Fundamental rights Part B IV. Appendix: Fair Trial (L

FAIR TRIAL
La Costituzione italiana non contempla esplicitamente una clausola
generale di “stato di diritto” o “rule of law”, anche se la Corte
costituzionale in qualche caso recente sembra farvi riferimento (sent. n.
24/2004). Tuttavia, si tende a ricavare dalla garanzia del “buon
andamento” della pubblica amministrazione (art. 97 cost.) un principio di
“giusto procedimento” cui si affiancano il principio di “giusto processo”
(art. 111 cost.) e un polivalente principio di legalità, interpretato, in
particolare, come fondativo delle riserve di legge (e specialmente di quelle
in materia penale: art. 25, co. 2, Cost.).
La tutela dei diritti fondamentali mediante l’attuazione del «giusto
processo» risulta dall’integrazione di due fasi distinte, rispettivamente
l’una antecedente e l’altra successiva all’entrata in vigore della l. cost. 23
novembre 1999, n. 2, di modifica dell’art. 111 della Costituzione.
Nella prima fase, la garanzia di tali diritti si è attuata
principalmente attraverso disposizioni di legge ordinaria, soprattutto con
riguardo alle norme del nuovo codice di procedura penale (d.P.R. 22
settembre 1988, n. 447) – ed a quelle contenute nella relativa legge delega
16 febbraio 1987, n. 81 – e con riferimento alle previsioni di cui alla
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed al Patto Internazionale
relativo ai diritti civili e politici (fonti che hanno ambedue ricevuto
attuazione mediante leggi ordinarie: rispettivamente la l. 4 agosto 1955, n.
848 e la l. 25 ottobre 1977, n. 881).
In questa fase la giurisprudenza costituzionale si è comunque
sforzata di trarre da alcune disposizioni della Costituzione (l’art. 13 in
materia di libertà personale, l’art. 24 in materia di diritto di azione e di
difesa, l’art. 25 in materia di giudice naturale precostituito per legge) una
serie di principi – e, talora, di regole – che hanno progressivamente
costituito un corpus di riferimento comunemente qualificato in forma
sintetica, prima dalla dottrina e poi dalla stessa giurisprudenza, con
l’espressione ellittica di «giusto processo».
Nella seconda fase, l’insieme dei principi e delle regole già prescritti
dalle richiamate fonti internazionali ed elaborati dalla giurisprudenza
della Corte costituzionale sono confluiti – benché in una forma da taluni
criticata sotto il profilo della tecnica legislativa – nell’ampio art. 111 Cost.,
che si propone di sancire a livello costituzionale il complesso dei diritti
fondamentali che devono essere garantiti nel processo (e, per alcune
previsioni specifiche, nel processo penale in particolare).
Di qui, la tutela dei diritti fondamentali ha quindi ricevuto, in primo
luogo, una garanzia rafforzata in quanto affidata ad una disposizione di
rango costituzionale, e, in secondo luogo, un’attuazione progressivamente
più intensa grazie all’operato della giurisprudenza ordinaria e
1
costituzionale impegnata ad assicurare piena applicazione all’art. 111
Cost1.
Nella rassegna che segue i singoli diritti verranno illustrati con
riferimento tanto alle pronunce della Corte costituzionale antecedenti alla
riforma dell’art. 111 Cost. (e che ne hanno costituito, in alcuni casi,
anticipazione o preparazione) quanto alle statuizioni ora positivamente
contenute nella novellata disposizione costituzionale2.
1. Specific procedural rights
Nella ricognizione dei singoli diritti la dottrina è solita ricalcare
l’impostazione già adottata dalla Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, e così distinguere tra il diritto “al processo” e i diritti “nel
processo”3: il primo si riferisce al diritto alla celebrazione di un processo –
diritto che nel processo penale è comune tanto alla vittima dei reati quanto
all’accusato e che, in generale, è da ricondursi tanto al diritto di azione
quanto a quello di difesa secondo la previsione di cui all’art. 24 Cost. –; il
secondo raggruppa invece l’insieme delle pretese soggettive di cui sono
titolari le parti processuali e che vengono esercitate nell’ambito del
processo.
Quanto al diritto “al processo” (di cui all’art. 6.1 della CEDU), la
Corte costituzionale ha affermato che l’azione in giudizio per la difesa dei
propri diritti è essa stessa un diritto inviolabile riconosciuto dall’art. 2
della Costituzione; di qui, ad esempio, la necessità di prevedere un
controllo giurisdizionale pieno della legittimità formale e sostanziale dei
provvedimenti dell’autorità penitenziaria incidenti sulla posizione del
detenuto (sent. n. 26/99). Inoltre, con riguardo alla garanzia
giurisdizionale connessa alle restrizioni della libertà personale, che trova
la sua radice nel disposto, intimamente collegato, dell’art. 13, secondo
comma, e 24, secondo comma, Cost., si è precisato che essa non prevede
soltanto che l’atto restrittivo sia adottato da un’autorità giudiziaria, ma
richiede altresì l’instaurazione a tal fine di un regolare giudizio (sent. n.
419/94).
In ordine al diritto di azione, la Corte ha poi ribadito in due
sentenze (n. 360/94 e n. 366/94) la propria giurisprudenza circa la
giurisdizione condizionata, precisando che il differimento della tutela
giurisdizionale deve essere giustificato dal perseguimento di più adeguate
V. P. FERRUA, Il “giusto processo” tra modelli, regole e principi, in Dir. pen. proc., 2004, pp.
401 ss.; S. FOIS, Il modello costituzionale del giusto processo, in Rass. parl., 2000, pp. 569 ss.
2
Sul tema v. G. UBERTIS, Principi di procedura penale europea: le regole del giusto processo,
Torino, 2000.
3
M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, vol. I, Milano, 1982; ID., Garanzie ed
efficienza della giustizia penale, Torino, 1998; ID. (a cura di), Procedure penali d’Europa, Padova,
1998, 467 ss.
1
2
finalità di giustizia e deve comunque essere tale da non rendere la tutela
giurisdizionale eccessivamente difficoltosa (v. anche sentt. n.ri 255/94 e
311/94).
Con riferimento alle discipline dei diversi giudizi, si è infine
stabilito che, se da un lato la garanzia di poter agire in giudizio per la
tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, sancita dall’art. 24 Cost., non
eleva a regola costituzionale quella del simultaneus processus, dall’altro lato
l’intervento della parte civile nel processo penale trova giustificazione,
oltre che nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona
danneggiata dal reato, nell’unicità del fatto storico valutabile sotto il
duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile (v. sent. n. 532/95);
in raffronto a tali principi, che nel processo penale ordinario consentono la
più ampia tutela della persona danneggiata dal reato, si è ad esempio
osservato che il processo penale militare impediva, senza alcun
ragionevole motivo, l’esercizio del diritto di agire in giudizio, non solo in
quanto divieto di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti in sede
penale, ma anche come impossibilità di iniziare immediatamente l’azione
per le restituzioni ed il risarcimento del danno (sent. n. 60/96)
Con riguardo invece ai diritti “nel processo” (di cui all’art. 6.3.
