Paradiso – Canto XII - Digilander

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Paradiso – Canto XII
Non appena la luce benedetta di San Tommaso ebbe pronunciata l’ultima parola, la santa corona
incominciò
a
volgersi
in
cerchio;
e non finì di compiere un intero giro che un’altra corona di beati la circondò, e accordò il suo moto e
il
suo
canto
al
moto
e
al
canto
di
quella;
in quei dolci strumenti questo canto supera quello dei nostri poeti e delle nostre donne tanto quanto
il
raggio
diretto
supera
quello
riflesso.
Come attraverso una nube leggiera e trasparente si volgono due archi ( quelli dell’arcobaleno
quando è doppio) paralleli e fatti degli stessi colori, quando Giunone comanda alla sua ancella (di
scendere
sulla
terra
a
portare
i
suoi
messaggi),
e l’arco esterno si forma ( per riflessione) da quello interno, allo stesso modo in cui (dalla voce) si
genera l’eco, che prende nome da colei che l’amore consumò come il sole dissolve la nebbia,
e tali archi nel mondo rendono gli uomini sicuri che la terra non sarà mai più allagata, per il patto
stipulato
da
Dio
con
Noè,
così si volgevano intorno a noi le due corone di beati, e così quella esterna si accordò a quella
interna.
Iride, messaggera di Giunone, scendendo sulla terra, dipingeva, lungo il suo percorso in cielo, un
arcobaleno.
La ninfa Eco. figlia dell'Aria e della Terra, si consunse a tal punto nel suo disperato amore per
Narciso, che si ridusse solo a ossa e voce; tramutata in sasso dagli dei, conservò di umano solo la
voce
(
Ovidio
Metamorfosi
III,
356-510).
Dopo il diluvio universale Dio strinse con Noè un patto: non avrebbe mai più provocato un altro
diluvio e come segno di questo accordo mandò l'arcobaleno (Genesi IX, 0-16).
Con l'apparizione della seconda corona di beati che si aggiunge alla prima, anzi che questa abbia
compiuto tutto il suo giro, la poesia si esalta nella sfera delle immagini, nella perfezione artistica del
canto dei due semicori tripudianti e del loro moto di danza, moto a moto e canto a canto, che vince
ogni umana scienza poetica ed ogni seduzione sensitiva: muse e serene. Il loro accordo è intrinseco
come la fascia interna e quella esterna dell'arcobaleno: il paragone delle due ruote all'iride dà origine
alla stupenda immagine di un patto eterno di pace e di gioia fra il cielo e la terra, e con essa hanno
termine
il
tripudio
e
la
festa
dell'intermezzo
proemiale.
Dopo che la danza e l’altra grande festa che le anime facevano con il cantare e con il rispondersi di
ciascuna
luce
all’altra,
piene
di
gioia
e
di
carità
si arrestarono nello stesso istante e con la stessa concorde volontà, proprio come le palpebre degli
occhi devono necessariamente abbassarsi o sollevarsi insieme, secondo il desiderio che determina i
loro
movimenti,
dal profondo di una di quelle luci giunte poco prima si levò una voce, che, facendomi volgere verso il
luogo da cui proveniva, mi fece assomigliare all’ago (della bussola che si orienta) in direzione della
stella
polare;
e incominciò: “ Lo spirito di carità che rende più luminosa la mia bellezza mi spinge a parlare
dell’altra guida (San Domenico), per onorare la quale qui si è parlato così bene della mia (San
Francesco).
E’ giusto che, dove si parla dell’uno, si ricordi anche l’altro, in modo che, come combatterono per
una
stessa
causa,
così
risplenda
insieme
anche
la
loro
gloria.
La cristianità, che Cristo, a prezzo del suo sacrificio, fornì dei mezzi adatti per combattere il peccato,
seguiva
la
croce
con
poco
zelo,
piena
di
dubbi
e
diminuita
di
numero,
quando Dio, che regna per l’eternità, venne in suo soccorso, mentre essa si trovava in pericolo, non
perché
ne
fosse
degna,
ma
soltanto
per
un
atto
della
sua
misericordia;
e come è stato detto (da San Tommaso; cfr. canto XI, versi 31-36), portò aiuto alla Chiesa, sua sposa,
con due difensori ( San Francesco e San Domenico), per la cui opera e la cui predicazione il popolo
sviato
poté
ravvedersi.
