Prof. CORRADO 3 aprile 2001 CATEGORIA DI REDDITI DA LAVORO AUTONOMO E’ definita normalmente una categoria di carattere residuale. Si ritiene che la definizione di reddito di lavoro autonomo in realtà derivi dalla definizione di reddito d’impresa e dalla definizione di reddito di lavoro dipendente. Il legislatore, dovendo definire questa categoria, si limita a dire che sono redditi da lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arte e professione abituale, ancorché non esclusiva che sono diverse da quelle che danno origine a reddito d’impresa. Ci sono elementi di connotazione che rilevano questa categoria reddituale. Ciò non toglie che, al di là degli elementi propri di connotazione, questa sia una categoria che comporta caratteri residuali. Gli elementi propri sono: L’autonomia Lavoro senza vincolo di subordinazione come invece accade nel reddito di lavoro dipendente Le attività devono essere esercitate in modo abituale anche se non esclusivo. L’autonomia distingue la categoria dei redditi da lavoro autonomo dal lavoro dipendente. L’abitualità distingue il reddito di lavoro autonomo dai redditi diversi perché tipicamente i redditi occasionali appartengono alla schiera dei redditi diversi, così come nel reddito d’impresa dove è previsto l’esercizio continuativo. Nel reddito da lavoro autonomo si prevede l’abitualità per distinguerlo. Il terzo elemento è naturalmente residuale rispetto al reddito d’impresa, attività che non vengano prese in considerazione nell’ambito dell’art.51, quindi tutte le attività dell’art.2195 c.c. non sono mai attività che possono dare origine a redditi di lavoro autonomo perché per presunzione assoluta il legislatore li pone nell’ambito dei redditi d’impresa. Il problema sorge in merito alle presentazioni di servizi. Le prestazioni di servizi sono attività che danno origine a reddito d’impresa là dove siano organizzate in forma d’impresa, se non c’è questo requisito dell’organizzazione (in forma d’impresa) allora queste attività danno origine a reddito di lavoro autonomo. In questo ambito noi troviamo tutte le attività professionali tipiche, quelle cioè degli esercenti arti e professioni iscritti in albi professionali ( medici, ingegneri, avvocati, commercialisti, ecc.). Là dove esiste un albo professionale automaticamente si parla di esercizio professioni e sono, però, ricompresse tutte quelle attività di consulenze e prestazioni di servizi di vario genere che non avendo organizzazione di impresa sono escluse dall’art.51 ed automaticamente ricadono nell’ambito dell’art.49. Il secondo comma dell’art.49 prevede delle assimilazioni. Queste ultime si sono notevolmente ridotte nel momento in cui il legislatore ha stabilito che le collaborazioni coordinate e continuative oggi rappresentano redditi di lavoro dipendente. Rimangono alcune attività di lavoro autonomo assimilate che riguardano ad es. redditi che derivano da utilizzazione di opere dell’ingegno, diritti d’autore, partecipazione agli utili che spettano ai soci promotori, ai soci fondatori. Perché è importante la distinzione tra attività professionali in senso stretto (previste dal 1° comma) e le attività assimilate? Perché il legislatore prevede due diversi metodi di determinazione del reddito: Determinazione del reddito di lavoro autonomo è basato su scritture contabili. Il lavoratore autonomo è un soggetto obbligato a tenere le scritture contabili, i registri IVA, i registri di incassi e pagamenti ai fini dell’imposta reddituale, ciò perché la determinazione reddituale è una determinazione di tipo analitico, cioè il reddito viene determinato sulla base degli elementi positivi e negativi che concorrono alla formazione del reddito stesso a differenza dei redditi assimilati; Determinazione dei redditi assimilati vengono determinati sulla base di una deduzione forfetaria, cioè non prevedono l’obbligo a tenere le scritture contabili e si prevede che venga imputato a reddito il compenso percepito a cui deve essere dedotta una certa percentuale del 25% che è ritenuta costo di produzione del reddito. È un metodo di determinazione molto più semplice. L’art.50 prevede che si applichi il PRICIPIO DI CASSA, in questo caso come nella maggior parte dei casi fa eccezione il reddito d’impresa adotta, che adotta il principio di competenza; mentre nel reddito di lavoro dipendente, di capitale ed di lavoro autonomo si applica il principio di cassa. Per cui la determinazione prevede che si porti a tassazione la differenza tra compensi che sono stati percepiti e le spese inerenti all’attività di lavoro che sono state pagate. Questo il criterio generale stabilito dall’art.49. Ciò significa che il contribuente da lavoro autonomo nelle proprie scritture contabili indica i compensi percepiti e le spese sostenute per lo svolgimento delle proprie attività e da questa differenza ottiene il reddito imponibile. Questa regola generale viene però derogata. Con il principio generale di cassa ci sono poi tutta una serie di ipotesi in cui il legislatore prevede applicazioni differenti, in particolare il principio di competenza. Infatti per quanto riguarda i beni strumentali per l’esercizio dell’arte e della professione il legislatore prevede la possibilità dell’ammortamento di queste spese e differisce a più periodi di imposta per competenza la quota di ammortamento deducibile esattamente come avviene per le imprese con regole più semplici. Qui non è previsto l’ammortamento anticipato né quello accelerato. Si prevedono delle quote di ammortamento sulla base delle tabelle ministeriali e quelle vanno applicate. La stessa cosa non avviene sul fronte dei componenti positivi. Nel caso del lavoro autonomo non esistono plusvalenze, la cessione del bene strumentale non da plusvalenze. Il legislatore tra i componenti positivi fa riferimento solo ai compensi percepiti. Tutto ciò che non è compenso non va a reddito per il professionista. Questo per una ragione di semplificazione del sistema, infatti dobbiamo tenere conto del fatto che il beni strumentale nell’ambito del reddito professionale ha una incidenza che molto inferiore rispetto all’attività d’impresa. Solitamente l’utilizzo di beni strumentali nell’ambito del lavoro autonomo era considerato assolutamente marginale, perché il lavoro autonomo si basa fondamentalmente su lavori intellettuali. Per questo il legislatore non li prende nemmeno in considerazione. Quindi gli ammortamenti sono presi in considerazione sulla base del principio di competenza. Nel caso dell’ammortamento del bene strumentale vale la regola che vale anche per il reddito di impresa per cui la spesa per bene ammortizzabile entro 1 milione è integralmente deducibile nel periodo d’imposta. Le limitazioni che vengono apportate alle altre deduzioni dal reddito di lavoro autonomo sono limitazioni apportate per due diverse finalità: Finalità antielusiva o antievasiva, cioè il legislatore prevede una limitazione alla deduzione di spesa, se pur inerenti alle attività professionali, tutte le volte che ritiene ci possa essere facilmente confusione tra la sfera personale e quella professionale (ad es. la deduzione del 2% per spese di ristoranti e alberghi). Ci tutta una serie di limitazioni per evitare che il contribuente deduca una serie di spese che in realtà sostiene per scopo personale dal reddito professionale. Un’altra limitazione riguarda sempre le ipotesi in cui può esserci accavallamento tra spese sostenute personalmente e professionalmente, ma sostanzialmente sono ipotesi in cui viene fatto uso