Insegnanti di domani: formarli e reclutarli

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Giunio Luzzatto
Chiudere col precariato, organizzare un sistema coerente
Insegnanti di domani: formarli e reclutarli
La maggioranza chiamata oggi a governare il Paese non ha solo il compito di cancellare le
pessime scelte dell’ultimo quinquennio; infatti, in molte situazioni rilevanti per la politica nazionale
(non solo per quella scolastica) la realtà del 2001 non corrispondeva certo al migliore dei mondi
possibili. Spesso erano peraltro già in atto processi di innovazione, magari insufficienti o troppo
lenti, che il passato governo ha voluto talora ribaltare, e comunque interrompere; si tratta ora di
ricondursi al punto nel quale ci si trovava, non per fermarsi lì ma per riprendere con maggiore
decisione un percorso di crescita.
Appare esemplare, al riguardo, il caso della formazione iniziale e del reclutamento degli
insegnanti. Ripercorrerne -pur sinteticamente- la storia recente è estremamente utile, anzi
necessario, per comprendere che cosa occorre fare oggi.
Dal 1990 al 2001: un avvio, tra lentezze e contraddizioni
La legge che nel 1990 ha sancito l’obbligo di una specifica formazione universitaria per tutti
gli insegnanti rispondeva a una rivendicazione pluridecennale del movimento educativo
democratico, già sancita -ma solo sulla carta- dalla legge-delega del 1973 sullo stato giuridico dei
docenti. I percorsi stabiliti per tale formazione iniziale sono stati un Corso di laurea in Scienze della
Formazione Primaria (CLSFP) per gli insegnanti elementari e dell’infanzia, una Scuola abilitante di
Specializzazione post-laurea (SSIS) per gli insegnanti secondari.
Pur convinte dell’importanza del risultato ottenuto, alcune voci nell’area progressista
evidenziarono comunque due limiti nel risultato stesso. Primo, rimaneva una differenza di percorsi
tra i due tipi di insegnanti, e ciò rischiava di perpetuare l’immagine di un diverso livello. A questa
critica fu però facile obiettare che la distanza si era drasticamente ridotta, che era stata battuta
l’ipotesi (all’epoca ampiamente sostenuta) di attribuire l’insegnamento primario a un diploma
universitario anziché a una laurea piena, e che già con la soluzione adottata l’iter formativo per tale
insegnamento (precedentemente affidato all’Istituto Magistrale quadriennale) si prolungava di colpo
di ben cinque anni.
Molto più rilevante si dimostrò una seconda obiezione. L’istituzione di CLSFP e SSIS
avveniva nell’ambito di una legge sugli ordinamenti didattici universitari, non nel contesto dello
stato giuridico dei docenti; a differenza di quanto accade in ogni altro Paese, e di quanto di per sé
impone il buon senso, non veniva perciò stabilita una stretta connessione tra il percorso di
formazione e le procedure di reclutamento. Queste ultime, negli stessi anni nei quali si introduceva
la formazione universitaria, sono state disciplinate attraverso una normativa totalmente scollegata,
che ha previsto il “doppio canale” (50% concorso per esami, 50% graduatoria per titoli di servizio).
Sulla carta, si tentò per gli insegnanti secondari un parziale raccordo, prevedendo che l’abilitazione
SSIS divenisse il titolo necessario per la partecipazione ai concorsi; ma il sistema teoricamente
ipotizzato non divenne mai operante a causa della mancata sistematica copertura di tutti i posti
disponibili, del persistente fenomeno di un vastissimo precariato, delle conseguenti pressioni per
leggine di sanatoria e contro il regolare bando di concorsi aperti.
Un ulteriore elemento negativo, accanto alle conseguenze del mancato legame con il
reclutamento, è stato costituito dai grandi ritardi nella costituzione, decisa nel 1990, delle strutture
universitarie deputate alla formazione. Assenza di volontà politica e inerzie burocratiche tennero
1
tutto fermo fino al 1996; con il governo costituitosi allora, e nella situazione di maggiore autonomia
didattica delle università da esso voluta (legge 127 del 1997), si ebbero finalmente il Decreto
istitutivo del giugno 1998 e la conseguente attivazione, nell’autunno dello stesso anno per il
CLSFP e nell’autunno 1999 per la SSIS.
