INDRODUZIONE AL DE VERA RELIGIONE
Ragione come risposta alla vocazione
Mutata lai prospettiva per Agostino in seguito all’adesione alla fede
cristiana ,l'auctoritas, ovvero l’omponente evidenza della bellezza e verità del fatto
cristiano e della sua efficacia nella sua storia personale, si propone come l'orizzonte
precomprensivo entro il quale si sviluppa la ricerca razionale che essa stessa
sollecita. La fede e la ragione, pertanto, sono ben lungi dall'opporsi; esse si
articolano secondo un rapporto di reciproca implicazione, in virtú del quale
chiunque crede pensa: pensa con il credere e crede con il pensare1.
Così, ad una ricerca che presume di conseguire la salvezza unicamente
attraverso il possesso aristocratico e orgoglioso del sapere, ora si oppone una
ricerca contrassegnata dall'umiltà, la quale è chiamata ad interpretare un dono
originario e anteriore a ogni domanda. Da qui scaturisce l'ammonimento:
Camminiamo dunque, mentre è per noi giorno, cioè fino a che possiamo servirci della
ragione, in modo che, rivolti a Dio, ci rendiamo degni di essere illuminati dal suo
Verbo, che è la vera luce, e di non essere mai avvolti dalle tenebre 2.
Per Agostino ogni conoscenza riguarda le cose o i segni; ma è attraverso i segni
che si apprendono le cose3, che hanno il compito di ridestarne il ricordo. Ne scaturisce perciò l'esigenza di un'attività di ricerca, il cui principio ermeneutico richiede
di procedere dai segni, se si vuole attingere la verità. E questo appunto, come si è
detto, è l'orientamento che assume la riflessione a proposito della fede, dal
momento che si basa su indizi. Non diversamente avviene per quanto concerne la
ragione, poiché anch'essa si inscrive in un orizzonte di segni che devono essere
interpretati. In tal modo, forse anche alla luce di un approfondimento della nozione
di peccato, non è abolita la legittimità del sapere, ma è semplicemente
ridimensionato l'ottimismo che l'accompagnava. Pertanto, l'ascesa intellettuale è
posta in stretta relazione con l'ascesa morale, di cui sono guida l'autorità e la grazia.
Delle cose che si apprendono attraverso i segni, alcune sono fatte per goderne,
altre per usarne, altre invece sono capaci di godere e di usare. Le cose fatte per goderne sono quelle che ci rendono beati; dalle cose presenti, invece, che bisogna
solo usare, veniamo sorretti nel nostro tendere alla beatitudine 4. Il godimento
consiste nell' unione a qualcosa, che amiamo per se stessa. L'uso, invece, è il
ricondurre ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si
1
De praedestinactione sanctorum 2, 5
2 (De vera rel. 42, 79
3
De doct. christ. 1, 2, 2:.
4
De doct. christ. 1, 3, 3
debba amare. Di conseguenza, afferma Agostino, se vogliamo tornare nella patria,
in cui possiamo essere felici, dobbiamo servirci del mondo presente, non volerne la
fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo di
scoprire gli attributi invisibili di Dio, o, in altre parole, per mezzo di cose corporee
e temporali attingeremo le cose eterne e spirituali5.
Questo è, appunto, il modo di procedere proprio della ragione nel suo cammino
di ascesa verso la verità. Ma, nell'attendere a questa funzione, è necessario che essa
si liberi da ogni prospettiva di tipo scettico; solo in tal caso, infatti, si apre alla
verità intellegibile, rispetto alla quale opera come strumento di chiarificazione e
come criterio ermeneutico. Occorre cioè che la contemplazione della realtà non
ceda alla curiositas e non sia per noi un esercizio inutile e vano, ma serva come
scala per elevarci alle cose immortali e sempiterne6.
Ora è indubbio, sostiene Agostino, che una natura vitale, in grado di dar la vita
al corpo, è superiore nei suoi confronti. È infatti legge di natura che qualsiasi
sostanza vivente sia superiore a qualsiasi sostanza non vivente7. Tuttavia, l'aspetto
piú eccellente dell'animo umano non consiste nel fatto che percepisce le realtà
materiali, ma nel fatto che le giudica. Giudicare è proprio della vita, però non di
quella sensibile bensì di quella razionale, la quale giudica non solo le cose sensibili,
ma anche i sensi. È perciò evidente che, come la vita sensibile è superiore al corpo,
così la vita razionale è superiore ad entrambi8.
Comunque, anche la ragione è mutevole, dal momento che si riconosce ora
esperta e ora inesperta, e giudica tanto meglio quanto più è esperta ed è tanto più
esperta quanto più conosce qualche arte o disciplina o sapienza9. E, quindi, non è in
base a se stessa che essa giudica: il criterio le è dato da una legge di uguaglianza, di
somiglianza o di proporzione, che è immutabile ed è al di sopra della sua capacità di
giudizio. Tale legge è la verità stessa, cioè Dio; infatti dove si trovano la prima vita
e la prima essenza, là si trova anche la prima sapienza, e tale sapienza non è che la
verità immutabile, la quale è detta legge di tutte le arti e arte dell'artefice
onnipotente10.
Ma, se la verità è all'opera in ogni giudizio, allora nessuno può allontanarsi da
essa senza portarne con sé una qualche immagine11. Persino chi si abbandona ai
piaceri sensibili deve riconoscere che apprezza ciò che realizza in base ad una
5
De doct. christ. 1, 4, 4.
De vera rel. 29, 52: PL 34, 145.
7
De vera rel. 29, 52: PL 34, 145.
8
De vera rel. 29, 53: PL 34, 145.
9
De vera rel. 30, 54: PL 34, 146.
10
De vera rel. 31, 57: PL 34, 147. La verità per Agostino ha un carattere anche ontologico..
11
De vera rel. 39, 72: PL 34, 154.
6
qualche legge di proporzione o di armonia. Si può pertanto concludere che, per
tutto ciò che tende all'unità, la verità costituisce regola, forma, esempio o
comunque la si voglia chiamare, perché essa sola ha pienamente realizzato la
somiglianza con colui dal quale ha ricevuto l'essere12.
Tuttavia, con gli occhi corporei l'uomo vede solo cose corporee; è con la mente
perciò che percepisce la verità13. Essa, comunque, non fa ciò in virtú di se stessa,
quanto piuttosto perché ne è resa capace dalla luce della verità che presuppone. La
mente, infatti, può svolgere la sua funzione solo in quanto riceve l'illuminazione.
Già a Cassiciaco Agostino era pervenuto alla conclusione che nell'universo è
presente un'ineffabile ragione [occultissima ratio] grazie alla quale nulla avviene
fuori della legge razionale14. E si era anche convinto che solo un pazzo potesse
dubitare di attribuire alla potenza e alla provvidenza divina tale legge che si verifica
nel succedersi dei fenomeni indipendentemente dall'intenzione e dall'esecuzione
umana15.
Ma allora aveva considerato la questione da un punto di vista prevalentemente
filosofico; ora invece la esamina anche da un punto di vista teologico. In questa
nuova ottica le cose si rivelano, oltre che disposte secondo un ordine e perciò
organizzate in modo da dar luogo ad un'armonia, anche come vere. Esse sono tali in
quanto hanno una unità che le contraddistingue e quindi esistono; infatti, è uno tutto
ciò che è16. Indubbiamente, nessuna delle cose è l'Uno supremo, e non lo imita al
punto di raggiungerlo17; tuttavia, non sarebbero neppure le cose che sono, se non
avessero in qualche modo l'unità. E appunto la possiedono, poiché l'hanno ricevuta
da colui che è l'unità somma18.
In virtù di questa origine, dunque le cose esistono e, in quanto esistono, sono
vere, perché la verità consiste nel mostrare ciò che è19. Sotto questo profilo si
capisce perché la ricerca della verità è inseparabile dalla ricerca dell'unità 20; è
infatti l'Uno, che è assolutamente semplice, che costituisce il principio da cui trae la
propria realtà, e quindi la propria verità, ogni cosa che esiste. È chiaro anche il
motivo per cui Agostino dice che l'uomo che vive secondo lo spirito giudica tutto;
12
De vera rel. 31, 58: PL 34, 147-148.
È alla verità dunque, osserva Ag., che perviene chi sa ben usare la ragione perché è essa che egli cerca (De
vera rel. 39, 72: PL 34, 154).
14
De ord. 2, 7, 24:
15
De ord. 1, 1, 2.
16
De vera rel. 36, 66: PL 34, 151-152
17
De vera rel. 34, 63: PL 34, 150.
18
Ibidem.
19
Cf. De vera rel. 36, 66: PL 34, 151-152.
20
Cf. De vera rel. 34, 64: PL 34, 147-148.
13
come tale, infatti, egli è unito à Dio, perciò si identifica con la legge in sé secondo la
quale giudica tutto e non può essere giudicato da nessuno, e riflette con mente pura
e ama con piena carità ciò che comprende21.
Tuttavia l'Uno di cui si parla nel De vera religione è diverso ontologicamente
dall'entità astratta che sta all'origine e a fondamento della molteplicità22: coincide
con la verità priva di dissomiglianza, con il Verbo che era in principio, il Verbo Dio
presso Dio23. Si tratta cioè della Sapienza stessa di Dio, che è presente ovunque c'è
chi giudica, perché è essa che cercano quanti usano la ragione24; ma che, tuttavia,
non è in nessun luogo, in quanto è trascendente rispetto ad ogni verità che l'uomo
può raggiungere in terra. Da questo punto di vista è chiaro quanto preannunciato
nel De ordine: mediante la ragione l'uomo si rende idoneo a comprendere il
principio razionale dell'universo, cioè a distinguere due mondi e lo stesso Creatore
dell'universo; ma di Dio nella sua mente non v'è altra scienza che avere scienza
dell'impossibilità di averne scienza25.
Quando si dedica tutto alla contemplazione della verità, (l'uomo) è immagine di
Dio26, ma lo vede non già faccia a faccia, bensì per speculum et in aenigmate, vale
a dire mediante l'immagine che ne porta con sé, la quale implica una somiglianza,
però una somiglianza oscura e difficile da attingere27. Ciò significa che Dio è
immanente all'uomo e insieme trascendente nei suoi confronti; gli appare cioè più
radicato di quanto egli non lo sia a se stesso [interior intimo meo], ma anche come
più alto della sua parte più alta [et superior summo meo]28, più chiaro di ogni luce
[omni luce clarior] a cui sia in grado di pervenire, più elevato di ogni onore [omni
onore sublimior] che possa raggiungere29.