promiscuo di beni da parte del professionista o del lavoro autonomo in generale (ad es. tutte le volte che il contribuente/soggetto passivo utilizza locali della propria abitazione per svolgere la propria attività, utilizza autoveicoli che può utilizzare sia per scopo personale che professionale, ecc.). Il legislatore stabilisce un criterio forfetario, cioè stabilisce che quelle spese sono deducibili al 50 %. È una semplificazione legislativa, dove naturalmente risulta difficile per l’A.F. andare a verificare quanta parte di un bene viene effettivamente utilizzato a scopo personale e quanta parte a scopo professionale. Quindi il legislatore ha stabilito una netta distinzione al 50%, il che significa che sono deducibili tutte queste spese al 50% del reddito professionale e si ritiene che l’altro 50% faccia parte della spesa personale. Si deve tener conto che nei compensi vanno ricompressi anche i rimborsi spese a meno che non ci sia l’anticipazione del cliente, in modo che tutte le entrate connesse all’esercizio del lavoro professionale divengano imponibili anche se si tratta di rimborso spese vengono assoggettate ad imposta reddituale. Sono deducibili solo le spese che attengono esclusivamente l’attività di lavoro autonomo. Dove ci sono dei dubbi il legislatore ha previsto dei criteri quantitativi ( 1%, 2%, 50%, ecc.). Quindi una determinazione che è molto più sentita di quella del reddito d’impresa e che ha, però, nell’ambito della propria determinazione fondamento nelle scritture contabili e quindi nel reddito analiticamente determinato. Questo vale per i redditi di lavoro autonomo del primo comma dell’art 49. Per gli assimilati il ragionamento è completamente diverso i compensi lordi e deduzione di una certa percentuale che rappresenta la spesa di produzione di quel reddito senza che vi siano scritture contabili. Il lavoratore autonomo come l’imprenditore ha la possibilità di accedere a due diversi principi contabili. Tutte le regole che valgono nell’ambito dell’accertamento dei redditi dei soggetti con contabilità semplificata possono valere anche per i lavoratori autonomi e viceversa stessa cosa per i redditi dei soggetti tenuti a contabilità in contabilità ordinaria. Vale anche qui la regola in base alla quale il lavoratore autonomo che sia al di sotto delle soglie del volume di compensi previsti dalla contabilità ordinaria possa comunque optare per contabilità ordinaria. Naturalmente la contabilità ordinaria prevede che i pagamenti vengano fatti con movimentazioni bancarie di c/c professionali, che nella contabilità semplificata non esistono perché si usa il registro IVA. Il problema della definizione del reddito di lavoro autonomo attiene l’analisi di volta in volta di quelle prestazioni di servizi che possono essere organizzate e non organizzate in forma d’impresa. Il problema spesso è valutare il fatto che nell’ambito del lavoro autonomo ci possono essere attività tipicamente professionali, organizzate in forme che sono molto vicine alle forme d’impresa ma che vengono considerate redditi di lavoro autonomo. Ci sono anche casi di altre attività non tipicamente professionali che con organizzazioni di molto inferiore vengono prese in considerazione come redditi d’impresa. Il problema è di tipo interpretativo do vola in volta, che attiene sia l’attività svolta che l’organizzazione. In linea generale l’esercente arte e professione iscritto all’albo comunque considerato lavoratore autonomo. Il nostro legislatore tende ad attrarre redditi d’impresa quanto più possibile dove c’è organizzazione o ravvede un’idea di organizzazione. Prof. CORRADO REDDITI DIVERSI 10 APRILE 2001 Art.81 TUIR norma di carattere RESIDUALE. Si ritiene che il legislatore abbia voluto inserire in questa sede tutte quelle fattispecie, quelle ipotesi che altrimenti non avrebbero trovato collocazione nelle altre categorie reddituali e che naturalmente devono essere assoggettate a tassazione. La nostra legislazione è omnicomprensiva, comunque tutto che è riconducibile ad una nozione di reddito deve essere assoggettato a tassazione. Nell’ambito dell’art.81 ci sono delle distinzioni da fare. Diciamo che in linea generale in questo ambito stanno i redditi occasionali, cioè i redditi che derivano da attività di lavoro autonomo o d’impresa svolte occasionalmente e secondo la tradizione in questi redditi stanno tutti i redditi di tipo speculativo. Ci sono plusvalenze che vengono tassate perché speculative, ma anche quelle non speculative possono rientrare in questo ambito. Ad es. rientrano tra quelle speculative le plusvalenze che derivano dalle cessioni di immobili che sono stati acquistati o costruiti da non più di 5anni. Quando si acquista un bene per rivenderlo in un breve lapsus di tempo con intento speculativo la differenza che ne deriva viene tassata sulla base dei redditi diversi. Questo comporta che naturalmente il legislatore tenga conto del fatto che un contribuente può aver adibito ad abitazione principale questo immobile e può decidere di acquistare un nuovo immobile adibito ad abitazione principale ed in questo modo escluderlo da una tassazione eccessiva. Ci sono tutte le ipotesi che il legislatore prende in considerazione al fine di evitare si tassino eccessivamente le plusvalenze che in realtà non sono speculative ma che possono derivare da un trasferimento da un città all’altra o da una crescita del nucleo familiare che richiede l’acquisto di un immobile più grande e diverso da quello in possesso. Diciamo che la legislazione sui redditi diversi si caratterizza particolarmente per quelle che sono le plusvalenze che derivano da investimenti finanziari. Il riordino della tassazione delle rendite finanziarie, che ha coinvolto in parte i redditi di capitale molto più limitatamente, ha invece molto coinvolto i redditi diversi. Questo riordino iniziato nel 1997, ma entrato in vigore successivamente nel 1998 con ulteriori aggiustamenti ed altri che stanno mettendo. E’ un riordino previsto dalla riforma Visco, previsto per una ragione di semplificazione o comunque di tipo organizzativo, ma anche previsto in relazione all’armonizzazione del nostro sistema di tassazione delle rendite finanziarie generali con quanto previsto dalle direttive comunitarie. Quindi semplificazione di aliquote, semplificazione di metodi, tassazione delle plusvalenze da cosiddette “capital gains”. Nell’ambito dei redditi di capitale ce stata una estensione delle fattispecie previste con la norme di chiusura con la lettera h) dell’art.41. Con questa riforma si è introdotta la possibilità per il contribuente di scegliere la tassazione dei redditi diversi fondamentalmente, in minima parte coinvolgendo anche i redditi da capitali, sulla base di tre possibilità, tre diverse metodologie: Metodo della dichiarazione; Metodo del risparmio gestito; Metodo del risparmio amministrato. Con questo riordino sono state riviste le ritenute alla fonte delle imposte sostitutive, sono state armonizzate le aliquote in due diversi livelli, che sono il12,5% in linea generale per i redditi proveniente da investimenti di carattere finanziario e il 27% per i realizzi patrimoniali e per i redditi che derivano da investimenti a breve termine. Dobbiamo capire in che cosa si differenziano i redditi di capitale ed i redditi diversi nell’ambito dei redditi finanziari. Un’altra questione riguarda il fatto che il legislatore ha voluto una riforma globale per i redditi di natura finanziaria, quasi sovrapponendo le due categorie reddituali, che storicamente