FAIR TRIAL La Costituzione italiana non contempla esplicitamente una clausola generale di “stato di diritto” o “rule of law”, anche se la Corte costituzionale in qualche caso recente sembra farvi riferimento (sent. n. 24/2004). Tuttavia, si tende a ricavare dalla garanzia del “buon andamento” della pubblica amministrazione (art. 97 cost.) un principio di “giusto procedimento” cui si affiancano il principio di “giusto processo” (art. 111 cost.) e un polivalente principio di legalità, interpretato, in particolare, come fondativo delle riserve di legge (e specialmente di quelle in materia penale: art. 25, co. 2, Cost.). La tutela dei diritti fondamentali mediante l’attuazione del «giusto processo» risulta dall’integrazione di due fasi distinte, rispettivamente l’una antecedente e l’altra successiva all’entrata in vigore della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, di modifica dell’art. 111 della Costituzione. Nella prima fase, la garanzia di tali diritti si è attuata principalmente attraverso disposizioni di legge ordinaria, soprattutto con riguardo alle norme del nuovo codice di procedura penale (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447) – ed a quelle contenute nella relativa legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 – e con riferimento alle previsioni di cui alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed al Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici (fonti che hanno ambedue ricevuto attuazione mediante leggi ordinarie: rispettivamente la l. 4 agosto 1955, n. 848 e la l. 25 ottobre 1977, n. 881). In questa fase la giurisprudenza costituzionale si è comunque sforzata di trarre da alcune disposizioni della Costituzione (l’art. 13 in materia di libertà personale, l’art. 24 in materia di diritto di azione e di difesa, l’art. 25 in materia di giudice naturale precostituito per legge) una serie di principi – e, talora, di regole – che hanno progressivamente costituito un corpus di riferimento comunemente qualificato in forma sintetica, prima dalla dottrina e poi dalla stessa giurisprudenza, con l’espressione ellittica di «giusto processo». Nella seconda fase, l’insieme dei principi e delle regole già prescritti dalle richiamate fonti internazionali ed elaborati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale sono confluiti – benché in una forma da taluni criticata sotto il profilo della tecnica legislativa – nell’ampio art. 111 Cost., che si propone di sancire a livello costituzionale il complesso dei diritti fondamentali che devono essere garantiti nel processo (e, per alcune previsioni specifiche, nel processo penale in particolare). Di qui, la tutela dei diritti fondamentali ha quindi ricevuto, in primo luogo, una garanzia rafforzata in quanto affidata ad una disposizione di rango costituzionale, e, in secondo luogo, un’attuazione progressivamente più intensa grazie all’operato della giurisprudenza ordinaria e 1 costituzionale impegnata ad assicurare piena applicazione all’art. 111 Cost1. Nella rassegna che segue i singoli diritti verranno illustrati con riferimento tanto alle pronunce della Corte costituzionale antecedenti alla riforma dell’art. 111 Cost. (e che ne hanno costituito, in alcuni casi, anticipazione o preparazione) quanto alle statuizioni ora positivamente contenute nella novellata disposizione costituzionale2. 1. Specific procedural rights Nella ricognizione dei singoli diritti la dottrina è solita ricalcare l’impostazione già adottata dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e così distinguere tra il diritto “al processo” e i diritti “nel processo”3: il primo si riferisce al diritto alla celebrazione di un processo – diritto che nel processo penale è comune tanto alla vittima dei reati quanto all’accusato e che, in generale, è da ricondursi tanto al diritto di azione quanto a quello di difesa secondo la previsione di cui all’art. 24 Cost. –; il secondo raggruppa invece l’insieme delle pretese soggettive di cui sono titolari le parti processuali e che vengono esercitate nell’ambito del processo. Quanto al diritto “al processo” (di cui all’art. 6.1 della CEDU), la Corte costituzionale ha affermato che l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa un diritto inviolabile riconosciuto dall’art. 2 della Costituzione; di qui, ad esempio, la necessità di prevedere un controllo giurisdizionale pieno della legittimità formale e sostanziale dei provvedimenti dell’autorità penitenziaria incidenti sulla posizione del detenuto (sent. n. 26/99). Inoltre, con riguardo alla garanzia giurisdizionale connessa alle restrizioni della libertà personale, che trova la sua radice nel disposto, intimamente collegato, dell’art. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, Cost., si è precisato che essa non prevede soltanto che l’atto restrittivo sia adottato da un’autorità giudiziaria, ma richiede altresì l’instaurazione a tal fine di un regolare giudizio (sent. n. 419/94). In ordine al diritto di azione, la Corte ha poi ribadito in due sentenze (n. 360/94 e n. 366/94) la propria giurisprudenza circa la giurisdizione condizionata, precisando che il differimento della tutela giurisdizionale deve essere giustificato dal perseguimento di più adeguate V. P. FERRUA, Il “giusto processo” tra modelli, regole e principi, in Dir. pen. proc., 2004, pp. 401 ss.; S. FOIS, Il modello costituzionale del giusto processo, in Rass. parl., 2000, pp. 569 ss. 2 Sul tema v. G. UBERTIS, Principi di procedura penale europea: le regole del giusto processo, Torino, 2000. 3 M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, vol. I, Milano, 1982; ID., Garanzie ed efficienza della giustizia penale, Torino, 1998; ID. (a cura di), Procedure penali d’Europa, Padova, 1998, 467 ss. 1 2 finalità di giustizia e deve comunque essere tale da non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa (v. anche sentt. n.ri 255/94 e 311/94). Con riferimento alle discipline dei diversi giudizi, si è infine stabilito che, se da un lato la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, sancita dall’art. 24 Cost., non eleva a regola costituzionale quella del simultaneus processus, dall’altro lato l’intervento della parte civile nel processo penale trova giustificazione, oltre che nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona danneggiata dal reato, nell’unicità del fatto storico valutabile sotto il duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile (v. sent. n. 532/95); in raffronto a tali principi, che nel processo penale ordinario consentono la più ampia tutela della persona danneggiata dal reato, si è ad esempio