In quella parte (la Spagna) dove il dolce Zefiro sorge ad aprire le nuove fronde delle quali si vede
rivestita
l’Europa
(in
primavera),
non molto lontano dalla spiaggia battuta dalle onde (dell’Atlantico), dietro le quali il sole, come
stanco del suo lungo percorso, talvolta ( nel solstizio d’estate) tramonta nascondendosi ad ogni
uomo,
sorge la fortunata (perché patria di San Domenico) Calaruega sotto il governo del re di Castiglia, nel
cui stemma (in una parte) il leone sta sotto e (nell’altra) si trova sopra.
Anche la figura di San Domenico è inquadrata in una descrizione geografica, come è già avvenuto
per
quella
di
San
Francesco
(canto
XI,
versi
43-51).
In Spagna, la terra percorsa dallo zefiro (vento di ponente) portatore di primavera, e precisamente
nella vecchia Castiglia, siede la patria di San Domenico, la cittadina di Calaruega, dove egli nacque
nel 1170. Essa fu governata dai re di Castiglia, il cui stemma è costituito da uno scudo inquartato da
due leoni e due torri, cosicché il leone nel quarto inferiore appare sotto alla torre (soggiace) e nel
quarto
superiore
è
posto
sopra
di
essa
(soggioga)
.
Li nacque il fedele amante della fede cristiana, il santo campione benevolo verso i cristiani e
implacabile
verso
i
nemici
della
fede.
La lezione sapienziale di San Bonaventura, dedicata alla vita di San Domenico, ha inizio nell'intimo di
una delle luci nove della nuova corona, quando già l'accordo delle due ghirlande si è espresso in
unità di canto e di moto. E come il ritratto francescano incominciava con il tema della Provviden za e
del soccorso alla sposa di Cristo, il ritratto domenicano si intona fin da principio allo stile epico che
lo pervade: la lirica di Francesco è sempre lirica d'amore, l'epopea di Domenico predilige la canzone
di gesta, con la marcia guerriera di un esercito che il santo atleta porta alla vittoria finale; e anche il
gesto del soccorso accordato è un gesto militare, di un imperatore trionfante.
E' il paesaggio primaverile dell'Europa atlantica che inquadra la vecchia Castiglia e Calaruega, la
patria di Domenico, ma subito dopo la sinfonia è allargata ancora a misura epica dal percuoter
dell'onde e dal tramonto oceanico del sole e anche i titoli del Santo, amoroso drudo della fede, atleta
ed
il
proverbiale
a'
nemici
crudo
battono
sulle
immagini
guerriere.
E non appena la sua anima fu creata, venne a tal punto colmata di efficaci virtù, che, stando ancora
nel
grembo
materno,
diede
alla
madre
spirito
profetico.
I versi 58-60 alludono alla leggenda secondo la quale la madre di Domenico, poco prima che egli
nascesse, sognò di dare alla luce un cane bianco e nero (i colori dell'abito domenicano), recante in
bocca una face (simbolo dello zelo di Domenico), con la quale incendiava il mondo.
Dopo che furono celebrate le nozze fra lui e la fede davanti al sacro fonte battesimale, dove entrambi
si
portarono
in
dote,
reciprocamente,
la
salvezza,
la madrina che diede in suo nome il consenso (ad entrare nella fede cristiana), vide in sogno il
mirabile
frutto
che
doveva
derivare
da
lui
e
dai
suoi
seguaci.
Dante ricorda un'altra delle numerose leggende riguardanti la vita di San Domenico. La madrina
sognò il fanciullo con una stella in fronte, simbolo della luminosa guida che egli e il suo ordine
avrebbero
costituito
per
il
mondo
intero.
E affinché anche nel nome egli fosse quale era di fatto, dal cielo discese una divina ispirazione (ai
genitori) perché fosse chiamato con il possessivo di colui al quale egli tutto apparteneva.
Domenico e la trascrizione italiana del possessivo Dominicus, che deriva da Dominus (Signore).
Occorre ricordare, a questo proposito, la grande importanza che il Medioevo attribuiva al nome, nel
quale, secondo la concezione del tempo, era racchiusa la caratteristica essenziale dell'individuo che
lo
portava.
Fu chiamato Domenico; ed io lo presento come l’agricoltore che Cristo scelse per far fruttificare il
suo
orto,
la
Chiesa.