CEDU), si può evidenziare in primo luogo il diritto ad essere informato,
già oggetto di considerazione da parte della Corte costituzionale in quelle
pronunce ove è stato sancito che sono manifestamente irragionevoli
norme eccezionali che non prevedano – per la decorrenza di un termine di
estinzione del giudizio conseguente al mancato compimento di un nuovo
onere sopravvenuto a carico delle parti – accorgimenti procedurali di
garanzia al fine di assicurare una conoscibilità minima dell’obbligo di
adempimento, come un avviso alle parti (sent. n. 111/98). La disciplina
codicistica (art. 369 c.p.p., più volte riformato) prevede attualmente che
un’informazione sull’esistenza di un procedimento a proprio carico possa
inviarsi soltanto a partire dal momento in cui il pubblico ministero deve
compiere un atto a cui il difensore ha il diritto di assistere, benché la
formulazione attuale dell’art. 111 Cost. richieda che «la persona accusata di
un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura
e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico».
Sul medesimo tema è poi stata oggetto di considerazione, sotto il
profilo dell’art. 24 Cost., la normativa riguardante la notifica a mezzo
posta: la Corte a questo proposito (sent. n. 346/98) ha dichiarato
incostituzionale il secondo comma dell’art. 8 l. 20 novembre 1982, n. 890,
nella parte in cui non prevedeva che, in caso di assenza del destinatario (e
di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a
ricevere l’atto), fosse data notizia al destinatario medesimo con
raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità
prescritte.
3
Infatti, se rientra nella discrezionalità del legislatore la
conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle
notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato
dal diritto di difesa del notificatario, sicchè si è escluso che la diversità di
disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente
eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione
delle garanzie del destinatario delle prime.
Strettamente connesso al diritto all’informazione risulta poi, in
quanto accessorio, il diritto ad un’informazione resa in una lingua
comprensibile; a tal proposito la disciplina codicistica si limita invero alla
garanzia generale sull’uso della lingua nel processo (art. 109, c. 2, c.p.p.),
ulteriormente ristretta ad opera della Corte costituzionale agli organi
giudiziari che abbiano una competenza regionale – ed esclusa quindi
l’applicabilità della garanzia a quelli che abbiano competenza anche sul
territorio ove è insediata la minoranza linguistica (v. sent. n. 213/98) –.
Più in generale, peraltro, sul diritto all’assistenza linguisticoconoscitiva (su cui v. l’art. 6.3. CEDU e l’art. 14.3 del Patto) la Corte
costituzionale ha precisato che elemento indefettibile della garanzia
apprestata dall’art. 24 della Costituzione, sotto il profilo dell’autodifesa, è
quello della possibilità di una consapevole partecipazione al processo; è
stato pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 119 c.p.p.
nella parte in cui non prevedeva che l’imputato muto, sordo o sordomuto,
indipendentemente dal fatto che sappia leggere e scrivere, ha il diritto di
farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza tra le
persone abituate a trattare con lui, al fine di poter comprendere l’accusa
contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa
(sent. n. 341/99)4.
Al riguardo, l’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. prevede
espressamente che la persona accusata di un reato «sia assistita da un
interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo»
In materia di diritto all’assistenza, ed in particolare il diritto
all’assistenza difensiva ed alla difesa di fiducia (su cui già Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo, Imbrioscia c. Svizzera, 24 novembre 1993, n. 275), la
Corte costituzionale si è sforzata di ricondurre a sistema le varie
disposizioni codicistiche intese ad assicurare la libertà della funzione della
difesa tecnica: così per esempio si è sancito che a tale obiettivo è
preordinato anche l’art. 598 c.p. (che contiene una causa speciale di non
punibilità per le offese contenute in scritti o discorsi pronunciati dinnanzi
all’Autorità giudiziaria di concedere al difensore anche psicologicamente
il più ampio spazio di intervento). Poichè la finalità dell’esimente, ha
Sull’ampiezza del diritto alla nomina dell’interprete, di cui all’art. 143 c.p.p., v. anche la sent. n.
10/93.
4
4
infatti riconosciuto la Corte, corrisponde ad una garanzia costituzionale,
che è quella di concedere al difensore anche psicologicamente il più ampio
spazio di intervento, occorre imporne l’applicabilità anche al delitto di cui
all’art. 343 c.p. nei confronti del p.m. (sent. n. 380/99).
La disciplina codicistica, in attuazione dell’art. 24 Cost., prevede poi
che l’imputato che non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia
rimasto privo deve essere assistito da un difensore d’ufficio (art. 97, c. 1,
c.p.p.); nella direttiva della legge delega specificamente dedicata a tale
garanzia (art. 2, n. 105) è stata particolarmente calcata l’attenzione
sull’esigenza di adeguare l’istituto a criteri che ne garantissero l’effettività.
Il raggiungimento di tale obiettivo, solo in parte conseguito con la
normativa predisposta dal legislatore delegato, è parso ancor più
necessario dopo l’entrata in vigore del novellato art. 111 Cost., che
statuisce che il contraddittorio deve svolgersi in condizioni di parità (v.
anche infra, § 2.). Di qui, anche attraverso l’entrata in vigore della l. 7
dicembre 2000, n. 397, con cui è stata compiutamente disciplinata la
materia delle indagini difensive, è sorta l’ulteriore esigenza di rafforzare
sensibilmente l’istituto della difesa d’ufficio, obiettivo perseguito dalla l. 6
marzo 2001, n. 60.
In tema poi di tutela dei non abbienti, la sent. n. 33/99 ha esteso
l’ammissione al patrocinio dei consulenti tecnici a spese dello Stato anche
ai casi in cui non è stata disposta perizia, e ciò in conseguenza del
riconoscimento compiuto dalla Corte del valore probatorio della
consulenza extraperitale, inerente perciò all’esercizio del diritto di difesa.
Il patrocinio a spese dello Stato risulta oggi ampiamente disciplinato
dalla legislazione ordinaria5.