sono sempre state nettamente separate. La tendenza è quella di creare una sorta di unica categoria reddituale di redditi finanziari. Un investimento di tipo finanziario può dare origine a due diversi tipi di reddito: reddito di capitale che è sempre positivo reddito diverso che può essere sia positivo che negativo, cioè possiamo avere plusvalenze e minusvalenze. E’ importante distinguere questi due diversi redditi perché le tipologia di tassazione sono differenti (diversi criteri e modalità di tassazione). I redditi di capitale sono tassati al lordo, cioè non si prende in considerazione nessun onere deducibile. E redditi diversi sono tassati al netto, cioè la differenza positiva ( plusvalenze) e la differenza negativa ( minusvalenze) vengono poste in relazione e si tiene conto anche delle spese di produzione del reddito. I redditi di capitale sono i redditi “normali” che derivano da un certo investimento di capitale, interessi da c/c, interessi da titoli di stato, interessi da obbligazioni, dividendi, ecc., ciò che normalmente deriva da un investimento di capitale. La caratteristica dei redditi di capitale è relativa al fatto che al momento in cui si effettua un investimento sa già che ci saranno dei redditi di capitale, che ci saranno degli interessi e si sa già a quanto ammontano questi interessi (ad es. conto corrente); possono essere anche incerti solamente nel loro ammontare ad es. obbligazioni residuali, al momento dell’effettuazione dell’investimento si sa che ci sarà un interesse, me quantificarlo non è immediato perché vi è un’incertezza nell’ammontare, l’interesse in questione è legato ad un indice il cui andamento futuro è prevedibile, ma che non si conosce al momento della stipula. Poi ci sono altri redditi di capitale che sono dei proventi che vengono considerati normali a fronte di certi investimento, ad es. i dividendi (questi teoricamente al momento dell’investimento possono essere incerti sia dal punto di vista dell’esistenza che dal punto di vista dell’ammontare, ma sono considerati come un frutto ordinario, normale che deriva da questo tipo di investimento finanziario). In linea generale questi sono i redditi di capitale e vanno tassati al lordo e generalmente sono assoggettati a ritenute alla fonte che può essere del 12,50% o del 27% a seconda dei casi. Quindi percepiti netti perché già tassati con ritenuta, ma tassati al lordo. I redditi diversi si distinguono perché sono tutti quei proventi che derivano da investimenti finanziari incerti al momento dell’investimento sia dal punto di vista dell’ammontare che dal punto di vista del dividendo (ad es. minusvalenze o plusvalenze che possono derivare dalla negoziazione dei titoli, cioè la differenza tra il prezzo di cessione ed il prezzo di acquisto). Ai fini dell’aliquota di tassazione questi redditi vengono divisi in due categorie: 1. plusvalenze che derivano dalla cessione di partecipazioni azionarie qualificate; 2. plusvalenze che derivano da partecipazioni azionarie non qualificate, da cessioni di titoli non rappresentativi di merci o certificati di massa, dalla cessione di valuta estera, dalla cessione a titolo oneroso di metalli preziosi, ecc. Le prime vengono tassate normalmente con un’aliquota del 27%; le seconde con un’aliquota del 12,50%. Il legislatore dà la definizione di partecipazioni qualificate, cioè considera qualificate le cessioni di partecipazioni azionarie se sommate fra di loro nell’arco del periodo d’imposta eccedono il 2% del diritto di voto dell’assemblea ordinaria o il 5% del capitale se si tratta di società negoziate in mercati regolamentati italiani o all’estero; oppure diventa invece il 20% dei diritti di voto e il 25% del capitale per tutte le altre società. Quando si eccede queste quantità che attengono il diritto di voto in assemblea e la partecipazione di capitale si hanno partecipazioni qualificate al di sotto si rientra nelle partecipazioni non qualificate. Oltre ai tre metodi precedenti ci possono essere altre ipotesi previste dal nostro legislatore che riguardano i regimi di investimento collettivo e in valori immobiliari. Gli investimenti finanziari possono essere fatti tramite SICAV, organismi di investimento finanziario, ci sono tanti modi diversi di investire dal punto di vista finanziario. I tre metodi non riguardano queste ipotesi perché per queste ipotesi il legislatore prevede la tipologia di tassazione che fa riferimento all’ente fondamentalmente, ovvero la tassazione dei fondi è autonoma rispetto ai tre regimi di plusvalenze e all’eventuale dichiarazione del reddito, la tassazione avviene direttamente ed è applicata direttamente nell’ambito del fondo. Se invece si tratta di redditi diversi e redditi di capitale che vengono considerati fuori di questi organismi di investimento, allora il legislatore prevede i tre metodi di regime. Questi regimi riguardano esclusivamente i redditi diversi ed i redditi di capitale delle persone fisiche. Il reddito d’impresa esce automaticamente da queste categorie reddituali. Il regime della dichiarazione è il cosiddetto ordinario. Se non si esercita professione si deve dichiarare il reddito. E’ obbligatorio fare la dichiarazione in caso di plusvalenze che derivano da partecipazioni qualificate. Sostanzialmente consiste nell’obbligo del contribuente di indicare, in sede di dichiarazione dei redditi, le imposte relative anche a redditi di capitale ed a redditi diversi. Imposte naturalmente relative a quei redditi che non sono già stati assoggettati a ritenute a titolo d’imposta. Per i redditi diversi con il regime della dichiarazione si prevede che vengano dichiarate separatamente le due categorie di redditi diversi (27% e 12,50%). Per la prima categoria, quella tassata al 27%, che riguarda le partecipazioni qualificate è obbligatorio questo metodo. Per la seconda categoria invece si può scegliere alternativamente. La distinzione fra queste due categorie è dovuta al fatto che le plusvalenze di ciascuna categoria possono essere compensate solo con le minusvalenze di quella categoria. La norma prevede che ci sia compensazione fra plusvalenze e minusvalenze, ma pur che appartengano alla stessa categoria. Per cui se una plusvalenze è fra le partecipazioni qualificate ed è da tassare al 27%, non si può compensare con delle minusvalenze che derivano da partecipazioni che sono tassate al 12,50%. Nel caso del regime della dichiarazione le minusvalenze possono essere portate in deduzione (questa è una caratteristica importante di questo regime) fino a concorrenza delle plusvalenze dei periodi anche successivi, ma non oltre il quinto. Quindi le minusvalenze possono poi essere dedotte anche in seguito. Questo naturalmente per ciascuna categoria pur che figurino nelle dichiarazioni dei redditi precedenti. Quindi si determina la plusvalenza che viene determinata sulla base del prezzo percepito quando si cede il titolo a cui bisogna dedurre il costo d’acquisto, le eventuali imposte di successioni ed i redditi di capitale che sono incorporati nel titolo stesso al momento della cessione. In questo caso diciamo che si applica il principio da cassa. La seconda possibilità opzionale, cioè deve essere naturalmente manifestata opzione da parte del contribuente stesso è quella del risparmio amministrato. Quando un contribuente ha in deposito o in amministrazione dei titoli presso un intermediario (che naturalmente deve essere un intermediario autorizzato per legge, che può essere una SIM, una banca, ecc.), quel contribuente può optare