21
De vera rel. 31, 58: PL 34, 147-148.
Infatti, sostiene Ag., nella filosofia lo studioso non troverà altro che la definizione dell'Uno, ma posto in
un ordine superiore e intelligibile (De ord. 2, 18, 47).
23
De vera rel. 36, 66: PL 34, 151-152.
24
De vera rel. 32, 60: PL 34, 149.
25
De ord. 2, 18, 47: NBA 3/1, 351.
26
De Trin. 12, 7, 10: NBA 4, 477.
27
La metafora dello specchio, evidenzia una somiglianza, e dice sia la temporalità del rapporto dell'uomo a
Dio sia la diversità sostanziale tra la natura di Dio e la natura partecipata nell'uomo in quanto imago..
28
Cf. Confess. 3, 6, 11: Ag. usa anche altre formule per esprimere l'immanenza e la trascendenza di Dio
rispetto all'uomo: intima e suprema verità [summa et intima veritas] (De vera rel. 20, 38: PL 34, 138); quale
sublimità la tua nelle cose sublimi e quale profondità nelle profonde! Eppure non ti allontani mai da noi
[quam excelsus es in excelsis et quam profundus in profundis! Et nusquam recedis] (Confess. 8, 3, 8); Noi lo
vediamo nell'intimo di noi stessi, o meglio al di sopra di noi, nella Verità stessa [intus apud nos, vel potius
supra nos, in ipsa Veritate conspicimus] (De Trin. 8, 9, 13); Tu che sei più intimo del mio stesso intimo [Tu
interior intimis mens] (Enarr. in Ps. 118, s. 22, 6). Il ricorso al linguaggio metaforico è un chiaro indice
dell'impossibilità di esprimere in termini razionali la situazione a cui Ag. intende alludere con queste formule.
29
Confess. 9, 1, 1
22
Così l' imago Dei, per cui l'uomo coglie Dio nella sua stessa interiorità, realizza
e fonda la dimensione integrale della memoria sui per la quale l'uomo rifugge dalla
dispersione e torna in se stesso. Fa sì, inoltre, che l'interiorità, rispecchiandosi nella
verità che lo trascende e quindi da essa illuminata, diventi autoidentificazione,
coscienza razionale di sé, sottraendolo ad ogni cedimento immanentistico.
LA VERA FILOSOFIA COME VERA RELIGIONE
In virtù del rapporto di interdipendenza che ha individuato tra la fede e la ricerca,
tra l'autorità e la ragione, dopo l'ordinazione sacerdotale si dischiude per Agostino
la via che conduce l'uomo al suo fine, in cui risiede la felicità.
Al raggiungimento di questa meta, invero, ha atteso fin dagli anni della sua
giovinezza, convinto che l'aspirazione alla felicità è impressa nell'animo dell'uomo
prima ancora di riuscire a realizzarla e che può essere soddisfatta unicamente con la
scoperta di quella verità in cui si conosce e si possiede il sommo bene, cioè della
sapienza30. E vi ha impiegato ogni sua energia anche nell'età matura, nella consapevolezza, come afferma nel De civitate Dei, che è il problema centrale di ogni
autentica teoria filosofica: Se infatti non v'è per l'uomo altra ragione del filosofare
che essere felice, ciò che lo rende felice è il fine del bene; quindi sola ragione del
filosofare è il fine del bene. Perciò non è teoria della filosofia se non è teoria del
fine del bene31.
In questa prospettiva, come è noto, già dalla lettura dell'Hortensius ciceroniano
ha cominciato a bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore32.
Ha creduto, infatti, di potervi ritrovare i contenuti concettuali utili per la soluzione
degli interrogativi che lo angustiavano. Eppure, l'assenza fra tali contenuti
dell'incarnazione di Cristo, del suo sacrificio per la redenzione e la salvezza
dell'umanità, aveva fatto si che, per quanto dotti ed interessanti gli fossero sembrati,
tuttavia non erano riusciti a conquistarlo definitivamente.
La situazione non è mutata neppure in seguito ad altre esperienze intellettuali,
come quella manichea e quella scettica. Appunto per questo Agostino nel Contra
Academicos procede ad evidenziare il motivo che lo ha indotto ad accordare la
preferenza alla filosofia neoplatonica: Essa infatti non è filosofia del mondo
immediatamente sensibile, ma di un mondo sovrasensibile. Ma ad esso questa
profonda speculazione non richiamerebbe le anime, accecate dalle multiforme
tenebre dell'errore e rese dimentiche da un cumulo di scorie , se il sommo Dio, per
benevolenza verso la massa, non avesse abbassato e calato l'autorità
30
De lib. arb. 2, 9, 26
De civ. Dei 19, 1, 3:
32
Confess. 3, 4, 7.
31
dell'intelligenza divina all'umana sensibilità33.
In questo ordine di considerazioni il neoplatonismo identifica Dio con l'essere
nel suo più alto grado e quindi con il Sommo Bene, sostiene l'immutabilità del
mondo intelligibile e la mutevolezza di quello sensibile, oppone la libertà dello
spirito alla servitù dello psichico, rifiuta le realtà corporee e le loro immagini.
Ritiene, infine, che l'anima sia chiamata per sua natura a rompere i vincoli con la
carne e a realizzare un progressivo distacco dal mondo, fino alla contemplazione
delle realtà eterne.
Tuttavia, la filosofia neoplatonica per Agostino resta una ricerca
prevalentemente intellettuale della verità, per cui non conduce né alla venerazione
di Dio né ad una pratica religiosa conforme con le convinzioni che sostiene34. Nella
sua interna articolazione, cioè, comporta una frattura fra la dottrina e il culto; perciò
si risolve in un'attività essenzialmente astratta, priva di legami effettivi con
l'esistenza nella sua totalità. Inoltre, poiché ignora il mistero del Dio fatto uomo,
non sa quale sia l'autorità che più facilmente provvede all'umanità 35 , per cui
ammette varie vie alla verità, rendendo così problematica la possibilità stessa di
raggiungerla.
Come tale, dunque, la filosofia neoplatonica comporta per l'uomo la
conversione dell'intelligenza, ma non del cuore, per cui non gli consente di
pervenire alla felicità che gli promette e non costituisce perciò la vera filosofia.
Questo obiettivo invece può essere conseguito con il Cristianesimo, in quanto è una
vera religione, oltre che una vera filosofia 36 . Agostino comunque, più che
contrapporre il Cristianesimo al neoplatonismo, tende a proporlo come suo
compimento e superamento dialettico; non esita infatti a dire che i filosofi
neoplatonici, operato qualche cambiamento nel linguaggio e nel modo di pensare,
diventerebbero cristiani37.
La vera e genuina filosofia non ha soltanto la funzione di insegnare l'esistenza
d'un Principio imprincipiato del mondo, l'immensità dell'intelligenza che in lui
33
Contra Acad. 3, 19, 42: NBA 3/1, 163.
Cf. De vera rel. 1, 1: PL 34, 121-123.
35
Ag. ne fa cenno esplicito in riferimento a Porfirio: Senza dubbio quindi ammette che ve n'è una ma che
ancora non era venuta a sua conoscenza. Perciò non gli bastava la dottrina che sulla liberazione dell'anima
aveva appreso con tanta diligenza e di cui sembrava avere una profonda conoscenza non tanto per sé quanto
per gli altri. Sentiva che gli mancava ancora una dottrina sommamente autorevole da cui era necessario
lasciarsi guidare in un problema tanto importante. Quando poi dice che neanche da una filosofia sommamente vera era giunta a sua conoscenza una scuola che indichi la via aperta a tutti per la liberazione
dell'anima, dichiara, per quanto ne capisco io, che neanche la filosofia, nella quale egli attese al filosofare, è
sommamente vera e che neanche in essa è indicata la via suddetta (De civ. Dei 10, 32, 1:).
36
L'espressione è certamente ripresa da Porfirio
37
De vera rel. 4, 7: PL 34, 126.
34
esiste e il valore che da lui emana alla nostra salvezza senza che egli si ponga nel
divenire38, ma deve anche aprire la strada alla beatitudine, cioè alla conoscenza e
all'amore di Dio39, Richiede pertanto, da parte dell'uomo, il rinnovamento interiore
e il ritorno al suo statuto originario. Solo ristabilendo il legame che lo unisce
costitutivamente a Dio egli può riconquistare la propria identità ontologica e godere
della beatitudine40.
Ma, cosí concepita, la vera e genuina filosofia si caratterizza come esplorazione
razionale del contenuto della fede, secondo una tensione dinamica in cui la fede domanda e la ragione trova 41; prima viene la fede, segue l'intelligenza42. Inoltre,
inscritta saldamente nell'orizzonte di una verità ultima rivelata, di cui però è
chiamata costantemente a rendere ragione e a saggiare la capacità salvifica, essa
diviene strumento per un confronto tra il tempo e l'eternità. Come tale, quindi, la
vera e genuina filosofia coincide con la vera religione. Questa, infatti, non consiste
in altro che in quella religione con cui si onora l'unico Dio e, con purissima pietà, si
riconosce in Lui il principio di tutte le creature, per il quale l'universo ha un inizio,
un compimento ed una capacità di conservazione 43 . Con essa perciò l'anima,
mediante la riconciliazione, si lega di nuovo a Dio, dal quale si era disciolta, per
così dire, col peccato44 , e, tornando in amicizia con Lui, si rende degna della
libertà45.
Non ogni religione, però, è la vera religione, ma soltanto quella con la quale
veneriamo un solo Dio, unico Principio di tutte le cose, Sapienza per la quale è
sapiente ogni anima sapiente e Dono per cui è beato ogni essere beato46. E tale
38
De ord. 2, 5, 16: NBA 3/1, 309.
Cf. De vera rel. 3, 3: PL 34, 123-124.
