La domanda di lavoro dipende negativamente dal salario reale e l’offerta di lavoro dipende positivamente da tale salario (cfr. cap. 3). L’incontro tra domanda ed offerta di lavoro determina il salario reale d’equilibrio che implica la piena occupazione. Al di sopra del salario d’equilibrio vi è eccesso di offerta, mentre al di sotto vi è eccesso di domanda. Se il salario è, per qualche ragione, superiore a quello di equilibrio, si ha disoccupazione, per cui per raggiungere il pieno impiego è necessario che diminuisca fino a quello di equilibrio. Ciò può avvenire sia attraverso una riduzione del salario dovuta alla concorrenza tra lavoratori, sia attraverso un aumento del livello dei prezzi. A causa dell’eccesso di offerta di lavoro, i disoccupati per trovare un lavoro sarebbero disposti ad accettare un saggio salariale inferiore. Ciò indurrebbe le imprese ad aumentare la domanda di lavoro, e l’occupazione crescerebbe. La riduzione salariale e l’aumento dell’occupazione andrebbero di pari passo, fino al punto in cui il mercato del lavoro trova il suo equilibrio: il salario richiesto dai lavoratori sarebbe esattamente eguale a quello che le imprese sono disposte a pagare. 184 In modo analogo si ragiona nel caso in cui il mercato del lavoro è caratterizzato da eccesso di domanda. Le imprese, pur di avere manodopera, sarebbero disposte a pagare saggi salariali maggiori. Il salario aumenterebbe determinando un incremento dell’offerta di lavoro e una riduzione della domanda, fino al punto in cui si raggiunge l’equilibrio. La teoria neoclassica dell’occupazione esclude dunque il caso di disoccupazione involontaria. In un sistema economico, quando il mercato del lavoro è concorrenziale non si ha disoccupazione, purché i lavoratori accettino un salario che sia commisurato alla produttività marginale del lavoro (la quantità di prodotto che si ottiene da un lavoratore in più adibito agli impianti esistenti). Se c’è disoccupazione, allora è volontaria: essa si ha quando i lavoratori pretendono un saggio salariale superiore a quello naturale (il salario in grado di assorbire tutta la manodopera esistente). Ciò può essere dovuto al fatto che i lavoratori, organizzati in associazioni sindacali, resistono alla pressione dei disoccupati i quali vorrebbero lavorare ad un salario ridotto, oppure perché i disoccupati preferiscono attendere opportunità migliori. In conclusione, nel breve periodo, la domanda di lavoro delle imprese e l’offerta di lavoro dei lavoratori, determinano il livello di occupazione e il saggio salariale reale (che è commisurato alla produttività marginale del lavoro espressa in termini reali). b) Il mercato dei beni - Il reddito viene utilizzato per l’acquisto di beni di consumo e di beni di investimento. Possiamo ipotizzare che la domanda di investimenti dipenda negativamente dal tasso di interesse reale (cioè dal costo del loro finanziamento) e che l’offerta di risparmio dipenda positivamente dal tasso di interesse reale (che è la remunerazione del risparmio). Domanda di investimento ed offerta di risparmio determinano il tasso di interesse reale di equilibrio; a quel tasso di interesse, investimento e risparmio risultano in equilibrio. Sottraendo dal reddito nazionale il risparmio si ottiene il consumo di equilibrio (il reddito viene infatti utilizzato in parte per acquistare beni e in parte risparmiato). Esistono dunque un tasso di interesse ed un ammontare di risparmio e di investimento che assicurano l’equilibrio del mercato dei beni al livello di pieno impiego. Sono i movimenti del tasso di interesse a mettere in equilibrio il mercato dei beni, assicurando l’uguaglianza tra risparmio e investimenti. c) Il mercato della moneta - Per completare il modello occorre considerare il mercato della moneta. Nel modello neoclassico la moneta svolge solo le funzioni di mezzo di scambio e di misura di valore e serve 185 per determinare il valore nominale dei prezzi. Si parla infatti di dicotomia tra l’economia reale e quella monetaria. Il livello dei prezzi è definito mediante la teoria quantitativa della moneta: poiché gli scambi costituiscono l’unico impiego della moneta, la quantità in circolazione M, moltiplicata per la velocità di circolazione V (numero medio di volte che circola nell’unità di tempo ed è data dal rapporto tra il reddito nominale e lo stock nominale di moneta), eguaglia il valore della produzione scambiata (PQ). Si ha dunque: MV=PQ. Poiché il valore monetario complessivo degli scambi è necessariamente uguale al valore monetario dei beni venduti, i due membri dell’equazione sono uguali per definizione. Nel breve periodo non vi possono essere variazioni di V e di Q poiché il sistema economico non può aumentare o diminuire il livello di produzione e i soggetti economici non modificano il loro comportamento rispetto al numero di transazioni che essi desiderano compiere. Esiste quindi una relazione che lega M e P: una variazione di M provoca necessariamente una variazione diretta di P. Il livello dell’attività economica è determinato solo da fattori reali; la moneta determina solo il livello generale dei prezzi. E’ questa la cosiddetta dicotomia neoclassica tra settore monetario e settore reale dell’economia. Infatti P=(V/Q)M, nel lungo periodo V e Q sono costanti, per cui P=kM dove k è una costante. L’equazione mette dunque in evidenza come le variazioni dei prezzi siano da attribuire a variazioni della moneta. Poiché il sistema economico è sempre in equilibrio ed il reddito è sempre di piena occupazione, una politica monetaria espansiva (aumento dell’offerta di moneta) provocherà semplicemente un aumento dei prezzi. L’immissione di moneta crea disequilibrio; aumenta la quota di risparmio che viene utilizzato per acquistare attività finanziarie e beni reali. L’aumento della domanda sui mercati finanziari determina un aumento dei prezzi dei titoli che fa diminuire il tasso di interesse che, a sua volta, stimola l’investimento e quindi la domanda aggregata, che rafforza l’eccesso di domanda sul mercato dei beni. Maggiore domanda aggregata sul mercato dei beni significa surriscaldamento dei prezzi. Le imprese provano ad aumentare la produzione oltre il livello di produzione potenziale, ciò determina l’incremento della domanda di lavoro con aumento dei salari, aumento dei costi di produzione delle imprese e quindi dei prezzi. Per questo motivo la ricetta dei monetaristi per far fronte all’inflazione suggerisce di adottare politiche monetarie restrittive. In conclusione, nell’impostazione neoclassica è la produzione a determinare la domanda e l’equilibrio è necessariamente di piena occupazione sia per il lavoro sia per il capitale. A garantirla provvede la flessibilità del sistema dei prezzi: il salario reale (mercato del lavoro) e il 186 tasso di interesse reale (mercato dei beni). La moneta serve solo per determinare il livello dei prezzi. Se la banca centrale mantiene stabile l’offerta di moneta, il livello dei prezzi è stabile; se la banca centrale aumenta rapidamente l’offerta di moneta, il livello dei prezzi aumenta rapidamente. 3. La teoria keynesiana. Dopo le grandi crisi economiche che contraddistinsero il periodo tra le due grandi guerre, in particolare quella del 1929 (Appenice I), si affermò una teoria alternativa: la teoria keynesiana (Keynes, 1936). Keynes, ribalta il modo di pensare dei neoclassici e ritiene che l’occupazione sia determinata dalla domanda aggregata effettiva, e non viceversa. Se vi è disoccupazione, essa va ricercata nella carenza della domanda, in particolare degli investimenti privati. Vengono messi in discussione i due meccanismi di regolazione su cui gli economisti neoclassici avevano fondato la loro teoria: la flessibilità dei prezzi e dei salari e la determinazione del tasso di interesse. I salari non sono del tutto flessibili come preteso dalla teoria neoclassica: a causa dell’opposizione dei sindacati essi sono rigidi verso il basso, non possono scendere oltre certi livelli. Ciò avrebbe un effetto positivo poiché salari troppo bassi comporterebbero una limitata capacità di spesa che deprimerebbe il mercato dei beni di consumo. In secondo luogo, il tasso di interesse non rappresenta la remunerazione del risparmio ma il compenso per la rinuncia alla liquidità e, pertanto, esso si determina sul mercato monetario (ha il compito di riequilibrare domanda ed offerta di moneta). Nel dimostrare la tesi keynesiana di determinazione del reddito, faremo riferimento al modello reddito-spesa. Le principali ipotesi sottostanti al modello sono le seguenti: - i prezzi dei beni e dei fattori produttivi sono fissi (questo implica che la distinzione tra grandezze reali e monetarie non ha rilievo). La curva di offerta aggregata è pertanto orizzontale; - prodotto nazionale e reddito nazionale sono identici per cui i termini sono sinonimi; - inizialmente non esistono moneta, banche e mercato dei titoli e quindi neppure i tassi di interesse. Ci concentreremo esclusivamente sul mercato dei beni. Il livello della produzione è determinato dalla domanda (spesa) aggregata. Con un livello del prodotto inferiore a quello potenziale, se vi è 187 una domanda maggiore, le imprese aumentano volentieri la propria produzione. E’ dunque il livello della