Senza entrare nei dettagli dei relativi Ordinamenti didattici, va rilevato che essi si qualificano
per la presenza sistematica di alcune caratteristiche fortemente innovative nei confronti della
tradizione accademica. Per limitarci agli elementi che hanno particolare rilievo rispetto ai problemi
aperti oggi, ne esaminiamo due soli: - la spinta alla collegialità nella progettazione didattica; - il
coinvolgimento del sistema scolastico extrauniversitario (le scuole elementari e dell’infanzia per il
CLSFP, le istituzioni secondarie per la SSIS).
La collegialità. Viene evidenziato che a nulla varrebbe presentare la programmazione come
ruolo fondamentale dei Consigli di classe, illustrare le virtù del team teaching, predicare ai futuri
insegnanti l’esigenza di non essere individualisti, qualora nella concreta realtà della struttura
formativa da essi frequentata fossero presenti solo le tradizionali lezioni ex cathedra di un docente
ripiegato su se stesso. Conseguentemente, gli Ordinamenti dettano precise norme sia circa la
responsabilità dell’intero corpo docente nella definizione degli obiettivi e nello svolgimento delle
prove di valutazione, sia circa l’integrazione tra le diverse componenti formative del curricolo: in
primis, tra le didattiche disciplinari da un lato, le scienze dell’educazione e le altre attività
“trasversali” dall’altro.
Il coinvolgimento del sistema scolastico. Contestualmente all’emanazione del Decreto che
regolamenta CLSFP e SSIS e che in tali strutture didattiche dà adeguato spazio al tirocinio sul
campo, il Ministro Luigi Berlinguer ha promosso l’approvazione di una apposita norma di legge che
inserisce in esse, accanto ai docenti universitari, un elevato numero di insegnanti in servizio nelle
scuole; per superare precedenti esperienze di comandi che di fatto facevano perdere, entro breve
tempo, il contatto tra il docente distaccato e l’istituzione di origine, per i “supervisori” è stato
disposto un semiesonero che garantisce il persistere di tale rapporto. E’ stato inoltre esplicitamente
sancito che la loro funzione non è limitata al tirocinio isolatamente considerato, ma è pienamente
inserita nella struttura universitaria poiché deve garantire i necessari raccordi con l’intero progetto
formativo.
Come è ovvio, non è bastato un Decreto per far muovere a pieno regime una macchina che era
tutta da costruire, né tanto meno per dare integrale attuazione alle più innovative tra le misure
previste. Si scontavano reticenze consolidate da parte di un mondo accademico italiano che
storicamente ha sempre privilegiato la ricerca universitaria pura rispetto a compiti di
professionalizzazione, e che nella sua maggioranza ha identificato il sapere col saper insegnare; in
molte aree disciplinari la ricerca didattica era stata quasi inesistente. Le nuove strutture comunque
decollarono con l’apporto di quella parte, minoritaria ma attiva, del corpo docente universitario che
per esse si era impegnato e con una immediata positiva interazione con le scuole, coinvolgente non
solo i supervisori ma anche un grande numero di insegnanti disposti ad accogliere nelle loro classi,
indirizzandoli e ascoltandoli, gli studenti tirocinanti. Va anche ricordato che negli anni precedenti
avevano già operato in diverse sedi, proprio nella prospettiva dell’auspicata istituzione delle
strutture universitarie di formazione iniziale degli insegnanti, gruppi di ricerca università/scuola i
cui prodotti e il cui know-how risultarono preziosi.
Mancano, purtroppo, rilievi sistematici sull’andamento dell’esperienza di avvio di tali
strutture, poiché il Ministero, benché ripetutamente sollecitato, non ne ha disposto alcun
monitoraggio. E’ comunque largamente diffusa la convinzione che essa è stata globalmente positiva
anche se ha proceduto a velocità variabile da sede a sede, con uno sviluppo maggiore o minore di
metodologie didattiche innovative, con una integrazione dei supervisori nel corpo docente più o
meno riuscita; in molte realtà vi è stato non solo impegno ma addirittura entusiasmo ed anche
qualità, dimostrata da un vasto insieme di pubblicazioni che danno conto di quanto compiuto1.