Fra gli specifici diritti nel processo assai significativo è lo spazio che
hanno assunto i diritti di partecipazione, ed in particolare i diritti connessi
al diritto al contraddittorio ed al diritto al contraddittorio nella formazione
della prova
Dovendo necessariamente esporre in forma sintetica le principali
risultanze a cui il lungo ed articolato cammino dialetticamente svoltosi fra
le riforme legislative e le pronunce della Corte costituzionale ha condotto,
possono soltanto evidenziarsi in particolare i profili seguenti.
5
Introdotto dapprima nelle controversie di lavoro (art. 11, l. 11 agosto 1973, n. 533) e quindi nella
disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori (art. 75, l. 4 maggio 1983, n. 184),
successivamente all’entrata in vigore del nuovo c.p.p. l’istituto è stato esteso ai procedimenti
penali (l. 30 luglio 1990, n. 217, e successivo regolamento emanato mediante il d.m. 3 novembre
1990, n. 327) ed a quelli civili volti ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti da reato.
Finalmente, la l. 29 marzo 2001, n. 134, e poi il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sono intervenuti a
modifica della previgente legislazione estendendo anche all’intero settore dei procedimenti civili
ed al processo amministrativo il patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato.
5
Quanto al profilo del diritto al contraddittorio, esso emerge nella
giurisprudenza della Corte fin dalle sentt. n.ri 16/94 e 413/94: la prima,
interpretando l’art. 419, c. 3, c.p.p. nel senso che, ove il P.M. trasmetta e
depositi atti di indagine e documentazioni dopo la richiesta di rinvio a
giudizio, con conseguente effetto “a sorpresa” per la parte, possa essere
disposto il differimento dell’udienza preliminare con dovere, in ogni caso,
del giudice di regolare le modalità di svolgimento di tale udienza, mira a
contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia del contraddittorio; la
seconda indica nel ricorso per cassazione il mezzo per far valere la nullità
derivante dall’omesso avviso alla parte civile della richiesta di
archiviazione del P.M. nel processo pretorile, così salvaguardando il
contraddittorio attraverso una lettura adeguata del primo e del secondo
comma dell’art. 156 delle norme di attuazione del codice di procedura
penale, nonostante la mancanza del rito camerale nel procedimento in
esame.
Quanto al profilo del diritto al contraddittorio sulla prova (su cui
l’art. 6.3.d della CEDU e già Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Saidi c.
Francia, 20 settembre 1993, n. 261-C), la Corte costituzionale ne ha ribadito
la funzione essenziale dalla sentenza n. 361/98, sancendo
l’irragionevolezza di una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in
dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle
indagini preliminari o nell’udienza preliminare.
Di qui, dovendo la Corte confrontarsi con il portato della legge n.
267 del 1997, che delineava un sistema in cui la utilizzabilità delle
precedenti dichiarazioni veniva fatta dipendere dalla scelta meramente
discrezionale dell’imputato, e dovendo al contempo arrestarsi dinnanzi al
limite della discrezionalità del legislatore, parve in un primo tempo
coerente con il rispetto dei principi costituzionali che alle persone indicate
nell’art. 210 c.p.p. (imputati in un procedimento connesso) venissero
applicate le regole relative alle contestazioni previste per i testimoni in
caso di rifiuto di rispondere: mediante il sistema delle contestazioni di cui
all’art. 500, c. 2bis, del c.p.p., alla parte che ha chiesto l’esame veniva
infatti data la possibilità di portare direttamente davanti al giudice il
contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza e alle controparti di
sottoporle al vaglio critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni,
correzioni e chiarimenti.
Risultava così possibile, secondo la Corte, da un lato superare la
manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono all’autorità
giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni nel corso delle
indagini preliminari e che, poi, ne affidano la possibilità di acquisizione in
dibattimento alla scelta discrezionale di chi in precedenza ha liberamente
reso quelle dichiarazioni; dall’altro lato salvaguardare il diritto di difesa
dell’imputato dichiarante e insieme dell’imputato destinatario delle
6
dichiarazioni: il diritto al silenzio, riconosceva infatti la Corte, non viene
scalfito ove il dichiarante venga sottoposto alle contestazioni sulle
circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni; il diritto al
contraddittorio dell’accusato, per altro verso, non può identificarsi con il
potere di veto, ma va correttamente inteso come diritto a contestare tali
dichiarazioni in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice,
adottando il meccanismo già previsto dal legislatore in caso di rifiuto
totale o parziale di rispondere del testimone.
Si doveva poi costatare che la figura del dichiarante erga alios, sia
esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento
connesso, è sostanzialmente identica, in quanto l’esame sul fatto altrui
viene condotto su un imputato che assume l’una piuttosto che l’altra veste
per ragioni meramente processuali e occasionali.
Ne è derivata l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. per
contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non ne era
prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo
procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto
delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia
giudiziaria su delega del pubblico ministero.
L’equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e
imputato in procedimento connesso ha infine consentito di concentrare
nell’art. 513, c. 2, c.p.p. la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del
dichiarante di rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea la disciplina
dell’esame avente ad oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri, e
così superando anche le ulteriori disparità di trattamento tra il c. 1 e il c. 2
dell’art. 513 del c.p.p.; conseguentemente, il c. 1 risultava riservato
esclusivamente all’esame dell’imputato sul fatto proprio (art. 208 c.p.p.),
rispetto al quale era dalla Corte ritenuto pienamente conforme all’esercizio
del diritto di difesa che l’imputato scegliesse di rimanere assente o
contumace, ovvero rifiuti di sottoporsi all’esame.
Richiamo indiretto alla formazione della prova in contraddittorio
era poi contenuto anche nell’ordinanza n. 248/98, sui limiti di applicabilità
dell’art. 491 c.p.p.
L’insieme di queste regole, faticosamente risultanti da molteplici
interventi manipolativi della Corte e da un labor limae del legislatore non
sempre accorto, è poi confluito in forma sintetica nella garanzia enunciata
dal novellato art. 111 Cost. nella parte in cui statuisce che «la colpevolezza
dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per
libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte
dell’imputato o del difensore».
Di qui, in ordine alla formazione della prova in dibattimento, con la
sentenza n. 440/00 la Corte, prendendo atto del contesto normativo nel
7
frattempo mutato, ha concluso nel senso che l’interpretazione estensiva
riservata alle deroghe al principio del contraddittorio per «accertata
impossibilità di natura oggettiva» non era più compatibile con i contenuti
della sopravvenuta disciplina costituzionale; sicché, tra le cause di natura
oggettiva che rendono impossibile la formazione della prova nel
contraddittorio, non poteva farsi più rientrare l’esercizio della facoltà
legittima di astenersi dal deporre, riconosciuta al prossimo congiunto
dell’imputato.