per il regime del risparmio amministrato. Naturalmente la premessa è che ci sia la custodia dei titoli o il deposito dei titoli presso SIM o banche o ecc.. Sono escluse le partecipazioni qualificate, che obbligatoriamente vanno dichiarate. Con questo regime si applica da parte dell’intermediario, dalla SIM, dalla banca l’imposta sostitutiva al 12,5% sulla somma algebrica di plusvalenze e di minusvalenze che si sono realizzate nel periodo d’imposta. Nell’ambito di questo regime non si possono fare compensazioni fra redditi di capitale e redditi diversi. Con questo metodo si applica l’imposta su ogni singola plusvalenza. Le minusvalenze si possono contare solamente successivamente, a seguito del medesimo rapporto contrattuale, quindi si fa operazioni per operazione. Le plusvalenze eventualmente vengono riportate in momento successivo. Esempio: se si ha un rapporto di amministrazione titoli in cui ci sono cinque operazioni diverse: tre plusvalenze e due minusvalenze. La minusvalenze si compensa solamente a partire dalla plusvalenze successiva ad essa, fino a quel momento si costruisce operazione per operazione la singola plusvalenza. Il regime del risparmio gestito è applicabile quando il contribuente dà in gestione, affida in gestione il proprio patrimonio ad un intermediario abilitato. I proventi che si conseguono attraverso la gestione vengono assoggettati ad una imposta sostitutiva del 12,50%. Quindi non c’è più la tassazione al 12,50% di ogni singola plusvalenze per singolo provento, ma c’è una tassazione che avviene una volta all’anno per il vero risultato conseguito. Risultato che è stato conseguito dal gestore, il quale deve dedurre anche tutte le spesse di gestione. In questo caso è possibile una compensazione su tutte le componenti positive e negative di reddito e quindi anche dei redditi di capitale. Ci possono essere ipotesi in cui dal reddito di capitale viene dedotta una minusvalenze da reddito diverso che deriva dalla cessione di una partecipazione. L’applicazione dell’aliquota avviene su una differenza che è data dal patrimonio che è stato gestito e che viene rilevato alla fine del periodo d’imposta (alla fine dell’anno solare) e quello naturalmente all’inizio del periodo d’imposta. Il risultato di questa differenza viene tassato con ritenuta al 12,50%, direttamente applicata dal gestore. Prof. CORRADO 24 APRILE 2001 REDDITI DELLE SOCIETA’ DI PERSONE La norma di riferimento è l’art.5 del TUIR, in cui si dice che i redditi delle società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice residenti nel territorio dello stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Questo caso delle società personali rappresenta una eccezione nel nostro sistema delle imposte personali poiché le società di persone non rappresentano ai fini dell’imposta personale e reddituale un soggetto passivo. Nella sostanza accade che il reddito viene determinato unitariamente in capo alla società di persona, ma viene tassato ai fini dell’IRPEF o dell’IRPEG (a seconda del socio) nei confronti dei singoli soci principio di trasparenza. Quindi da un lato abbiamo ai fini IRAP e DIT le società di persone come soggetto passivo (autonomo) d’imposta, dall’altro lato non abbiamo la società di persone come soggetto passivo dell’imposta reddituale e personale. Questo non toglie che la società di persona abbia degli obblighi che sono obblighi di accertamento e formali. Quindi non è un soggetto passivo dell’imposta personale, ma ha obblighi nella determinazione dell’imposta, obbligo di dichiarazione, di tenere le scritture contabili; è il soggetto passivo dell’accertamento, quindi può essere controllato; il reddito può essere accertato,ma non ha la soggettività passiva autonoma nell’imposta personale. Bisogna aggiungere che il legislatore tributario non disciplina specificatamente l’ipotesi della partecipazione di società di capitali a società di persone (che peraltro è una ipotesi anche discussa), nel senso che non vi è indicazione nell’ambito dell’IRPEG di quest’ipotesi; vi è indicazione però nell’ambito dell’accertamento dove si dice nel D.lg.600 che la dichiarazione e l’accertamento dei redditi di queste società anche ai fini dell’IRPEG, dovuta dai soci, è disciplinata da questa norma. Questo fa automaticamente dedurre che anche nel caso di socio-soggetto passivo dell’IRPEG funzioni il principio di trasparenza. Quindi questi redditi devono essere dichiarati e su questi redditi deve essere pagata l’imposta. Da parte di alcuni si è ritenuto che mancando questo riferimento quei redditi non dovessero essere tassati in capo al socio persona giuridica. La scelta del nostro legislatore è quella di imputare il reddito non al soggetto collettivo, alla società che ha prodotto quel reddito, ma al singolo socio. Inoltre egli aggiunge: “in proporzione alla quota pi partecipazione e indipendentemente dalla percezione dell’utile”. Occorre dire che dal punto di vista civilistico la normativa prevede che il socio ha diritto di percepire la sua parte di utile solamente dopo l’approvazione del rendiconto. Nell’ambito fiscale è irrilevante che ci sia stata l’approvazione del rendiconto; è irrilevante che si sia percepito il reddito, cioè che gli utili vengano distribuiti. Sostanzialmente dal punto di vista fiscale viene tassato anche tutta quella parte di utile che viene passata a riserva e che non è quindi nelle disponibilità del socio. Questa è una differenza rispetto alla regola generale dell’imposizione reddituale, nel senso che l’imputazione è una cosa diversa dal possesso di reddito. La regola generale nell’imposta reddituale personale prevede come presupposto il possesso del reddito, nel caso di società di persone si parla di imputazione, il che non necessariamente vuol dire possesso di reddito. Questa legislazione è stata fortemente criticata ed ha subito dei giudizi di merito. La soluzione della giurisprudenza è stata di ravvedere un sorta di presunzione assoluta dell’effettiva percezione del reddito basata sulla immedesimazione tra società e socio, i due soggetti coincidono di fatto. Quindi il fatto stesso che ci sia imputazione comporta di per sé l’attribuzione di quel reddito a quel soggetto. La scelta di questo principio di trasparenza è stata fatta nella riforma tributaria degli anni ’70, con la legge delega del ’71 che ha riformato il sistema tributario nella quale il legislatore ha adottato per la prima volta questo criterio. Naturalmente quando questa legge è sorta, sono sorti con essa molti dubbi in relazione al problema della imputazione; in relazione al fatto che si dovesse tenere conto alla distribuzione degli utili; in relazione ai tipi di soggetti a cui si faceva riferimento. Ma la scelta di allora del legislatore era dovuta al fatto che nella sostanza questi non potevano essere soggetti passivi dell’IRPEF, per ovvie ragioni; non erano persone giuridiche e quindi non potevano essere soggetti passivi dell’IRPEG, di conseguenza non poteva sfuggire alla tassazione il reddito prodotto da questi soggetti (questo per un principio di neutralità fiscale). Naturalmente il fatto di utilizzare il principio di imputazione non riguarda solamente i redditi, riguarda le perdite; riguarda le ritenute d’acconto versate, i crediti su imposta maturati; riguarda l’intera determinazione reddituale. Le perdite delle società in nome collettivo o in accomandita semplice vengono ripartite sulla base delle quote di partecipazione dei soci e poi ogni socio deduce la propria quota di perdita dal proprio