1
AA.VV., La formazione iniziale degli insegnanti, Rassegna (Periodico dell’Istituto Pedagogico), A. X, dicembre 2002
L. Bellatalla (a cura di), La SSIS a Ferrara tra didattica e ricerca, Del Cerro, Pisa 2005
2
Dal punto di vista dell’assetto istituzionale, non vi sono state rilevanti difficoltà per il CLSFP,
inserito in una Facoltà (abitualmente quella di Scienze della Formazione) come gli altri Corsi di
laurea universitari. Molto maggiori sono stati i problemi per la SSIS, struttura didattica “di Ateneo”
definita come originale da chi ha individuato in essa un modello di superamento delle gabbie
accademiche settoriali in una prospettiva interdisciplinare, ma definita come abnorme -e
conseguentemente ostacolata- da chi identifica l’università con tali gabbie. Questa differenza di
collocazione ha determinato, tra l’altro, una scarsità di rapporti tra CLSFP e SSIS; è così entrata un
po’ in ombra quella concezione unitaria dell’attività universitaria nella formazione iniziale degli
insegnanti che aveva caratterizzato l’elaborazione culturale degli anni ’80 e ’90 2 dalla quale Corso e
Scuola sono derivati.
Il passato quinquennio: un cammino all’indietro
Ogni riforma che incida significativamente sulla realtà non può essere abbandonata a se
stessa, ma richiede un attento accompagnamento, da parte del potere politico, delle successive fasi
di implementazione, anche con l’adozione degli interventi necessari per superare gli ostacoli che
inevitabilmente si presentano; per i motivi sopra sommariamente delineati, ciò era particolarmente
vero nel caso in esame, e non è invece avvenuto a causa della modifica, nella primavera 2001, della
maggioranza parlamentare.
Le nuove strutture didattiche non avevano neppure concluso, in tale momento, il loro primo
ciclo: la SSIS -biennale- avrebbe diplomato i primi specializzati/abilitati nella successiva estate, il
CLSFP -quadriennale- i primi laureati nel 2002. Senza alcuna analisi del processo in atto, il
governo appena insediato decise di cancellarlo e di ripartire da zero; la Relazione (autunno 2001)
della Commissione presieduta da Giuseppe Bertagna annunciò tale scelta senza darne alcuna
motivazione, e alle richieste di spiegazioni fu risposto che si trattava di una decisione assunta a
priori in sede politica.
La nuova soluzione proposta, una pluralità di Lauree specialistiche (poi dette “magistrali”) per
l’Insegnamento secondo lo schema “3+2” adottato in termini generalizzati nel sistema universitario,
non determinava rilevanti modifiche nella formazione degli insegnanti primari, poiché
sostanzialmente riarticolava il precedente Corso su tale schema; essa rappresentava invece una
radicale involuzione nella formazione degli insegnanti secondari. Ad un ambiente di apprendimento
unitario, che aveva inserito la preparazione specifica sulle singole didattiche disciplinari in un
contesto di comune preparazione del docente come professionista, venivano infatti sostituiti
percorsi totalmente separati in corrispondenza alle diverse aree culturali; sui contenuti di tali
percorsi, come sulle modalità della loro gestione, restavano peraltro aperte molte questioni.
G. Bonetta, G. Luzzatto, M. Michelini e M.T. Pieri (a cura di), Università e formazione degli insegnanti: non si parte
da zero, Forum, Udine 2002
L. Galliani e E. Felisatti (a cura di), Maestri all’Università - Modello empirico e qualità della formazione iniziale
degli insegnanti: il caso di Padova, MultiMedia, Lecce 2001
L. Galliani e E. Felisatti (a cura di), Maestri all’Università - Curricolo, tirocinio e professione: 2° Rapporto di ricerca
sul caso di Padova, MultiMedia, Lecce 2005
M.L. Jori e A. Migliore, Imparare a insegnare, Angeli, Milano 2001
G. Luzzatto, Insegnare a insegnare - I nuovi corsi universitari per la formazione dei docenti, Carocci , Roma 2001
(2a)
M. Michelini (a cura di), Ricerche nella pratica della didattica per la formazione degli insegnanti - Le quindici
ricerche del progetto Borse di Ricerca per Insegnanti a Udine, Forum, Udine 2003
E. Nigris (a cura di), La formazione degli insegnanti - Percorsi, strumenti, valutazione, Carocci, Roma 2004
S. Ulivieri, G. Giudizi e S. Gavazzi (a cura di), Dal banco alla cattedra - Didattica e tirocinio formativo per
l’insegnamento nella scuola secondaria, ETS, Pisa 2002
2
Ricordiamo, tra coloro che ad essa avevano particolarmente contribuito, personalità quali Maria Corda Costa, Mario
Gattullo, Raffaele Laporta.