osservato che il processo penale militare impediva, senza alcun ragionevole motivo, l’esercizio del diritto di agire in giudizio, non solo in quanto divieto di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti in sede penale, ma anche come impossibilità di iniziare immediatamente l’azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno (sent. n. 60/96) Con riguardo invece ai diritti “nel processo” (di cui all’art. 6.3. CEDU), si può evidenziare in primo luogo il diritto ad essere informato, già oggetto di considerazione da parte della Corte costituzionale in quelle pronunce ove è stato sancito che sono manifestamente irragionevoli norme eccezionali che non prevedano – per la decorrenza di un termine di estinzione del giudizio conseguente al mancato compimento di un nuovo onere sopravvenuto a carico delle parti – accorgimenti procedurali di garanzia al fine di assicurare una conoscibilità minima dell’obbligo di adempimento, come un avviso alle parti (sent. n. 111/98). La disciplina codicistica (art. 369 c.p.p., più volte riformato) prevede attualmente che un’informazione sull’esistenza di un procedimento a proprio carico possa inviarsi soltanto a partire dal momento in cui il pubblico ministero deve compiere un atto a cui il difensore ha il diritto di assistere, benché la formulazione attuale dell’art. 111 Cost. richieda che «la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico». Sul medesimo tema è poi stata oggetto di considerazione, sotto il profilo dell’art. 24 Cost., la normativa riguardante la notifica a mezzo posta: la Corte a questo proposito (sent. n. 346/98) ha dichiarato incostituzionale il secondo comma dell’art. 8 l. 20 novembre 1982, n. 890, nella parte in cui non prevedeva che, in caso di assenza del destinatario (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), fosse data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità prescritte. 3 Infatti, se rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato dal diritto di difesa del notificatario, sicchè si è escluso che la diversità di disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione delle garanzie del destinatario delle prime. Strettamente connesso al diritto all’informazione risulta poi, in quanto accessorio, il diritto ad un’informazione resa in una lingua comprensibile; a tal proposito la disciplina codicistica si limita invero alla garanzia generale sull’uso della lingua nel processo (art. 109, c. 2, c.p.p.), ulteriormente ristretta ad opera della Corte costituzionale agli organi giudiziari che abbiano una competenza regionale – ed esclusa quindi l’applicabilità della garanzia a quelli che abbiano competenza anche sul territorio ove è insediata la minoranza linguistica (v. sent. n. 213/98) –. Più in generale, peraltro, sul diritto all’assistenza linguisticoconoscitiva (su cui v. l’art. 6.3. CEDU e l’art. 14.3 del Patto) la Corte costituzionale ha precisato che elemento indefettibile della garanzia apprestata dall’art. 24 della Costituzione, sotto il profilo dell’autodifesa, è quello della possibilità di una consapevole partecipazione al processo; è stato pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 119 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che l’imputato muto, sordo o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia leggere e scrivere, ha il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza tra le persone abituate a trattare con lui, al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa (sent. n. 341/99)4. Al riguardo, l’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. prevede espressamente che la persona accusata di un reato «sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo» In materia di diritto all’assistenza, ed in particolare il diritto all’assistenza difensiva ed alla difesa di fiducia (su cui già Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Imbrioscia c. Svizzera, 24 novembre 1993, n. 275), la Corte costituzionale si è sforzata di ricondurre a sistema le varie disposizioni codicistiche intese ad assicurare la libertà della funzione della difesa tecnica: così per esempio si è sancito che a tale obiettivo è preordinato anche l’art. 598 c.p. (che contiene una causa speciale di non punibilità per le offese contenute in scritti o discorsi pronunciati dinnanzi all’Autorità giudiziaria di concedere al difensore anche psicologicamente il più ampio spazio di intervento). Poichè la finalità dell’esimente, ha Sull’ampiezza del diritto alla nomina dell’interprete, di cui all’art. 143 c.p.p., v. anche la sent. n. 10/93. 4 4 infatti riconosciuto la Corte, corrisponde ad una garanzia costituzionale, che è quella di concedere al difensore anche psicologicamente il più ampio spazio di intervento, occorre imporne l’applicabilità anche al delitto di cui all’art. 343 c.p. nei confronti del p.m. (sent. n. 380/99). La disciplina codicistica, in attuazione dell’art. 24 Cost., prevede poi che l’imputato che non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo deve essere assistito da un difensore d’ufficio (art. 97, c. 1, c.p.p.); nella direttiva della legge delega specificamente dedicata a tale garanzia (art. 2, n. 105) è stata particolarmente calcata l’attenzione sull’esigenza di adeguare l’istituto a criteri che ne garantissero l’effettività. Il raggiungimento di tale obiettivo, solo in parte conseguito con la normativa predisposta dal legislatore delegato, è parso ancor più necessario dopo l’entrata in vigore del novellato art. 111 Cost., che statuisce che il contraddittorio deve svolgersi in condizioni di parità (v. anche infra, § 2.). Di qui, anche attraverso l’entrata in vigore della l. 7 dicembre 2000, n. 397, con cui è stata compiutamente disciplinata la materia delle indagini difensive, è sorta l’ulteriore esigenza di rafforzare sensibilmente l’istituto della difesa d’ufficio, obiettivo perseguito dalla l. 6 marzo 2001, n. 60. In tema poi di tutela dei non abbienti, la sent. n. 33/99 ha esteso l’ammissione al patrocinio dei consulenti tecnici a spese dello Stato anche ai casi in cui non è stata disposta perizia, e ciò in conseguenza del riconoscimento compiuto dalla Corte del valore probatorio della consulenza extraperitale, inerente perciò all’esercizio del diritto di difesa. Il patrocinio a spese dello Stato risulta oggi ampiamente disciplinato dalla legislazione ordinaria5. Fra gli specifici diritti nel processo assai significativo è lo spazio che hanno assunto i diritti di partecipazione, ed in particolare i diritti connessi al diritto al contraddittorio ed al diritto al contraddittorio nella formazione della prova Dovendo necessariamente esporre in forma sintetica le principali risultanze a cui il lungo ed articolato cammino dialetticamente svoltosi fra le riforme legislative e le pronunce della Corte costituzionale ha condotto, possono soltanto evidenziarsi in particolare i profili seguenti. 