TITOLO: La felicità come appagamento personale e diritto fondamentale dell’uomo DESTINAZIONE EDITORIALE: Fascicolo scolastico Secondo la definizione de lo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana (2005), per felicità si intende la condizione di chi è pienamente appagato nei suoi desideri; il termine, infatti, deriva dall’aggettivo latino felix, che possiede i significati di “fortunato” e, detto di piante, “fertile, fecondo”. Fin dai tempi antichi gli uomini si sono interrogati sul significato della felicità e soprattutto sui modi per ricercarla e raggiungerla: svariate sono state le soluzioni proposte, tanto che già i filosofi greci interpretavano la questione in modi differenti. Gli epicurei, per esempio, ritenevano che l’uomo, per essere felice, dovesse vivere in assenza di sofferenze fisiche (aponia) e turbamenti interiori (atarassia), mentre gli stoici credevano che la vera felicità consistesse nell’uniformarsi al logos, principio regolatore dell’universo. E oggi? Esiste la felicità? Si può in qualche modo ricercare e, addirittura, raggiungere? Osservando la realtà attuale, è possibile affermare che l’autentica felicità è raggiungibile soltanto per brevi attimi, in quanto essa è di per sé qualcosa di instabile, come del resto lo è l’intera vita dell’uomo, caratterizzata da una costitutiva incertezza, che, per dirla con Bauman, ne costituisce il suo “habitat naturale”. Le parole di Bauman, d’altra parte, non sono nuove, se si pensa che già nell’Atene del V secolo a.C. le tragedie di Sofocle rappresentavano proprio il dramma della precarietà della vita dell’uomo, vittima di un destino insondabile. E’ dunque possibile affermare che la felicità autentica è sempre stata per l’uomo una mera utopia, fatta eccezione per alcuni momenti che sembrano sfuggire alla ferrea legge della precarietà. Per esempio, quando una persona realizza il proprio progetto di vita, creando una famiglia, o raggiunge gli obiettivi da tempo prefissati in campo professionale, può certamente dirsi soddisfatta, e dunque felice. Più semplicemente, quando si trova un equilibrio interiore che permetta di vivere in pace con se stessi o con il mondo, è possibile raggiungere una sorta di appagamento personale. In altri casi, la felicità scaturisce dalle relazioni interpersonali: i legami con gli altri divengono così strumenti di soddisfazione individuale. Come è possibile notare, gli esempi sopraccitati parlano tutti di una felicità di breve durata, legata alla congiuntura del momento e non costitutiva dell’uomo. Leggendo un passo della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, tuttavia, scopriamo che la felicità, oltre che una condizione dell’anima che tutti vorrebbero raggiungere, è anche un diritto, insieme alla vita e alla libertà. Il medesimo assunto compare, due secoli più tardi, nella Costituzione Italiana, in cui si legge che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]. In questa prospettiva, la felicità diviene dunque una sorta di obiettivo sociale che gli Stati devono perseguire per ognuno dei propri cittadini, contribuendo a far sì che tutti godano delle medesime opportunità economiche e sociali per potersi realizzare pienamente come persone. Inutile dire che la realtà stride con questo principio costituzionale: già nel 1992 la soddisfazione media riportata da europei e statunitensi, a fronte di un considerevole aumento del reddito pro-capite, era la stessa di vent’anni prima. La situazione attuale sembra essere ancora più drammatica, dal momento che in questi ultimi anni – almeno a partire dal 2008 – l’Occidente sta vivendo una crisi economica e sociale di cui non si intravede ancora la fine: è un dato innegabile che proprio negli Stati Uniti sia aumentato sempre di più il divario fra ricchi e poveri e dunque la differenza fra chi può godere di numerose opportunità per progettare al meglio la propria vita e chi invece si deve accontentare di ciò che resta. Per non parlare, poi, del ben più grave e scandaloso squilibrio che divide il Nord dal Sud del mondo e che costringe milioni di persone a una vita priva di risorse e di dignità. L’errore sta forse nell’aver creduto in un modello di sviluppo che ha puntato unicamente al benessere individuale: il Chicago man o homo oeconomicus è un uomo che ha inevitabilmente incontrato il fallimento, dal momento che non ha realizzato la sua personale felicità, negando a se stesso quel legame che nasce, secondo Zamagni, dalla “messa in pratica del principio della reciprocità”, e agli altri le medesime opportunità di progresso economico e sociale. Occorre dunque ripensare il concetto di felicità: se non è possibile raggiungere una condizione di perenne appagamento individuale, vista la costitutiva precarietà della vita umana, è però necessario creare i presupposti perché tutti gli uomini abbiano realmente le medesime opportunità per realizzare il proprio progetto di vita e quindi per essere, almeno in parte, felici.