spesa aggregata per beni e servizi a determinare il livello della produzione. Nell’ambito del modello redditospesa ci riferiamo alla domanda aggregata desiderata o programmata (ex ante) che va distinta da quella realizzata (ex post). La prima corrisponde al consumo che le famiglie desiderano compiere, più gli investimenti che le imprese desiderano effettuare; la seconda corrisponde invece ai consumi ed investimenti effettivamente realizzati. Le due domande possono essere diverse, questo accade se le imprese non giudicano correttamente quale sarà la domanda delle famiglie. Ad esempio, se le imprese sopravvalutano la domanda e, a fronte di una domanda di 400 unità ne producono 500, si avrà un aumento delle scorte, rappresentate da 100 unità di invenduto. In contabilità nazionale le scorte vengono contabilizzate come investimenti per cui la domanda aggregata è uguale alla produzione, ma questo è vero soltanto dal punto di vista contabile. Gli investimenti che occorre considerare sono quelli desiderati. È dunque la spesa programmata o desiderata e cioè la spesa che gli individui desiderano effettuare sulla base del reddito che hanno a disposizione che deve essere uguale all’offerta aggregata. In assenza del settore pubblico e di quello estero la spesa aggregata delle famiglie e delle imprese è costituita dalle spese per beni di consumo e per le spese di investimento. Le funzioni del consumo e del risparmio – La componente più importante della domanda aggregata è la spesa per consumi: essa costituisce circa due terzi del reddito nazionale ed è pressoché costante nel tempo. La parte di reddito (Y) che non viene destinata all’acquisto dei beni di consumo (C ) viene invece risparmiata (S) (il risparmio coincide dunque con quella parte del reddito disponibile che non viene consumato) per cui Y= C +S. In genere, i consumi aumentano all’aumentare del reddito: C = C0 + cY dove C0 è il consumo minimo che non dipende dal reddito (viene infatti definito autonomo, le famiglie consumano anche quando il loro reddito è nullo) e c è la propensione marginale al consumo, il cui valore varia tra 0 e 1, e che viene definita come l’incremento di consumo che si ottiene quando il reddito aumenta di un’unità (ad esempio posto c=0,92 un incremento del reddito Y pari a 1 euro farà aumentare il consumo di 0,92 centesimi): Prop mg = ΔC/ ΔY Per definire la funzione del consumo occorre considerare anche la propensione media al consumo: la percentuale di reddito che viene 188 consumata. Essa è data dal rapporto C/Y. Nella trattazione assumiamo che le propensioni marginale e media siano uguali. Nella realtà, i loro valori si discostano, sia pur di poco, dal momento che la propensione marginale al consumo tende a diminuire mano a mano che cresce il reddito. Anche per il risparmio si hanno due concetti equivalenti a quelli della propensione marginale e media al consumo: la propensione marginale e media al risparmio. Quella media indica la quota di reddito disponibile che le famiglie vogliono risparmiare (S/Y); la propensione marginale al risparmio mette invece in relazione la variazione del risparmio desiderato complessivo con quella del reddito disponibile (ΔS/ΔY). La somma della propensione marginale al consumo e di quella marginale al risparmio deve necessariamente essere uguale all’unità così pure la somma delle due propensione medie. Per livelli di reddito molto bassi il consumo può superare il reddito disponibile; in questo caso le famiglie devono ricorrere al risparmio negativo, cioè sono costrette a contrarre debiti o a consumare la ricchezza precedentemente accumulata. Il principale fattore che influisce sul consumo e sul risparmio delle famiglie è il livello del reddito disponibile Essi possono essere influenzati anche da altri fattori: la ricchezza (beni reali quali case, automobili, televisioni, ecc e attività finanziarie quali obbligazioni, azioni, assicurazioni, ecc); il livello dei prezzi (fanno variare il valore reale o potere d’acquisto di alcuni tipi di ricchezza); le aspettative delle famiglie riguardo ai prezzi, ai redditi monetari e alle disponibilità di beni; il grado di indebitamento dei consumatori; le imposte. Gli investimenti – L’investimento (la spesa per l’acquisto di nuovi macchinari, attrezzature, ecc.) costituisce un’altra componente della spesa privata. La decisione ad investire dipende dalle previsioni circa il futuro livello della domanda. Le imprese cercano di prevedere e valutare quanto renderà nei vari esercizi l’investimento attuato, calcolano cioè l’efficienza marginale del capitale (da non confondere con la produttività marginale del capitale che si calcola su valori certi). Il calcolo viene effettuato sulla base di aspettative relative ai costi e ai ricavi utilizzando un dato tasso di interesse: tanto più elevato è il tasso di interesse tanto più alto è il costo che deve essere sostenuto per prendere a prestito il denaro al fine di effettuare l’investimento e tanto minore è la spesa desiderata per investimenti. Il livello degli investimenti dipende dunque dal saggio di interesse reale (i) e dalle aspettative degli imprenditori sui ricavi (As): 189 I = f (i, As). L’investimento non dipende dunque dal reddito ma costituisce una componente autonoma della domanda aggregata La domanda aggregata a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza dipende dunque in parte dal reddito (indicata con cY) e in parte è invece autonoma. Quest’ultima è costituita dal consumo minimo insopprimibile C0 e dalla domanda di investimenti Ī che dipende dal tasso di interesse e dalle aspettative: Y = cY + C0 + I(i, As) Il reddito di equilibrio in un’economia chiusa - Data una situazione in cui i prezzi e i salari sono fissi, il reddito di equilibrio si ottiene quando, la spesa aggregata desiderata DA, la somma di quanto le famiglie intendono spendere in beni di consumo e le imprese in investimenti, eguaglia il livello di produzione e cioè DA= Y = OA Nella fig. 6.2 il livello di equilibrio del Pil è dato dall’intersezione della domanda aggregata C+I con la bisettrice degli assi. In qualsiasi punto della bisettrice il livello totale della spesa per consumi e investimento (misurato come segmento verticale) è esattamente uguale al livello totale del prodotto (misurato come segmento orizzontale). Fig. 6.2 – Il reddito di equilibrio La funzione al consumo è una semiretta inclinata positivamente, con l’intercetta in ordinata pari a C0 e inclinazione pari a c (la propensione marginale al consumo). La distanza verticale tra ogni punto dell’asse orizzontale e la retta inclinata a 45° indica il valore che assumerebbe il consumo se tutto il reddito venisse consumato; per contro, la distanza verticale tra questa retta di riferimento e i punti che rappresentano il consumo effettivo di ciascun anno (la funzione del consumo) indica quanto 190 è stato risparmiato in quell’anno. Sottraendo il consumo dal reddito disponibile si ottiene il risparmio. La funzione degli investimenti è una retta parallela a quella dei consumi poiché abbiamo ipotizzato che la domanda di investimenti sia costante (I = Ī); il consumo è la sola componente della domanda che cresce con il reddito. Se la domanda aggregata (C+I) fosse superiore al livello del prodotto previsto Q, risulterebbe maggiore della produzione. In questo caso la domanda stimolerebbe le imprese a produrre di più, la produzione e il reddito crescerebbero e crescerebbe ancora la domanda (per consumo), si stimolerebbe nuova produzione e reddito e così via. Il processo si arresta quando domanda e produzione si eguagliano, esattamente nel punto E. Se, viceversa, la produzione fosse maggiore della domanda, le imprese non trovando acquirenti, accumuleranno involontariamente scorte di beni invendibili e, pertanto, saranno costrette a ridurre la produzione e il reddito che distribuiscono. La contrazione della produzione prosegue fino a quando produzione e domanda si eguagliano. Se si ha capacità produttiva in eccesso (Q-Qp), l’aumento della domanda aggregata può aumentare i livelli di produzione; se invece un’economia produce a livello di capacità Qp quando aumenta la domanda aggregata non c’è spazio per l’espansione. In condizioni di piena occupazione gli aumenti della domanda determinano prezzi più alti anziché incrementi del prodotto, si verifica un eccesso inflazionistico, ma questo verrà posto in evidenza nei paragrafi successivi. L’equilibrio di sotto occupazione – Non è detto che il livello di equilibrio E sia di piena occupazione, può essere un equilibrio di sotto occupazione. L’economia potrebbe trovarsi con un livello del prodotto inferiore al prodotto potenziale (Q<Qp). Le imprese possono non avere incentivi ad assumere lavoratori disoccupati perché non vi è nessuna aspettativa di crescita della domanda. In questo caso si avrà disoccupazione dovuta ad insufficienza della domanda: disoccupazione involontaria. Se vi è capacità produttiva inutilizzata (disoccupazione), per aumentare il reddito e giungere alla piena occupazione si deve aumentare la domanda. Non può aumentare la domanda per consumi finali (C), dipendendo questa dal reddito: solo un aumento del reddito potrebbe farla aumentare, ma è proprio l’aumento del reddito che deve essere provocato. L’unica