5 Introdotto dapprima nelle controversie di lavoro (art. 11, l. 11 agosto 1973, n. 533) e quindi nella disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori (art. 75, l. 4 maggio 1983, n. 184), successivamente all’entrata in vigore del nuovo c.p.p. l’istituto è stato esteso ai procedimenti penali (l. 30 luglio 1990, n. 217, e successivo regolamento emanato mediante il d.m. 3 novembre 1990, n. 327) ed a quelli civili volti ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti da reato. Finalmente, la l. 29 marzo 2001, n. 134, e poi il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sono intervenuti a modifica della previgente legislazione estendendo anche all’intero settore dei procedimenti civili ed al processo amministrativo il patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato. 5 Quanto al profilo del diritto al contraddittorio, esso emerge nella giurisprudenza della Corte fin dalle sentt. n.ri 16/94 e 413/94: la prima, interpretando l’art. 419, c. 3, c.p.p. nel senso che, ove il P.M. trasmetta e depositi atti di indagine e documentazioni dopo la richiesta di rinvio a giudizio, con conseguente effetto “a sorpresa” per la parte, possa essere disposto il differimento dell’udienza preliminare con dovere, in ogni caso, del giudice di regolare le modalità di svolgimento di tale udienza, mira a contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia del contraddittorio; la seconda indica nel ricorso per cassazione il mezzo per far valere la nullità derivante dall’omesso avviso alla parte civile della richiesta di archiviazione del P.M. nel processo pretorile, così salvaguardando il contraddittorio attraverso una lettura adeguata del primo e del secondo comma dell’art. 156 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, nonostante la mancanza del rito camerale nel procedimento in esame. Quanto al profilo del diritto al contraddittorio sulla prova (su cui l’art. 6.3.d della CEDU e già Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Saidi c. Francia, 20 settembre 1993, n. 261-C), la Corte costituzionale ne ha ribadito la funzione essenziale dalla sentenza n. 361/98, sancendo l’irragionevolezza di una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Di qui, dovendo la Corte confrontarsi con il portato della legge n. 267 del 1997, che delineava un sistema in cui la utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni veniva fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell’imputato, e dovendo al contempo arrestarsi dinnanzi al limite della discrezionalità del legislatore, parve in un primo tempo coerente con il rispetto dei principi costituzionali che alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (imputati in un procedimento connesso) venissero applicate le regole relative alle contestazioni previste per i testimoni in caso di rifiuto di rispondere: mediante il sistema delle contestazioni di cui all’art. 500, c. 2bis, del c.p.p., alla parte che ha chiesto l’esame veniva infatti data la possibilità di portare direttamente davanti al giudice il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza e alle controparti di sottoporle al vaglio critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti. Risultava così possibile, secondo la Corte, da un lato superare la manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono all’autorità giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari e che, poi, ne affidano la possibilità di acquisizione in dibattimento alla scelta discrezionale di chi in precedenza ha liberamente reso quelle dichiarazioni; dall’altro lato salvaguardare il diritto di difesa dell’imputato dichiarante e insieme dell’imputato destinatario delle 6 dichiarazioni: il diritto al silenzio, riconosceva infatti la Corte, non viene scalfito ove il dichiarante venga sottoposto alle contestazioni sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni; il diritto al contraddittorio dell’accusato, per altro verso, non può identificarsi con il potere di veto, ma va correttamente inteso come diritto a contestare tali dichiarazioni in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice, adottando il meccanismo già previsto dal legislatore in caso di rifiuto totale o parziale di rispondere del testimone. Si doveva poi costatare che la figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento connesso, è sostanzialmente identica, in quanto l’esame sul fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l’una piuttosto che l’altra veste per ragioni meramente processuali e occasionali. Ne è derivata l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non ne era prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. L’equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e imputato in procedimento connesso ha infine consentito di concentrare nell’art. 513, c. 2, c.p.p. la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del dichiarante di rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea la disciplina dell’esame avente ad oggetto fatti concernenti la responsabilità di altri, e così superando anche le ulteriori disparità di trattamento tra il c. 1 e il c. 2 dell’art. 513 del c.p.p.; conseguentemente, il c. 1 risultava riservato esclusivamente all’esame dell’imputato sul fatto proprio (art. 208 c.p.p.), rispetto al quale era dalla Corte ritenuto pienamente conforme all’esercizio del diritto di difesa che l’imputato scegliesse di rimanere assente o contumace, ovvero rifiuti di sottoporsi all’esame. Richiamo indiretto alla formazione della prova in contraddittorio era poi contenuto anche nell’ordinanza n. 248/98, sui limiti di applicabilità dell’art. 491 c.p.p. L’insieme di queste regole, faticosamente risultanti da molteplici interventi manipolativi della Corte e da un labor limae del legislatore non sempre accorto, è poi confluito in forma sintetica nella garanzia enunciata dal novellato art. 111 Cost. nella parte in cui statuisce che «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del difensore». Di qui, in ordine alla formazione della prova in dibattimento, con la sentenza n. 440/00 la Corte, prendendo atto del contesto normativo nel 7 frattempo mutato, ha concluso nel senso che l’interpretazione estensiva riservata alle deroghe al principio del contraddittorio per «accertata impossibilità di natura oggettiva» non era più compatibile