40
La pietà è la sapienza dell'uomo e la sapienza dell'uomo, secondo Ag., è il culto di Dio (cf. Enchirid. 2, 1:
PL 40, 231)
41
De Trin. 15, 2, 2: NBA 4, 619.
42
Sermo 118, 1: NBA 31/1, 29.
43
Cf. De vera rel. 1, 1: PL 34, 121-123.
44
De quant. an. 36, 80: NBA 3/2, 131. È possibile ristabilire questo legame con Dio dal momento che, nella
vera religione, afferma Ag., tra la nostra mente, con la quale lo riconosciamo come Padre, e la verità, cioè la
luce interiore mediante la quale compiamo questo atto, non vi è interposta nessuna creatura (De vera rel. 55,
113: PL 34, 172).
45
De quant. an. 34, 78: NBA 3/2, 127. Analoga affermazione ricorre nel De civitate Dei, dove, in riferimento
al Cristianesimo, Ag. scrive: Questa è la religione che indica la via aperta a tutti per la liberazione
dell'anima. Senza di essa non se ne libera alcuna. Questa è, analogamente parlando, la via regia, perché essa
soltanto conduce non ad un regno vacillante per altezza terrena, ma a un regno duraturo nella stabile
eternità (De civ. Dei 10, 32, 1: NBA 5/1, 761).
46
De vera rel. 55, 112: PL 34, 171. E ancora: La vera religione dunque, se una ne esiste, è stata istituita
soltanto o soprattutto per l'anima. Ma quest'anima (ne esaminerò la ragione e, confesso, è una questione
molto oscura) tuttavia erra e, come constatiamo, è stolta fino a che non raggiunge la sapienza e ne viene in
possesso, e forse in questo consiste la vera religione (De util. cred. 7, 14: PL 42, 75).
39
religione non consiste nel perdersi dietro alle vuote fantasie, nel servire la creatura
invece del Creatore e, ancor meno, nel culto degli animali, dei morti o dei demoni47,
bensì nel cercare l'unico Dio, aderendo al quale ci leghiamo all'eterno. Agostino
appunto esclama che vero filosofo è colui che ama Dio [verus philosophus est
amator Dei]48.
Il problema della vera religione, che si identifica con la vera filosofia, dunque è
nella scelta del Dio da adorare. Solo tendendo all'unico Dio e legando a Lui la
propria anima l'uomo nutre la speranza del frutto divino e della scoperta della
verità49, e si tiene lontano dalla superstizione50. Ma il Dio che è unità e che rende
l'uomo libero è soltanto Colui che ha creato tutte le cose dal nulla e che, perciò, è la
verità e la sapienza. Questo Dio, che è Trinità, in quanto è Padre, Figlio e Spirito
Santo, e il Dio del Cristianesimo. La vera religione pertanto è la religione cristiana;
infatti, afferma Agostino, non si può dubitare, in questi tempi segnati dal
cristianesimo, quale religione sia da preferire e costituisca la via per la verità e la
felicità51.
La religione cristiana, peraltro, non rende inutile la filosofia, ma, reintegrandola
nel contesto di un'esperienza di salvezza, ne fa l'attività mediante la quale l'uomo si
eleva dalle realtà materiali a quelle spirituali, dai beni temporali a quelli eterni. E la
vera filosofia, dal canto suo, sottrae la religione cristiana al rischio di risolversi in
un ingenuo fideismo, restituendola al suo fondamento razionale. È appunto per
questo che la vera religione e la vera filosofia sono la stessa cosa e fanno sí che il
cammino dell'uomo sulla terra consista nel recuperare se stesso nell' amore totale
della verità che è Dio52.
Tuttavia, la capacità di conciliare la dottrina con il culto, che è propria del
Cristianesimo, è dovuta a Dio53. È in virtù della sua misericordia, infatti, che la
Sapienza di Dio, il suo unico Figlio, della medesima sua sostanza ed eterno come
Lui, si è fatta carne e ha abitato in mezzo agli uomini54, in modo da far sí che la
verità fosse compresa, amata e goduta e l'occhio della mente si rinvigorisse per
47
Cf. De vera rel. 55, 108: PL 34, 169.
De civ. Dei 8, 1:; cf. anche Enarr. in Ps. 30, 2, d. 1, 6; De Trin. 8, 1, 2. In questo senso possono dirsi veri
filosofi i profeti, maestri di sapienza, di rettitudine e di pietà, in quanto hanno orientato il loro pensiero
secondo la verità di Dio e non dell'uomo (cf. De civ. Dei 18, 41, 3
49
De util. cred. 7, 14: PL 42, 75.
50
Cf. De vera rel. 55, 111: PL 34, 170-171.
51
De vera rel. 2, 2: PL 34, 123.
52
Cf. De vera rel. 5, 8: PL 34, 126.
53
La vera religione non fu istituita da una qualche città terrena, ma fu essa a istituire la città celeste. La
vivifica e istruisce il vero Dio che dà la vita eterna ai suoi veri adoratori (De civ. Dei 6, 4, 1 419).
54
Cf. De vera rel. 8, 14: PL 34, 129.
48
accogliere una luce così grande 55 . Per questo, dopo tanto sangue, roghi e
crocifissioni di martiri, l'annuncio di redenzione e di salvezza contenuto nel
Vangelo è stato accolto concretamente da tutte le popolazioni, pur nella diversità
delle lingue, dei costumi e delle istituzioni56.
Ma, con l'opera svolta dalla divina Provvidenza mediante l'incarnazione di
Cristo, l'itinerario che conduce alla vita beata si delinea non più come l'effetto dello
sforzo compiuto dalla volontà umana, ma come la conseguenza dell'amore di Dio
Padre che discende in suo soccorso. Per Agostino è dunque mera iattanza e
semplice vanagloria la pretesa del neoplatonismo di poter raggiungere il Sommo
Bene con le sole forze dell'intelletto e della ragione, ossia mediante una sorta di
ascetismo evasivo, proteso verso un mondo atemporale e senza volto.
Per comprendere come la divina Provvidenza realizzi nel tempo il riscatto
dell'umanità, occorre rimettersi a Cristo. Dall'adesione a Cristo, che è il Logos, il
Verbo divino, cioè la verità stessa nel suo farsi manifesta e nel suo rivelarsi come
regola morale [disciplina morum], avviene nell'uomo una profonda trasformazione:
Terrà uno stile di vita conforme ai divini precetti, per cui la mente si purificherà e
diventerà capace di comprendere le realtà spirituali, che non hanno né passato né
futuro, ma, non essendo soggette a mutamento, restano sempre identiche, ossia
l'unico stesso Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo57. Una volta compresa questa
Trinità, per quanto gli è consentito in questa vita, egli si rende conto che, per quello
che è, trae il suo essere da questa Trinità creatrice e, pertanto, ha tre proprietà
fondamentali: di essere qualcosa di uno, di distinguersi da tutto il resto per la sua
forma propria e di avere un suo posto nell'ordine universale58.
D'ora innanzi l'esistenza ha per l'uomo un fine ben determinato da perseguire,
quello di ritornare alla sua condizione originaria, cioè di ricongiungersi a Dio, in
vista della felicità, attraverso la verità. Non gli resta perciò da fare altro che
procedere lungo la strada che lo separa da questa meta. E in questo cammino
appunto consiste la storia, nella quale, dunque, è racchiuso un senso che la
trascende, ma che, pur senza far violenza al suo svolgimento, la orienta e la guida59.
In questa prospettiva la storia diventa indicativa di ciò che l'uomo è chiamato ad
essere, del fine che è tenuto a realizzare. In conseguenza del peccato originale egli
nasce nella condizione dell'uomo esteriore e terreno, cioè dell'uomo vecchio la cui
vita è scandita solo dal ritmo degli anni e accompagnata dalla preoccupazione del
55
Cf. De vera rel. 3, 4: PL 34, 124-125.
Cf. De vera rel. 3, 5: PL 34, 125.
57
De vera rel. 7, 13: PL 34, 128-129.
58
Ibidem.
59
Nella concezione agostiniana della storia, l'eternità è presente nel tempo come un presentimento ed una
speranza
56
sapere. Le sei età in cui essa si articola (l'infanzia, la fanciullezza, l'adolescenza, la
gioventù, la maturità e, infine, l'età peggiore, scolorita, debole e più soggetta a
malattie, che ci conduce fino alla morte) sono legate alla corporeità e al desiderio
delle cose temporali60.
Alcuni vivono questa condizione per tutta la vita, dalla nascita alla morte; altri
invece, pur iniziando necessariamente dall'uomo vecchio, sanno rinascere
interiormente e, crescendo nella sapienza, ne dissolvono e sopprimono le età
successive, sottomettendosi alle leggi celesti, in attesa di rinnovarsi integralmente
al termine della loro esistenza terrena61. La loro condizione, che è quella dell'uomo
interiore e celeste, cioè dell'uomo nuovo ha la vita scandita non dagli anni ma dai
progressi62. Ad una prima età trascorsa nel seno fecondo della storia che lo nutre
mediante esempi, segue un'altra nella quale, ormai dimentico delle cose umane,
egli si volge, mediante procedimenti razionali, alla legge suprema e immutabile;
quindi, una terza, nella quale, sottomettendo l'appetito carnale alla forza della
ragione, vive rettamente non per costrizione ma perché prova piacere a non peccare.
Nella quarta l'uomo nuovo procede verso la perfezione della vita umana, che
raggiunge nella quinta, insieme alla piena tranquillità. Nella sesta età, quindi,
ottiene il definitivo oblio della vita terrena, passando alla forma perfetta, per la
quale è fatto ad immagine e somiglianza di Dio; cosi si prepara alla quiete eterna e
alla felicità perpetua che sono proprie della settima ed ultima età63. Allora per
l'uomo nuovo avrà termine il suo inesauribile cercare: ricolmato di grazia e
reintegrato nella sua condizione originaria, sarà libero per la vita beata, perché
vedrà che egli è Dio [videbimus quia ipse est Deus]64. La settima età segnerà per lui
anche la vittoria, sulla morte, perché costituirà il suo sabato, la cui fine non sarà un
tramonto, ma il giorno del Signore, quasi ottavo dell'eternità, che è stato reso sacro
60
Cf. De vera rel. 26, 48: PL 34, 143.
Cf. De vera rel. 26, 49: PL 34, 143.