componente che può aumentare è quella autonoma, cioè la spesa per investimenti (di seguito vedremo che esiste una componente della domanda autonoma proveniente dallo Stato, cioè la spesa pubblica). Ogni investimento genera reddito in quanto si traduce in salari per lavoratori, acquisto di macchinari e semilavorati dalle imprese, affitti di 191 magazzini, spese di pubblicità, ecc. Tutti i percettori di questi redditi li tramuteranno in atti di acquisto. L’investimento iniziale genera reddito. La disoccupazione involontaria non può essere risolta con la riduzione dei salari, come suggerito dai neoclassici; si rischia di aggravare la situazione economica. Le imprese riducendo i salari, beneficiano di un minor costo del lavoro, ma si riduce anche il reddito e quindi i consumi degli operai e perciò si contrae il mercato di consumo delle imprese. Nelle condizioni di un’economia caratterizzata da depressione l’univa via di uscita risiede nell’agire sulla domanda. E’ necessario che aumenti una componente della domanda, che sia autonoma rispetto al reddito. Un approccio alternativo alla determinazione del reddito di equilibrio: l’uguaglianza tra S e I - L’equilibrio del reddito può essere ottenuto facendo riferimento alla relazione tra investimenti desiderati e risparmi. Il reddito prodotto e distribuito può essere destinato a consumo (C) o a risparmio (S), mentre la produzione (reddito) dovrà trovare un mercato dal lato delle spese di consumo (C) e di investimento programmate (I) rispettivamente dai consumatori e dagli imprenditori. Ex ante dovranno essere soddisfatte queste due equazioni: Y = C+S Y=C+I C + S = C +I Ammettendo che le decisioni di consumo si realizzino sempre, si avrà S = I. Ex ante i risparmi decisi dai risparmiatori/consumatori devono essere uguali agli investimenti decisi dagli imprenditori. Il dato essenziale è che l’eguaglianza fra S e I non è la regola, ma l’eccezione. La regola è che l’eguaglianza fra domanda e offerta viene raggiunta al di sotto delle potenzialità produttive e del sistema. Keynes argomenta che ogni aumento della spesa (consumo) genera aumento del reddito. Il risparmio per divenire reddito deve tramutarsi in investimento, ma questo non è automatico, non essendo garantito dai meccanismi di mercato Il moltiplicatore – Importante è sapere non solo che il reddito aumenta all’aumentare della componente autonoma della domanda aggregata ma è altrettanto importante sapere di quanto aumenta. Occorre calcolare il moltiplicatore che ci dice appunto di quanto il livello del prodotto varierà in seguito ad un incremento della spesa aggregata. Data la domanda aggregata, costituita da componenti autonome (C 0, Ī) e da componenti che dipendono dal reddito: Y=cY+C0+Ī, si ottiene Y-cY = C0+ Ī 192 Y (1-c) = C0+ Ī Y = 1/(1-c) (C0+ Ī) Il fattore 1/(1-c) è il moltiplicatore, che moltiplicato per la spesa autonoma (ad esempio gli investimenti) ci indica l’incremento del reddito dovuto ad un aumento di quella spesa; c è la propensione marginale al consumo, e poiché (1-c) è minore di uno (il moltiplicatore sarà maggiore di uno), l’incremento del reddito sarà maggiore della spesa per investimenti. Dato che (1-c)=s (la propensione marginale al risparmio) l’equazione del reddito può essere riscritta in questi termini ΔY = 1/s I Per una propensione marginale al consumo pari a 0,5 il moltiplicatore sarà uguale a 2, mentre per una propensione marginale al consumo pari a 0,8 esso avrà valore 5. Quindi, un aumento della domanda autonoma produce un incremento del reddito che sarà tanto maggiore quanto maggiore è il valore della propensione al consumo. La fig. 6.2 mette in evidenza come il reddito di equilibrio aumenti di più dell’investimento autonomo. Il segmento in ascissa Q-Qp è più grande del segmento in ordinata I (la distanza verticale tra le funzioni C e la C+I). Ma perché il reddito aumenta in modo maggiore della spesa? Ipotizziamo di dare vita ad un incremento degli investimenti pari a 1000€ che darà luogo a un incremento iniziale di reddito ΔY di pari importo. L’investimento di 1000€ farà aumentare i redditi dei consumatori che verranno spesi in consumi in base alla propensione marginale al consumo. Se supponiamo una propensione marginale al consumo dell’80% si verificherà un aumento del consumo ΔC = 800 e del risparmio ΔS = 200. L’incremento del consumo farà aumentare il reddito per un pari importo, cosicché potranno aumentare nuovamente sia il consumo sia il risparmio. Si avrà così una serie di aumenti che dipendono dalla propensione marginale al consumo. Ovviamente, per c<1, i termini successivi della serie diventano progressivamente più piccoli. Abbiamo a che fare con una serie geometrica la cui somma è: ΔY = 1/(1-c)ΔI. E’ importante chiarire tre concetti a proposito del moltiplicatore: - la variazione iniziale della spesa deriva in genere da una variazione iniziale degli investimenti. L’effetto del moltiplicatore vale anche per le variazioni della spesa per consumi, della spesa pubblica e delle esportazioni; - per variazione iniziale della spesa si intende un aumento o una diminuzione delle componenti della spesa aggregata; - il moltiplicatore è un’arma a doppio taglio: un piccolo aumento della spesa può provocare un aumento molto consistente del Pil, ma è altrettanto vero che un leggero calo della spesa può causare una diminuzione più accentuata del Pil. 193 Riassumendo, il reddito nazionale è uguale al valore degli elementi autonomi della domanda aggregata moltiplicati per l’inverso della propensione al risparmio. 3.1. Il reddito di equilibrio in presenza del settore pubblico. Ai fini della determinazione del livello del reddito nazionale non può essere trascurato il ruolo dell’amministrazione pubblica: la politica di bilancio. Verifichiamo di seguito, attraverso il moltiplicatore, qual’é l’impatto della spesa pubblica e delle imposte sul reddito nazionale. Supponiamo che l’operatore pubblico intervenga aumentando la spesa pubblica G (fig. 6.3), per cui la domanda aggregata diventa C+I+G. Il reddito aumenta di un ammontare pari all’aumento della spesa moltiplicato per il valore del moltiplicatore: Y=C+Ī+G C = C0 + c(Y) I=Ī Y = 1/(1-c) (C0 + Ī +G) Δ Y = 1/(1-c) ΔG Fig. 6.3 – Reddito di equilibrio in un sistema con settore pubblico. 3.2. Il reddito di equilibrio in un’economia aperta. Verifichiamo ora come si determina il reddito nazionale di equilibrio in un sistema economico aperto e in cui si abbia l’intervento dell’operatore pubblico. In questo caso per determinare il reddito di equilibrio occorre tenere conto del fatto che il reddito prodotto e distribuito alla collettività, il reddito disponibile, sarà impiegato per spese di consumi (C), risparmiato 194 (S), oppure destinato al pagamento delle imposte (T) e agli acquisti di beni di importazione (Im): Y = C + S + T + Im La domanda aggregata, é costituita dai consumi (C), dagli investimenti (I), dalla spesa pubblica (G) e dalle esportazioni (E): Y=C+I+G+E Un aumento delle esportazioni deve essere considerato come un aumento della domanda autonoma in quanto le esportazioni dipendono non dal reddito interno ma da quello dei consumatori esteri. Le esportazione nette dipendono dal reddito estero, dai prezzi relativi internazionali e dal tasso di cambio. Per contro, le importazioni, poiché i consumatori nazionali si rivolgono ad imprese estere, fanno diminuire la domanda nel mercato interno. Esse aumentano all’aumentare del reddito Supponiamo che la funzione del consumo sia del tipo C = cY per cui la funzione del risparmio sarà S = sY. Anche le imposte (T) dipendono dal reddito, nel senso che i possessori di redditi più elevati pagano maggiori imposte per cui T = tY, dove t misura la pressione tributaria (cioè quanta parte del reddito nazionale va al pagamento delle imposte). Le importazioni (M) possono dirsi anch’esse proporzionali al reddito M = mY dove “m” è la propensione marginale ad importare e misura il valore delle merci che verranno acquistate per ogni euro di reddito nazionale. Le due equazioni possono essere scritte come di seguito: Y = cY + sY + tY + mY Y = cY + I + G + E In quest’ultima equazione figurano come componenti autonome della domanda, oltre agli investimenti, anche la spesa pubblica G, e le esportazioni E. La spesa pubblica infatti non dipende dal reddito bensì da decisioni politiche. Le esportazioni sono vendite di prodotti nazionali sui mercati esteri, per cui, come già anticipato nel cap.4, dipendono dal reddito dei paesi esteri. Possiamo uguagliare i secondi membri delle due equazioni: cY + sY + tY + mY = cY + I + G + E da cui si ha sY + tY + mY = I + G + E Y( s + t +m) = I + G + E Y = 1 / (s+t+m) (I+G+E) Si ottiene il reddito di equilibrio che dipende, dalle spese autonome (investimenti, spesa pubblica e esportazioni) e dal moltiplicatore, che è inferiore a quello descritto in precedenza per l’economia chiusa: 1/(1-c) > 1/(s+t+m) Esempio: supponiamo che la spesa autonoma sia costituita da I=8.000 miliardi di euro; G = 7.000 miliardi; E=10.000 miliardi e i valori delle propensioni siano s=0,2; 195 m=0,2; T=0,1. Si avrà quindi: 1=c+s+t+m. e quindi c = 1- (s+t+m)= 1 – (0,2+ 0,1 + 0,2) = 0,5 La propensione al consumo è il 50% del reddito, mentre la propensione al risparmio e la propensione ad importare (s e m) sono ambedue 20 % e la propensione tributaria (t) è il 10%. Il moltiplicatore sarà uguale a: 1/ (s + t + m )= 1/ (0.2 + 0.1 + 0.2) = 1/0.5 =2 e il reddito di equilibrio sarà due volte la spesa autonoma complessiva: Y = 2 (8.000 + 7.000 + 10.000) = 50.000 In seguito ad una spesa autonoma di 25 milioni si genera un reddito complessivo pari a 50 milioni, la metà del quale viene destinato al consumo. Da un punto di vista grafico la determinazione del reddito di un’economia di mercato aperto è del tutto simile a quella già esposta trattando di un’economia chiusa. Occorre aggiungere all’equazione del reddito le esportazioni (E) e le importazioni (Im), la cui differenza dà il saldo della bilancia commerciale. Va sottolineato come le esportazioni e le importazioni sono condizionate rispettivamente dai prezzi dei beni nazionali e di quelli esteri. A loro volta, questi prezzi sono influenzati dal livello del cambio. Pertanto l’aumento del cambio scoraggia le importazioni perché i beni esteri costano di più, ma incrementa le esportazioni, dal momento che i prodotti nazionali per i paesi esteri costeranno meno. Per contro, la rivalutazione della moneta nazionale produrrà effetti contrari: farà incrementare le importazioni e diminuire le esportazioni. 