con i contenuti della sopravvenuta disciplina costituzionale; sicché, tra le cause di natura oggettiva che rendono impossibile la formazione della prova nel contraddittorio, non poteva farsi più rientrare l’esercizio della facoltà legittima di astenersi dal deporre, riconosciuta al prossimo congiunto dell’imputato. Più in generale, in argomento, la Corte costituzionale ha più volte ribadito la necessità di tale riforma poiché le uniche fonti normative che, in precedenza, contenevano alcuni principi, senza i quali non si poteva parlare di parità tra accusa e difesa e di “giusto processo”, erano le convenzioni internazionali che, come si è visto, non assurgono nel nostro ordinamento a rango costituzionale. Necessaria è stata ritenuta, in particolare, la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, strumento attraverso il quale le parti processuali concorrono dialetticamente alla formazione della prova, ed indispensabile per la formazione del libero convincimento del giudice, il quale ha il diritto – dovere di verificare l’attendibilità e la veridicità, in relazione al singolo imputato e agli specifici reati contestati, delle dichiarazioni confessorie e/o accusatorie che possono essere vere o false, o esserlo solo in parte, o, ancora, più o meno precise tra loro o con altre emergenze processuali. Ciò ha consentito di evitare che si ritenesse legittima l’acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rilasciate da chi, in dibattimento, si avvaleva della facoltà di non rispondere. Correlata alla tematica dei diritti di partecipazione è poi la disciplina dei c.d. procedimenti in absentia. Sul punto le affermazioni più notevoli sono contenute nella sent. n. 399/98, che ha preso in considerazione gli artt. 159 e 160 del codice di procedura penale sul rito degli irreperibili. Preliminarmente osservato che non si può chiedere in sede di giudizio di legittimità (e in relazione al principio del giusto processo per il quale ogni Stato aderente alla CEDU gode della più ampia libertà di scelta) un sistema nel quale il principio della conoscenza del processo si realizzi per intero e senza alcuna eccezione, la Corte ha rilevato che le innovazioni introdotte dal nuovo codice (d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12) denotano che il legislatore si è adoperato per adeguare la disciplina del rito degli imputati irreperibili sia alle convenzioni internazionali sia all’art. 24 Cost., che, nel proclamare inviolabile la difesa in ogni stato e grado del procedimento, appresta a favore dell’imputato garanzie non meno pregnanti, che certamente comprendono il diritto, che la CEDU enuncia in 8 maniera esplicita, di avere notizia del procedimento che lo riguarda e di avere l’opportunità e il tempo di allestire le proprie difese. Il fatto che la nuova disciplina non giunga a prevedere la reintegrazione completa dell’imputato in tutti i suoi diritti processuali nell’ipotesi in cui non abbia avuto conoscenza del processo può far sorgere questioni di legittimità costituzionale il cui esito, se riferite alle disposizioni che non consentono all’imputato l’esercizio di un diritto o di una facoltà di cui avrebbe dovuto fruire, resta impregiudicato: è comunque da escludere, ha rilevato la Corte, che la denunciata insufficienza dei rimedi previsti ridondi in vizio di legittimità costituzionale del rito penale per gli irreperibili in quanto tale. Occorre aggiungere che la Corte ha altresì osservato che l’art. 6 della CEDU non impone l’adozione di un modello processuale unico e infungibile: per far sì che il loro sistema giudiziario sia in armonia con il principio del giusto processo, gli Stati contraenti, come la Corte europea non negò, godono della più ampia libertà nella scelta dei mezzi idonei. Per concludere l’esame su alcuni specifici diritti processuali, può infine ricordarsi il diritto alla riparazione per l’errore giudiziario, rispetto a cui la Corte ha ritenuto che la riparazione per l’ingiusta detenzione abbia un fondamento squisitamente solidaristico e rientra nei diritti inviolabili (sent. n. 109/99: art. 314, c. 1, c.p.p.). 2. Equivalence of procedural positions of the parties Anteriormente alla novella dell’art. 111 Cost., la giurisprudenza della Corte costituzionale aveva affermato che il principio della parità delle parti nel processo non comporta che la mera conoscenza degli atti del procedimento (determinatasi per l’archiviazione di reati concorrenti a seguito di prescrizione), non accompagnata da una valutazione contenutistica, di merito, sui risultati dell’indagine, abbia effetti pregiudicanti sulla funzione di giudizio (ord. n. 152/99). Il patrimonio di conoscenze del giudice è vincolato, di regola, agli elementi acquisiti nel corso del dibattimento, cosa che corrisponde ad una scelta tra le più significative e qualificanti del nuovo rito (ord. n. 338/99). Secondo la Corte, il modello accusatorio comporta, invece, che il contraddittorio quale espressione della garanzia costituzionale della difesa si instauri nel processo, e non in fasi anteriori, ed abbia a primario interlocutore il giudice e non la parte pubblica (ord. n. 326/99, a proposito dell’art. 459 c.p.p.). Tale modello comprende un equilibrio fra le parti che comporta per le persone sprovviste di mezzi la possibilità di avvalersi di consulenti tecnici a spese dello Stato anche quando non sia stata disposta perizia (art. 4, c. 2, prima parte, l. 30 luglio 1990, n. 217: sent. n. 33/99). 9 In ordine alla “parità di armi” rispetto al diritto alla prova, negato che questo possa essere invocato quando la parte abbia dato causa alla situazione sostanziale che l’esclude (artt. 159 c.c. e 246 c.p.c.: sent. n. 62/95), è stata riaffermata la parità tra le parti nel caso di ampliamento del thema decidendum (art. 519, c. 2, c.p.p., dichiarato illegittimo nella parte in cui, in caso di nuova contestazione effettuata a norma dell’art. 517 del medesimo codice, non consentiva al pubblico ministero e alle parti private diverse dall’imputato di chiedere l’ammissione di nuove prove: sent. n. 50/95). Per altro verso, tuttavia, è proprio nella non equiparabilità tra parti principali – e necessarie – del processo penale e parte civile, la cui presenza è solo eventuale, nonché tra gli interessi di cui ciascuna è rispettivamente portatrice, che si giustifica il diverso trattamento in ordine all’ammissione delle prove ex art. 495, c. 2, c.p.p. (sent. n. 532/95). Con la riforma dell’art. 111 Cost. è assurto a rango costituzionale il principio secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità». Tra le conseguenze normative più significative della novella si segnala l’introduzione della l. 7 dicembre 2000, n. 397, intitolata «Disposizioni in materia di indagini difensive», in base alla quale vengono riconosciuti al difensore ampi poteri di ricerca delle prove a favore del proprio assistito, oltrechè di documentazione ed utilizzazione del processo dei risultati delle indagini svolte. In particolare la suddetta legge, integrando significativamente i poteri di ricerca della prova originariamente assegnati al difensore dall’art. 38 delle Disposizioni attuative del c.p.p., ha introdotto nel libro V del codice il titolo VI-bis, che disciplina non solo le “investigazioni difensive” ma anche l’utilizzazione dei relativi risultati nel processo. 