62
De vera rel. 26, 49: PL 34, 143. Sulla « formazione » dell'uomo interiore scrive ancora Ag.: Se... l'anima,
finché è nello stadio della vita terrena, riesce a vincere quei desideri che ha alimentato a suo danno godendo
delle cose mortali e, per vincerli, confida nell'aiuto della grazia di Dio, che serve con la mente e la buona
volontà senza dubbio sarà rigenerata e dalla molteplicità delle cose mutevoli sarà riportata all'Uno
immutabile e, rinnovata dalla Sapienza non creata ma che crea tutte le cose, godrà di Dio per virtù dello
Spirito Santo, che è suo dono. Cosi si forma l'uomo spirituale che tutto giudica senza essere giudicato da
nessuno, che ama il Signore Dio suo con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima e con tutta la mente, e il suo
prossimo non secondo la carne, ma come se stesso (De vera rel. 12, 24: PL 34, 132).
63
De vera rel. 26, 49: PL 34, 143. Per le età spirituali si veda anche De diversis quaestionibus 83, dove però
Ag. ne individua quattro, anziché sette: La prima fase precede la legge, la seconda è sotto la legge, la terza
sotto la grazia, la quarta nella pace (De div. quaest. 83-66, 3: PL 40, 62-63). E fa rilevare che nella prima fase
l'uomo non lotta affatto con i piaceri di questo mondo; nella seconda invece vi lotta ed è sconfitto; nella terza
lotta e vince; nella quarta non lotta più ma riposa con la pace perfetta ed eterna (cf. De div. quaest. 83, 66, 7:
PL 40, 66).
64
Cf. De civ. Dei 22, 30, 4: NB 5/3, 420.
61
dalla risurrezione di Cristo, perché è allegoria profetica dell'eterno riposo non solo
dello spirito ma anche del corpo. Lì riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo,
ameremo e loderemo 65 . Questo avverrà quando il corpo mortale, risuscitato e
rivestito di incorruttibilità; diventerà immortale.
La storia dell'uomo è la storia del genere umano. Perciò anche il genere umano
dispone di due condizioni di vita, le quali sono certamente confuse e unite insieme
in questo mondo, fino a che non siano separate dall'ultimo giudizio66. La prima è
propria della folla degli empi che propongono l'immagine dell'uomo terreno
dall'inizio del mondo fino alla fine; l'altra invece è propria delle generazioni del
popolo devoto all'unico Dio 67 . La vicenda esistenziale di questo popolo,
preannunciata nell'Antico Testamento, prende forma concreta a partire dalla venuta
di Cristo e dura fino al giorno del giudizio finale quando Egli tornerà in tutto il suo
splendore. La storia del genere umano avrà termine nella settima età, quando Dio
riposerà come nel settimo giorno.
CREAZIONE E PARTECIPAZIONE
Anche l'attività razionale dunque, quando si sviluppa nell'orizzonte
precomprensivo della fede, persegue come fine la visione di Dio. Del resto,
l'immutabile legge secondo cui giudica ogni cosa, altro non è che l'eterna verità,
ossia Cristo, l'immagine perfetta di Dio 68 . Di conseguenza, non solo le realtà
terrene, ma gli stessi vizi costituiscono per l'uomo un ammonimento costante ad
elevarsi all' Unità originaria, senza estensione e senza mutamento, tanto in senso
finito quanto in senso infinito69.
Ma, cosi concepita, l'ascesa a Dio si iscrive all'interno di un processo di
riconoscimento dello statuto creaturale di ogni ente, che ne evidenzia la duplice
condizione di finitezza e di intenzionalità ontologica. Ed è in questa direzione che
va cercato il nucleo metafisico più profondo della riflessione agostiniana degli anni
posteriori alla consacrazione episcopale. L'esistere, proprio degli esseri creati, si
configura come una modalità dell'essere, per cui mantiene, pur nella sua radicale
contingenza, un legame costitutivo con l'Essere Sommo, fino al punto da rimanerne
indelebilmente segnato nella sua struttura ontologica.
Questo guadagno speculativo, però, non è ottenuto da Agostino con un accesso
65
De civ. Dei 22; 30, 5: NBA 5/3, 420.
De civ. Dei 1, 35. Questo avviene perché, afferma Guitton, «l'uomo dell'eternità è presente nell'uomo del
tempo » (J. GUITTON, Le temps et l'eternité chez Plotin et saint Augustin, Paris 1933, p. 232).
67
De vera rel. 27, 50: PL 34, 144.
68
Cf. De vera rel. 42, 79: PL 34, 157-158.
69
De vera rel. 43, 81: PL 34, 159
66
puramente intuitivo e diretto alla verità divina, ma attraverso una mediazione
riflessiva, le cui condizioni di possibilità chiamano in causa, da un lato, il dato
offerto dalla Rivelazione e, dall'altro, la proiezione intenzionale che
contraddistingue costitutivamente l'uomo70.
Per dato rivelato Dio ha creato l'universo con la sua Parola eterna, che è Potenza
e Sapienza autentica71. E, poiché nella sua essenza non è altro che essere, anzi
Essere sommo72 in quanto eterno73 ed immutabile74, gli ha dato l'essere75. Non vi è
vita, afferma appunto Agostino, che non provenga da Dio, perché Dio è la vita
suprema e la sorgente stessa della vita76.
Dio, però, non ha operato imponendo forme ad una materia preesistente, ma
creando, oltre alle forme, la materia stessa; quindi ha dato l'essere alle cose dal
nulla77.
70
L'inquietudine che caratterizza la sua condizione esistenziale ne è un evidente contrassegno. Sulla sua
origine illuminante è un passo del De civitate Dei: Se dunque la nostra natura venisse all'esistenza da noi, noi
avremmo generato anche la nostra sapienza e non ci preoccuperemmo di conseguirla con l'istruzione, cioè
apprendendo da altri. Anche il nostro amore, se provenisse da noi e fosse riferito a noi, basterebbe per la
felicità e non avrebbe bisogno di un altro bene di cui godere. Al contrario, poiché la nostra dote naturale per
esistere ha come autore Dio, indubbiamente per avere la sapienza della verità dobbiamo averlo come maestro
e per essere felici lo dobbiamo avere come datore della interiore capacità di amare (De civ. Dei 11, 21
71
Cf. De fide et symb. 2, 3: PL 40, 183.
72
La natura di Dio, sostiene Ag., è tale che l'avere in lei non è qualcosa che può perdere (De civ. Dei 11, 10,
2:, per cui è pienezza di essere. Dio, in verità, è identificato da Ag. con l'essenza suprema (cf. De civ. Dei 12,
2), ma tale identificazione non va intesa in senso essenzialistico, poiché essenza, che è la traduzione più
adeguata del greco ousía, è usato come sinonimo di essere, sostanza e natura, per indicare ciò che è
73
In quanto è assolutamente semplice, Dio è eterno: Nell'eterno propriamente detto, scrive infatti Ag.,. non
c'è nulla... di passato, come se fosse già trascorso, né alcunché di futuro, come se non fosse ancora, ma tutto
ciò che c'è, è semplicemente (De div. quaest. 83, 19:).
74
Poiché Dio ha in sé molti modi, tuttavia in lui essere e avere non sono distinti e tutti quei modi sono uno
solo (De civ. Dei 11, 10, 3), Dio è assolutamente semplice (cf. Confess. 13, 3) e perciò immutabile.
75
Solo Dio è caratterizzato dalla dimensione dell'essere: egli è, e questa parola si può dire in modo
appropriato soltanto di Dio (De fide et symb. 4, 7: PL 40, 185); la dimensione dell'avere invece, che unisce
ad un'indicazione di contingenza quella di finitezza, è propria degli esseri non semplici, cioè degli esseri
creati (cf. De Trin. 14, 8, 11).
76
De vera rel. 11, 21: PL 34, 131-132. L'immutabilità che contraddistingue l'essenza divina non designa per
Ag. uno stato di stasi, di morte, al contrario uno stato di pienezza ontologica e di forza, sorgente di un'attività
dinamica che, lungi dallo scuotere la consistenza propria dell'essere, mette in movimento un'esistenza
ontologicamente inferiore
77
Cf. De vera rel. 18, 35: PL 34, 137; De Gen. contra Man. 1, 6, 10: NBA 9/1, 73. Questa dottrina è ribadita
in maniera ancora più esplicita in De civ. Dei 12, 25: Altra è la forma esterna che si applica all'esterno alle
varie strutture dei corpi, come fanno i vasai e gli artigiani e operatori simili, che dipingono anche o foggiano
raffigurazioni di animali; ed altra è la forma che all'interno contiene le cause efficienti per un segreto e occulto ordinamento di un essere vivente e intelligente, il quale non solo crea, perché non è creato, la forma
fisica dei corpi ma anche l'anima dei viventi. La prima forma va attribuita a vari operatori, la seconda ad un
solo operatore, Dio, datore dell'essere e dell'esistenza, che senza alcun intervento del mondo e degli angeli
ha creato il mondo e gli angeli. Con ciò Ag. opera una rottura definitiva nei confronti della cultura antica,
E poiché niente è maggiore della volontà di Dio, non c'è ragione di cercare la
causa che lo ha spinto a creare l'universo78.
Agostino parla spesso di creazione nel senso platonico di formazione. Alcuni
critici ne hanno ricavato la convinzione che, nel suo edificio metafisico, la
creazione e la formazione siano concepiti come due atti nettamente differenti. In
realtà si tratta di un solo ed identico atto divino, considerato da due diversi punti di
vista: nel comunicare l'essere Dio, infatti, dà simultaneamente la forma e, nel dare
la forma, comunica simultaneamente l'essere. Come creazione, comunque, l'atto
divino consiste nel dare l'essere; come formazione invece consiste nel conferire una
forma o una specificità ben determinata a ciò a cui viene comunicato l'essere, per
cui quest'ultimo consta di un certo equilibrio e di una certa armonia, condizioni
indispensabili perché sia79.