3.3. La determinazione del reddito di equilibrio in presenza del mercato della moneta. Il modello a cui abbiamo fatto riferimento finora trascura l’incidenza dei mercati monetari e finanziari sul sistema economico. Secondo Keynes, a differenza dei neoclassici, la moneta non è neutrale ma influisce sulla determinazione del reddito di equilibrio e quindi sull’occupazione. Infatti, nel mercato della moneta viene determinato il tasso di interesse che è alla base delle scelte di investimento. Pertanto, i due mercati, quello dei beni e quello della moneta, sono interdipendenti. In base alla teoria della domanda di moneta sviluppata da Keynes, la teoria della preferenza per la liquidità, la moneta non è solo uno strumento che funge da intermediario negli scambi ma è anche un deposito di valore da utilizzare per motivi speculativi. I consumatori devono decidere quanta parte del reddito destinare ai consumi e quanta al risparmio. Effettuata questa scelta devono decidere come utilizzare il risparmio. Esso può essere trattenuto in forma liquida oppure investito in 196 qualche attività finanziaria. Quest’ultima scelta è influenzata dal saggio di interesse. In conclusione, come già messo in evidenza in precedenza, i principali motivi per i quali i soggetti economici desiderano detenere moneta sono sostanzialmente due: per transazioni e per speculazioni. La domanda di moneta a scopo di transazione dipende dal reddito: M1 = kY. La domanda di moneta a scopo speculativo M dipende dai mercati monetari e finanziari Il saggio di interesse ha degli effetti sull’economia reale: una politica monetaria che espande la base monetaria del sistema, abbassando il saggio di interesse, fa aumentare, se non intervengono altri mutamenti, il livello degli investimenti. In realtà, poiché la domanda di moneta dipende sia dal tasso di interesse sia dal livello del reddito, l’effetto immediato di un aumento dell’offerta di moneta è quello di ridurre il tasso interesse, che a sua volta, determina un incremento degli investimenti e quindi della spesa aggregata, nonché del reddito. Ma se il reddito aumenta, anche la domanda di moneta aumenta, per cui i tassi di interesse saliranno leggermente e di conseguenza la funzione della spesa aggregata aumenterà, ma ad un livello leggermente inferiore rispetto alla situazione precedente. Per contro, una politica monetaria restrittiva (deflazionistica) determina la diminuzione degli investimenti, con la conseguente diminuzione del reddito. I mutamenti che intervengono nel mercato della moneta comportano così mutamenti anche nel mercato delle merci. In sintesi: l’aumento dell’offerta di moneta da parte della Banca centrale fa aumentare la domanda di titoli e, di conseguenza, l’aumento delle loro quotazioni e una diminuzione del saggio di interesse (quotazioni dei titoli e loro rendimento sono inversamente proporzionali). Ciò stimolerà gli investimenti e quindi il reddito. Analogamente, se la Banca centrale contraesse l’offerta di moneta facendo aumentare il tasso di interesse, la domanda aggregata diminuirebbe. Fig. 6.4 - Le connessioni tra mercato della moneta e mercato dei beni 197 Prendiamo in considerazione ora il rapporto tra politica fiscale e mercato monetario. Abbiamo osservato in precedenza che una politica fiscale espansiva effettuata con la riduzione delle tasse o con un aumento della spesa pubblica, determina un aumento della spesa aggregata e quindi del reddito. Ma un aumento del reddito nazionale determina un aumento della domanda di moneta che, a parità di offerta di moneta, comporta un incremento dei tassi di interesse. A sua volta, l’incremento dei tassi interesse riduce gli investimenti e il consumo privato e quindi la spesa aggregata. L’aumento della spesa pubblica ha dunque ridotto, spiazzato, l’investimento privato e i consumi a causa dell’aumento dei tassi di interesse (crowding out). Lo spiazzamento non è completo, nel senso che l’effetto dell’aumento della spesa sul reddito è complessivamente positivo, anche se inferiore a quello che si avrebbe senza lo spiazzamento di investimenti e consumi. Il ruolo della moneta non è dunque neutrale: le variabili monetarie (quantità di moneta e saggio di interesse) possono pertanto essere manovrate dalle autorità governative al fine di elevare il reddito e di raggiungere la piena occupazione. Nella fig.6.4 vengono rappresentate le connessioni tra il mercato delle merci e quello della moneta. Nel mercato monetario si determina il saggio di interesse di equilibrio (offerta di moneta e preferenza per la liquidità); il tasso di interesse determina l’investimento che con la funzione di consumo determina il reddito di equilibrio. 4. Il modello di domanda ed offerta aggregata (AD - OA). Nel modello reddito-spesa analizzato nel paragrafo precedente avevamo ipotizzato che i prezzi fossero costanti; abbandoniamo ora questa ipotesi restrittiva in modo da analizzare la relazione che esiste tra il livello dei prezzi e il livello di produzione. Per fare questo utilizziamo il modello di domanda e offerta aggregata AD-OA. Poiché i prezzi possono variare è utile distinguere tra grandezze reali e grandezze monetarie (ad esempio l’occupazione dipende dal livello reale della produzione e non dal suo valore perché questo potrebbe essere stato determinato dalla variazione dei prezzi). Anche in questo caso usiamo un’ipotesi semplificatrice: operiamo in un sistema economico chiuso verso l’esterno. Supponiamo che insieme alla crescita economica (produzione), l’occupazione e la stabilità dei prezzi siano i principali obiettivi di politica economica. Il modello si concentra su due variabili: la produzione di beni e 198 servizi dell’economia, misurata dal Pil reale e il livello generale dei prezzi, misurato dall’indice dei prezzi al consumo o dal deflatore del Pil. La domanda aggregata (AD) – Essa indica la quantità complessiva di prodotto che gli operatori economici (famiglie, imprese, Stato) desiderano acquistare in corrispondenza di diversi livelli di prezzo. Essa esprime tutte le combinazioni possibili tra produzione e livelli dei prezzi, tali per cui sia il mercato dei beni sia il mercato delle attività finanziarie sono contemporaneamente in equilibrio. La curva ha pendenza negativa (fig. 6.5): si ha una relazione inversa tra il livello dei prezzi e la quantità domandata di prodotto interno reale. Gli spostamenti lungo la curva sono determinati, a parità di condizioni, da variazioni del livello dei prezzi. La diminuzione dei prezzi determina un aumento della ricchezza reale e un aumento della moneta in circolazione che fa aumentare la ricchezza reale e provoca una caduta dei tassi di interesse e il deprezzamento del tasso di cambio. Questi effetti stimolano la spesa per consumi, la spesa per investimenti e le esportazioni nette. Se invece i prezzi aumentano, l’offerta reale di moneta diminuisce, la scarsità di denaro determina un aumento dei tassi di interesse e quindi una diminuzione degli investimenti e, di conseguenza, del livello di produzione di equilibrio. Fig. 6.5 – Domanda e offerta aggregata. Lo spostamento della curva è invece legato principalmente a scelte di politica economica (politica fiscale e politica monetaria) o ad eventi imprevisti che incidono sulla funzione dei consumi o degli investimenti o, ancora sulle esportazioni nette. Ad esempio, qualsiasi evento che modifichi la quota di consumo per ogni dato livello dei prezzi comporta uno spostamento della AD. È anche possibile che lo spostamento della curva AD sia causato da fattori esterni. Ad esempio, il progresso tecnico crea nuove opportunità di investimento e di consumo determinando un aumento 199 della domanda aggregata; eventi politici favorevoli possono aumentare la fiducia degli operatori economici determinando una crescita degli investimenti. Anche un aumento della domanda esterna di beni può fare aumentare la DA. In genere, qualunque evento che faccia aumentare il consumo, gli