Più in generale, in argomento, la Corte costituzionale ha più volte
ribadito la necessità di tale riforma poiché le uniche fonti normative che, in
precedenza, contenevano alcuni principi, senza i quali non si poteva
parlare di parità tra accusa e difesa e di “giusto processo”, erano le
convenzioni internazionali che, come si è visto, non assurgono nel nostro
ordinamento a rango costituzionale.
Necessaria è stata ritenuta, in particolare, la costituzionalizzazione
del principio del contraddittorio, strumento attraverso il quale le parti
processuali concorrono dialetticamente alla formazione della prova, ed
indispensabile per la formazione del libero convincimento del giudice, il
quale ha il diritto – dovere di verificare l’attendibilità e la veridicità, in
relazione al singolo imputato e agli specifici reati contestati, delle
dichiarazioni confessorie e/o accusatorie che possono essere vere o false, o
esserlo solo in parte, o, ancora, più o meno precise tra loro o con altre
emergenze processuali.
Ciò ha consentito di evitare che si ritenesse legittima l’acquisizione
delle dichiarazioni predibattimentali rilasciate da chi, in dibattimento, si
avvaleva della facoltà di non rispondere.
Correlata alla tematica dei diritti di partecipazione è poi la
disciplina dei c.d. procedimenti in absentia.
Sul punto le affermazioni più notevoli sono contenute nella sent. n.
399/98, che ha preso in considerazione gli artt. 159 e 160 del codice di
procedura penale sul rito degli irreperibili.
Preliminarmente osservato che non si può chiedere in sede di
giudizio di legittimità (e in relazione al principio del giusto processo per il
quale ogni Stato aderente alla CEDU gode della più ampia libertà di
scelta) un sistema nel quale il principio della conoscenza del processo si
realizzi per intero e senza alcuna eccezione, la Corte ha rilevato che le
innovazioni introdotte dal nuovo codice (d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12)
denotano che il legislatore si è adoperato per adeguare la disciplina del
rito degli imputati irreperibili sia alle convenzioni internazionali sia all’art.
24 Cost., che, nel proclamare inviolabile la difesa in ogni stato e grado del
procedimento, appresta a favore dell’imputato garanzie non meno
pregnanti, che certamente comprendono il diritto, che la CEDU enuncia in
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maniera esplicita, di avere notizia del procedimento che lo riguarda e di
avere l’opportunità e il tempo di allestire le proprie difese.
Il fatto che la nuova disciplina non giunga a prevedere la
reintegrazione completa dell’imputato in tutti i suoi diritti processuali
nell’ipotesi in cui non abbia avuto conoscenza del processo può far sorgere
questioni di legittimità costituzionale il cui esito, se riferite alle
disposizioni che non consentono all’imputato l’esercizio di un diritto o di
una facoltà di cui avrebbe dovuto fruire, resta impregiudicato: è
comunque da escludere, ha rilevato la Corte, che la denunciata
insufficienza dei rimedi previsti ridondi in vizio di legittimità
costituzionale del rito penale per gli irreperibili in quanto tale.
Occorre aggiungere che la Corte ha altresì osservato che l’art. 6 della
CEDU non impone l’adozione di un modello processuale unico e
infungibile: per far sì che il loro sistema giudiziario sia in armonia con il
principio del giusto processo, gli Stati contraenti, come la Corte europea
non negò, godono della più ampia libertà nella scelta dei mezzi idonei.
Per concludere l’esame su alcuni specifici diritti processuali, può
infine ricordarsi il diritto alla riparazione per l’errore giudiziario, rispetto
a cui la Corte ha ritenuto che la riparazione per l’ingiusta detenzione abbia
un fondamento squisitamente solidaristico e rientra nei diritti inviolabili
(sent. n. 109/99: art. 314, c. 1, c.p.p.).
2. Equivalence of procedural positions of the parties
Anteriormente alla novella dell’art. 111 Cost., la giurisprudenza
della Corte costituzionale aveva affermato che il principio della parità
delle parti nel processo non comporta che la mera conoscenza degli atti
del procedimento (determinatasi per l’archiviazione di reati concorrenti a
seguito di prescrizione), non accompagnata da una valutazione
contenutistica, di merito, sui risultati dell’indagine, abbia effetti
pregiudicanti sulla funzione di giudizio (ord. n. 152/99). Il patrimonio di
conoscenze del giudice è vincolato, di regola, agli elementi acquisiti nel
corso del dibattimento, cosa che corrisponde ad una scelta tra le più
significative e qualificanti del nuovo rito (ord. n. 338/99).
Secondo la Corte, il modello accusatorio comporta, invece, che il
contraddittorio quale espressione della garanzia costituzionale della difesa
si instauri nel processo, e non in fasi anteriori, ed abbia a primario
interlocutore il giudice e non la parte pubblica (ord. n. 326/99, a proposito
dell’art. 459 c.p.p.). Tale modello comprende un equilibrio fra le parti che
comporta per le persone sprovviste di mezzi la possibilità di avvalersi di
consulenti tecnici a spese dello Stato anche quando non sia stata disposta
perizia (art. 4, c. 2, prima parte, l. 30 luglio 1990, n. 217: sent. n. 33/99).
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In ordine alla “parità di armi” rispetto al diritto alla prova, negato
che questo possa essere invocato quando la parte abbia dato causa alla
situazione sostanziale che l’esclude (artt. 159 c.c. e 246 c.p.c.: sent. n.
62/95), è stata riaffermata la parità tra le parti nel caso di ampliamento del
thema decidendum (art. 519, c. 2, c.p.p., dichiarato illegittimo nella parte in
cui, in caso di nuova contestazione effettuata a norma dell’art. 517 del
medesimo codice, non consentiva al pubblico ministero e alle parti private
diverse dall’imputato di chiedere l’ammissione di nuove prove: sent. n.
50/95).
Per altro verso, tuttavia, è proprio nella non equiparabilità tra parti
principali – e necessarie – del processo penale e parte civile, la cui
presenza è solo eventuale, nonché tra gli interessi di cui ciascuna è
rispettivamente portatrice, che si giustifica il diverso trattamento in ordine
all’ammissione delle prove ex art. 495, c. 2, c.p.p. (sent. n. 532/95).