3. Protection from surprising procedural motions L’esigenza di tutela delle parti da azioni “a sorpresa„ trova ora soddisfazione nella generale previsione di cui all’art. 111 Cost. che impone il contraddittorio fra le parti come necessaria modalità di svolgimento del processo, ed in particolare elegge il contraddittorio nella formazione della prova a principio fondamentale che regola il processo penale (art. 111, c. 4). A tal riguardo, già con la sent. n. 16/99 la Corte ha interpretato l’art. 419, terzo comma, c.p.p. nel senso che, ove il P.M. trasmetta e depositi atti di indagine e documentazioni dopo la richiesta di rinvio a giudizio, con conseguente effetto “a sorpresa” per la parte, possa essere disposto il differimento dell’udienza preliminare con dovere, in ogni caso, del giudice di regolare le modalità di svolgimento di tale udienza, in modo da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia del contraddittorio. 10 4. Publicity of the court hearing E’ stata ritenuta implicita nei principi costituzionali che disciplinano l’esercizio della giurisdizione la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, la quale, peraltro, può subire eccezioni in riferimento a determinati procedimenti, quando abbiano obbiettiva e razionale giustificazione. Tale giustificazione è stata ritenuta sussistente, ad esempio, per il processo tributario (sentenza n. 141/98): tale rito è infatti conformato dal legislatore, sia sotto l’aspetto probatorio che difensivo, come processo documentale, nel senso che si svolge attraverso atti scritti mediante i quali le parti provano le rispettive pretese o spiegano le relative difese (ricorsi, memorie), mentre resta esclusa, in relazione alla natura di tale processo, l’ammissibilità sia della prova testimoniale che del giuramento (art. 7, comma 4, del d. lgs. n. 546 del 1992). In relazione a ciò la Corte ha ritenuto non irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte della discussione della causa. In assenza della discussione, infatti, la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa Sulla mancanza di pubblicità del giudizio abbreviato, la Corte ha affermato (sent. n. 69/91) che, per verificare se la peculiarità del rito sia idonea a giustificare o no la deroga al principio di pubblicità, è indispensabile una considerazione del problema non limitata al giudizio abbreviato transitorio richiesto dall’imputato alla presenza del pubblico nel corso delle formalità di apertura del dibattimento, come nel caso di specie: comportando la varietà delle ipotesi una gamma di possibili soluzioni, e non essendo l’ordinanza di rimessione in proposito univoca, è stata dichiarata l’inammissibilità della questione. Sul tema della pubblicità dei giudizi, con la sent. n. 251/91, riguardante il c.d. “patteggiamento” la Corte non ha ravvisato illegittimità costituzionale nella previsione che esclude, in tale rito, la pubblicità del giudizio, e ciò sia perché la sentenza di applicazione della pena non è una vera e propria sentenza di condanna sia perché l’assenza di pubblicità può talvolta rappresentare uno degli elementi incentivanti per richiedere l’applicazione di questo rito. 5. Protection of secrets in the trial La tutela del segreto è stata significativamente correlata dalla Corte costituzionale con il diritto di difesa ex art. 24 Cost. Con la sent. n. 460/00 11 la Corte ha infatti dato una diversa lettura della norma che impone il segreto d’ufficio sugli atti compiuti dalla Consob nell’esercizio del suo potere ispettivo e di vigilanza, anche quando tali atti siano preordinati all’irrogazione di una sanzione amministrativa. L’incolpato, infatti, non potrebbe validamente esercitare il proprio diritto di difesa, se non fosse posto in condizione di conoscere i verbali e gli altri accertamenti compiuti dalla Consob. Di qui la conseguenza necessaria di interpretare la norma in questione nel senso della inopponibilità del segreto d’ufficio all’incolpato, quando gli atti segretati siano stati posti a fondamento dell’irrogazione di una sanzione amministrativa. 6. Regulation of time limits (Protection of confidence) L’ordinamento italiano, a partire dall’art. 2 Cost. e disegnando un arco che abbraccia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, la legge sulla stampa, il Testo unico o Codice della Privacy e la legge sulla professione giornalistica, forma un ampio reticolo di norme che rendono intangibile la tutela della vita privata e dell’onore dei cittadini. Il «rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali« è il valore sommo che la legislazione sulla riservatezza personale. Si può affermare, quindi, che il diritto di cronaca e di critica trova un limite invalicabile nel rispetto di altri diritti fondamentali, parimenti sanciti dalla Costituzione in quanto attinenti alla pari dignità sociale di tutti i cittadini, nonché nella salvaguardia dei diritti inviolabili d’ogni persona, sia come singolo, sia come membro delle diverse formazioni sociali nelle quali si forma e si sviluppa la personalità d’ognuno, diritti inviolabili tra i quali vanno annoverati il diritto all’onore, alla reputazione, al decoro, all’identità personale e alla riservatezza6. Secondo la Corte Costituzionale, l’onore, comprensivo del decoro e della reputazione, è tra i beni garantiti dalla carta fondamentale, «in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la perso umana«. La Cassazione ha del resto riconosciuto che «In tema di diritti della personalità umana, esiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in particolare nell’art. 2. L’espresso riferimento alla persona come singolo 6 V., per tutte, Cass. Pen. sez. III, 7 ottobre 1998, n.12744. 