3
Queste rimasero aperte anche quando la Relazione Bertagna si tradusse nel Disegno di legge e
poi nella legge Moratti; essa era infatti strutturata, sull’intero assetto del sistema scolastico, in
termini di legge-delega, sicché per chiarire i problemi occorreva attendere i Decreti delegati. Il
Decreto relativo all’articolo 5, quello sulla formazione degli insegnanti, è stato approvato
nell’ottobre 2005, all’ultimo giorno utile (pena la scadenza della delega), ed è tuttora inattuato;
prima di esaminarne gli aspetti principali è opportuno considerare anche, in termini più generali, la
situazione complessiva che si è determinata nel corso del passato quinquennio.
Un elemento rilevante, e pesantemente negativo, è stato rappresentato dall’espandersi del
precariato. Nel 2001-2002 erano stati immessi in ruolo sessantamila docenti sulla base dell’ultimo
provvedimento del governo precedente; da allora, solo negli ultimi mesi si è ora proceduto a meno
di trentamila nuove assunzioni. Nel frattempo, i posti scoperti hanno superato i centomila, e dopo il
concorso ordinario bandito nel 1999 non si è più ottemperato a tale dovere; per legge, il bando è
obbligatorio ogni tre anni, sicché l’inadempienza dura dal 2002.
La soppressione, di fatto, del “primo canale”, quello che attraverso il concorso aperto avrebbe
dato spazio ai migliori anche tra i giovani, ha esasperato il problema dei punteggi con i quali le
diverse figure di precari più o meno “storici” e di abilitati dell’uno o dell’altro tipo vengono
collocati nelle graduatorie: queste sono divenute l’unica strada per essere assunti sia nei pochi posti
a tempo indeterminato, sia soprattutto negli incarichi annuali. Inevitabile, in questo quadro, una
“guerra tra poveri”; all’avvelenamento del clima hanno ulteriormente contribuito errati
provvedimenti ministeriali sistematicamente annullati dalla giustizia amministrativa e leggine che
ancora una volta sostituiscono percorsi “riservati” in luogo delle regolari procedure per il
conseguimento di serie abilitazioni. Si ha così una ulteriore verifica di quali e quanti siano i danni
conseguenti all’assenza sia di una corretta programmazione del reclutamento in sé considerato, sia
del mancato raccordo di esso con la formazione.
A tale formazione, comunque, CLSFP e SSIS hanno nel frattempo continuato a provvedere,
abilitando anno dopo anno nuove leve di docenti. Nelle scuole dove non pochi tra essi hanno poi
avuto modo di avere incarichi temporanei, la loro attività è abitualmente giudicata in termini
favorevoli, essendo verificabile l’effetto positivo di un modello di preparazione che bilancia
correttamente contenuti e didattiche disciplinari da un lato, teorie e pratiche educative dall’altro; ma
è evidente che un pieno sviluppo delle potenzialità insite nel modello stesso è stato limitato
dall’incertezza sul futuro delle istituzioni responsabili, alle quali per cinque volte è stato detto “per
quest’anno andate ancora avanti, poi basta”. Difficile, in queste circostanze, progettare progressivi
perfezionamenti delle proprie attività …
Un provvedimento particolare, peraltro indicativo anch’esso della logica della separatezza che
ha caratterizzato il quinquennio, ha riguardato l’area artistico-musicale. In precedenza erano state
previste Convenzioni tra Accademie e Conservatori da un lato, Università dall’altro, affinché le
SSIS potessero assumere un carattere interistituzionale per preparare in un ambiente formativo
comune tutti i docenti secondari, rendendoli capaci di dialogare tra loro nei Collegi dei docenti; la
formazione degli insegnanti delle materie artistiche e musicali è stata invece affidata in toto alle
Accademie e ai Conservatori, con attenzione ai soli contenuti disciplinari dell’insegnamento.
Quanto al Decreto delegato dell’ottobre 2005, la sua mancata attuazione è dovuta sia a cause
esterne (le incertezze sull’assetto della Secondaria superiore, e conseguentemente sulle “cattedre di
insegnamento” da prevedere in essa) sia alle sue ambiguità interne: molti nodi non sono stati sciolti,
sicché il Decreto ha rinviato a successivi provvedimenti, che non hanno poi visto la luce. Ciò
riguarda entrambi i temi che qui discutiamo: i contenuti della formazione, i raccordi con il
reclutamento.