Con la riforma dell’art. 111 Cost. è assurto a rango costituzionale il
principio secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in
condizioni di parità». Tra le conseguenze normative più significative della
novella si segnala l’introduzione della l. 7 dicembre 2000, n. 397, intitolata
«Disposizioni in materia di indagini difensive», in base alla quale vengono
riconosciuti al difensore ampi poteri di ricerca delle prove a favore del
proprio assistito, oltrechè di documentazione ed utilizzazione del processo
dei risultati delle indagini svolte. In particolare la suddetta legge,
integrando significativamente i poteri di ricerca della prova
originariamente assegnati al difensore dall’art. 38 delle Disposizioni
attuative del c.p.p., ha introdotto nel libro V del codice il titolo VI-bis, che
disciplina non solo le “investigazioni difensive” ma anche l’utilizzazione
dei relativi risultati nel processo.
3. Protection from surprising procedural motions
L’esigenza di tutela delle parti da azioni “a sorpresa„ trova ora
soddisfazione nella generale previsione di cui all’art. 111 Cost. che impone
il contraddittorio fra le parti come necessaria modalità di svolgimento del
processo, ed in particolare elegge il contraddittorio nella formazione della
prova a principio fondamentale che regola il processo penale (art. 111, c.
4).
A tal riguardo, già con la sent. n. 16/99 la Corte ha interpretato l’art.
419, terzo comma, c.p.p. nel senso che, ove il P.M. trasmetta e depositi atti
di indagine e documentazioni dopo la richiesta di rinvio a giudizio, con
conseguente effetto “a sorpresa” per la parte, possa essere disposto il
differimento dell’udienza preliminare con dovere, in ogni caso, del giudice
di regolare le modalità di svolgimento di tale udienza, in modo da
contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia del contraddittorio.
10
4. Publicity of the court hearing
E’ stata ritenuta implicita nei principi costituzionali che disciplinano
l’esercizio della giurisdizione la regola generale della pubblicità dei
dibattimenti giudiziari, la quale, peraltro, può subire eccezioni in
riferimento a determinati procedimenti, quando abbiano obbiettiva e
razionale giustificazione.
Tale giustificazione è stata ritenuta sussistente, ad esempio, per il
processo tributario (sentenza n. 141/98): tale rito è infatti conformato dal
legislatore, sia sotto l’aspetto probatorio che difensivo, come processo
documentale, nel senso che si svolge attraverso atti scritti mediante i quali
le parti provano le rispettive pretese o spiegano le relative difese (ricorsi,
memorie), mentre resta esclusa, in relazione alla natura di tale processo,
l’ammissibilità sia della prova testimoniale che del giuramento (art. 7,
comma 4, del d. lgs. n. 546 del 1992).
In relazione a ciò la Corte ha ritenuto non irragionevole la
previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte
della discussione della causa. In assenza della discussione, infatti, la
trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione
della causa e cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle
questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e
reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa
Sulla mancanza di pubblicità del giudizio abbreviato, la Corte ha
affermato (sent. n. 69/91) che, per verificare se la peculiarità del rito sia
idonea a giustificare o no la deroga al principio di pubblicità, è
indispensabile una considerazione del problema non limitata al giudizio
abbreviato transitorio richiesto dall’imputato alla presenza del pubblico
nel corso delle formalità di apertura del dibattimento, come nel caso di
specie: comportando la varietà delle ipotesi una gamma di possibili
soluzioni, e non essendo l’ordinanza di rimessione in proposito univoca, è
stata dichiarata l’inammissibilità della questione.
Sul tema della pubblicità dei giudizi, con la sent. n. 251/91,
riguardante il c.d. “patteggiamento” la Corte non ha ravvisato illegittimità
costituzionale nella previsione che esclude, in tale rito, la pubblicità del
giudizio, e ciò sia perché la sentenza di applicazione della pena non è una
vera e propria sentenza di condanna sia perché l’assenza di pubblicità può
talvolta rappresentare uno degli elementi incentivanti per richiedere
l’applicazione di questo rito.
5. Protection of secrets in the trial
La tutela del segreto è stata significativamente correlata dalla Corte
costituzionale con il diritto di difesa ex art. 24 Cost. Con la sent. n. 460/00
11
la Corte ha infatti dato una diversa lettura della norma che impone il
segreto d’ufficio sugli atti compiuti dalla Consob nell’esercizio del suo
potere ispettivo e di vigilanza, anche quando tali atti siano preordinati
all’irrogazione di una sanzione amministrativa. L’incolpato, infatti, non
potrebbe validamente esercitare il proprio diritto di difesa, se non fosse
posto in condizione di conoscere i verbali e gli altri accertamenti compiuti
dalla Consob. Di qui la conseguenza necessaria di interpretare la norma in
questione nel senso della inopponibilità del segreto d’ufficio all’incolpato,
quando gli atti segretati siano stati posti a fondamento dell’irrogazione di
una sanzione amministrativa.
6. Regulation of time limits (Protection of confidence)
L’ordinamento italiano, a partire dall’art. 2 Cost. e disegnando un
arco che abbraccia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo, la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, la legge sulla
stampa, il Testo unico o Codice della Privacy e la legge sulla professione
giornalistica, forma un ampio reticolo di norme che rendono intangibile la
tutela della vita privata e dell’onore dei cittadini.
Il «rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle
persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale
e al diritto alla protezione dei dati personali« è il valore sommo che la
legislazione sulla riservatezza personale. Si può affermare, quindi, che il
diritto di cronaca e di critica trova un limite invalicabile nel rispetto di altri
diritti fondamentali, parimenti sanciti dalla Costituzione in quanto
attinenti alla pari dignità sociale di tutti i cittadini, nonché nella
salvaguardia dei diritti inviolabili d’ogni persona, sia come singolo, sia
come membro delle diverse formazioni sociali nelle quali si forma e si
sviluppa la personalità d’ognuno, diritti inviolabili tra i quali vanno
annoverati il diritto all’onore, alla reputazione, al decoro, all’identità
personale e alla riservatezza6.
Secondo la Corte Costituzionale, l’onore, comprensivo del decoro e
della reputazione, è tra i beni garantiti dalla carta fondamentale, «in
particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la perso
umana«.
La Cassazione ha del resto riconosciuto che «In tema di diritti della
personalità umana, esiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto alla
reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla
legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della
persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in
particolare nell’art. 2. L’espresso riferimento alla persona come singolo
6
V., per tutte, Cass. Pen. sez. III, 7 ottobre 1998, n.12744.
12
rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza alla
reputazione del soggetto. Infatti, nell’ambito dei diritti della personalità umana,
con fondamento costituzionale, il diritto all’immagine, al nome…non sono che
singoli aspetti della rilevanza costituzionale che la persona, nella sua unitarietà,
ha acquistato nel sistema della Costituzione. Trattasi quindi di diritti omogenei
essendo unico il bene protetto»7.