Con l'assunzione del principio creativo viene abbandonata la visione
essenzialistica greca, la quale, in quanto concepisce il cosmo come intero o come
dipendente eternamente da un principio metafisico, è capace di riconoscere soltanto
la mutabilità dei modi di essere. Nella nuova visione la contingenza, cioè l'origine
gratuita del loro essere, diviene la condizione radicale dell'esistenza delle realtà
create. Essere, scrive infatti Agostino, è nome che indica immutabilità. Tutto ciò
che muta termina di essere quello che era e comincia ad essere quello che non era.
La mutevolezza e la finitezza, perciò, costituiscono i contrassegni delle realtà che
non sono in senso assoluto80.
In quanto create, però le realtà finite partecipano alle idee eterne e immutabili,
che esistono nella mente stessa del Creatore e sul cui modello sono state formate81.
Sono perciò legate a Dio da un rapporto che è simultaneamente di appartenenza e di
distanza, del quale portano impressa, nella loro costituzione ontologica,
un'impronta che impedisce loro di ridursi a meri dati empirici o di dissolversi nel
nulla82. In virtù dell'atto creativo, appunto, tutto ciò che è, in quanto è, è buono83.
escludendo categoricamente che il mondo sia eterno. La creazione dal nulla deve essere concepita come il
punto di differenza della teologia cristiana rispetto alla metafisica greca
78
Cf. De div. quaest. 83, 28: PL 40, 18.
79
Cf. De vera rel. 11, 21: PL 34, 131-132.
80
De vera rel. 18, 35: PL 34, 137.
81
Partecipando di esse, osserva Ag., esiste tutto ciò che esista, qualunque sia il modo di essere (De div.
quaest. 83, 46, 2: PL 40, 30-31).
82
Sotto questo profilo Ag. parla anche di somiglianza delle cose con Dio: In molti sensi si può dire che le
cose sono simili a Dio: alcune perché sono state create con forza e sapienza — Egli infatti è potenza e
sapienza increata —; altre perché hanno soltanto la vita — Egli infatti è il primo e sommo vivente —; altre
perché esistono — Egli infatti è il primo e sommo essere —. Pertanto le cose che esistono solamente, senza
avere né vita né conoscenza, hanno con lui una somiglianza minima e imperfetta... Tutte le creature che
vivono, ma non hanno conoscenza, hanno una somiglianza un po' più ampia. Infatti ciò che vive, esiste, ma
non tutto ciò che esiste, vive. Quelle, infine, dotate di conoscenza sono tanto simili a lui che nel creato nulla
Benché dunque non siano mai autosufficienti ed autosussistenti, le realtà finite
hanno una propria consistenza ontologica.
Circa le proprietà che caratterizzano lo statuto ontologico di ciascuna realtà
creata, Agostino le indica in una lettera giovanile rivolta a Nebridio, nella quale
afferma che non c'è nessuna natura e nessuna sostanza assolutamente che non abbia
in sé e non riveli questi tre elementi: in primo luogo di essere; in secondo luogo di
essere questo o quello; in terzo luogo di rimanere per quanto può nello stato in cui si
trova84.
La visione agostiniana, per la quale l'intero creato è disseminato di tracce, di
impronte dell'atto originario con cui Dio ha chiamato l'universo dal nulla
all'esistenza, richiama il concetto di analogia85. Da questa visione scaturisce l'invito
di Agostino a cogliere nella determinazione [mensura] nell'ordinamento armonioso
[numerus] nel fine e nel dinamismo che contraddistingue la natura [pondus] i segni
attraverso i quali si apre per l'uomo la via per l'ascesa a Dio 86 . E in questa
prospettiva vanno collocati i frequenti richiami alla bellezza e all'armonia del
creato, di cui in particolare il De musica e il De vera religione offrono significative
testimonianze.
ORIGINE E NATURA DEL MALE
L'ordine ontologicamente definito che caratterizza il creato, scandisce non solo
la sua appartenenza all'essere del Creatore, ma anche la sua distanza da Lui. Da
questo scarto scaturisce per la realtà la possibilità di rapportarsi all'Essere sommo
in forme storicamente contingenti e via via meno perfette. Così l'ordine gerarchico
saldamente stabilito ha in sé la giustificazione del male che ha angosciato Agostino
fin dagli anni della giovinezza. Inserendone la provenienza entro l'orizzonte di un
atto creativo che lo precede e lo trascende, viene rifiutata non solo la dottrina
neoplatonica, ma anche quella manichea.
La soluzione proposta dal neoplatonismo circa l'origine del male era sembrata
ad Agostino convincente sotto il profilo speculativo, perché identificava il male
non già con un principio che si oppone al bene, ma con il limite estremo dell'ordine
ontologico. Era perciò concepito come il non-essere, ossia come ciò che è privo di
qualsiasi consistenza effettiva e del quale non si può predicare che il nulla. E
gli si avvicina di più (De div. quaest. 83, 51, 2: PL 40, 32).
83
De vera rel. 11, 21: Scrive ancora Ag.: Ogni cosa deve avere una sua essenza, per quanto piccola; perciò,
anche se è un bene minimo, sarà pur sempre un bene e proverrà da Dio (De vera rel. 18, 35:).
84
Ep. 11, 3
85
Cf. De vera rel. 40, 75: PL 34, 155-156
86
Cf. De lib. arb. 2, 20, 54: NBA 3/2, 279.
Agostino appunto, prima dell'ascolto di Ambrogio e Teodoro e della lettura delle
epistole di San Paolo87, aveva condiviso questa posizione: distinguendo Dio, essere
immutabile ed unico, dalle creature mutevoli e molteplici, aveva identificato la
realtà eterna con il bene e la realtà temporale, contingente, con il male. In questo
ordine di considerazioni il bene corrispondeva all'essere e il male alla sua
alterazione, alla sua corruzione, cioè al non essere.
Ma, nonostante questo approfondimento critico, la connotazione riservata al
male dal neoplatonismo restava ambigua e si rifletteva anche sulla natura della
materia. Questa infatti, concepita come il limite in cui si esaurisce la forza
propulsiva dell'emanazione, tende a scivolare inesorabilmente verso il non essere, e,
da ultimo, a risolversi in ciò che non è.
Il manicheismo, d'altra parte, per giustificare la presenza del male nel mondo,
procede all'ipostatizzazione del suo principio, secondo il modello delle correnti
gnostiche o cripto-gnostiche. Così lo identifica con una realtà che ha la stessa
consistenza ontologica del bene, anche se ne costituisce l'alternativa radicale ed è in
perenne conflitto con esso.
Considerato alla luce del principio di creazione, l'universo si rivela proveniente
da Dio, che è prima e somma essenza88. In Lui perciò, che è unico Principio di tutte
le cose, Sapienza per la quale è sapiente ogni anima sapiente e Dono per cui è beato
ogni essere beato89, ha il proprio fondamento e la propria giustificazione ontologica.
Per questa origine, inoltre, la sua esistenza è indubitabile, perché è e non può non
essere, dal momento che Dio, cioè l'Essere supremo, ha creato tutte le cose
mediante la sua somma sapienza e le conserva con la sua somma bontà90.
Ora, tutto ciò che esiste, in quanto esiste, ha una forma ben determinata o una
specie, che lo contraddistingue in modo inconfondibile nell'ordine del creato91. Ma
dove c'è una forma o una specie, c'è necessariamente un modo di essere, altrimenti
la forma stessa o la specie non sarebbe possibile92. Un modo di essere, a sua volta, è
87
Circa il mutamento determinatosi in Ag. in seguito alla lettura di Paolo rivelativo è il passo contenuto in
Confess. 7, 21, 27: Altro è vedere da una cima selvosa la patria della pace e non trovare la strada per
giungervi, frustrarsi in tentativi per plaghe sperdute, sotto gli assalti e gli agguati dei disertori fuggiaschi
guidati dal loro capo, leone e dragone insieme; e altro tenere la via che vi porta, presidiata dalla solerzia
dell'Imperatore celeste, immune dalle rapine dei disertori dell'esercito celeste, che la evitano come il
supplizio
88
De vera rel. 11, 21: PL 34, 131-132.
89
De vera rel. 55, 112: PL 34, 171-172.
90
De vera rel. 18, 35: PL 34, 137.
91
Tutto ciò che esiste, osserva Ag., non è senza una qualche bellezza. Ma dove c'è una bellezza, c'è
necessariamente un modo di essere e il modo di essere è un bene (De div. quaest. 83, 6: PL 40, 13). Quanto
detto vale anche per i corpi, poiché provengono da Dio (cf. De div. quaest. 83, 10: PL 40, 14).
92
Cf. De lib. arb. 2, 17, 45
un bene: l'essere infatti, quale che sia, è un bene, perché il sommo bene è il sommo
essere93.
Quanto detto vale anche per le realtà che non hanno ancora una forma o una specie, ma possono averla. Afferma infatti Agostino: Tutto ciò che ha una forma, in
quanto ha una forma, e tutto ciò che non ha ancora una forma, in quanto può avere
una forma, dipendono da Dio94. Di conseguenza, anche la capacità di avere una
forma da parte di una cosa è un bene.
Ad Agostino, invero, non sfugge che il finito in tutte le sue manifestazioni è percorso dalla dispersione nella molteplicità, dalla dissipazione nel nulla. La
mutevolezza e, quindi, il dispiegamento nello spazio e il divenire nel tempo ne
rappresentano gli inevitabili contrassegni; e la decomposizione, la morte, che è un
evento ineluttabile per le realtà create, ne costituisce l'insormontabile esito 95 .
Tuttavia, poiché è e ha una forma o una specie sua propria, per quanto instabile e
peritura, il finito, contrariamente a quanto sostiene il neoplatonismo, è un bene96.
Le realtà finite, comunque, in quanto create dal nulla, hanno ricevuto l'essere97.
Pertanto, benché esistano, non esistono in virtù di se stesse, ma grazie all'atto
divino che le ha portate all'esistenza. Come tali, perciò, non sono esse stesse l'essere,
ma ne partecipano attraverso le idee, che sono gli archetipi increati di ogni specie e
di ogni cosa creata da Dio.
In virtù di questa origine, le realtà create sono legate all'essere secondo un
vincolo che, oltre all'appartenenza, comporta anche la dipendenza, la
subordinazione. Quindi, nella loro essenza, esse appartengono all'essere ma non si
identificano con l'essere nel suo grado più alto. Costituiscono pertanto dei beni che
però, in quanto sono segnati dalla contingenza, almeno in parte sono privi
93
De vera rel. 18, 35: PL 34, 137. Le cose non sarebbero state create dal Padre mediante il Figlio e non
sarebbero intatte nei limiti della loro natura, se Dio non fosse sommamente buono (De vera rel. 55, 113: PL
34, 172).