A buon diritto apparve nunzio e servitore di Cristo, poiché il primo amore che si manifestò in lui, fu
per
la
povertà,
il
primo
precetto
che
diede
Cristo.
Fu al primo consiglio che dié Cristo: Dante può riferirsi alla prima delle Beatitudini ("Beati i poveri in
spirito"; Matteo V, 3; cfr. anche Luca VI, 20) oppure alla risposta data da Cristo al giovane che Gli
aveva chiesto come raggiungere la salvezza eterna: "va', vendi quanto hai, dallo ai poveri... poi vieni
e
seguimi"
(Matteo
XIX,
21).
Preferibile la prima interpretazione, che sottolinea il motivo, ribadito nella terzina seguente, della
povertà
come
umiltà
di
spirito.
Spesso fu sorpreso dalla sua nutrice mentre, tacito e desto, stava coricato sulla terra, come se
volesse dire: “ Io sono venuto per questo (per vivere in umiltà e povertà)”.
O padre suo veramente Felice! o madre sua veramente Giovanna, se questo nome, inteso nel suo
significato
etimologico,
ha
il
valore
che
si
dice!
Secondo l'etimologia ebraica, fatta propria dalla lessicografia medievale, il nome Giovanna significa
"
grazia
di
Dio",
"favorita
dalla
grazia
di
Dio".
Non per conseguire beni e onori terreni, per i quali ora ci si affanna negli studi di diritto canonico o di
medicina
(a
Taddeo),
ma
per
amore
della
vera
sapienza
Di retro ad Ostiense: Enrico di Susa, vescovo e cardinale di Ostia, morto nel 1271, fu un celebre
studioso di diritto canonico ( autore di una Summa molto divulgata), docente nelle università di
Bologna
e
di
Parigi.
Taddeo: secondo alcuni è Taddeo d'Al derotto, famoso medico fiorentino, autore di molti scritti di
medicina, secondo altri è Taddeo Pepoli, poeta e giureconsulto bolognese, contemporaneo di Dante.
divenne in breve tempo un dottissimo teologo, così che (con il suo sapere) cominciò a girare intorno,
per difenderla e coltivarla, alla vigna ( la Chiesa ) che subito inaridisce, se il vignaiuolo (il pontefice)
non
adempie
al
suo
ufficio.
E al soglio papale, il quale un tempo fu molto più generoso (di quanto lo sia ora) verso i poveri
onesti, non per colpa dell’istituzione pontificia come tale, ma per colpa del papa, che devia dal giusto
cammino,
non di distribuire ( ai poveri ) la metà o il terzo (del denaro ad essi destinato, trattenendo per se il
rimanente), né di ottenere le rendite del primo beneficio che rimanesse vacante, né di godere le
decime,
che
sono
destinate
ai
bisogni
dei
poveri
di
Dio.
chiese, bensì chiese il permesso di combattere contro gli errori del mondo cristiano in difesa di
quella fede che è il seme dal quale sono germogliate le ventiquattro piante che ti circondano.
Recatosi a Roma nel 1205, Domenico ottenne dal pontefice Innocenzo III il permesso di iniziare la
predicazione contro gli eretici Albigesi della Provenza. Nel 1215 gli chiese l'approvazione del suo
ordine,
che
però
gli
fu
concessa
solo
da
Onorio
111
nel
1216.
Poi sostenuto dalla dottrina e dalla forza di volontà e dall’autorità conferitagli dal mandato del
pontefice si mosse con la forza di un torrente che sgorga da una sorgente profonda;
e il suo impeto si abbatté sulle male piante dell’eresia, più vigorosamente là (in Provenza) dove le
resistenze
erano
più
forti.
Da lui ( paragonato prima a un torrente) si formarono poi numerosi ruscelli le cui acque irrigarono
fecondandolo l’orto della Chiesa, così che i fedeli sono (ora) più vigorosi nella fede.
I diversi rivi che ebbero origine dall'opera di San Domenico sono i tre rami del suo ordine: i
predicatori,
le
suore
e
i
terziari.
In Domenico non c'è sosta, e quasi nemmeno, si direbbe, pausa contemplativa: pensiero ed opera
fanno tutt'uno, la sua mente e piena di flirtate nell'atto stesso del concepimento, e fa profetare la
madre, che sogna la visione del cane bianco e nero che porta in bocca la fiaccola incendiaria, e il
prodigio si replica nella madrina del battesimo, che sogna il fanciullo con la stella in fronte, e
un'ispirazione santa dichiara il nome che gli deve essere dato, Domenico, " pertinente al Signore ".