Premettiamo, per quanto concerne i contenuti, che il Decreto contiene un riferimento alla
formazione in servizio oltre che a quella iniziale. Sono poche parole, che hanno giustamente
indignato il mondo della scuola perché sembrano subordinarlo al sistema universitario: la
formazione permanente -e ciò è acquisito in tutti i Paesi che hanno affrontato il problema- vede
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invece come protagonisti il mondo della professione e le sue istituzioni, che utilizzano le
competenze, ovunque collocate, che caso per caso sono più valide per specifiche finalità.
Altrettanto acquisito è il fatto che nella formazione iniziale, degli insegnanti come di ogni
altro professionista, le università non possono svolgere efficacemente il loro ruolo senza
coinvolgere sistematicamente l’ambiente professionale interessato: deve trattarsi di una vera e
propria integrazione, alla quale nella letteratura internazionale si fa abitualmente riferimento con il
termine partnership. Nel caso specifico degli insegnanti, viene inoltre evidenziato che, in un mondo
nel quale la scuola non è più l’unica agenzia educativa, per il docente hanno sempre maggiore
rilevanza le competenze trasversali, in particolare quelle comunicative e relazionali, nonché la
capacità di gestire la mediazione didattica, relativa alle proprie discipline, nei diversi ambienti di
apprendimento; di ciò deve tener conto, in maniera equilibrata, il percorso formativo.
La Legge Moratti e il conseguente Decreto, invece, da un lato sbilanciano i contenuti
formativi delle Lauree magistrali per l’insegnamento privilegiando pesantemente le mere
conoscenze disciplinari, d’altro lato separano nettamente le componenti del relativo percorso. Nella
formazione accademica, che copre almeno l’80% del curricolo ed è parcellizzata nei singoli settori
scientifico-disciplinari, le università operano senza alcun rapporto con il sistema scolastico; il
parziale ricorso a contributi esterni è confinato nella residua “formazione in campo professionale”.
A questa è preposto un apposito Centro di Ateneo, che deve curare raccordi con le istituzioni
scolastiche; ma non è previsto alcun ruolo di questo Centro nella progettazione complessiva del
progetto formativo. Manca anzi l’idea stessa di tale progettazione unitaria degli ordinamenti
didattici delle Lauree magistrali proposte: non esiste una sede nella quale ne vengano determinati
gli obiettivi, ogni segmento formativo viene gestito isolatamente dal soggetto responsabile (per la
parte accademica, presumibilmente la singola facoltà con riferimento ai propri settori, anche se ciò
non è scritto). In conflitto con quanto in ogni luogo si va affermando circa i caratteri che devono
assumere tutti i sistemi educativi, queste Lauree sono centrate sulle discipline e sui professori che le
insegnano, non sul formando e sui suoi processi di apprendimento e di qualificazione professionale.
Circa i raccordi col reclutamento, precedenti formulazioni del Decreto conferivano al percorso
formativo il carattere di corso-concorso, con una programmazione numerica dell’accesso che
determinava l’assunzione in ruolo in caso di conclusione positiva. Nel testo approvato, il raccordo è
scomparso: l’accesso viene ampliato, la Laurea magistrale determina l’inserimento in Albi regionali
di abilitati, e l’iscrizione in tali Albi consente poi (ma non assicura) lo svolgimento in una scuola di
un “anno di applicazione” con contratto di inserimento formativo al lavoro; infine, la conclusione
positiva di tale anno costituisce solo il titolo di partecipazione ai concorsi di ingresso nei ruoli. E’
del tutto evidente che un iter formativo lungo e impegnativo che conduce, al termine, a delle
posizioni già progettate come precariato non attirerà verso l’insegnamento i giovani migliori.
Inoltre, nell’apparente riproposizione del concorso ordinario (“primo canale”) viene inserita una
precisazione, “nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”, che prefigura una chiamata
diretta da parte delle istituzioni stesse; è l’obiettivo perseguito dalla passata maggioranza anche
attraverso il tentativo, fallito, di una nuova legge sullo stato giuridico degli insegnanti.
Oggi: l’imperativo della organicità e della coerenza
L’excursus sul passato, dicevo all’inizio, mi è parso necessario per fornire un indirizzo chiaro
relativo al presente. Infatti, il sistema previsto dall’articolo 5 della legge Moratti e dal conseguente
Decreto delegato non è giunto in porto, ma guasti sono stati arrecati ugualmente: circa la
formazione, la previsione del nuovo sistema ha congelato quanto si era iniziato a fare, rallentandone
gli sviluppi; circa il reclutamento, l’ampliamento del precariato ha collocato dei giganteschi
macigni, la cui rimozione è indispensabile, in mezzo alla strada che si dovrebbe percorrere per
giungere a procedure corrette.