94
De vera rel. 18, 36: PL 34, 137. Nel De fide et symbolo Ag. chiarisce ulteriormente questo aspetto, facendo
rilevare che colui che garantisce alle cose la loro forma è lo stesso che garantisce loro la possibilità di essere
formate, poiché da Lui procede e in Lui risiede la forma bellissima ed immutabile di tutti gli esseri. Per questo,
appunto, egli è l'unico che consente a qualsiasi cosa non soltanto di essere bella, ma anche di poter essere tale
(De fide et symb. 2, 2: PL 40, 181-182).
95
Sulla causa della morte delle realtà finite cf. De vera rel. 11, 22: PL 34, 132. La mutabilitas stessa è
concepita da Ag. come una sorta di morte dell'anima; come tale tuttavia essa intacca più il suo statuto morale
che non quello ontologico: cf. In Io. Ev. tr. 23, 9
96
Eppure, sebbene deperiscano e tendano al non essere, tuttavia in essi rimane qualche cosa della forma
affinché siano comunque (De lib. arb. 2, 17, 46: NBA 3/2, 271).
97
A questo proposito Ag. esemplifica dicendo che, grazie a questa potenza divina ed effettiva, che è in grado
di produrre ma non di essere prodotta, ricevettero la forma la orbicolarità dell'occhio e quella del pomo e le
altre figure fisiche che, come possiamo osservare nei vari fenomeni naturali, non sono applicate dall'esterno
ma dalla potenza intimamente penetrante del Creatore (De civ. Dei 12, 25: NBA 5/2, 209):
dell'essere e quindi sono finiti ed esposti alla mutabilità98.
Nella privazione di bene, che contraddistingue tutte le realtà finite, dunque
consiste il male 99 . Di conseguenza, non è una sostanza, perché, se fosse tale,
sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe
inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non
potrebbe corrompersi senza essere buona100. Il male assoluto pertanto, continua
Agostino, non ha alcun modo di essere perché è sprovvisto di qualsiasi bene; anzi,
non esiste neppure, poiché non è contenuto da nessuna specie e il concetto stesso di
male è derivato dalla privazione di ogni specie101.
Per quanto concerne invece il male morale, cioè il peccato, non va cercato nelle
cose, perché non è né costitutivo della loro essenza, ne rientra nelle modalità in cui
esse di fatto si manifestano nello svolgimento del tempo. Ha nell'uomo la sua
origine: dipende da lui e consiste nella corruzione dell'anima, nell'iniquità, la quale
è appunto così chiamata, afferma Agostino, perché non è nulla102.
L'universo, in quanto creato, porta con sé l'impronta indelebile del suo Artefice.
È quindi predisposto secondo una gerarchia oggettiva dell'essere, che discende
dall'angelo sino all'ultimo verme e che, innalzandosi, conduce a Dio103. Neppure
98
Le cose che sono o caste, o eterne, o belle, o buone, o sapienti per partecipazione, fa appunto rilevare Ag.,
hanno la possibilità... di non essere né caste, né eterne, né belle, né buone, né sapienti (De div. quaest. 83, 23:
PL 40, 141). Inoltre: Tutto ciò che muta, poiché esiste, è bene non per se stesso, ma per partecipazione al
bene immutabile (De div. quaest. 83, 24: PL 40, 141-142).
99
Cos'altro è quello che viene chiamato male - si domanda appunto Ag. nell'Enchiridion - se non privazione
di bene? (Enchirid. 11, 3: PL 40, 236). Sul male come privazione di bene cf. anche Enchirid. 12, 4: PL 40,
236-237; De mor. Manich. 2, 2, 2. 3, 5. 4, 6. 8, 11. 9, 16: PL 32,1345; 1347; 1349; 1352; De vera rel. 13, 26:.
100
Confess. 7, 12, 18: NBA 1, 203.
101
De div. quaest. 83, 6: PL 40, 13. Questo punto di vista è ribadito nell'Enchiridion dove afferma: Insomma
tutte le nature, poiché effettivamente colui che le ha costituite tutte quante è sommamente buono, sono buone;
ma dal momento che non lo sono nel modo sommo e immutabile proprio di colui che le ha costituite, il bene in
esse può diminuire e aumentare. Tuttavia la diminuzione di bene è un male, anche se, quale che sia il grado
di diminuzione, è necessario che resti ancora qualcosa (se una natura ancora sussiste), a partire dal quale
quella natura sussista. Infatti, quale che sia una natura e per quel poco che essa sia, non può consumarsi il
bene che la fa sussistere, a meno che non si consumi essa stessa (Enchirid. 4, 12: CC 57, 54)
102
De vera rel. 11, 21: PL 34, 131-132. Questo modo di concepire l'iniquità trova la sua spiegazione in De
div. quaest. 83, 21: PL 40, 13, dove si dice: Tutto ciò che viene meno si allontana dall'essere e tende al non
essere. Ora l'essere e il non venir meno in alcuna parte è bene, invece il venir meno è male.
103
Per questa concezione dell'ordine, oltre a De ord. 1, 10, 28: NBA 3/1, 279, cf. anche De civ. Dei 19, 13, 1:
NBA 5/3, 51, dove è identificato con l'assetto di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio
posto. Va ricordato che l'ordine comporta una gradualità anche relativamente alla fede; per questo motivo,
secondo Ag., una volta che la Chiesa cattolica si è diffusa stabilmente per tutta la terra non fu consentito che
quei miracoli durassero fino ai nostri giorni, perché l'anima non andasse sempre alla ricerca delle cose visibili
e il genere umano, con l'abitudine di vedere miracoli, non si intiepidisse per ciò che, visto la prima volta, si era
infiammato (De vera rel. 25, 47: PL 34, 143).
l'anima peccatrice, con la sua deformità, riesce a sfigurare tale ordine104, perché la
legge stessa permane immutabile e governa tutte le cose mutevoli con un
perfettissimo regolamento. Appunto per questo costituisce la condizione
fondamentale dell'armonia, dell'equilibrio, in una parola della pace di tutte le
cose105.
Il male morale, dunque, non è una realtà, ma la conseguenza della trasgressione
del disegno divino, del rifiuto delle leggi che lo regolano ab aeterno106. Ha cioè il
suo fondamento ultimo nella superbia, nell'orgoglio dell'uomo, il quale, nella sua
pretesa di far capo solo a sé, viola l'ordine per cui il creato è ontologicamente
qualificato dalla tensione verso Dio. L'iniquità pertanto, che è l'essenza del male,
sta nel fatto che l'anima si allontana da Colui che la creò e della cui essenza godeva,
per poter godere, contro la legge divina, delle realtà corporee alle quali Dio l'aveva
preposta107.
Si tratta, peraltro, di una trasgressione che è contraria alla natura stessa
dell'uomo108 perché, in quanto creato, ha nel bene immutabile e assoluto di Dio il
suo fine ultimo e nel rispetto dell'ordine ontologico da lui stabilito il suo fine
intermedio109. Il male, perciò, è una conseguenza non già della volontà umana in se
stessa, perché, in quanto tale, è buona, ma del suo disorientamento, e quindi della
concupiscenza110, la quale tuttavia non ha altra origine che la volontà stessa nella
sua libera autodeterminazione111.
La volontà, scrive Agostino, non è che il libero movimento dell'anima verso
104
Anche il peccatore infatti conserva un alto grado nell'ordine gerarchico delle realtà create
In De civ. Dei 19, 13, 1.
106
Il male consiste nella trasgressione per la quale si serve la creatura piuttosto che il Creatore (De vera rel.
20, 39: PL 34, 138).
107
De vera rel. 11, 21: PL 34, 131. Il peccato è a tal punto un male volontario, afferma Ag., che non sarebbe
assolutamente un peccato se non fosse volontario (De vera rel. 14, 27: PL 34, 133-134).
108
Cf. De vera rel. 23, 44: PL 34, 141. Con il peccato la creatura ha profanato in se stessa l'immagine del
suo autore, fieramente distolta dalla sua luce (Enchirid. 27, 8: PL 40, 245).
109
Il rapporto di subordinazione che deve esistere fra realtà strumentali e Sommo bene, come è noto, è
espresso in Ag. dalla dialettica uti-frui: godere... di una cosa è aderire ad essa con amore, mossi dalla cosa
stessa. Viceversa il servirsi di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto
che lo si debba amare (De doctr. christ. 1, 4, 4:). Tale dialettica è così riassunta da Marrou: se « esiste un bene
tale che il suo possesso colmi tutti i nostri desideri, non abbiamo il diritto di fermarci a nessun altro. Tutte le
altre cose, res, non devono essere che dei mezzi di cui ci serviremo per raggiungere questo scopo: viaggiatori
in cammino verso la patria beata, non abbiamo il diritto di attardarci a godere della bellezza del paese che
attraversiamo, né del fascino del viaggio » (H. I. MARROU, S. Ag. e la fine della cultura antica, cit., p. 288).
110
Cf. Enarr. in Ps. 31, 2, 5
111
Qualunque sia il motivo della persuasione, poiché il consiglio non costringe chi non vuole, la causa della
sua perversione ricade nella stessa volontà dell'uomo, sia o non sia stato pervertito dal consiglio di qualcuno
(De div. quaest. 83, 4).
105
qualcosa o da non perdere o da acquisire112. Come tale, essa è in tutte le inclinazioni;
anzi esse non sono altro che atti di volontà. Difatti il desiderio e la gioia sono la
stessa volontà nella convergenza con gli oggetti che vogliamo. E il timore e la tristezza sono la volontà nella divergenza dagli oggetti che non vogliamo 113. Un
analoga considerazione vale relativamente alla conoscenza, dove tutte le operazioni
sono sottomesse alla volontà. Essa interviene non solo nella sensazione, ma nella
stessa attività razionale: è il desiderio di conoscere che spinge l'uomo alla ricerca
della verità e questo appetito, afferma Agostino, si può già chiamare volontà,
perché chiunque cerca vuole trovare e, se si cerca qualcosa che appartiene alla
conoscenza, chiunque cerca vuole conoscere114. L'intera vita dell'anima, quindi,
trova la sua motivazione nelle determinazioni della volontà115. In essa perciò è
riposta per l'uomo la possibilità di non peccare o di peccare, a seconda che rispetta
l'ordine ontologico, godendo delle cose da godere e usando le cose da usare, oppure
che lo trasgredisce, facendo uso delle cose da godere e godendo delle cose da
usare116.