investimenti, la spesa pubblica o le esportazioni nette per ogni livello dei prezzi comporta un aumento della domanda aggregata. Qualunque evento deprima le medesime variabili provoca una contrazione della domanda aggregata. L’offerta aggregata (OA) – L’offerta aggregata indica la quantità di prodotto che le imprese sono disposte a produrre e offrire sul mercato in relazione ai diversi livelli di prezzo. La curva è inclinata positivamente: se i prezzi aumentano, anche l’offerta cresce (fig. 6.5). Muovendoci lungo la curva di offerta possiamo individuare la quantità offerta di beni e servizi da parte delle imprese in relazione ai diversi livelli di prezzo. Gli spostamenti della curva sono dovuti a eventi che alterano la capacità di produrre beni e servizi, come cambiamenti del capitale, del lavoro, delle risorse naturali e delle conoscenze tecnologiche. Poiché le imprese hanno prezzi vischiosi nel breve periodo e flessibili nel lungo periodo, la relazione descritta dalla curva di offerta aggregata dipende dall’orizzonte temporale considerato per cui, di fatto, abbiamo una curva di breve periodo ed una di lungo periodo. a) Nel breve periodo il prodotto effettivo può al massimo essere uguale al prodotto potenziale. Un aumento del livello dei prezzi tende a far aumentare la quantità di beni e servizi complessivamente offerta e viceversa. b) Nel lungo periodo la capacità produttiva può essere variata ed è determinata dagli stessi fattori che incidono sulla crescita a lungo termine: la quantità e la qualità del lavoro dipendente, la quantità di macchinari, il livello tecnico, le risorse naturali, ecc. L’equilibrio macroeconomico - Nel determinare l’equilibrio macro economico dobbiamo dunque distinguere tra breve e lungo periodo. a) Breve periodo – Secondo la teoria keynesiana è piuttosto frequente che il prodotto effettivo sia inferiore a quello potenziale: questo significa che vi possono essere condizioni di equilibrio macroeconomico accompagnate dalla presenza di disoccupazione. In queste circostanze, la curva di offerta aggregata OA può essere rappresentata da una retta orizzontale (fig. 6.6): per un dato livello di 200 prezzi le imprese possono offrire qualsiasi quantità di beni venga domandata poiché esiste in genere capacità produttiva in eccesso. Fig. 6.6 – Domanda e offerta aggregata. Una diminuzione della domanda aggregata da AD1 a AD0 riduce il prodotto aggregato, perché i prezzi non si aggiustano istantaneamente: i salari sono sostanzialmente rigidi verso il basso. Con la domanda bassa e i prezzi alti le imprese vendono una minore quantità di beni e servizi, perciò riducono la produzione e riducono la forza lavoro. L’economia sperimenta una recessione. La flessione della domanda aggregata non influenza il livello dei prezzi, ma provoca una diminuzione del prodotto aggregato. In realtà la curva di offerta aggregata di breve periodo non è perfettamente orizzontale, ma ha pendenza positiva; la curva orizzontale descrive infatti il caso estremo in cui tutti i prezzi sono fissi. b) Il lungo periodo - Diversamente da quanto affermato dai keynesiani, per gli economisti classici il prodotto di equilibrio è sempre pari al suo livello potenziale (Y=Yp) ed è l’offerta che crea la domanda (legge di Say). Variazioni dei salari e dei prezzi mantengono il sistema in un equilibrio di piena occupazione. Poiché la capacità produttiva è interamente utilizzata, la curva di offerta aggregata può essere rappresentata con una retta verticale, ad indicare il fatto che, qualunque sia il livello dei prezzi, le imprese offrono un livello massimo di produzione pari al prodotto potenziale Yp: questa offerta è pari alla produzione potenziale e garantisce il pieno impiego delle risorse disponibili all’interno del sistema economico (fig. 6.7). Le variazioni della domanda aggregata influenzano il livello dei prezzi, ma non il prodotto aggregato. Per esempio, se l’offerta di moneta diminuisce, la DA si sposta verso sinistra (fig. 6.7). L’economia si sposta dall’equilibrio di partenza, E1, a un nuovo equilibrio, E0, generando solo una variazione del livello dei prezzi. 201 Fig. 6.7 - Uno spostamento della DA nel lungo periodo c) Una posizione intermedia - Una posizione intermedia è che l’ipotesi keynesiana di rigidità dei prezzi e, in particolare dei salari, sia adeguata a descrivere ciò che avviene nel breve periodo, mentre nel lungo periodo sia più appropriata l’ipotesi classica di flessibilità dei salari. Pertanto la curva di offerta verrebbe ad essere configurata, in un primo tratto piuttosto piatta e quindi, successivamente in un secondo tratto, verticale. Nel breve periodo, quando la curva di offerta presenta un primo tratto crescente, ma relativamente piatta, la produzione effettiva è inferiore a quella potenziale; se la domanda aggregata aumenta, le imprese sono disposte ad offrire quantità maggiori di prodotto se i prezzi sono più elevati. Tuttavia questo aumento di produzione ha un limite rappresentato dal prodotto potenziale; man mano che ci si avvicina al prodotto potenziale aumentano i costi del lavoro e quindi i prezzi. Nel lungo periodo l’offerta è rappresentata da una retta verticale e il livello di produzione coincide con quello potenziale (ipotesi classica). In questi casi un aumento della domanda aggregata influirà solo sui prezzi ma non sulla produzione. La distinzione tra offerta aggregata di breve e lungo periodo è fondamentale per la moderna macroeconomia: a breve termine l’offerta aggregata opera insieme alla domanda aggregata per determinare gli alti e bassi del ciclo economico, ma a lungo termine è la crescita dell’offerta aggregata, anziché della domanda aggregata, a spiegare l’aumento della produzione e del benessere. 5*. Gli obiettivi di politica economica di breve periodo e le politiche di stabilizzazione. In questo paragrafo, approfondiamo l’analisi delle politiche macroeconomiche, fiscale e monetaria in relazione a due obiettivi di politica economica: l’occupazione e la stabilità dei prezzi. Il terzo 202 obiettivo, quello della crescita economica, verrà trattato nel prossimo capitolo. Prima di analizzare gli interventi di politica macroeconomica va ricordato che il sistema economico, grazie alla presenza degli stabilizzatori automatici, è in grado di attenuare le fluttuazioni del reddito. Molti sono gli istituti che agiscono da stabilizzatori automatici. Il più importante è certamente il sistema fiscale. Se un’economia entra in recessione, automaticamente diminuiscono le entrate tributarie, poiché sono collegate alle attività produttive. L’automatica riduzione delle entrate fiscali stimola la domanda aggregata e, perciò funge da ammortizzatore delle fluttuazioni cicliche. Se si verifica una diminuzione della domanda di investimenti, si ha come conseguenza una diminuzione della domanda aggregata e, attraverso il moltiplicatore, una più ampia contrazione del reddito di equilibrio. L’ampiezza della riduzione del reddito è influenzata dal valore dell’aliquota di imposta sul reddito. La presenza di un’imposta proporzionale riduce il moltiplicatore e lo riduce in misura tanto maggiore quanto maggiore è l’aliquota d’imposta. L’imposta proporzionale è un esempio di stabilizzatore automatico, costituisce un meccanismo che riduce la reazione del Pil a shock esterni (caduta degli investimenti, aumento del prezzo del petrolio, ecc.). Esistono stabilizzatori automatici anche dal lato della spesa. Gli istituti che fanno capo allo “stato del benessere” (la sicurezza sociale) come ad esempio l’indennità di disoccupazione che interviene in modo da ridurre le fasi di recessione. Gli stabilizzatori automatici possono ridurre parzialmente i movimenti ciclici ma di solito non sono sufficienti a contrastarli completamente. Occorre pertanto intervenire con adeguate politiche macroeconomiche, fiscale e monetaria. a) Il mercato del lavoro e la disoccupazione – Uno dei più importanti obiettivi di politica economica consiste nel fare fronte alla disoccupazione. Si ricorda che in base all’analisi neoclassica, nel lungo periodo ogni sistema economico è in grado di ritornare da solo alla piena occupazione attraverso un lento aggiustamento dei salari e dei prezzi, per cui occorre liberalizzare il mercato del lavoro cercando di renderlo più flessibile. Per contro, i keynesiani propongono di incrementare direttamente la domanda aggregata, attraverso un aumento della spesa pubblica, o indirettamente, favorendo gli investimenti delle imprese, con opportune agevolazioni fiscali o creditizie. Tuttavia, per fare fronte alla disoccupazione strutturale non basta agire sulla domanda. Occorrono interventi specifici come investimenti nuovi, processi di riconversione industriale, riqualificazione professionale. Si tratta di interventi che agiscono sul mercato del lavoro e 203 sulle professioni. L’effetto è un nuovo equilibrio con un livello di produzione superiore ma senza variazione dei prezzi. In modo del tutto analogo, anche la politica monetaria espansiva (aumento offerta di moneta) sposta la curva AD determinando un aumento della produzione effettiva senza alcun aumento del livello dei prezzi. A lungo termine, mentre la curva di offerta aggregata diventa verticale, se l’operatore pubblico interviene con