In questo quadro generale, il raccordo fra tutela della riservatezza e
disciplina dei termini processuali trova anzitutto attuazione nel disposto
di cui all’art 329 del c.p.p. che statuisce il segreto d’indagine dal momento
dell’acquisizione della notizia di reato fino alla chiusura delle indagini
preliminari, al fine di non nuocere all’attività investigativa.
In via generale, gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero
e dalla polizia giudiziaria (a iniziativa o su delega) sono segreti fino a
quando l’indagato non può averne conoscenza e comunque non oltre la
chiusura delle indagini preliminari (art. 329 comma 1, artt. 405 e 407
c.p.p.).
Il legislatore inoltre, al fine di dare piena attuazione alla tutela della
riservatezza del procedimento penale, ha previsto, accanto al regime di
segretezza sopra illustrato, il divieto di pubblicazione degli atti e di
immagini di cui all’art. 114 c.p.p..
Al fine di marginalizzare gli effetti negativi sulla reputazione
dell’indagato che, a causa di una paradossale distorsione dell’istituto,
derivavano di fatto dall’invio della comunicazione che portava a
conoscenza dell’interessato lo svolgimento di indagini nei suoi confronti,
l’ordinamento italiano (con una modifica all’art. 369 c.p.p. disposta
dall'art. 19 della l. 8 agosto 1995, n. 332) ha previsto che la suddetta
comunicazione (oggi denominata «avviso di garanzia») sia inviata dal
pubblico ministero «solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha
diritto di assistere».
Tale disciplina mira anche a recepire le indicazioni espresse dalla
giurisprudenza costituzionale
7. Handling of regulations of burden of proof
Con riguardo al processo civile, la disciplina del riparto dell’onere
della prova risulta contenuta non già all’interno del codice di procedura,
bensì nel codice civile; da tale sedes materiae la dottrina sottolinea la natura
sostanziale delle regole in materia di suddivisione dell’onere della prova,
posto che l’effettivo godimento di una situazione giuridica soggettiva che
sia controversa non può che avvenire mediante l’attuazione del principio
7
Cass.civ., sez. III, 10 Maggio 2001, n. 6507.
13
per cui la prova del fondamento di un fatto giustificante una determinata
pretesa nei confronti di un altro soggetto grava su colui che ne afferma la
veridicità (onus probandi incumbit ei qui dicit).
La disciplina dell’onere della prova viene peraltro raccordata dalla
migliore dottrina con il riconoscimento e la garanzia di un diritto alla
prova, inteso come manifestazione essenziale della garanzia fondamentale
dell’azione e della difesa in giudizio8.
Con riguardo invece al processo penale, il tema s’intreccia
fortemente con il principio del contraddittorio e con quello del
contraddittorio nella formazione della prova (art. 111, commi 3 e 4, Cost.),
potendosi pertanto qui rinviare alle osservazioni retro sviluppate su tali
questioni.
In argomento, la sent. n. 241/92 la Corte ha ritenuto che, in un
sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto
alla prova per tutte le parti, non è consentito, nel caso di nuove
contestazioni dibattimentali, né precludere tale diritto per alcune parti né
contenerlo nei ristretti limiti dell’”assoluta necessità”. Le nuove
contestazioni non riaprono invece i termini per i procedimenti speciali,
essendo esse evenienze preventivabili dall’imputato, che ne deve pertanto
tenere conto al momento di esercitare la sua facoltà di richiedere il
patteggiamento o il giudizio abbreviato (ord. n. 213/92, sent. n. 316/92).
Sul diritto alla prova va altresì ricordata la sent. n. 203/93 con cui la
Corte ha affermato che dal collegamento di varie disposizioni inserite
nella disciplina del dibattimento risulta che il diritto di ciascuna parte alla
controprova deve poter essere esercitato entro un tempo ragionevole,
connesso ad un adeguato esame delle prove indicate dalle altre parti, pur
quando le prove siano state introdotte, ove consentito, nel corso del
giudizio.
8. Particular characteristics for criminal trials
Con riguardo a quanto non già illustrato retro, nel paragrafo 1.,
relativamente ai diritti “nel processo” penale9, possono qui ricordarsi i
seguenti profili.
Cfr. M. TARUFFO, voce Prova (in generale), in Digesto delle discipline privatistiche – Sezione
civile, v. XVI, Torino, 1997, p. 30.
8
9
V., amplius, P. FERRUA, Prime riflessioni su riforma costituzionale e "giusto processo". Il
processo penale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione. in Ques. giust., 2000, pp. 49 ss.
14
8.1. Refusal to give evidence
Con riguardo alla posizione dell’imputato nei confronti del quale si
procede o si è proceduto separatamente, e che viene esaminato nell’ambito
di un dibattimento a carico di un imputato di un reato connesso, la Corte,
con la sent. n. 254/92, ha assimilato ai fini della utilizzazione delle
dichiarazioni rese nel corso delle indagini il rifiuto di rispondere di tale
soggetto al comportamento tenuto dall’imputato che, nel procedimento a
suo carico, rifiuti di sottoporsi all’esame. In proposito la Corte,
sviluppando ulteriormente il tema dell’oralità, ha affermato che tale
principio guida va contemperato, come risulta del resto già dal complesso
della disciplina codicistica, con l’esigenza di evitare, entro certi limiti e a
determinate condizioni, la perdita, ai fini della decisione, di quanto
acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede.
La ricerca di tale contemperamento è testimoniata dalla
compresenza delle disposizioni codicistiche che garantiscono il diritto al
silenzio (e che prescrivono il divieto di interpretarlo a sfavore
dell’imputato: artt. 63, 64, 190bis, 210 c.p.p.) con il principio, introdotto
dalla novella dell’art. 111 Cost., secondo cui «la colpevolezza dell’imputato
non può essere provata sulla base delle sole dichiarazioni rese da chi, per libera
scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte
dell’imputato o del suo difensore»10.
8.2. Regulation for principal witness
Accanto alle previsioni, più volte riformate dal legislatore ed
oggetto di interventi manipolativi della Corte costituzionale, in materia di
utilizzazione delle dichiarazioni indizianti rese dai testimoni nonchè di
quelle rese da soggetti coimputati o imputati in procedimenti connessi, la
Corte costituzionale in un primo tempo (sent. n. 241/94), considerando il
testo dell’art. 500 c.p.p. come modificato dalla l. 7 agosto 1992, n. 356 ed
alla luce dei principî espressi stessa giurisprudenza costituzionale (v. sent.