L'uomo è esposto al rischio della perversione a causa della sua natura di essere
creato dal nulla117. Come tale, infatti, partecipa del suo creatore e sussiste in lui, ma
non al punto di coincidere, di identificarsi con la sua essenza. Possiede cioè l'essere,
ma, in quanto lo ha ricevuto, di certo non lo possiede nel suo grado più alto. Questa
sua incompiutezza ontologica, che è emblematicamente espressa dal fatto che non è
l'immagine di Dio ma è a sua immagine, è causa per l'uomo di infirmitas, di
debolezza, per cui è soggetto a sperimentare di continuo, nella sua vicenda
112
De duab. anim. 10, 14: PL 42, 104-105
De civ. Dei 14, 6: NBA 5/2, 303. Per Ag. la volontà qualifica interamente la natura umana,
caratterizzandone in senso positivo o negativo sentimenti e passioni: cf. De civ. Dei 12, 8; 14, 7, 2; 14, 9, 1-5:
NBA 5/2, 165; 305; 311-317; De Trin. 11, 6, 10: NBA 4, 445-447.
114
De Trin. 9, 12, 18: NBA 4, 389.
115
Gilson, nel sottolineare che il ruolo dominante riconosciuto alla volontà « impronta del proprio carattere
l'intera psicologia agostiniana » rileva che « non è dunque esagerato affermare che tale è la volontà tale è
l'uomo, al punto che una volontà divisa contro se stessa è un uomo diviso contro se stesso » (E. GILSON,
Introduzione allo studio di Sant'Ag., cit., p. 155).
116
Sul ruolo che la volontà esercita nei confronti del peccato la posizione di Ag. è chiaramente espressa: E se
si cerca la causa efficiente di questa cattiva volontà, non si trova. Che cosa infatti produce la volontà cattiva,
se è essa a compiere l'azione cattiva? Perciò la volontà cattiva è efficiente dell'azione cattiva e non si ha
causa efficiente della volontà cattiva (De civ. Dei 12, 6:).
117
La corruzione, scrive Ag., poteva intaccare soltanto una natura che era stata tratta dal nulla. Infatti,
soltanto una natura creata dal nulla poteva viziarsi. Quindi la natura ha l'essere per il fatto che è stata
prodotta da Dio, ma defeziona dal suo essere per il fatto che è stata prodotta dal nulla (De civ. Dei 14, 13, 1:
NBA 5/2, 329). Si guarda bene però dall'attribuire al corpo la responsabilità della corruzione: Se si dice che
la carne nella condotta immorale è l'origine di tutti i vizi, perché l'anima agitata dalla carne si comporta di
conseguenza, senza dubbio non si riflette attentamente sull'intera natura dell'uomo. E ancora: Tuttavia
coloro i quali pensano che tutti i mali spirituali provengano dal corpo sono in errore (De civ. Dei 14, 3, 1)
113
esistenziale, il peso della distentio e della mutabilitas. Per questo si corrompe nel
corpo e si modifica nell'anima, fino al punto di riporre la speranza della felicità nei
piaceri carnali o nella vana ambizione di potenza118.
Anche le conseguenze del peccato, secondo Agostino, dipendono dalla libera
volontà dell'uomo 119 . Gli sconvolgimenti che provocano nel mondo però, per
quanto profondi e nefasti, non sono tali da turbare l'ordine secondo cui è
predisposto. E, se per il peccato dell'anima l'uomo tende verso Dio in misura
minore, in modo da diventare inferiore rispetto a quello che era, tuttavia non se ne
separa del tutto, altrimenti cesserebbe di essere120.
Tali sconvolgimenti, peraltro, rientrano nei piani della divina Provvidenza, la
quale non esita a servirsi del male che si manifesta nel mondo attraverso i peccati,
le eresie, gli scismi, per trasformarlo in strumento utile per la rinascita spirituale e
morale dell'uomo. É proprio infatti della misericordia con cui Dio governa il mondo
far sì che l'uomo, nella sua identità di essere razionale, possa rialzarsi nel punto
stesso in cui è caduto e sappia riscoprire il cammino della sua redenzione proprio
nelle esperienze in cui lo ha perduto121.
Sotto questo profilo, neppure la prescienza divina costituisce un ostacolo per il
libero esercizio della volontà da parte dell'uomo. Dio infatti, in quanto è al di fuori
del tempo, conosce da sempre quanto accade nell'ordine temporale; perciò non
interferisce in alcun modo con le cause che operano all'interno di questo ordine,
siano esse necessarie oppure libere. Scrive appunto Agostino nel De civitate Dei:
Non è consequenziale che, se per Dio è determinata la serie delle cause, per noi ne
derivi la negazione del libero arbitrio della volontà. Anche la nostra volontà rientra
nella serie delle cause che per Dio è determinata ed è compresa nella sua prescienza,
perché anche la volontà umana è causa di azioni umane. Così egli che ha avuta
prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto certamente non
conoscere in quelle cause anche la nostra volontà di cui sapeva per prescienza che
118
Il termine stesso usato da Ag. in riferimento al peccato, cioè defectus, mostra quanto ormai sia distante
dalla posizione dei neoplatonici. Con tale termine, infatti, indica non solo il venir meno dell'essere, come
appunto sostenevano i « filosofi platonici », ma anche l'allontanarsi dell'uomo dal disegno divino. Perciò, alla
diminuzione della pienezza d'essere si aggiunge anche la prospettiva morale. In tal modo il peccato assume
una ben precisa connotazione, in quanto risulta conseguenza della defezione posta in atto volontariamente
dall'uomo nei confronti dell'ordine creato da Dio.
119
Per il peccato l'uomo si è disperso in modo che non ritrova più se stesso, cioè la natura immutabile ed
unica, seguendo la quale non errerebbe e, raggiungendola, non proverebbe più dolore (De vera rel. 21, 41)
120
Cf. De vera rel. 14, 28: PL 34, 134.
121
Per Ag. il corpo ne è una chiara conferma: il fatto che sia divenuto debole e destinato alla morte dopo il
peccato, sebbene rappresenti la giusta punizione del peccato, tuttavia mostra più la clemenza che la severità
del Signore. Infatti, è la giustizia nella sua bellezza, in armonia con la benignità della sua grazia, che fa sì che,
dopo essere stati tratti in inganno dalla dolcezza dei beni inferiori, veniamo ammaestrati dall'amarezza dei
castighi (De vera rel. 15, 29: PL 34, 134).
sarebbe stata causa delle nostre azioni122.
La posizione di preminenza rivestita dalla volontà nella vita dell'uomo è data
dalla facoltà che le è intrinseca di determinare se stessa. Affermare che
necessariamente, quando si vuole, si vuole col libero arbitrio, è senza dubbio
affermare il vero, ma non per questo, scrive Agostino, il libero arbitrio si considera
soggetto alla necessità che toglie la libertà. C'è dunque una nostra volontà ed essa è
causa efficiente di ogni azione che si compie volendo e che non sarebbe compiuta
se non si volesse123.
La possibilità di volere e di non volere, la capacità di scegliere, da parte della
volontà, in quale direzione della realtà intende dirigere le proprie energie, è
denominata da Agostino libero arbitrio124. Quando rivive nelle Confessioni la lotta
interiore che precedette la sua conversione, è convinto che in lui operava questa
capacità: Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio « del
Signore mio Dio », come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a
non volere, ero io e io125. E poco prima aveva detto: Una cosa mi solleva verso la
tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni
atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire o
rifiutare126.
La capacità di scelta, in cui consiste il libero arbitrio, è congenita all'uomo,
perché gli è stata data all'inizio, quando fu creato127. Di per sé, quindi, egli non può
mai perderla, come non può mai rescindere il vincolo originario che lo lega a Dio e
da cui dipende la sua esistenza. Questa è la ragione, rileva Agostino, per cui tutti
cercano di essere felici, anche se poi di fatto alcuni scelgono cose che non li
portano alla felicità128. Essa, inoltre, è necessaria per l'uomo perché, senza la
122
De civ. Dei 5, 9, 3: NBA 5/1, 345-347. E aggiunge che indubbiamente le nostre volontà hanno l'influsso
causale nei limiti che Dio ha voluto con la sua prescienza. Quindi l'influsso causale che hanno, lo hanno
infallibilmente e tutto ciò che causeranno lo causeranno esse stesse, perché colui, la cui prescienza non può
fallire, ha determinato che avessero influsso causale e che causassero (De civ. Dei 5, 9, 4:).
123
De civ. Dei 5, 10, 1: NBA 5/1, 351. In un passo immediatamente successivo osserva ancora: Infatti
compiamo molte azioni che non compiremmo se non volessimo. A questa categoria appartiene il volere stesso
perché, se vogliamo, esiste, se non vogliamo, non esiste. Non vorremmo se non volessimo.
124
Quando si parla di libero arbitrio in Ag. ci si riferisce alla « determinazione dell'anima, che induce ad un
consenso (assensus o approbatio)
125
Confess. 8, 10, 22
126
Confess. 7, 3, 5: NBA 1, 183. Nel De libero arbitrio Ag. fa osservare che, se non esistesse per l'uomo la
capacità di scegliere liberamente, non ci sarebbe neppure merito nelle sue azioni e quindi sarebbe esclusa la
condizione che le rende degne di approvazione o di disapprovazione (cf. De lib. arb. 3, 1, 3).
127
Dio, quando dunque ha creato l'uomo, pur avendolo creato ottimo, non l'ha tuttavia creato uguale a se
stesso. Ma l'uomo che è buono volontariamente, è migliore di chi lo è per necessità. Era pertanto necessario
concedere all'uomo una volontà libera (De div. quaest. 83, 2: PL 40, 11).