un aumento della spesa pubblica, rispetto alla situazione iniziale si viene a creare un eccesso di domanda. Anche se le imprese offrono salari più elevati la produzione non può superare il suo livello potenziale e l’unico risultato consiste nell’aumento dei prezzi. Prezzi più alti comportano sul mercato monetario una riduzione dell’offerta reale di moneta, un aumento dei tassi di interesse e, quindi, una riduzione della domanda aggregata (spiazzamento degli investimenti) fino a renderla compatibile con un livello di produzione Yp. Il nuovo equilibrio si stabilisce nel punto in corrispondenza del quale OA=AD. La produzione è ritornata al suo livello iniziale di pieno impiego mentre il livello dei prezzi è più alto. Una politica monetaria espansiva, realizzata attraverso un aumento dell’offerta nominale di moneta, produce risultati simili. Al fine di accrescere l’offerta di moneta, la Banca centrale potrebbe adottare una qualche combinazione dei seguenti provvedimenti: 1) acquistare titoli di Stato dalle aziende di credito e dal pubblico sul mercato aperto; 2) ridurre il coefficiente di riserva obbligatoria; 3) abbassare il tasso ufficiale di sconto. Come risultato le riserve in eccesso del sistema bancario aumenterebbero. Supponiamo che la Bc intervenga con operazioni di mercato aperto. Quando la Bce acquista titoli di Stato sul mercato espande l’offerta di moneta e, data la domanda di moneta, un nuovo equilibrio sul mercato monetario caratterizzato da un tasso di interesse più basso e, ovviamente, una quantità di moneta più consistente. Il calo del tasso di interesse farà aumentare gli investimenti (edilizia abitativa, beni di consumo durevoli). La riduzione del tasso di interesse rende infatti meno oneroso per le imprese l’accesso al prestito bancario e quindi meno costoso realizzare gli investimenti. L’aumento del Pil che ne deriva potrebbe essere più o meno consistente a seconda dell’entità della crescita degli investimenti e del valore del moltiplicatore del reddito. Queste politiche sono utili per far fronte alla disoccupazione ciclica, quella involontaria. Tuttavia per ridurre il tasso naturale di disoccupazione (quel tasso di disoccupazione che è presente anche quando il mercato del lavoro è in equilibrio) occorre mettere in atto una serie di misure che riducano la componente frizionale e strutturale della disoccupazione, 204 investendo ad esempio, nella formazione professionale dei lavoratori, favorendo l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, introducendo meccanismi di sostegno e di aiuto ai disoccupati che non disincentivino la ricerca di lavoro. Ad esempio, una riduzione delle aliquote fiscali, uno dei punti chiave della supply side economics insieme alla riduzione dei sussidi (economia dell’offerta, cfr. appendice I cap 1), e un conseguente aumento del reddito disponibile dei lavoratori tende a fare sostituire il lavoro al posto del tempo libero. La fig. 6.8 permette di analizzare l’effetto di una riduzione delle aliquote fiscali sul reddito. Le funzioni LD, AJ e Aj rappresentano rispettivamente la domanda di lavoro, la forza lavoro e il numero di lavoratori che desiderano accettare un’offerta di lavoro, a seconda del salario reale, per cui nel punto di equilibrio E, il segmento EF rappresenta la disoccupazione naturale, ossia quel numero di persone che fanno parte della forza lavoro ma che non sono disposte ad accettare un’offerta di lavoro al salario di equilibrio w2. Un’imposta sul reddito rende il reddito netto percepito dal lavoratore inferiore rispetto a quello pagato dalle imprese. Il segmento AB misura quella parte del salario lordo che ogni lavoratore deve pagare in termini di imposta, quando il livello di occupazione è pari a N1. N1 indica la quantità di lavoro che le famiglie desiderano offrire al salario netto w 3, mentre il salario lordo pagato dalle imprese è w 1. Al salario netto w3 corrisponde una disoccupazione naturale pari al segmento BC. Se le imposte venissero abolite l’equilibrio si avrebbe nel punto E. L’occupazione aumenterebbe da N1 a N2 e la disoccupazione naturale si ridurrebbe da BC a EF. A parità di sussidi di disoccupazione, un aumento del salario netto da w3 a w2 riduce la disoccupazione volontaria. Fig. 6.8 – Effetti di una riduzione dell’aliquota fiscale sul reddito In conclusione, secondo l’economia neoclassica sia le politiche monetarie sia quelle fiscali non sono in grado di influenzare la produzione 205 che, per definizione, è sempre al suo massimo livello possibile, date le risorse disponibili. Possono produrre effetti negativi per l’equilibrio dei sistemi economici: aumento del livello dei prezzi e quindi inflazione; una politica fiscale espansiva inoltre modifica la composizione della domanda aggregata spiazzando gli investimenti privati. Tuttavia, a differenza della politica fiscale espansiva, quella monetaria non provoca un aumento dei tassi di interesse. b) I processi inflazionistici e le politiche di controllo – Un altro obiettivo di politica economica è costituito dal controllo dell’inflazione. Le politiche macroeconomiche cambiano a seconda delle cause che alimentano il processo inflazionistico: da domanda o da costi. Nel caso dell’inflazione da domanda, se il sistema economico opera al di sotto del pieno impiego, un aumento della domanda causato da un incremento della spesa pubblica o dalla riduzione della tassazione o da politiche monetarie espansive, determina una crescita della produzione e un calo della disoccupazione. Tuttavia, se la domanda cresce oltre il prodotto potenziale si verifica un eccesso di domanda che potrà essere colmato solo mediante un aumento di prezzi. In realtà, nel breve periodo qualsiasi fenomeno di incremento della domanda (a parità di offerta) provoca un surriscaldamento dei prezzi e, pertanto, un fenomeno inflazionistico di breve periodo, e ciò perché la risposta della produzione agli stimoli della domanda non è immediata, occorre un certo periodo di tempo perché le imprese possano adeguare i loro livelli produttivi. Durante il periodo d’aggiustamento si verifica l’aumento dei prezzi che è destinato a stabilizzarsi nel tempo. Nel lungo periodo fenomeni inflazionistici persistenti hanno di solito natura monetaria (politica monetaria espansiva) e non possono essere attribuiti all’aumento della spesa pubblica o delle esportazioni. A sostegno di questa tesi viene citata, l’iperinflazione degli anni ’20 e quella, più recente, della Russia degli anni novanta. L’inflazione può avere origine dal lato dell’offerta: inflazione da costi. Quando il prezzo delle materie prime e i salari aumentano, le imprese aumentano i prezzi per mantenere i loro margini di profitto. Questa tesi spiega i fenomeni da inflazione delle moderne economie industriali nelle quali la tendenza alla crescita costante dei prezzi anche in periodi di recessione è difficilmente spiegabile con l’inflazione da domanda. Negli anni sessanta del secolo scorso questi rialzi dei prezzi erano dovuti alla crescita dei salari, mentre negli anni settanta la causa principale fu l’aumento delle materie prime (petrolio). In genere, le cause dell’inflazione da costi possono essere individuate negli aumenti dei salari; nella 206 diminuzione della produttività che induce aumenti di prezzi; in un aumento del mark-up; nell’aumento dei prezzi dei beni importati e nell’aumento della pressione fiscale che aumenta i costi di produzione delle imprese. Rimedi all’inflazione - In genere i rimedi da adottare per il controllo dei prezzi dipendono dalle cause della loro variazione. Se l’inflazione è originata da eccesso di domanda occorrerà fare in modo di limitare i consumi (politica fiscale restrittiva), ridurre gli investimenti (con politiche monetarie e creditizie restrittive) e tenere sotto controllo la spesa pubblica. Se come credono i monetaristi l’inflazione dipende da un eccesso di moneta è necessario ridurre la moneta in circolazione e adottare politiche monetarie restrittive. La Banca centrale dovrebbe adottare una qualche combinazione delle seguenti misure: 1) vendita di titoli di stato alle aziende di credito o al pubblico sul mercato aperto; 2) aumento del coefficiente di riserva obbligatoria; 3) innalzamento del tasso ufficiale di sconto. Le banche si trovano con una quantità di depositi a vista eccessiva in rapporto alle loro riserve per cui per rispettare l’obbligo di riserva devono cercare di ridurre i loro depositi a vista, interrompendo l’erogazione di credito. Ogni euro di riduzione delle riserve bancarie produce una contrazione multipla dei depositi traibili, diminuendo quindi l’offerta di moneta. Infatti, poiché l’offerta di moneta è uguale ai contanti più i depositi traibili, la riduzione di questi ultimi fa diminuire l’offerta di moneta. La riduzione dell’offerta di moneta tenderà ad aumentare i tassi di interesse e restringere le condizioni di credito. I tassi di interesse saliranno per chi vuole ottenere un mutuo per ottenere casa e per le imprese che vogliono costruire fabbriche, comprare nuove attrezzature. I tassi di interesse più elevati faranno diminuire i prezzi delle attività e quindi ne faranno scendere il valore. Con tassi di interesse più elevati e minore ricchezza, le spese sensibili ai tassi di