Da quanto accaduto, peraltro, il movimento educativo progressista può trarre una utile lezione
dalla valenza del tutto generale: le politiche di innovazione sono esposte ai rischi del riflusso se ci si
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muove in modo troppo cauto, se i diversi interventi non vengono perfettamente coordinati, se in un
eccesso di gradualismo si adottano i tempi lunghi, se alle leggi non si accompagnano azioni
amministrative che ne garantiscano la corretta implementazione. In sintesi, emerge
l’indispensabilità di una strategia organicamente impostata e coerentemente attuata. Tenterò di
individuarne, per il tema qui discusso, gli elementi fondamentali, schematizzandoli per punti onde
essere il più possibile chiaro e al contempo sintetico.
1) Per quanto possa essere rilevante il peso di situazioni pregresse, le scelte vanno sempre
compiute individuando anzitutto, con assoluto rigore, gli obiettivi che si intendono raggiungere e
conseguentemente le corrette soluzioni “a regime” ed i percorsi per raggiungerle. Quando su esse vi
sia piena chiarezza, ma solo allora, è non solo accettabile, ma anzi necessario, porsi il problema del
“transitorio”: ignorarlo comporterebbe, spesso, l’impraticabilità delle strade ipotizzate
2) Le esigenze principali da soddisfare nel sistema di formazione iniziale/reclutamento degli
insegnanti appaiono essere (almeno!) le seguenti.
a) L’educazione delle future generazioni richiede docenti di qualità, intendendosi con ciò docenti
che possiedano pienamente quella pluralità di competenze ritenuta necessaria dagli studi
internazionali e sperimentata nelle realtà più avanzate.
b) Il corpo docente deve essere perennemente arricchito con l’immissione di nuove leve; ciò sia
per evitarne l’invecchiamento, sia perché è necessario che i giovani migliori che si sentano motivati
alla professione insegnante possano ad essa accedere.
c) L’assunzione deve essere conseguente a un percorso formativo impegnativo e rigoroso; a
conclusione di esso deve avvenire peraltro a tempo indeterminato, non solo nell’interesse del
singolo, ma anche per consentire alle istituzioni scolastiche di programmare adeguatamente le
proprie attività in un ambiente stabile e perciò sereno.
d) Il sistema formativo va considerato unitariamente. Ciò comporta che le istituzioni preposte alla
formazione del professionista dell’insegnamento devono interagire strettamente con le istituzioni
nelle quali la professione si svolge. Comporta anche che la struttura formativa che prepara gli
insegnanti di tutte le aree disciplinari deve essere essa stessa unitaria.
3) La struttura dei percorsi della formazione iniziale non va inventata ex novo: l’ esperienza del
CLSFP e della SSIS esiste e tiene conto, nelle sue due scelte fondamentali, degli orientamenti più
significativi presenti a livello internazionale: - corretto equilibrio tra formazione sui contenuti,
scienze educative trasversali, didattiche disciplinari, tirocinio; - interazione tra università e scuola.
Rilanciare questa esperienza significa anche puntare a una piena attuazione di indicazioni finora
attuate solo parzialmente: c’è ancora molto da lavorare sia per ottenere che le diverse componenti,
di cui si è detto, del curricolo formativo vengano effettivamente integrate e non solo giustapposte,
sia per far sì che nel rapporto con il sistema scolastico l’università passi dall’acquisizione di
contributi individuali alla definizione sistematica di convenzioni istituzionali.
4) Per quanto riguarda la formazione degli insegnanti secondari, vi è da valutare se risulti
adeguata la preparazione sui contenuti disciplinari fornita dai 180 crediti (tre anni, per studenti a
tempo pieno) della laurea del nuovo ordinamento universitario. Il quesito non ha la valenza quasi
ideologica che ad esso hanno voluto dare gli ambienti accademici interessati da sempre solo al
settorialismo disciplinare, e va invece affrontato caso per caso, nella concretezza del rapporto tra i
singoli curricoli universitari e le singole Classi di abilitazione; va anche ricordato che (soprattutto
nei casi, frequenti, di abilitazioni su una pluralità di materie) il problema preesisteva alle modifiche
apportate alle lauree universitarie. Si tratta, perciò, di individuare con puntualità, in termini di
crediti specifici, le conoscenze e le competenze disciplinari necessarie; in molti casi il percorso
della laurea opportunamente indirizzato potrà essere sufficiente, in altri casi per soddisfare le
condizioni di accesso al corso di professionalizzazione all’insegnamento dovranno essere acquisiti
crediti aggiuntivi.