Anche la triplice menzione di Cristo ribadisce, rafforzandolo, il richiamo devoto e fermo della vita
santa, mentre l'esaltazione si allarga, dopo l'estasi della preghiera notturna (tacito e desto), nella
propiziazione dei nomi dei genitori, Felice e Giovanna, che s'interpretava " grazia di Dio": non un
dubbio sfiora il panegirista, e l'affermazione è ancora una volta squillante di una certezza superba. E
deciso, sicuro, è il cammino di Domenico verso la sapienza, gran dottor, ma per lavorare, umile ed
operoso, alla vigna mistica di Cristo, non per conquistare ricchezza e potere con la scienza
decretalista o con quella medica. Il personalismo francescano, riassunto in forme d'arte già tanto
numerose e vulgate, conduceva Dante ai grandi quadri della vita di Francesco e a riassumere nei
magnanimi colloqui coi grandi della terra i suoi atti; ma qui una preoccupazione più istituzionale, ed
anche lo scadere della potenza fantastica dopo il volo dell'altro canto, lo inducono a fermarsi su tratti
raccolti: le suppliche di Domenico alla Chiesa, fatte nei debiti modi procedurali e rituali, evitano ad
una ad una le tentazioni mondane, e si raccolgono, ancora una volta, nel tema epico: licenza di
combatter. Dottrina e volontà convergono nei tratti dell'eroe operoso, ma ancora la preoccupazione
istituzionale e la riverenza all'autorità pontificia fanno cadere l'accento sull'officio apostolico quasi
per
riscattare
ogni
personalismo
da
quell'impeto
soverchio.
Se tale fu una delle due ruote sulle quali si resse il carro della Santa Chiesa che vinse combattendo
apertamente la sua guerra civile (perché la lotta fra eretici e fedeli avviene in seno alla Chiesa
stessa),
ben ti dovrebbe essere sufficientemente chiara l’eccellenza dell’altra ruota (San Francesco), riguardo
alla quale Tommaso fu cosi cortese (facendone l’elogio) prima che io venissi ( con la seconda corona
di
beati)
.
Ma il solco segnato dalla parte esterna della circonferenza di questa ruota, è abbandonato, così che
dove
c’era
virtù
e
unione
c’è
(ora)
corruzione
e
disunione.
E la muffa dov'era la gromma: è una ad essa. Dopo vani tentativi di riportare la pace fra le due
correnti dei frati minori, il pontefice Giovanni XXII nel 1317 e nel 1318 condannò gli spirituali come
eretici
e
ribelli.
Dante in questo momento non prende posizione per nessuna delle due parti, condannando, per
mezzo di San Bonaventura, le divisioni che hanno trascinato l'ordine francescano fuori dell'orbita
segnata
da
colui
che
fu
tutto
serafico
in
ardore.
Il suo ordine, che aveva seguito le orme del proprio fondatore, si è tanto volto in direzione opposta,
che
cammina
a
ritroso.
E ben presto dal raccolto si vedrà la cattiva coltivazione, quando il loglio con suo dolore si vedrà
escluso
dall’arca.
Il Barbi così spiega i versi 118-120: "i frati che, per uno o per altro eccesso, si sono allontanati dalla
volontà di San Francesco, piangeranno il loro errore quando si vedranno esclusi per sempre dal
regno dei cieli". Dante si è così servito della parabola della zizzania (Matteo XIII, 24-30) per mettere
sotto
accusa
le
divisioni
che
lacerano
l'ordine
francescano.
Io dico che chi esaminasse ad uno ad uno i frati del nostro ordine, ne troverebbe ancora qualcuno
fedele alle virtù francescane, nel quale potrebbe leggere “Io sono quel che un buon francescano
soleva
essere”;
ma quello non verrà né da Casale né da Acquasparta, da dove provengono tali interpreti della regola
francescana,
che
uno
la
fugge,
e
l’altro
cerca
di
renderla
più
rigida.
lo sono l’anima di Bonaventura da Bagnorea, che nei grandi incarichi ( da me ricoperti) posposi
sempre
la
cura
delle
cose
mondane
(a
quella
delle
cose
spirituali).