reddito. Questo vale anche per le ritenute d’acconto che sono state effettuate e così via. Oggi la tendenza della legislazione è quella di eliminare sempre più le differenze di tassazione reddituale tra società di persona e società di capitale. In pratica la nostra legislazione prevede lo stesso tipo di trattamento per i due tipi di società nella determinazione reddituale. Il principio di trasparenza viene fortemente criticato, anche se va sempre più ravvicinandosi questa tassazione. La prima critica evidente è quella relativa all’applicazione del principio di capacità contributiva, ovvero il fatto di tassare per trasparenza questi redditi comporta una differenza di tassazione tra società di persone e società di capitali che crea una diversa concezione di capacità contributiva nei confronti di un soggetto rispetto all’altro. Questa applicazione, che è eccezionale, negli intenti del legislatore attuale è verso un soluzione diversa. C’è un progetto di riforma dell’intero impianto societario che è quello della riforma Mirone che riguarda le società di piccole dimensioni fondamentalmente.questa riforma prevede una sorta di separazione tra società di persona e le attuali s.r.l.. C’è una trasformazione del sistema che sia più basata sulle società di capitali, soprattutto per le imprese di piccole dimensioni. Quindi un collocazione diversa delle s.p.a. e delle società quotate. Nel confronto poi con la normativa fiscale è presumibile che ci sarà l’adeguamento anche del criterio di tassazione a questo tipo di riforma che riguarda innanzitutto il sistema societario del codice civile. Quindi è presumibile che il principio di trasparenza vada via via dissolvendosi nel nostro sistema tributario. La determinazione del reddito della società di persone è una determinazione che avviene sulla base di criteri stabiliti per il reddito d’impresa. Questo accade nella maggior parte dei casi, tutte le volte che si è in presenza di una società commerciale e comunque tutte le volte che si è in presenza di una società in nome collettivo, in accomandita semplice. E’ più problematico il casi delle società semplici e delle società di fatto, senza contare che vengono equiparate a questi soggetti anche le associazioni di professionisti (in questo caso il reddito viene determinato secondo la regole del reddito di lavoro autonomo e non secondo le regole del reddito d’impresa). Nel nostro ordinamento si prevede che le società semplici non svolgano attività commerciale di conseguenza la società semplice è per sua stessa natura una società non commerciale. Nel caso di società semplice la legislazione prevede ovviamente che il reddito non sia determinato sulla base del reddito d’impresa, a meno che queste società non svolgano in realtà un’attività commerciale. Comunque è lasciata aperta la possibilità che una società semplice possa essere una società commerciale, anche se collateralmente pur che sia svolta abitualmente. In ogni caso la società semplice determina il proprio reddito sulla base delle norme che riguardano le altre categorie reddituali. Esempio: se una società semplice svolge una attività agricola al di sotto di quei parametri previsti dall’art.29, sarà civilisticamente una impresa agricola, fiscalmente se eccede quel limite diventa una società che esercita attività d’impresa commerciale. La stessa cosa non vale per le società in nome collettivo, anche se svolgono altre attività sono comunque considerate società commerciali, così come per le società in accomandita semplice che vengono comunque considerate società commerciali. Queste società hanno una determinazione reddituale basata su queste regole (di reddito d’impresa o di altre categorie reddituali), quindi determinano il proprio reddito in capo alla società. Una volta determinato il reddito, questo reddito viene imputato al socio. Questo reddito che confluisce nelle dichiarazione del socio viene definito reddito di partecipazione, pur non essendo determinato come reddito di capitale, ma come reddito d’impresa. Quindi non è un vero e proprio reddito di partecipazione, diciamo che è una convenzione linguistica, nel senso che le dichiarazioni dei redditi dei soggetti- persone giuridiche prevedono un quadro che viene denominato reddito da partecipazione per convenzione. In questo quadro va inserita la posta reddituale relativa alla partecipazione in società personali. Questo non toglie che sia un reddito d’impresa, nella maggiore parte dei casi, o di lavoro autonomo se si parla di associazioni di professionisti. Questo reddito così determinato e suddiviso in base alle quote di partecipazione dei soggetti, va dichiarato dai soggetti stessi. I soggetti passivi nel momento in cui dichiarano questo reddito, dichiarano ovviamente il reddito o la perdita e scomputano i crediti d’imposta e le ritenute d’acconto assommando alle altre categorie reddituali questa partecipazione. Ciò significa che questa partecipazione subisce una tassazione progressiva nel caso di socio persona fisica e proporzionale nel caso di socio persona giuridica (soggetto passivo dell’IRPEG). Nello stesso tempo le società di persone presenta la propria dichiarazione sia ai fini dell’imposta reddituale che ai fini dell’IRAP. Ovviamente deve esserci rispondenza tra quanto dichiarato dalla società di persona e quanto poi attribuito ai soci. Il fatto di presentare la dichiarazione fa della società di persona un soggetto passivo di accertamento. L’A.F. può controllare le dichiarazioni presentate dalle società di persone, nel momento in cui rettifica il reddito della società di persona, naturalmente questa rettifica, il maggior reddito determinato va ad incidere rispetto ai singoli soci, esattamente nelle stesse quote previste per l’imposizione reddituale. Ciò non toglie che dal punto di vista dell’accertamento il controllo venga effettuato in capo alla società di persona e solo successivamente colpisce anche il socio. Per quanto attiene a tutti gli obblighi relativi alla sostituzione d’imposta, relativi alle scritture contabili, gli obblighi ai fini dell’IVA le società di persone hanno i medesimi obblighi delle società di capitali e delle persone giuridiche. Ci sono delle differenze per quanto riguarda i beni strumentali. In linea generale quando si parla di beni che fanno parte del patrimonio della società di capitale, questi non c’è dubbio che siano beni che comunque vengono considerati beni dell’impresa poiché le società di capitali hanno comunque un loro natura di società commerciale. Quando, invece, siamo di fronte ad imprese individuali ci possono essere beni che fanno parte dell’attività imprenditoriale (beni che sono inseriti in inventario come beni dell’impresa) e beni che, invece, sono relativi alla persona fisica (una sfera che è al di fuori dell’ambito d’impresa). Per quanto riguarda le società di persone l’art.77 2°comma TUIR dice “per le società in nome collettivo e in accomandita semplice si considerano relativi all’impresa tutti i beni ad esse appartenenti, salvo quanto stabilito nel comma 3 per le società di fatto”. Le società che non sono società commerciali possono avere beni che fanno parte della sfera imprenditoriale (attività d’impresa in società semplice,qualora che quest’ultima svolga un’attività di impresa commerciale), ma possono esserci beni che non fanno parte di questa sfera anche nella stessa società semplice. Quindi nel caso di società semplice ed anche nella società di fatto occorre andare a valutare di volta in volta se questi beni fanno parte