interesse, soprattutto gli investimenti, tenderanno a diminuire. Tassi di interesse più elevati, maggiori restrizioni creditizie e minore ricchezza tenderanno a scoraggiare gli investimenti e la spesa per consumi. Infine, le pressioni delle restrizioni creditizie, riducendo gli investimenti e quindi la domanda aggregata, faranno diminuire il reddito, il prodotto, l’occupazione e l’inflazione. Se, infine, l’inflazione è dovuta all’incremento dei costi le politiche di riduzione possono agire sul contenimento dei salari (politica dei redditi); favorire la crescita della produttività; ridurre la pressione fiscale; 207 aumentare la concorrenza per ridurre il potere delle imprese (mark-up); ridurre la dipendenza dall’estero di beni necessari alle imprese. L’inflazione, la moneta e il disavanzo pubblico - Secondo alcuni esiste una relazione tra inflazione e deficit dello Stato. Il disavanzo può essere finanziato in due modi: mediante obbligazioni chiedendo a prestito denaro al settore privato oppure stampare moneta (nei Paesi in cui non vi è un’autorità monetaria indipendente dal governo e quindi non in Italia). Nel caso si stampi moneta è abbastanza chiaro cosa può succedere. Nel caso invece il governo emetta obbligazioni, in seguito al “divorzio” tra Banca d’Italia e ministero dell’economia, la Bc, a propria discrezione, può decidere se finanziare o meno una richiesta di liquidità quando il governo avanza una richiesta. All’aumentare dello stock emesso di obbligazioni aumenta la spesa per interessi che lo Stato deve pagare. Questo tende a fare aumentare ulteriormente il disavanzo pubblico obbligando il governo, che vuole finanziarsi sempre con l’emissione di obbligazioni, ad aumentare anche la richiesta di liquidità al mercato monetario. Aumentando la domanda di liquidità nel mercato monetario, il prezzo da pagare sarà un aumento del tasso di interesse. Ecco che la spirale maggior spesa per interessi – maggiore richiesta di liquidità, a un certo punto, può diventare insostenibile per il governo per cui potrebbe essere tentato di emettere moneta. Inflazione e disoccupazione: la stagflazione – In precedenza abbiamo visto che quando l’economia supera la soglia del pieno impiego, nel mercato del lavoro si generano tensioni che spingono verso l’alto i prezzi e i salari. Tassi particolarmente bassi di disoccupazione, si traducono in un aumento del livello generale dei prezzi. Al contrario, quando la produzione è inferiore a quella potenziale e il mercato del lavoro ristagna, si verifica una tendenza alla deflazione. I motivi per cui può esserci inflazione prima che venga raggiunta la piena occupazione sono principalmente due: - man mano che l’economia si avvicina al livello di piena occupazione, nel mercato del lavoro vengono a crearsi squilibri, strozzature e problemi strutturali. Gli adeguamenti del mercato del lavoro non sono né abbastanza rapidi né sufficientemente completi per impedire che i costi di produzione e i prezzi aumentino prima che il sistema raggiunga la piena occupazione. - una seconda spiegazione è che i sindacati e le grandi imprese possiedono un notevole potere monopolistico o capacità di controllare il mercato, che consente loro di aumentare i prezzi. Ed è più facile esercitare questo potere 208 quando il sistema economico si avvicina alla piena occupazione. Si parla in questo caso di inflazione salariale. Numerosi studi empirici sembrano confermare la necessità di distinguere la relazione tra tasso di disoccupazione e inflazione in base a una dimensione temporale: breve e lungo periodo. Nel breve periodo la relazione sembra esistere mentre nel lungo periodo viene meno e il tasso di disoccupazione risulta essere sostanzialmente indipendente dal tasso di inflazione di lungo periodo. Una situazione particolare è costituita dalla presenza contemporanea di disoccupazione e inflazione: cioè stagflazione. Fino agli anni ’70 la coesistenza tra stagnazione e inflazione era inspiegabile. Come descritto dalla curva di Phillips, i periodi di stagnazione dell’attività economica erano, tradizionalmente caratterizzati dalla caduta dei prezzi (deflazione), per il calo della domanda rispetto all’offerta. In seguito, il fenomeno dell’inflazione è per contro diventato sempre più indipendente dal ciclo dell’economia, data la rilevanza assunta dai mercati oligopolistici dell’energia e delle materie prime. La causa principale sembra da attribuirsi alle aspettative che gli agenti economici hanno sulla dinamica futura dei prezzi. In periodi di prezzi elevati gli individui si aspettano ulteriori aumenti dei prezzi e i contratti che vengono stipulati scontano queste aspettative. In particolare, tre fattori contribuiscono a rendere l’inflazione un fenomeno economico indipendente dal ciclo economico e dalle fasi di crescita e di depressione dell’attività economica: 1) i salari vengono determinati da accordi e contratti collettivi che prevedono aumenti dei salari monetari anche in situazioni di depressione economica; 2) accordi di indicizzazione che legano i salari all’andamento generalizzato dei prezzi; 3) mercati oligopolistici e monopolistici in relazione al controllo delle materie prime (energia) o al mercato del lavoro. Negli anni ’80 la nostra economia è stata afflitta da stagflazione. Essa fu provocata da una serie di shock dal lato dell’offerta: l’aumento del prezzo del petrolio voluto dall’Opec; successivi deprezzamenti del tasso di cambio; riduzione della produttività; aspettative da inflazione. Gli shock hanno spostato la curva OA verso sinistra, dando origine alla stagflazione. Se la moneta nazionale si deprezza, aumenta il costo dei prodotti importati per molte materie prime, ciò si traduce in un ulteriore shock dal lato dell’offerta. La riduzione della produttività provoca un aumento dei costi di produzione unitari; la variazione del costo del lavoro unitario è approssimativamente uguale alla differenza tra la variazione dei salari nominali e la variazione della produttività del lavoro. 209 c) La stabilità dei cambi – Gli obiettivi perseguiti dal governo non riguardano solo la stabilità dei prezzi e l’occupazione ma, in un’economia aperta, anche la stabilità dei cambi. All’equilibrio interno occorre aggiungere anche quello esterno. Le condizioni del mercato monetario e del mercato dei beni nell’economia domestica si influenzano a vicenda: i tassi di interesse e i tassi di cambio influiscono sul livello della domanda aggregata, mentre il reddito influisce sulla domanda di moneta e, per una data offerta di moneta, sui tassi di interesse, L’equilibrio generale si verifica quando i tre mercati raggiungono contemporaneamente l’equilibrio (fig. 6.9). Un sistema economico ha un equilibrio interno quando la domanda aggregata è a livello del prodotto di piena occupazione Y = C+I+G+(XIm). L’equilibrio esterno si ha quando la bilancia commerciale, all’interno della bilancia dei pagamenti è in pareggio. La combinazione dell’equilibrio interno e dell’equilibrio esterno è l’equilibrio di lungo periodo del sistema economico. Fig.6.9 – L’equilibrio macroeconomico generale. Il problema che analizziamo di seguito è il modo di operare della politica monetaria e quella fiscale in un’economia aperta caratterizzata da perfetta mobilità di capitali. Nell’analizzare le due politiche occorre fare una distinzione tra paesi che hanno adottato un regime di cambi fissi e quelli che hanno invece cambi flessibili. La politica economica in regime di cambi flessibili – In un regime di cambi flessibili, la Bc non interviene sul mercato dei cambi. Il tasso di cambio si deve adeguare al livello necessario per equilibrare la domanda e l’offerta di valuta estera. La BP raggiunge perciò l’equilibrio in assenza di intervento della Bc. Ogni disavanzo nel conto delle partite correnti è finanziato da un afflusso di capitale privato, mentre eventuali avanzi sono controbilanciati da un deflusso di capitale privato. 