12 rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza alla reputazione del soggetto. Infatti, nell’ambito dei diritti della personalità umana, con fondamento costituzionale, il diritto all’immagine, al nome…non sono che singoli aspetti della rilevanza costituzionale che la persona, nella sua unitarietà, ha acquistato nel sistema della Costituzione. Trattasi quindi di diritti omogenei essendo unico il bene protetto»7. In questo quadro generale, il raccordo fra tutela della riservatezza e disciplina dei termini processuali trova anzitutto attuazione nel disposto di cui all’art 329 del c.p.p. che statuisce il segreto d’indagine dal momento dell’acquisizione della notizia di reato fino alla chiusura delle indagini preliminari, al fine di non nuocere all’attività investigativa. In via generale, gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (a iniziativa o su delega) sono segreti fino a quando l’indagato non può averne conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 329 comma 1, artt. 405 e 407 c.p.p.). Il legislatore inoltre, al fine di dare piena attuazione alla tutela della riservatezza del procedimento penale, ha previsto, accanto al regime di segretezza sopra illustrato, il divieto di pubblicazione degli atti e di immagini di cui all’art. 114 c.p.p.. Al fine di marginalizzare gli effetti negativi sulla reputazione dell’indagato che, a causa di una paradossale distorsione dell’istituto, derivavano di fatto dall’invio della comunicazione che portava a conoscenza dell’interessato lo svolgimento di indagini nei suoi confronti, l’ordinamento italiano (con una modifica all’art. 369 c.p.p. disposta dall'art. 19 della l. 8 agosto 1995, n. 332) ha previsto che la suddetta comunicazione (oggi denominata «avviso di garanzia») sia inviata dal pubblico ministero «solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere». Tale disciplina mira anche a recepire le indicazioni espresse dalla giurisprudenza costituzionale 7. Handling of regulations of burden of proof Con riguardo al processo civile, la disciplina del riparto dell’onere della prova risulta contenuta non già all’interno del codice di procedura, bensì nel codice civile; da tale sedes materiae la dottrina sottolinea la natura sostanziale delle regole in materia di suddivisione dell’onere della prova, posto che l’effettivo godimento di una situazione giuridica soggettiva che sia controversa non può che avvenire mediante l’attuazione del principio 7 Cass.civ., sez. III, 10 Maggio 2001, n. 6507. 13 per cui la prova del fondamento di un fatto giustificante una determinata pretesa nei confronti di un altro soggetto grava su colui che ne afferma la veridicità (onus probandi incumbit ei qui dicit). La disciplina dell’onere della prova viene peraltro raccordata dalla migliore dottrina con il riconoscimento e la garanzia di un diritto alla prova, inteso come manifestazione essenziale della garanzia fondamentale dell’azione e della difesa in giudizio8. Con riguardo invece al processo penale, il tema s’intreccia fortemente con il principio del contraddittorio e con quello del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111, commi 3 e 4, Cost.), potendosi pertanto qui rinviare alle osservazioni retro sviluppate su tali questioni. In argomento, la sent. n. 241/92 la Corte ha ritenuto che, in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova per tutte le parti, non è consentito, nel caso di nuove contestazioni dibattimentali, né precludere tale diritto per alcune parti né contenerlo nei ristretti limiti dell’”assoluta necessità”. Le nuove contestazioni non riaprono invece i termini per i procedimenti speciali, essendo esse evenienze preventivabili dall’imputato, che ne deve pertanto tenere conto al momento di esercitare la sua facoltà di richiedere il patteggiamento o il giudizio abbreviato (ord. n. 213/92, sent. n. 316/92). Sul diritto alla prova va altresì ricordata la sent. n. 203/93 con cui la Corte ha affermato che dal collegamento di varie disposizioni inserite nella disciplina del dibattimento risulta che il diritto di ciascuna parte alla controprova deve poter essere esercitato entro un tempo ragionevole, connesso ad un adeguato esame delle prove indicate dalle altre parti, pur quando le prove siano state introdotte, ove consentito, nel corso del giudizio. 8. Particular characteristics for criminal trials Con riguardo a quanto non già illustrato retro, nel paragrafo 1., relativamente ai diritti “nel processo” penale9, possono qui ricordarsi i seguenti profili. Cfr. M. TARUFFO, voce Prova (in generale), in Digesto delle discipline privatistiche – Sezione civile, v. XVI, Torino, 1997, p. 30. 8 9 V., amplius, P. FERRUA, Prime riflessioni su riforma costituzionale e "giusto processo". Il processo penale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione. in Ques. giust., 2000, pp. 49 ss. 14 8.1. Refusal to give evidence Con riguardo alla posizione dell’imputato nei confronti del quale si procede o si è proceduto separatamente, e che viene esaminato nell’ambito di un dibattimento a carico di un imputato di un reato connesso, la Corte, con la sent. n. 254/92, ha assimilato ai fini della utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini il rifiuto di rispondere di tale soggetto al comportamento tenuto dall’imputato che, nel procedimento a suo carico, rifiuti di sottoporsi all’esame. In proposito la Corte, sviluppando ulteriormente il tema dell’oralità, ha affermato che tale principio guida va contemperato, come risulta del resto già dal complesso della disciplina codicistica, con l’esigenza di evitare, entro certi limiti e a determinate condizioni, la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. La ricerca di tale contemperamento è testimoniata dalla compresenza delle disposizioni codicistiche che garantiscono il diritto al silenzio (e che prescrivono il divieto di interpretarlo a sfavore dell’imputato: artt. 63, 64, 190bis, 210 c.p.p.) con il principio, introdotto dalla novella dell’art. 111 Cost., secondo cui «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle sole dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore»10. 8.2. Regulation for principal witness Accanto alle previsioni, più volte riformate dal legislatore ed oggetto di interventi manipolativi della Corte costituzionale, in materia di utilizzazione delle dichiarazioni indizianti rese dai testimoni nonchè di quelle rese da soggetti coimputati o imputati in procedimenti connessi, la Corte costituzionale in un primo tempo (sent. n. 241/94), considerando il testo dell’art. 500 c.p.p. come modificato dalla l. 7 agosto 1992, n. 356 ed alla luce dei principî espressi stessa giurisprudenza costituzionale (v. sent. 255/92), aveva osservato che è principio generale, direttamente discendente dal primo comma dell’art. 111 Cost. (nella versione anteriore alla novella del 1999), che ogni qualvolta si sia in presenza di due versioni difformi di un fatto rese dal medesimo testimone non è consentito al 10 Nella giurisprudenza della Corte Europea, si segnalano, da un lato, la sent. 8 febbraio 1996, John Murray c. Regno Unito, in cui è stato ritenuto che non può dirsi a priori incompatibile con la CEDU una disciplina che in certe situazioni consenta ad un organo giudicante di trarre una prova implicita di colpevolezza dal silenzio di una persona sottoposta a procedimento penale; dall’altro lato, la sent. 