dell’attività imprenditoriale oppure se non vi fanno parte. Questo comporta naturalmente un trattamento dal punto di vista delle plusvalenze e degli ammortamenti che è completamente diverso. E’ ovvio che un bene che fa parte dell’impresa segue le norme sul reddito d’impresa e quindi è un bene ammortizzabile, al momento della cessione può dare origine ad una plusvalenza, mentre diverso è il trattamento di un bene che è al di fuori della sfera imprenditoriale. Bisogna tenere conto che soprattutto per le società di fatto ci sono una serie di norme che sono state dettate appositamente, proprio al fine di evitare che determinati beni vengano estromessi in qualche modo dalla sfera della società imprenditoriale. Normalmente il legislatore tende ad equiparare la società di fatto, in questo ambito, alle società in nome collettivo ed in accomandita semplice, per cui ci sono norme che sostengono, ad es., l’appartenenza all’ambito dei beni strumentali di autoveicoli,ecc. Questo per evitare che vi sia un diverso trattamento nello stesso ambito. Ci sono questioni che si ripropongono e che si sono riproposte per molto tempo che attengono la destinazione del reddito in relazione alle quote di partecipazione di ogni singolo socio, nel senso che il legislatore ha previsto una serie di regole che sono necessarie per attribuire la quota di reddito al singolo socio sulla base degli atti costitutivi, delle effettive quote di partecipazione. Là dove non vi siano riscontri in grado di dimostrare l’effettiva quota di partecipazione di ciascun socio il legislatore ha comunque stabilito che il reddito va equamente ripartito tra tutti i soci della società di persone. In ogni caso questo reddito deve essere assoggettato a tassazione, non può esserci un salto d’imposta. Prof. CORRADO 26 APRILE 2001 IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (IVA) Fonti inserite nel nostro ordinamento sulla base norme dettate dalla Comunità Economica Europea. Questa è una norma che deriva interamente da una disciplina dettata in capo all’Ente sopranazionale, cui l’Italia ha aderito rinunciando, quindi, a una parte della propria potestà. Sostanzialmente l’inserimento della normativa IVA, nell’ambito dei trattati e poi delle direttive della CEE, ha vincolato l’Italia ad un adeguamento normativo ed ovviamente a obblighi di armonizzazione con quanto disposto dalle norme dell’Ente sopranazionale. Nel diritto comunitario si prevedono delle fonti di carattere primario (che sono presentate dai Trattati di Roma e di Maastrich) e da fonti di tipo subordinato nell’ambito della CEE che sono rappresentate da direttive e regolamenti. LA DIRETIVA è una normativa dettata in ambito europeo, che deve essere recepita dall’ordinamento nazionale. Quindi occorre che l’ordinamento nazionale si adegui a quanto dettato dalla direttiva, recepisca la norma. Questa normalmente ha dei caratteri di inquadramento generale e disciplina gli elementi essenziali fondamentali, che poi devono essere specificati e adeguati nell’ambito delle norme interne. Questo non toglie che esistano delle direttive di portata diretta nell’ambito dell’ordinamento nazionale, poiché a seguito di contenziosi davanti alla Corte di Giustizia, essa ha stabilito che qualora una direttiva presenti elementi talmente dettagliati da essere direttamente applicabili, ogni singolo cittadino di un paese membro può avvalersi di questa normativa e quindi chiederne l’applicazione pur se l’ordinamento interno non ha recepito la norma e non la ha tramutata in una norma del proprio ordinamento. I regolamenti sono normative direttamente applicabili nei paesi che appartengono alla Comunità. Quindi non presentano il problema del recepimento nell’ordinamento interno, nel senso che automaticamente (una volta che è emanato il regolamento) lo stato membro si deve adeguare applicando il regolamento stesso, senza tutto l’iter di recepimento in ambito interno. L’IVA deriva da un accordo, già contenuto nei trattati, che prevede un’armonizzazione fiscale e un’imposizione indiretta, neutrale nell’ambito degli stati membri ed ha una serie di direttive che sono state successivamente emanate, in ambito europeo, e man mano recepite in ambito nazionale. Si fa riferimento normalmente alla VI direttiva, come la direttiva più importante dal punto di vista dell’introduzione dell’IVA. Bisogna tenere conto che già nella II e III direttiva della fine degli ’70 esistevano norme che obbligavano lo stato italiano ad attuare quell’imposta indiretta. L’IVA è un’imposta molto particolare nel nostro ordinamento, perché prevede la tassazione sulla base di alcuni principi di carattere generale. Innanzitutto quello della neutralità dell’imposizione, che deve essere tendenzialmente sempre rispettata; inoltre prevede l’applicazione dell’imposta sulla base di in principio di rivalsa ( un diritto/obbligo di rivalsa) e un diritto obbligo di detrazione. Questi sono i principi fondamentali, che nell’applicazione poi del tributo si esplicano attraverso istituzioni di soggetti passivi da parte del legislatore e di presupposti oggettivi e territoriali, e attraverso un meccanismo di funzionamento del tributo che è attuato sulla base di tre principi cardine. Perché si dice che l’imposta è neutrale? Questa è una imposta che già nella sua stessa natura è discussa come imposta sui consumi o sugli scambi. L’IVA è un’imposta che va a colpire il valore aggiunto ad ogni singolo passaggio, dal produttore al consumatore, ma il carico, l’onere economico di questo tributo va a ricadere sul consumatore finale. Nel percorso dal primo soggetto passivo (produttore) fino al consumatore l’imposta deve rimanere NEUTRALE. Quindi viene applicata su ogni singolo passaggio, colpendo esclusivamente il valore aggiunto che si manifesta preso ogni soggetto della catena. Per attuare questo meccanismo occorre che vi sia applicazione del diritto/obbligo di rivalsa, ovvero che il soggetto che pone in essere l’operazione si rivalga sul soggetto successivo per quanto attiene l’IVA; che si applichi il diritto/obbligo di detrazione. Quindi a ogni passaggio l’IVA deve essere abbattuta, decurtata di quanto già pagato a monte e venga versato all’Erario la differenza imposta da imposta per ogni singolo passaggio. Tutto questo finché non si arriva, naturalmente, al consumatore finale, che è colui che subisce il carico, l’onere economico dell’imposta pur non essendo un soggetto passivo, in senso stretto. C’è una distinzione fondamentale tra quelli che sono i soggetti passivi del tributo e chi, invece, sostiene l’onere economico del tributo. i soggetti passivi del tributo sono, secondo la nostra legislazione, esercenti arti e professioni e gli esercenti attività di impresa (sia agricola che commerciale). La legislazione si è affinata man mano, facendo praticamente coincidere l’imprenditore commerciale (previsto oggi nell’IVA) con l’imprenditore commerciale nell’ambito dell’imposizione reddituale. Sono comunque soggetti passivi tutte le società commerciali e gli enti commerciali. Nel momento in cui un soggetto passivo pone in essere un’attività o un’operazione che rientra nell’ambito delle attività di impresa commerciali o di esercizio di arte e professione o di impresa agricola, ha obbligo di iniziare la propria attività ai fini dell’IVA e quindi di fare una dichiarazione di inizio attività e di vedersi attribuito un numero di partita IVA, che identifica quel soggetto ai fini dell’imposta. Nell’IVA si distinguono, dal punto di vista dell’oggetto, del presupposto