255/92), aveva osservato che è principio generale, direttamente
discendente dal primo comma dell’art. 111 Cost. (nella versione anteriore
alla novella del 1999), che ogni qualvolta si sia in presenza di due versioni
difformi di un fatto rese dal medesimo testimone non è consentito al
10
Nella giurisprudenza della Corte Europea, si segnalano, da un lato, la sent. 8 febbraio 1996,
John Murray c. Regno Unito, in cui è stato ritenuto che non può dirsi a priori incompatibile con la
CEDU una disciplina che in certe situazioni consenta ad un organo giudicante di trarre una prova
implicita di colpevolezza dal silenzio di una persona sottoposta a procedimento penale; dall’altro
lato, la sent. 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito, in cui è stato censurato, sotto il profilo
del principio nemo tenetur se detegere quale elemento del «giusto processo» ai sensi dell’art. 6.1.
CEDU, l’uso in sede processuale penale di dichiarazioni autoindizianti che una persona aveva
dovuto rendere di fronte a soggetti dotati di poteri ispettivi nell’ambito dell’accertamento di frodi
societarie. In argomento, R.E. KOSTORIS (a cura di), Il giusto processo tra contraddittorio e diritto
al silenzio, Torino, 2002.
15
giudice di privilegiarne una a propria discrezione, ma sussiste invece
l’obbligo di un più attento esame, sia intrinseco che globale, delle
dichiarazioni contrastanti, al fine di rendere ragione della maggiore
credibilità delle une, ovvero della non genuinità delle altre, della
concordanza di alcuna di esse con altri elementi di prova, o, infine,
dell’inattendibilità di entrambi.
Parimenti al principio di libera ricerca della verità da parte del
giudice guarda la sent. n. 111/93, sull’art. 507 c.p.p, ove si nega che il
sistema introdotto tenda solo ad una decisione correttamente presa in una
contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel
quale un esito vale l’altro, purché correttamente ottenuto. Viene dunque
negato che la caratterizzazione del nuovo rito come processo di parti
comporti l’operatività di un principio dispositivo sotto il profilo
probatorio che renderebbe indirettamente disponibile la stessa res
iudicanda.
Positivamente, si ritiene invece, il nuovo regime consente
l’introduzione di prove ad iniziativa del giudice, prove rispetto alle quali
le parti siano rimaste inerti o dalle quali siano decadute.
In relazione allo stesso principio la sent. n. 237/93, ha limitato,
sempre in via interpretativa, il divieto di acquisire al dibattimento
deposizioni testimoniali, concernenti le dichiarazioni rese dalla persona
sottoposta all’indagine, a quelle dichiarazioni fatte anche spontaneamente
in occasione del compimento di ciò che debba comunque qualificarsi come
un qualsiasi atto del procedimento.
Sul tema della «testimonianza indiretta», il diritto italiano presenta
una soluzione intermedia fra due potenziali estremi, dall’ammissione
illimitata al puro e semplice divieto: quando un testimone fa riferimento
ad altre personem come a fonti delle proprie consoscenze, queste devono
essere necessariamente convocate – se una delle parti lo chiede – per
venire ascoltate nel corso del dibattimento; l’inosservanza di tale precetto
rende inutilizzabili le dichiarazioni del teste indiretto, salvo il caso in cui
l’esame della fonte sia divenuto impossibile per morte, infermità o
irreperibilità (art. 195 c.p.p.; sul tema, e con riguardo all’irragionevolezza
di talune eccezioni, v. sent. n. 24/92).
Con particolare riguardo alla tutela dei soggetti che, dissociatisi dai
comportamenti criminali e dai gruppi organizzati al fine di delinquere,
hanno collaborato alla prevenzione e repressione dei reati, la Corte
costituzionale ha posto in specifica evidenza la violazione del principio di
eguaglianza da parte di quelle disposizioni che comportino un trattamento
(sia sostanziale che processuale) di sfavore proprio nei confronti
comportamenti processuali (sent. n. 396/1989).
16
8.3. Cutting off detainees
Sul tema del diritto al contraddittorio in situazioni di coercizione,
con la sent. n. 32/99 la Corte ha confermato, con decisione additiva di
principio, la necessità dell’interrogatorio di garanzia nella fase che va dalla
chiusura delle indagini preliminari all’apertura del dibattimento.
Si tratta di un adempimento già ritenuto indispensabile dalla
sentenza n. 77/97, con cui la Corte aveva dichiarato l’illegittimità
costituzionale degli artt. 294, c. 1 e 302 c.p.p., nella parte in cui non
prevedevano che il giudice deve procedere all’interrogatorio dell’imputato
in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non
oltre cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura: secondo la
Corte, poiché un simile interrogatorio si collega direttamente all’Habeas
corpus, dal mancato adempimento di tale dovere deriva la cessazione
dell’efficacia del titolo custodiale. Il d.l. n. 29/1999 ha poi provveduto a
tradurre in una specifica disciplina il principio enunciato dalla Corte, la
cui portata è però da sottolineare anche nella parte in cui, pur non
esistendo nel nostro ordinamento un’affermazione testuale di carattere
generale del principio del “rechtliches Gehör” (“diritto all’ascolto legale”)
come proclamato ad esempio dalla Costituzione tedesca, traduce
comunque l’esigenza di garantire tale “diritto all’ascolto” soprattutto nelle
situazioni di più intensa restrizione della libertà personale quali quelle che
si verificano in sede di coercizione.
Deve anche precisarsi che l’ordinamento italiano non comprende
alcuna disposizione che consenta l’interruzione o la sopsensione dei
contatti fra il detenuto ed il suo difensore; esiste peraltro una speciale
disciplina, dettata dall’articolo 41bis della l. 26 luglio 1975, n. 354,
introdotto dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663 (e ripetutamente modificato), che
introduce la possibilità, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di
sicurezza pubblica, di sospendere delle regole di trattamento e degli
istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto
contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La Corte costituzionale
ha peraltro precisato che tale disciplina poteva non essere considerata
incostituzionale solo in presenza di due condizioni indispensabili: il
controllo giurisdizionale sulla sua applicazione e il rispetto dei diritti degli
interessati nelle restrizioni apportate al regime penitenziario ordinario
(sentt. n.ri 354/1994 e 68/1995). La Corte ha altresì ribadito che le
restrizioni del regime penitenziario contenute nei decreti ministeriali
dovevano limitarsi a quelle relative ai collegamenti con l’esterno e, nel
disporre in tal senso, non dovevano comunque violare i diritti degli
interessati, compreso quello alle attività trattamentali e riabilitative, e non
potevano perseguire finalità afflittive (sentt. n.ri 376/1997, 445/97,
137/99).