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito, in cui è stato censurato, sotto il profilo del principio nemo tenetur se detegere quale elemento del «giusto processo» ai sensi dell’art. 6.1. CEDU, l’uso in sede processuale penale di dichiarazioni autoindizianti che una persona aveva dovuto rendere di fronte a soggetti dotati di poteri ispettivi nell’ambito dell’accertamento di frodi societarie. In argomento, R.E. KOSTORIS (a cura di), Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, Torino, 2002. 15 giudice di privilegiarne una a propria discrezione, ma sussiste invece l’obbligo di un più attento esame, sia intrinseco che globale, delle dichiarazioni contrastanti, al fine di rendere ragione della maggiore credibilità delle une, ovvero della non genuinità delle altre, della concordanza di alcuna di esse con altri elementi di prova, o, infine, dell’inattendibilità di entrambi. Parimenti al principio di libera ricerca della verità da parte del giudice guarda la sent. n. 111/93, sull’art. 507 c.p.p, ove si nega che il sistema introdotto tenda solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l’altro, purché correttamente ottenuto. Viene dunque negato che la caratterizzazione del nuovo rito come processo di parti comporti l’operatività di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio che renderebbe indirettamente disponibile la stessa res iudicanda. Positivamente, si ritiene invece, il nuovo regime consente l’introduzione di prove ad iniziativa del giudice, prove rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalle quali siano decadute. In relazione allo stesso principio la sent. n. 237/93, ha limitato, sempre in via interpretativa, il divieto di acquisire al dibattimento deposizioni testimoniali, concernenti le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta all’indagine, a quelle dichiarazioni fatte anche spontaneamente in occasione del compimento di ciò che debba comunque qualificarsi come un qualsiasi atto del procedimento. Sul tema della «testimonianza indiretta», il diritto italiano presenta una soluzione intermedia fra due potenziali estremi, dall’ammissione illimitata al puro e semplice divieto: quando un testimone fa riferimento ad altre personem come a fonti delle proprie consoscenze, queste devono essere necessariamente convocate – se una delle parti lo chiede – per venire ascoltate nel corso del dibattimento; l’inosservanza di tale precetto rende inutilizzabili le dichiarazioni del teste indiretto, salvo il caso in cui l’esame della fonte sia divenuto impossibile per morte, infermità o irreperibilità (art. 195 c.p.p.; sul tema, e con riguardo all’irragionevolezza di talune eccezioni, v. sent. n. 24/92). Con particolare riguardo alla tutela dei soggetti che, dissociatisi dai comportamenti criminali e dai gruppi organizzati al fine di delinquere, hanno collaborato alla prevenzione e repressione dei reati, la Corte costituzionale ha posto in specifica evidenza la violazione del principio di eguaglianza da parte di quelle disposizioni che comportino un trattamento (sia sostanziale che processuale) di sfavore proprio nei confronti comportamenti processuali (sent. n. 396/1989). 16 8.3. Cutting off detainees Sul tema del diritto al contraddittorio in situazioni di coercizione, con la sent. n. 32/99 la Corte ha confermato, con decisione additiva di principio, la necessità dell’interrogatorio di garanzia nella fase che va dalla chiusura delle indagini preliminari all’apertura del dibattimento. Si tratta di un adempimento già ritenuto indispensabile dalla sentenza n. 77/97, con cui la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 294, c. 1 e 302 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che il giudice deve procedere all’interrogatorio dell’imputato in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura: secondo la Corte, poiché un simile interrogatorio si collega direttamente all’Habeas corpus, dal mancato adempimento di tale dovere deriva la cessazione dell’efficacia del titolo custodiale. Il d.l. n. 29/1999 ha poi provveduto a tradurre in una specifica disciplina il principio enunciato dalla Corte, la cui portata è però da sottolineare anche nella parte in cui, pur non esistendo nel nostro ordinamento un’affermazione testuale di carattere generale del principio del “rechtliches Gehör” (“diritto all’ascolto legale”) come proclamato ad esempio dalla Costituzione tedesca, traduce comunque l’esigenza di garantire tale “diritto all’ascolto” soprattutto nelle situazioni di più intensa restrizione della libertà personale quali quelle che si verificano in sede di coercizione. Deve anche precisarsi che l’ordinamento italiano non comprende alcuna disposizione che consenta l’interruzione o la sopsensione dei contatti fra il detenuto ed il suo difensore; esiste peraltro una speciale disciplina, dettata dall’articolo 41bis della l. 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663 (e ripetutamente modificato), che introduce la possibilità, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, di sospendere delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La Corte costituzionale ha peraltro precisato che tale disciplina poteva non essere considerata incostituzionale solo in presenza di due condizioni indispensabili: il controllo giurisdizionale sulla sua applicazione e il rispetto dei diritti degli interessati nelle restrizioni apportate al regime penitenziario ordinario (sentt. n.ri 354/1994 e 68/1995). La Corte ha altresì ribadito che le restrizioni del regime penitenziario contenute nei decreti ministeriali dovevano limitarsi a quelle relative ai collegamenti con l’esterno e, nel disporre in tal senso, non dovevano comunque violare i diritti degli interessati, compreso quello alle attività trattamentali e riabilitative, e non potevano perseguire finalità afflittive (sentt. n.ri 376/1997, 445/97, 137/99). 