Il panegirico si raccoglie nel modulo fissato da Tommaso, il cui discreto latino ha fatto l'elogio di
Francesco: dalla dignità dell'uno si trae la nozione della dignità dell'altro, scelto per un'opera
concorde dalla Provvidenza: e l'immagine di questa concordia s'innalza armoniosa sopra l'immagine
terrena delle contese fra gli ordini religiosi. Ma passando al rimprovero fatto ai confratelli, un
rimprovero amareggiato, ma non corruccioso, Bonaventura sostituisce la similitudine paziente del
carro (versi 106-108; 112-113) alla similitudine avventurosa della nave, usata da Tommaso nella sua
condanna del corrotto ordine domenicano ( canto XI, versi 118-120). Passando di metafora in
metafora, immagina poi una botte il cui buon vino è guasto, ed alla botte in cui il buon vino è guasto,
ed alla gromma che lo conserva si è sostituita la muffa che l'inacidisce. Ha certo il suo peso, in
questa ricchezza soverchia di metafore, un gusto barocco che conduce all'uso e abuso di rime
preziose: così al Tomma, familiare e quasi dialettale, corrisponde l'aulico e retorico somma. Ed è
certo acuta l'osservazione del Sapegno il quale giudica questa parte del canto uno squarcio di
eloquenza improvvisata; ma dove il centro dell'invenzione poetica non è una situazione drammatica,
la tecnica oratoria, della cui sapienza e scaltrezza il poema sacro dà prove innumerevoli, diventa fine
a
se
stessa.
Si trovano in questa corona Illuminato (da Rieti) e Agostino (d’Assisi ), che furono fra i primi seguaci
di San Francesco, i quali, cingendosi del capestro ( accettando, cioè, la regola francescana), si
resero
cari
a
Dio.
Sono qui con loro Ugo da San Vittore, e Pietro Mangiadore e Pietro Ispano, la cui fama splende in
terra
grazie
ai
suoi
dodici
libri;
Ugo, nato a Ipres in Fiandra verso il 1097, fu canonico dell'abbazia di San Vittore presso Parigi, dove
morì nel 1141. Fu un famoso teologo della corrente mistica della Scolastica.
Pietro Mangiadore(Petrus Comestor) nacque a Troyes, in Francia, all'inizio del secolo XII e mori
nell'abbazia di San Vittore nel 1179, dopo essere stato cancelliere dell'università di Parigi. La sua
opera,
Historia
Scholastica,
è
un
commento
allegorico
alla
Bibbia.
Pietro Ispano, nato a Lisbona verso il 1226, fu medico e teologo di chiara fama. Diventato cardinale,
fu eletto al pontificato con il nome di Giovanni XXI nel 1276. Fu autore delle Summulae logicates in
dodici
libri.
(si trovano qui) il profeta Natan e il metropolita Crisostomo e Anselmo e quel Donato che si occupo
della
scienza
grammaticale.
Natan, profeta ebraico, rimproverò a David il suo adulterio con Betsabea (III Samuele XII, I sgg.).
San Giovanni d'Antiochia, detto Crisostomo, " bocca d'oro", per la sua eloquenza, fu metropolita di
Costantinopoli e mori nel 407. E' uno dei più grandi Padri della Chiesa greca, autore di innumerevoli
scritti
di
teologia
e
di
morale.
Anselmo d'Aosta (c. 1033-1109) entrò nell'ordine benedettino e divenne arcivescovo di Canterbury
nel
1093.
EL
uno
dei
maggiori
teologi
del
Medioevo.
Elio Donato, celebre grammatico del IVsecolo, fu maestro di San Gerolamo. La sua opera più
importante è l'Ars gramatica, che per secoli costituì nelle scuole il testo ufficiale per lo studio della
grammatica (la "prima" delle sette scienze o arti del Trivio e del Quadrivio ) e della lingua latina.
È qui Rabano, e mi risplende di fianco l’abate calabrese Gioacchino, dotato di spirito profetico.
Ad emulare (celebrando le lodi di San Domenico) un così valido paladino (San Tommaso, paladino di
San Francesco) mi indusse l’ardente cortesia di frate Tommaso e le sue assennate parole;
e mosse insieme con me gli altri spiriti: (a manifestare il loro consenso con la danza e il canto)”.
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