210 Una seconda implicazione dell’esistenza di tassi di cambio flessibili è il completo controllo della Bc sull’offerta di moneta. L’assenza di obblighi di intervento sul mercato dei cambi, fa venir meno ogni legame fra la BP e l’offerta di moneta. La perfetta mobilità dei capitali implica l’esistenza di un solo tasso di interesse, in corrispondenza del quale la BP è in equilibrio. Se il livello del tasso interno fosse più elevato di quello internazionale, l’afflusso di capitale provocherebbe un apprezzamento della valuta nazionale e, pertanto la competitività diminuisce e, quindi, la domanda aggregata si contrae. In relazione alle politiche economiche va evidenziato che nel caso dei cambi flessibili solo la politica monetaria mantiene un certo grado di efficacia. Una politica monetaria espansiva (aumento dell’offerta di moneta e quindi riduzione del tasso interesse) equivale a svalutare il tasso di cambio e, rendendo più competitiva la produzione nazionale, permette di aumentare le esportazioni e quindi la produzione di equilibrio. Se i tassi interesse sono più bassi rispetto a quelli praticati all’estero ci sarà un deflusso di capitali verso l’estero (remunerazioni maggiori); ciò comporta una minor domanda di valuta nazionale e quindi una pressione sul tasso di cambio che si svaluterà; la svalutazione rende più competitiva l’economia nazionale, le esportazioni aumentano e con esse la produzione di equilibrio. Una politica monetaria espansiva determina indirettamente una svalutazione, migliorando da un lato il saldo delle partire correnti e dall’altro la produzione di equilibrio e quindi l’occupazione. Se invece il SEBC abbassa il tasso di interesse, l’euro si deprezza. Queste variazioni del tasso di cambio influenzano le esportazioni nette. Per esempio, un apprezzamento dell’euro rende più attraenti per gli europei i beni importati e rende meno attraenti per gli stranieri le esportazioni europee. Perciò le importazioni aumentano e le esportazioni diminuiscono con una conseguente diminuzione delle esportazioni nette (esportazioni – importazioni). La diminuzione delle esportazioni nette, a sua volta, fa diminuire il Pil reale. La politica fiscale è invece inefficace: all’aumentare della spesa pubblica il reddito nazionale aumenta ma con esso anche i tassi interesse, per cui vi sarà un afflusso di capitali dall’estero, una maggior domanda di valuta nazionale e quindi un apprezzamento del tasso di cambio. Ciò significa perdita di competitività, riduzione delle esportazioni ed aumento delle importazioni; il disavanzo di parte corrente, infatti, viene compensato da un afflusso di capitali, ma la produzione di equilibrio non è aumentata. Vi è stata una variazione della composizione della domanda (è aumentata la spesa pubblica che però ha spiazzato le esportazioni nette). 211 Politiche fiscali e monetarie in regime di cambi fissi - In un regime di cambi fissi, le autorità competenti della politica economica si impegnano a mantenere nel mercato valutario un certo tasso di cambio nominale. Ciascun paese non può avere una politica monetaria indipendente: i tassi di interesse devono muoversi insieme. Infatti se il tasso di interesse di un paese fosse più elevato degli altri paesi si avrà un afflusso di fondi che farà aumentare il valore della valuta. Da quando i paesi dell’UE fissato permanentemente i loro tassi di cambio reciproci, in Europa c’è in effetti un unico tasso di interesse overnight e non vi possono esservi politiche monetarie indipendenti. Se il Pil reale dell’Italia scendesse al di sotto del Pil potenziale e invece negli altyri paesi rimanesse uguale al Pil potenziale, allora una riduzione del tasso di interesse da parte della Bce, che potrebbe essere vantaggiosa per l’Italia, sarebbe svantaggiosa per gli altri paesi. In questa situazione potrebbe essere necessario utilizzare in Italia una politica fiscale anticiclica (un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle imposte). - Supponiamo che la BP sia in avanzo mentre il livello di produzione è al di sotto del suo equilibrio di pieno impiego (disoccupazione). In questo caso ricorrendo a una politica fiscale espansiva (riduzione delle imposte o aumento della spesa pubblica) che permetta di raggiungere la piena occupazione e a una politica monetaria espansiva che riduca il tasso di interesse è possibile ripristinare sia l’equilibrio interno sia quello esterno. - Se la situazione è opposta a quella precedente e cioè la BP è in disavanzo per cui la BC è costretta a ricorrere alle riserve valutarie per compensare il disavanzo e si ha piena occupazione (rischio di inflazione). In questo caso non c’è conflitto nelle scelte delle politiche economiche: politiche fiscali e monetarie entrambe restrittive possono permettere al sistema economico di spostarsi verso una situazione di equilibrio interno ed esterno. - Il problema sorge nel caso in cui si ha disavanzo della BP e produzione al di sotto del livello di pieno impiego (disoccupazione). Per favorire l’occupazione occorrerebbero politiche in grado di favorire l’aumento del reddito, ma queste peggiorerebbero i conti con l’estero; d’altra parte politiche restrittive che siano in grado di ripristinare l’equilibrio della BP aggraverebbero la disoccupazione. In questo caso occorre fare riferimento a due diverse politiche per realizzare due obiettivi diversi: occorre utilizzare contemporaneamente una politica fiscale espansiva che porti ad un incremento dell’occupazione associandola ad una politica monetaria restrittiva che, attraverso un aumento dei tassi di interesse, consenta di realizzare il pareggio della BP. Gli effetti depressivi sul prodotto di un 212 aumento dei tassi di interesse verrebbero in questo caso compensati dalla politica fiscale espansiva. In realtà il problema non è così semplice da risolvere. Infatti, la politica fiscale produce i suoi effetti con notevole ritardo. In secondo luogo, la possibilità di intervenire sui tassi di interesse interni è ridotta poiché, per definizione, dovrebbero collocarsi allo stesso livello dei tassi di interesse internazionali. L’aumento del tasso di interesse determina un afflusso di capitali riportando in pareggio la BP, ma in questo modo aumenta anche l’indebitamento di un paese nei confronti del resto del mondo. Se sono equivalenti non vi sono particolari problemi. Se non lo sono si possono verificare problemi come quelli originati dall’unificazione della Germania. Il principio generale vuole che in regimi di cambi fissi e con mobilità di capitali, si usi la politica monetaria per raggiungere l’equilibrio esterno e la politica fiscale per raggiungere la piena occupazione. L’argomentazione a favore di una combinazione di politiche economiche è convincente ma non tiene conto di due limiti. Il primo è che un paese non è generalmente indifferente al livello dei tassi di interesse interni. Un paese che persegue contemporaneamente una crescita della domanda aggregata e una politica monetaria restrittiva, finisce per deprimere il settore edilizio e la spesa per investimenti in generale. Il tasso interesse determina non solo il livello della spersa aggregata ma anche la sua composizione. La seconda considerazione riguarda la composizione della BP. I paesi non sono indifferenti alla suddivisione delle loro BP in un disavanzo di parte corrente e in un avanzo del conto capitale. Sebbene la BP sia in equilibrio, rimane il problema che un avanzo del conto capitale, ovvero un afflusso di capitali costituisce un indebitamento netto con l’estero, una crescita del nostro debito complessivo verso i residenti all’estero. Un continuo ed elevato indebitamento verso l’estero non è alla lunga compatibile con un tasso di cambio fisso. Un elevato indebitamento mette il paese nella condizione in cui i pagamenti per interessi ai residenti all’estero diventano un peso notevole per il sistema economico. Pertanto, si dovrebbero adottare politiche di aggiustamento tali da migliorare il saldo delle partire correnti. Appendice I La crisi del 1929 o crollo di Wall Street- L’inizio della crisi ebbe inizio con la crisi del New York Stock Exchange (la borsa di Wall Street) avvenuta il 24 ottobre del 1929 (giovedì nero), a cui fece seguito il definitivo crollo della borsa valori del 29 ottobre dopo anni di boom azionario. 213 Secondo Galbraith i fattori di debolezza che portarono alla crisi furono i seguenti: la cattiva distribuzione del reddito; la cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie; la cattiva struttura del sistema finanziario; l’eccesso di prestiti a carattere speculativo; l’errata scienza economica (ossessivo perseguimento del pareggio di bilancio e assenza di intervento pubblico nell’economia). La caduta della borsa colpì soprattutto quel ceto medio che nel corso degli anni Venti aveva sostenuto la domanda di beni di consumo durevole e aveva investito i propri risparmi in borsa. La loro uscita dal mercato indeboliva, quindi, proprio le industrie produttrici di beni di consumo durevole (come quello dell’auto). Queste industrie cessarono di commissionarie materiali a quelle operanti negli stessi settori, le quali dovettero ridurre il personale e ridurre i salari, provocando una contrazione anche nei settori dei beni di consumo (come quello agricolo). La situazione era poi aggravata dalla stretta interconnessione che legava il settore industriale a quello bancario. Infatti, nel momento in cui la borsa crollò, si diffuse un’ondata di panico devastante tra i piccoli risparmiatori i quali si precipitarono nelle banche nel tentativo di salvare il proprio denaro. Il ritiro del denaro dal mercato provocò una crisi di liquidità di ampie dimensioni e il fallimento di molte banche che trascinarono nella crisi le industrie nelle quali avevano investito. I licenziamenti portarono ad una elevata diminuzione delle domande di lavoro, bloccando quasi completamente l’economia americana. Tuttavia la causa principale che portò il crollo finanziario a diventare una depressione economica di enormi dimensioni fu la chiusura delle economie nazionali e coloniali. Così come nella Grande depressione del 1873, furono i dazi doganali a deprimere le’economia. Alcuni stati producevano beni in surplus che però non venivano acquistati dagli altri stati, poiché venivano resi troppo costosi dai dazi all’importazione per favorire i produttori interni. Quando la produzione raggiunge il livello di saturazione, il prezzo scende tanto che non è più conveniente produrre quel bene, a meno di trovare nuovi mercati che possano assorbire parte delle merci. 214