5) Se si afferma senza se e senza ma che tale corso è centrato appunto sulla professione, essendo
la preparazione sulle discipline una precondizione, non fa molta differenza se per gli insegnanti
secondari esso è denominato Scuola di specializzazione o Laurea magistrale per l’insegnamento. La
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formula Scuola di specializzazione ha un vantaggio tecnico: la normativa universitaria generale
prevede che per essa i crediti possano variare da 120 a 180, e sarebbe perciò possibile, senza
sacrificare i 120 crediti obbligatoriamente previsti per le tematiche didattiche, inserirvi, per quegli
indirizzi per i quali ciò occorra, alcune integrazioni disciplinari. La Laurea magistrale (con il
numero fisso di 120 crediti) richiede invece che tali eventuali integrazioni precedano l’ingresso;
peraltro, un vantaggio della Laurea magistrale può essere l’identità formale con il percorso destinato
agli insegnanti primari, e perciò la definitiva cancellazione dell’idea di una gerarchia tra i diversi
livelli scolastici. Anche per gli insegnanti primari, in ogni caso, si pone il problema di eventuali
integrazioni preventive, questa volta relativamente alle scienze dell’educazione; possono essere
necessarie per coloro che, auspicabilmente numerosi, vogliano divenire insegnanti elementari dopo
aver acquisito una laurea disciplinare.
6) L’elemento decisivo, affinché la formazione dei docenti possa svilupparsi con gli obiettivi già
indicati e con le modalità necessarie per conseguirli, non è la denominazione del Corso che la
fornisce, bensì la caratterizzazione della struttura universitaria che di essa è responsabile.
Riferendoci anzitutto al caso che finora ha determinato maggiori dibattiti, quello degli insegnanti
secondari, affermare che si deve trattare di una struttura può apparire ovvio, ma comporta precise
conseguenze: queste vanno nella direzione opposta rispetto al Centro di Ateneo a sovranità limitata
prefigurato dai testi Moratti. Sia che appartenga ad una singola Università, sia che abbia natura
Interateneo (come, in molte realtà del Paese, è senz’altro opportuno), tale struttura deve avere il
pieno controllo sul percorso formativo, dalla definizione dell’Ordinamento didattico alla
progettazione di tutte le attività alla gestione intesa nel senso più ampio; si tratta di una struttura
necessariamente interdisciplinare, perché coinvolge i cultori delle scienze educative generali come
quelli di tutte le didattiche disciplinari relative alle diverse Classi di insegnamento.
7) Le principali motivazioni per una rigorosa unitarietà della struttura responsabile si possono
sintetizzare come segue.
a) Essersi formati oggi in un comune ambiente di apprendimento può risultare decisivo per i futuri
docenti affinché, domani, in un Consiglio di classe essi parlino lo stesso linguaggio e risultino
perciò capaci di una progettazione collegiale del piano formativo per gli allievi e disponibili ad
iniziative didattiche interdisciplinari.
b) Solo un soggetto che sia globalmente responsabile, a livello universitario, della formazione
iniziale degli insegnanti può costituire un valido interlocutore delle istituzioni scolastiche per farle
partecipare alle attività di formazione iniziale non mediante contributi settoriali, bensì attraverso
una reale partnership nell’intero processo.
c) Le didattiche disciplinari devono integrarsi strettamente con le scienze educative “trasversali”
da un lato, con i laboratori e il tirocinio dall’altro. Anche le istituzioni della Alta Formazione
Artistica e Musicale, Accademie e Conservatori, devono pertanto contribuire in termini paritetici
alla struttura formativa di tutti i docenti secondari, in questo caso interistituzionale oltre che
interdisciplinare; una formazione separata renderebbe “diversi” gli insegnanti delle materie
artistiche e musicali (si ricordi l’esperienza degli insegnanti di Educazione Fisica, solo di recente in
via di superamento).