17 In materia di diritto ad un limite di durata alla detenzione custodiale, con l’ord. n. 529/00 la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 304, c. 6, c.p.p. sollevata sul presupposto interpretativo che questa disposizione - nella parte in cui prevede che la custodia cautelare non possa comunque superare il doppio dei termini di cui all’articolo 303, cc. 1, 2 e 3 - si riferisca esclusivamente ai periodi di custodia cautelare tra loro omogenei, relativi cioè ad una stessa fase, e non debbano perciò essere calcolati, ai fini del raggiungimento del termine massimo, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi diverse. La Corte ha precisato che tale presupposto è erroneo e che, al contrario, deve essere ritenuta costituzionalmente obbligata l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se quel termine sia stato sospeso, prorogato o abbia iniziato una nuova decorrenza a séguito della regressione del processo. In armonia con l’art. 13 Cost., non sono dunque consentite distinzioni riferite alle ragioni che hanno determinato il nuovo corso del termine. In tema di libertà personale e coercizione, la sent. n. 359/00 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, c. 2, lettera b, del d.P.R. n. 448 del 1988 che consentiva al giudice di disporre la custodia cautelare nei confronti del minorenne nel caso di pericolo di fuga, rilevando una violazione dei criteri della delega, che non prevedeva il ricorso alla custodia cautelare per i minori in coerenza con i principî affermati a livello internazionale riguardo al diritto penale minorile. 8.4. Right of the defending counsel to inspect files Secondo le disposizioni codicistiche, la conoscenza integrale degli atti del fascicolo del p.m. è assicurata al difensore al termine della fase delle indagini (art. 419, c. 2, c.p.p.); prima di questa discovery totale la difesa ha diritto (art. 364 c.p.p.) a presenziare a determinati atti (compreso, almeno di regola, l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini), oltrechè a prendere conoscenza dei relativi verbali (art. 366 c.p.p.). Uno specifico diritto alla discovery è stato affermato dalla Corte Europea dei Diritto dell’Uomo a partire dalla sentenza Lamy c. Belgio, 30 marzo 1989, n. 184. La Corte costituzionale, sul tema della presenza del difensore a singoli atti, ha preso in considerazione, con la sent. n. 198/94, l’art. 238, c. 1 c.p.p., nella parte in cui consentiva l’acquisizione agli atti del processo della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell’incidente 18 probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione. Rilevato che in questo caso la perizia entra nel nuovo processo col solo veicolo della lettura, anche senza il consenso delle parti, la decisione, richiamata la sentenza n. 181 del 1994, relativa all’art. 403 cod. proc. pen., ha ridotto l’applicabilità della disposizione impugnata al caso in cui la prova venga utilizzata nei confronti di soggetti i quali non avevano assunto né potevano assumere la qualità di persone sottoposte alle indagini. In tal senso, secondo la costante giurisprudenza della Corte le garanzie di difesa possono richiedersi solo in presenza della soggettivizzazione della notitia criminis, sebbene, ove possibile, la parte abbia diritto a conseguire la rinnovazione della prova, ed il giudice, se del caso, ha il dovere di disporne la rinnovazione nel dibattimento, salvo sempre il suo libero convincimento circa la valenza della perizia espletata altrove. Il diritto in esame viene oggi ricondotto dalla dottrina nella previsione contenuta nel novellato art. 111 Cost. secondo cui ogni accusato ha diritto a disporre «delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa». 8.5. Appropriate period of time for preparations of the accused La previsione di tale diritto è oggi espressamente sancita dall’art. 111 Cost., il quale. ricalcando le previsioni di cui all’art. 6.3 della CEDU ed all’art. 14.3 del Patto, prevede che ogni accusato abbia diritto a disporre «del tempo necessario per preparare la sua difesa». La Corte costituzionale (sent. n. 399/98) ha rilevato che l’art. 24 Cost., nel proclamare inviolabile la difesa in ogni stato e grado del procedimento, appresta a favore dell’imputato garanzie che certamente comprendono il diritto, che la CEDU enuncia in maniera esplicita, di avere notizia del procedimento che lo riguarda e di avere l’opportunità e il tempo di allestire le proprie difese. 8.6. Utilization of unlawfully obtained evidence L’ordinamento italiano prevede la generale sanzione della inutilizzabilità per le prove assunte in violazione di divieti stabiliti dalla legge (art. 191 c.p.p.). Relativamente all’attività della polizia giudiziaria, merita segnalazione la sent. n. 259/91, con la quale la Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 350, settimo comma, c.p.p., nella parte in cui consente una sia pur limitata utilizzazione nel dibattimento delle dichiarazioni 19 spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore. 8.7. Deals between judge / prosecution and defending counsel Due istituti previsti dal c.p.p. del 1988 «si fondano sul riconoscimento legale di determinati effetti all’accordo fra il pubblico ministero e l’accusato»11: il “patteggiamento” ed il giudizio abbreviato; l’accordo verte non sulla decisione di procedere, ma sulla misura della pena e/o sul rito processuale da adottare, con lo scopo principale di accelerare la procedura. Sul tema, oltre alle considerazioni retro sviluppate con riguardo alle possibili eccezioni al principio della pubblicità dell’udienza, si segnala ad esempio che in tema di “applicazione della pena su richiesta delle parti” al giudice non è consentito di rifiutare l’applicazione della pena concordata se non (a) in quanto la richiesta delle parti esorbiti dai limiti previsti dalla legge o (b) in quanto non ritenga la pena “congrua” in rapporto alla finalità rieducativa sancita dall’art. 27, c. 3, Cost. (sent. n. 313/90). Quanto al giudizio abbreviato, si segnala che la Corte aveva originariamente ravvisato (sent. n. 92/92) una causa di incostituzionalità nella mancata previsione di un’integrazione probatoria nell’ambito dell’udienza preliminare, pur dovendosi la Corte medesima astenere dal provvedere all’integrazione di tale omissione in osservanza del limite della discrezionalità del legislatore; sul punto ha quindi provveduto la l. 16 dicembre 1999, n. 479. Con la novella dell’art. 111 Cost. i limiti al contraddittorio che si riscontrano nei procedimenti ispirati alla c.d. “giustizia negoziata” trovano giustificazione nella previsione secondo cui «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato» (art. 111, c. 5, Cost.). 11 M. CHIAVARIO, La justice négociée: une problématique à construire, in APC, 1995 (15). 20