128
Opus imp. c. Iul. 6, 11: NBA 19/2, 1051-1055.
capacità di scelta, non può vivere né bene né male129 e non può contribuire alla
perfezione dell'universo130.
Poiché è attinente ad acquistare merito, in virtù del libero arbitrio l'uomo,
quando fu creato, era nella condizione tanto di peccare quanto di non peccare131.
Ma, in seguito al peccato originale, la sua situazione è mutata radicalmente: il
libero arbitrio si è ridotto all' originaria libertà della ricerca [prima quaerendi
libertas] e pertanto non conferisce più all'uomo la capacità di operare il bene132. Per
tornare a disporre di questa prerogativa gli occorre l'intervento divino; infatti, se
all'anima non viene dischiusa la via della verità e non viene concessa la forza della
grazia, la capacità di scelta non vale che a peccare133. Ricevendo la vera libertà o
libertas maior, l'uomo invece è posto nella condizione di non poter peccare e,
perciò, di ricevere il premio134.
11. LA VITA COME PEREGRINATIO
All'uomo dunque, che per l'impulso di Dio rientra in se stesso, si fa manifesto
che tanto la rivelazione delle Sacre Scritture quanto la verità che si riflette
nell'armonia del creato sono dovute alla luce che proviene dal verbo interiore, da
Cristo. Così la sapienza, che ha ricercato alle sorgenti della vita e dello spirito, non
ha più il volto affascinante ma indefinito di un'aspirazione, bensì l'identità di una
persona135.
Dell'illuminazione divina, però, l'uomo ha solo un presentimento: la sua visione,
in quanto visione di Dio, gli è preclusa fino a che non avrà portato a compimento la
purificazione della propria intelligenza e della propria volontà. La fede quindi,
poiché trasforma la ricerca della felicità in risposta a Dio, spinge l'uomo a porre in
atto un itinerario speculativo che definisca e completi quello morale, mediante la
realizzazione di una conversione, di una metanoia, che lo rinnovi interamente.
129
Cf. De spir. et litt. 5, 7: NBA 27/1, 263.
Grazie alla capacità di scegliere liberamente, l'uomo infatti non solo ha una posizione privilegiata
nell'ordine gerarchico della creazione (cf. De div. quaest. 83, 2: PL 40, 11), ma, se si decide per il bene,
risponde alla legge eterna e contribuisce a mantenere inalterato tale ordine (cf. De div. quaest. 83, 27: PL 40,
18).
131
Cf. De civ. Dei 22, 30, 3: NBA 5/3, 417.
132
Il non poter fare il bene, scrive Ag., è conseguenza del peccato originale. Questa non è infatti la natura
originaria dell'uomo ma la pena del peccato: da essa è derivata la stessa mortalità come una seconda natura
(De div. quaest. ad Simpl. 1, 11: PL 40, 117-118).
133
De spir. et litt. 3, 5: NBA 27/1; 259.
134
De civ. Dei 22, 30, 3
135
Dove ho trovato la veritàlà ho trovato il mio Dio, la Verità persona (Confess. 10, 24, 35).
130
Dalla sua luce, scrive Agostino, egli non è solo sollecitato a vedere te, che sei
sempre il medesimo, bensì anche a guarire per possederti 136 . Per aspirare alla
beatitudine l'uomo, perciò, è tenuto a rinunciare all'amore per le cose terrene, a
vincere le passioni che lo portano a compiacersi di sé, insomma a liberarsi del
peccato, che è all'origine della dispersione.
Se hai cominciato a seguire Dio, afferma appunto Agostino, in te ci sarà la
lotta137.
Questa, del resto, è la sorte che è riservata alla vita umana quando si propone di
rendere testimonianza nel tempo di una verità che la trascende e che si annuncia come promessa salvifica. Non meraviglia, pertanto, se l'antropologia agostiniana
delinea un itinerario esistenziale che comporta un duro combattimento dell'uomo
contro se stesso138: rappresenta per lui l'inevitabile prova a cui deve sottoporsi, se
vuole veramente passare dalle realtà materiali a quelle spirituali139, dalle realtà
temporali a quelle eterne 140 , come richiede il desiderio di felicità che gli è
connaturato.
Il ritorno in se stesso, e quindi la progressiva concentrazione e il definitivo
stabilirsi dell'uomo nella verità, tuttavia non equivale per Agostino al rifiuto del
mondo esteriore, come avviene nei neoplatonici, ma piuttosto alla condanna della
dispersione, della dissipazione nel nulla. Mediante il processo di interiorizzazione,
infatti, il messaggio che è contenuto nelle realtà terrene è raccolto ed inserito in un
contesto per cui esse, con il loro ordine e la loro mirabile armonia, rappresentano un
inno di ringraziamento al loro creatore 141 .Il tema del ritorno in se stesso è
magnificamente espresso nel capitolo 39 del De vera religione quando afferma:
Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te,
ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore e, se troverai che la tua
natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te
stesso, che trascendi l'anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume
stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non
alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa
che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un'armonia insuperabile e fa' in
modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la verità,
poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da
un luogo all'altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che
l'uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel basso piacere
della carne, ma in quello supremo dello spirito142. Nel passo citato il discorso del
ritorno in sé è propedeutico alla confutazione del dubbio scettico più radicale: . Ma
se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di
dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In questo
caso senz'altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che
illumina ogni uomo che viene in questo mondo143. Essa non si può percepire né con
questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi
stessi imprimono nell'anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni
diciamo: " Non siete voi ciò che io cerco, e non siete neppure il principio in base al
quale vi dispongo in ordine; ciò che trovo di brutto in voi lo disapprovo, mentre
approvo ciò che trovo di bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e
approvo è più bello, lo approvo di più e lo antepongo non solo a voi, ma anche a
tutti i corpi dai quali vi ho attinte ". Quindi questa regola che tu constati formulala
così: chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che
comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita
dell'esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il
vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha
potuto dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove
risplende la luce che non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può
essere rappresentata né in forma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono
corrompersi da qualche parte? No, benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri
carnali inferiori chiunque possiede l'uso di ragione. In realtà, il ragionamento non
crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano
scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano144.
È alla definizione di questo esaltante itinerario, che si delinea come una
navigazione verso la patria 145 , poiché conduce progressivamente l'uomo al
ritrovamento di sé nel ritrovamento di Dio, che Agostino attende fino dai giorni
irrepetibili di Cassiciaco146 e per tutto il resto della sua vita. Con questa scelta dà
142
143
136
Confess. 7, 21, 27:
137
In Io. Ev. tr. 34,10
138
Porti una natura inficiata dalla concupiscenza e innestata con la morte. Hai in te stesso di che
combattere, hai in te il nemico da debellare (Enarr. in Ps. 143, 5:).
139
Cf. De mus. 6, 2, 2: NBA 3/2, 641.
140
Cf. De vera rel. 29, 52: PL 34, 145.
141
Cf. Sermo 241, 2: NBA 32/2, 641.
144
De vera rel., 39, 72
Cf. Gv 1, 9.
De vera rel., 39,73
De doctr. christ. 1, 10, 10: NBA 8, p. 23. La navigazione è la metafora inquietante, di ascendenza
platonica (Fedone 99c-d), in cui trova espressione il rapporto tra smarrimento e ritrovamento di sé che
scandisce la vicenda autobiografica di Ag.: all'incertezza dello smarrimento si associa la nostalgia di un
approdo sicuro, anche se faticoso da raggiungere.
146
Il viaggio verso Dio è un ritorno ad una patria a cui non si giunge con mezzi fisici, ma attraverso una
radicale decisione di vita. Ag. se ne è accorto al momento della conversione: E là non si andava con navi o
carrozze o passi... L'andare, non solo, ma pure l'arrivare colà non era altro che il volere di andare, però un
145
finalmente un senso compiuto alla magna quaestio che è a se stesso, alla
inquietudine che ne tormenta l'esistenza, perché fa della ricerca della beatitudine
l'unica esperienza possibile per trovare nell'abisso che è a se stesso la verità e per
aprirsi, con un instancabile ricordo amoroso, alla sua rivelazione.
In questa ottica la vita si connota come una peregrinatio, vale a dire come un
procedere, un avanzare [proficiscere] in direzione di una meta [perfici] saldamente
stabilita e dall'identità ben nota147. Sulla configurazione effettiva di questo modo di
essere al mondo, per il quale l'uomo si caratterizza come viator, di indubbia
efficacia è l'immagine che Agostino propone nel De doctrina christiana: Se in
questa vita mortale, dove siamo pellegrini lontano dal Signore, vogliamo tornare
alla patria dove potremo essere beati, dobbiamo servirci del mondo presente, non
volerne la fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo
di scoprire gli attributi invisibili di Dio o, in altre parole, per mezzo di cose
corporee e temporali, attingeremo le cose eterne e spirituali148.
Come tale, il processo di interiorizzazione costituisce per l'uomo
un'ermeneutica ontologica, cioè un modo di prendere coscienza della propria
identità e di quella delle altre realtà temporali. E, poiché tanto in sé quanto nelle
cose avverte il soffio dell'eterno, in tutto l'ordine dell'essere vede la garanzia
inconfutabile della speranza di un suo futuro ricongiungimento con Dio, di un suo
godimento nella beatitudine eterna. Così scopre in se stesso un valore e vede la
possibilità di rispondere al destino di trascendenza a cui è chiamato, dando un senso
alla propria vicenda esistenziale.
In questo contesto la peregrinatio assume la struttura di un atto d'amore, di un
dono reciproco tra infinito e finito, in cui l'iniziativa è presa da Dio con la creazione
e proseguita nel tempo mediante l'incarnazione, mentre la realizzazione è compiuta
dall'uomo mediante la decisione per Lui, con l'adesione al suo disegno
provvidenziale di salvezza. Ed essa si connota in senso chiaramente personalistico,
pur nella rispettiva identità e differenza ontologica.
volere vigoroso e totale, non i rigiri e i sussulti di una volontà mezzo ferita nella lotta di una parte di sé che si
alzava, contro l'altra che cadeva (Confess. 8, 8, 9:).
147
Cf. De div. quaest. 83, 61, 2: PL 40, 48-50.
148
De doctr. christ. 1, 4, 4:.