oggettivo, operazione differenti. Questa è un’imposta che prevede un presupposto oggettivo fondato sul tipo di operazioni che vengono svolte nell’ambito della propria attività. Nell’IVA ci sono quattro tipi di operazioni diverse: operazioni imponibili; operazioni non imponibili; operazioni esenti; operazioni cosiddette escluse o fuori dal campo IVA (che in realtà non fanno parte delle operazioni ricompresse nell’ambito del tributo, ma vengono convenzionalmente fatte rientrare come categoria di operazioni proprio per la loro pecularietà di esserne escluse). Nella nostra legislazione questi che soggetti pongono in essere operazioni imponibili, non imponibili o esenti sono soggetti passivi dell’IVA. Questo non comporta automaticamente che vi sia applicazione del tributo, perché solamente le operazioni imponibili prevedono l’applicazione del tributo. le operazioni esenti e quelle non imponibili non prevedono l’applicazione del tributo. Nello stesso tempo le operazioni esenti si caratterizzano perché non prevedono nemmeno la detrazione del tributo a monte. Perciò dobbiamo tenere distinto il meccanismo di imposizione tradizionale (quello che prevede il normale soggetto passivo dell’imposta, che effettua delle operazioni imponibili, che segue le regole della neutralità del tributo e che applica l’IVA secondo le regole ordinarie) da situazioni in cui,invece, il soggetto passivo effettua delle operazioni che possono essere anche esenti e quindi non applica il tributo e non può neanche detrarlo (la situazione in cui il soggetto passivo può effettuare sia operazioni imponibili e operazioni esenti, per cui si trova nella critica situazione di dover capire quale parte di IVA va applicata e quale no, quale parte di IVA va detratta e quale no; oppure il soggetto passivo che effettua delle operazioni non imponibili e che quindi ha la possibilità di detrarre l’imposta, pur non applicandola, a valle, cioè al passaggio successivo). Il principio generale è che l’operazione è imponibile nel momento in cui questo tipo di soggetto passivo effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi nell’ambito del territorio dello stato. Quindi un presupposto soggettivo (esercizio di impresa o esercizio di arte e professione) ed un presupposto oggettivo (cessione di beni e prestazione di servizi). Il legislatore prevede che siano operazioni imponibili le importazioni da chiunque effettuate. Qui subentra il terzo presupposto, che è di tipo territoriale. L’IVA è un’imposta comunitaria. Possiamo dire che c’è una disciplina che riguarda le operazioni svolte all’interno del territorio nazionale, una disciplina in via di adeguamento e armonizzazione che riguarda le operazioni svolte all’interno del territorio della Comunità Economica Europea e una disciplina che riguarda le operazioni extracomunitarie. Questo è un altro degli aspetti problematici dell’IVA, distinguere di volta in volta la disciplina applicabile, a seconda del tipo di scambi che vengono effettuati dal punto di vista territoriale. Bisogna tenere conto che nell’ambito della legislazione europea c’è un obiettivo, che è quello che l’imposta deve essere applicata con il principio della tassazione nel paese di origine, cioè l’imposta deve essere applicata sulla base delle operazioni relative ai soggetti produttori, chi più produce maggiore gettito di IVA deve avere. Il problema è che nel nostro ordinamento c’è un’applicazione, allo stato attuale per quanto riguarda il principio del paese di origine, che ancora non è definitiva, per una serie di ragioni piuttosto complesse che riguardano innanzitutto la disciplina dei rapporti all’interno dei paesi della CEE. Nell’ambito della disciplina intracomunitaria non c’è ancora applicazione del principio del paese di origine, ma c’è l’applicazione del principio del paese di destinazione. Il principio del paese di origine è molto più usato nell’ambito della disciplina extracomunitaria. Questo, naturalmente, rappresenta un problema in evoluzione, che tendenzialmente comporterà delle modifiche sostanziali nell’ambito della legislazione che riguarda soprattutto l’IVA intracomunitaria. Questa disciplina, quindi, è una disciplina transitoria, che prevede una serie di regole piuttosto complesse che sono state finora applicate e continueranno ad essere applicate per almeno altri due anni, ma che dovrebbero, almeno dal 2003, essere definitivamente risolte con l’applicazione del principio del paese di origine. Il problema, sostanzialmente, riguarda il fatto che occorre trovare un accordo nell’ambito dei paesi membri che preveda una sorta di istanza compensazione (come avviene per le operazioni bancarie) all’interno della CEE, che sia in grado di gestire il gettito attribuendo ai singoli stati la propria parte di gettito relativa alle operazioni effettuate con origine in quello stato membro. In sostanza oggi abbiamo che ogni paese applica una propria disciplina IVA che non è ancora completamente armonizzata. Il gettito che ne deriva è un gettito che, in linea teorica, dovrebbe essere attribuito a quello stato membro nel momento in cui, applicando il principio del paese di origine, quello stato membro rappresenta lo stato produttore. Il meccanismo applicativo di questo tributo prevede che un soggetto passivo A acquisti materie prime e quant’altro, produca un bene e lo venda ad un soggetto passivo B (grossista), che a sua volta vende il bene a C (dettagliante), che vende a D (consumatore finale). In ciascuno di questi passaggi il soggetto passivo è obbligato ad applicare il tributo. il soggetto passivo deve applicare, prima di tutto, l’obbligo di rivalsa. Il soggetto A che ha acquistato beni per 100, ha poi prodotto un bene che ha veduto per 120, avrà naturalmente una fattura di acquisto per quei100 di materie prime necessarie a produrre il bene ed una fattura di vendita di 120 (corrispettivi del bene). Quindi nei primi 100 di acquisto ha subito la rivalsa a monte del soggetto passivo che gli ha venduto le materie prime, in realtà ha pagato a quel soggetto 100+IVA. Al soggetto passivo B ha venduto per 120+IVA e in questo passaggio il soggetto A dovrà detrarre l’IVA a monte sostenuta, pagata sulla fattura di acquisto per le materie prime, dall’IVA ottenuta in rivalsa da soggetto B per la vendita di quel bene e versare la differenza all’Erario. E’ un meccanismo che prevede la detrazione imposta da imposta. Il soggetto B venderà al soggetto C per 150, applicando l’IVA su 150. Anche questo soggetto detrarrà l’IVA sugli acquisti a monte dall’IVA in rivalsa ottenuta dal soggetto B e verserà la differenza all’Erario. E così via fino ad arrivare al consumatore finale. Il consumatore finale è colui che pagherà il prezzo del bene + IVA. Quindi l’IVA con l’intero prezzo del bene senza poter detrarre imposta da quell’imposta. Quindi è colui che alla fine di questa catena sostiene l’onere economico. Per questo si dice che l’IVA è una imposta NEUTRALE, non incide sui singoli passaggi se non in relazione a quel valore aggiunto che si forma in ogni singolo passaggio. Questa neutralità si interrompe solamente in un caso: nel caso dell’applicazione delle operazioni esenti. Le operazioni esenti sono operazioni che il legislatore prevede come esonerate dal tributo per delle proprie scelte oppure perché esistono altri tributi che sono alternativi al tributo IVA, la cui applicazione esclude automaticamente l’applicazione dell’IVA perché sono già colpiti da altre imposte indirette. Sono casi in cui si vuole evitare una doppia