d) Una struttura deputata allo svolgimento dell’intero processo di formazione all’insegnamento è
istituzionalmente portata a stimolare lo sviluppo della ricerca didattica nelle diverse aree
disciplinari, che solo in pochi casi hanno invece dato ad essa adeguati spazi “accademici” nei
Dipartimenti di settore. Nelle aree nelle quali ciò è avvenuto è stata quasi sempre determinante la
costituzione di gruppi di lavoro università/scuola, gruppi che avranno nella struttura di formazione
un naturale punto di appoggio.
e) L’unitarietà della sede formativa degli insegnanti secondari favorisce la ricerca di uno stretto
rapporto con la formazione degli insegnanti primari. Almeno negli Atenei ove non è presente la
Facoltà di Scienze della Formazione il luogo della formazione di tutti gli insegnanti può essere
unico, sul modello del francese IUFM (Institut Universitaire de Formation des Maîtres); negli altri
casi, devono essere previste alcune occasioni di lavoro comune tra le due strutture responsabili,
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soprattutto (ma non solo) per preparare i futuri docenti ad affrontare i temi connessi alla
“continuità” nel processo educativo dei ragazzi.
8) Le precedenti considerazioni mostrano che per gli insegnanti secondari, quale che sia la
formula ordinamentale (Scuola di specializzazione o Laurea magistrale specificamente finalizzata
all’insegnamento), si tratta di consolidare l’esperienza della SSIS. Consolidare significa da un lato
sviluppare il lavoro già iniziato ma parzialmente bloccato nel periodo nel quale di anno in anno si
annunciava la chiusura, d’altro lato superare -nella normativa nazionale ed ancor più in quella
interna degli Atenei- alcuni limiti istituzionali che non hanno dato piena autonomia, e adeguati
spazi, ad una struttura che pur costituisce la sede di uno degli impegni più qualificanti per il sistema
universitario. Circa gli insegnanti primari, se l’ambiente rimane quello della Facoltà di Scienze
della Formazione occorre rafforzare ivi la presenza delle competenze relative alle didattiche
disciplinari, che non ovunque è stata finora garantita in modo equilibrato (in particolare per le
discipline scientifiche).
9) Quanto al reclutamento, numeri correttamente programmati di ingressi nel percorso di
formazione consentono di dare ad esso la natura di un corso-concorso che si conclude con
l’assunzione a tempo indeterminato; poiché ciò dà una particolare valenza alla selezione per
l’ammissione, va prevista una consistente partecipazione del sistema scolastico (istituzioni e
amministrazione) alle relative procedure. Se si vuole garantire la qualità del corpo insegnante, a
regime questa deve essere, senza deroghe, la sola strada per l’ingresso nei ruoli.
10) Nel transitorio, è del tutto ragionevole il mantenimento del “doppio canale”, con la
sostituzione del corso-concorso in luogo del concorso per esami e perciò con gli accessi
programmati sul solo 50% dei posti. Il numero dei presenti nelle graduatorie alle quali è riservato
l’altro 50% è oggi, notoriamente, molto alto; peraltro, tenendo presente il numero anch’esso
altissimo di prossimi pensionamenti, una politica che copra sistematicamente, senza ritardi, tutti i
posti vacanti e che sostituisca alle supplenze un organico funzionale correttamente progettato può
far sì che il transitorio si esaurisca in tempi non eccessivi, anche se inevitabilmente differenziati in
relazione alla maggiore o minore numerosità delle graduatorie corrispondenti alle diverse Classi di
abilitazione.
La questione, qui discussa, della prima formazione e -in connessione con essa- del
reclutamento non esaurisce certo i problemi relativi alla funzione docente nel nostro sistema
formativo: basti citare la questione dello sviluppo professionale, a sua volta connesso con la
formazione in servizio.
Un governo che dopo decenni di caos costruisse per questi problemi soluzioni organiche
acquisterebbe un merito storico nei confronti non solo della scuola ma dell’intero sistema Paese, se
è vero quanto si dice (e troppo poco si pratica) sulla società della conoscenza. Siamo tutti
consapevoli delle difficoltà dell’economia pubblica, e nessuno pretende risultati miracolosi
dall’oggi al domani; si può accettare di raggiungere il traguardo non sùbito ma per tappe successive,
purché il percorso sia ben definito e i tempi siano rigorosamente progettati, sicché ogni tappa
rappresenti coerentemente un verificabile avvicinamento all’obiettivo.
Maggio 2006, in pubblicazione su Insegnare
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