17
In materia di diritto ad un limite di durata alla detenzione
custodiale, con l’ord. n. 529/00 la Corte ha dichiarato la manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 304,
c. 6, c.p.p. sollevata sul presupposto interpretativo che questa disposizione
- nella parte in cui prevede che la custodia cautelare non possa comunque
superare il doppio dei termini di cui all’articolo 303, cc. 1, 2 e 3 - si riferisca
esclusivamente ai periodi di custodia cautelare tra loro omogenei, relativi
cioè ad una stessa fase, e non debbano perciò essere calcolati, ai fini del
raggiungimento del termine massimo, i periodi di custodia cautelare
sofferti in fasi diverse. La Corte ha precisato che tale presupposto è
erroneo e che, al contrario, deve essere ritenuta costituzionalmente
obbligata l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde
efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al
doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se
quel termine sia stato sospeso, prorogato o abbia iniziato una nuova
decorrenza a séguito della regressione del processo.
In armonia con l’art. 13 Cost., non sono dunque consentite
distinzioni riferite alle ragioni che hanno determinato il nuovo corso del
termine.
In tema di libertà personale e coercizione, la sent. n. 359/00 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, c. 2, lettera b, del
d.P.R. n. 448 del 1988 che consentiva al giudice di disporre la custodia
cautelare nei confronti del minorenne nel caso di pericolo di fuga,
rilevando una violazione dei criteri della delega, che non prevedeva il
ricorso alla custodia cautelare per i minori in coerenza con i principî
affermati a livello internazionale riguardo al diritto penale minorile.
8.4. Right of the defending counsel to inspect files
Secondo le disposizioni codicistiche, la conoscenza integrale degli
atti del fascicolo del p.m. è assicurata al difensore al termine della fase
delle indagini (art. 419, c. 2, c.p.p.); prima di questa discovery totale la
difesa ha diritto (art. 364 c.p.p.) a presenziare a determinati atti (compreso,
almeno di regola, l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini),
oltrechè a prendere conoscenza dei relativi verbali (art. 366 c.p.p.).
Uno specifico diritto alla discovery è stato affermato dalla Corte
Europea dei Diritto dell’Uomo a partire dalla sentenza Lamy c. Belgio, 30
marzo 1989, n. 184.
La Corte costituzionale, sul tema della presenza del difensore a
singoli atti, ha preso in considerazione, con la sent. n. 198/94, l’art. 238, c.
1 c.p.p., nella parte in cui consentiva l’acquisizione agli atti del processo
della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell’incidente
18
probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano
partecipato alla sua assunzione.
Rilevato che in questo caso la perizia entra nel nuovo processo col
solo veicolo della lettura, anche senza il consenso delle parti, la decisione,
richiamata la sentenza n. 181 del 1994, relativa all’art. 403 cod. proc. pen.,
ha ridotto l’applicabilità della disposizione impugnata al caso in cui la
prova venga utilizzata nei confronti di soggetti i quali non avevano
assunto né potevano assumere la qualità di persone sottoposte alle
indagini.
In tal senso, secondo la costante giurisprudenza della Corte le
garanzie di difesa possono richiedersi solo in presenza della
soggettivizzazione della notitia criminis, sebbene, ove possibile, la parte
abbia diritto a conseguire la rinnovazione della prova, ed il giudice, se del
caso, ha il dovere di disporne la rinnovazione nel dibattimento, salvo
sempre il suo libero convincimento circa la valenza della perizia espletata
altrove.
Il diritto in esame viene oggi ricondotto dalla dottrina nella
previsione contenuta nel novellato art. 111 Cost. secondo cui ogni accusato
ha diritto a disporre «delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa».
8.5. Appropriate period of time for preparations of the accused
La previsione di tale diritto è oggi espressamente sancita dall’art.
111 Cost., il quale. ricalcando le previsioni di cui all’art. 6.3 della CEDU ed
all’art. 14.3 del Patto, prevede che ogni accusato abbia diritto a disporre
«del tempo necessario per preparare la sua difesa».
La Corte costituzionale (sent. n. 399/98) ha rilevato che l’art. 24
Cost., nel proclamare inviolabile la difesa in ogni stato e grado del
procedimento, appresta a favore dell’imputato garanzie che certamente
comprendono il diritto, che la CEDU enuncia in maniera esplicita, di avere
notizia del procedimento che lo riguarda e di avere l’opportunità e il
tempo di allestire le proprie difese.
8.6. Utilization of unlawfully obtained evidence
L’ordinamento italiano prevede la generale sanzione della
inutilizzabilità per le prove assunte in violazione di divieti stabiliti dalla
legge (art. 191 c.p.p.).
Relativamente all’attività della polizia giudiziaria, merita
segnalazione la sent. n. 259/91, con la quale la Corte ha dichiarato
illegittimo l’art. 350, settimo comma, c.p.p., nella parte in cui consente una
sia pur limitata utilizzazione nel dibattimento delle dichiarazioni
19
spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del
difensore.
8.7. Deals between judge / prosecution and defending counsel
Due istituti previsti dal c.p.p. del 1988 «si fondano sul
riconoscimento legale di determinati effetti all’accordo fra il pubblico
ministero e l’accusato»11: il “patteggiamento” ed il giudizio abbreviato;
l’accordo verte non sulla decisione di procedere, ma sulla misura della
pena e/o sul rito processuale da adottare, con lo scopo principale di
accelerare la procedura.
Sul tema, oltre alle considerazioni retro sviluppate con riguardo alle
possibili eccezioni al principio della pubblicità dell’udienza, si segnala ad
esempio che in tema di “applicazione della pena su richiesta delle parti” al
giudice non è consentito di rifiutare l’applicazione della pena concordata
se non (a) in quanto la richiesta delle parti esorbiti dai limiti previsti dalla
legge o (b) in quanto non ritenga la pena “congrua” in rapporto alla
finalità rieducativa sancita dall’art. 27, c. 3, Cost. (sent. n. 313/90).
Quanto al giudizio abbreviato, si segnala che la Corte aveva
originariamente ravvisato (sent. n. 92/92) una causa di incostituzionalità
nella mancata previsione di un’integrazione probatoria nell’ambito
dell’udienza preliminare, pur dovendosi la Corte medesima astenere dal
provvedere all’integrazione di tale omissione in osservanza del limite
della discrezionalità del legislatore; sul punto ha quindi provveduto la l.
16 dicembre 1999, n. 479.
Con la novella dell’art. 111 Cost. i limiti al contraddittorio che si
riscontrano nei procedimenti ispirati alla c.d. “giustizia negoziata”
trovano giustificazione nella previsione secondo cui «la legge regola i casi in
cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso
dell’imputato» (art. 111, c. 5, Cost.).
11
M. CHIAVARIO, La justice négociée: une problématique à construire, in APC, 1995 (15).
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