imposizione sullo stesso presupposto. Esempio. Prestazione medica specialistica è un’operazione esente dal tributo IVA, perché il legislatore ha ritenuto che quel tipo di operazione abbia dei caratteri socialmente utili o comunque rilevanti per cui non vi è motivo di aggravare il soggetto/contribuente che utilizza quel certo servizio o quella certa prestazione con un ulteriore carico fiscale. Bisogna tenere conto che le operazioni esenti dal tributo sono previste e disciplinate a livello della CEE. Questo ha comportato, e molto limitatamente tuttora comporta, dei problemi di armonizzazione e di adeguamento legislativo. Nel nostro ordinamento le operazioni esenti sono state per lungo tempo molto ampliate nel numero rispetto a quanto prevedeva la CEE. Oggi c’è una sostanziale armonizzazione da questo punto di vista. Quindi le operazioni esenti che oggi sono previste nel nostro ordinamento coincidono quasi perfettamente con le operazioni esenti che prevede la IV direttiva CEE. In questo caso si interrompe il principio di neutralità e quindi queste operazioni, per disposizione comunitaria, devono essere operazioni eccezionali. Questo principio si interrompe perché non applicando il tributo, dall’altra parte, contemporaneamente, il legislatore deve prevedere che non si possa applicare la detrazione dell’imposta. La scelta è non si applica l’imposta, perciò non si può detrarre l’imposta a monte limitazione del diritto di detrazione. Questo, naturalmente, distorce il principio di neutralità perché nel passaggio in cui si effettua l’operazione esente si interrompe il meccanismo applicativo del tributo. Il fatto che si interrompa la neutralità e si deroghi al principio di neutralità, ha una valenza dal punto di vista giuridico. Bisogna tenere conto che da un punto di vista economico, viceversa, questo non significa che il soggetto passivo in realtà si trovi ad avere il carico del tributo a monte, nel senso che il fatto che si compia un’operazione esente, non si applichi il tributo a valle e non si detragga il tributo a monte, non comporta automaticamente che quel soggetto passivo che ha compiuto l’operazione esente sia colui che dal punto di vista economico, si fa carico del tributo. Questo tipo di meccanismo non prevede che vi sia una sovrapposizione del ruolo comunque o del concetto di soggetto passivo con quello di contribuente fiscale, perché da un punto di vista economico quel soggetto passivo non sostiene quell’onere, verrà traslato comunque al passaggio successivo. Da un punto di vista giuridico questo non accade, perché comunque non si applica al passaggio successivo. Allora perché l’esenzione? Perché comunque non applicando quel tributo, naturalmente il costo sostenuto da parte di quel soggetto passivo che viene traslato sul consumatore finale, è inferiore rispetto a quello che si avrebbe con applicazione anche del tributo. Ad eccezione di questo caso per tutti gli altri casi il meccanismo applicativo di questo tributo permane in tutte le operazioni. La disciplina delle operazioni non imponibili che, in linea generale, sono le operazioni che riguardano le esportazioni o le operazioni assimilate alle esportazioni. Le operazioni imponibili prevedono che si possa detrarre da parte del soggetto passivo l’imposta a monte. Qui il principio di carattere generale è che tutte le operazioni relative alle importazioni sono imponibili, quindi automaticamente tutte le operazioni relative alle esportazioni sono operazioni non imponibili. In ogni caso sia per le importazioni che per le esportazioni l’IVA a monte è sempre indetraibile. Questo consente di mantenere la neutralità del tributo. Quando parliamo di operazioni relative alle esportazioni ed importazioni nell’ambito dell’IVA, parliamo sempre di operazioni relative scambi extracomunitari, operazioni interne alla CEE. Il soggetto passivo che compie le operazioni facente parte dell’applicazione dell’IVA è un soggetto passivo che inizia una propria attività ai fini dell’IVA. Questo comporta una serie di obblighi, dal punto di vista formale, necessaria all’applicazione del tributo. Il primo obbligo è quello di dichiarare l’inizio della propria attività. Dopo di che il soggetto passivo che ha iniziato la propria attività ha, automaticamente, obbligo di tenere determinate scritture contabili, registri IVA, di emettere fatture o documenti che vengono equiparati alla fattura (scontrini fiscali, ricevute fiscali), di registrare le fatture ed i documenti e di calcolare, mensilmente, l’IVA dovuta all’Erario sulla base della differenza IVA da IVA. Gli obblighi formali che devono essere applicati dal singolo soggetto passivo IVA, sono obblighi formali che divengono molto complessi. L’emissione della fattura, la registrazione della fattura, il calcolo della differenza IVA da IVA, la liquidazione del tributo mensile, con dichiarazione mensile del tributo da versare, si sommano mese per mese in una dichiarazione da parte del contribuente/soggetto passivo. Il contribuente ha l’obbligo di dichiarare ai fini dell’IVA, di effettuare una dichiarazione in cui, naturalmente, deve esporre tutte le operazioni di volume dei propri affari, di tutte le operazioni imponibili, non imponibili, esenti effettuate, l’IVA mensilmente versata, l’IVA totale del periodo d’imposta, calcolare l’eventuale differenza e versarla all’Erario. Ogni passaggio è accompagnato da degli obblighi di tipo formale a cui sono tenuti tutti i soggetti passivi qualunque tipo di operazione pongano in essere. Ci possono essere dei casi di soggetti passivi che pongono in essere operazioni che non danno origine a tributo, ma che hanno comunque tutta una serie di obblighi formali come se le loro operazioni riguardassero l’applicazione del tributo vero e proprio. Questo è lo schema di base del tributo IVA, nell’ambito di questo schema poi ci sono tutta una serie di deroghe, sia dal punto di vista dei presupposti che dal punto di vista degli obblighi formali, che sono da vedere di volta in volta. Nella disciplina dell’IVA ci sono gli artt.2 e 3 che specificano puntigliosamente quali sono i beni e le prestazioni di servizi che vanno ricompressi nell’ambito applicativo del tributo. L’art.2 riguarda la cessione di beni a titolo oneroso che trasferiscono proprietà o “costituzione e trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”. Questa è la prima definizione che il legislatore dà. Nell’ambito della legislazione dell’IVA, normalmente, troviamo una disciplina che dopo la prima definizione elenca una serie di inclusione nei casi dubbi e tutte le esclusioni. Questo è un criterio legislativo applicato nell’IVA anche a livello comunitario. Il legislatore allarga e specifica casisticamente casi che rientrano nell’ambito della cessione di beni, così come va intesa per questa imposta; inoltre specifica tutte le ipotesi di esclusione da questo ambito. In linea di massima le esclusioni che troviamo in questo ambito sono esclusioni che comportano automaticamente la considerazione nell’ambito delle operazioni escluse. Non c’è una elencazione delle operazioni escluse, ma di volta in volta il legislatore ci riferisce quali sono le ipotesi di esclusione dal presupposto. La caratteristica delle operazioni escluse sta nel fatto che sono operazioni che non possono appartenere al capo dell’applicazione del tributo perché in qualche modo non rientrano nel presupposto del tributo (o da un punto di vasta soggettivo o da un punto di vista oggettivo o da un punto di vista territoriale). Perciò il legislatore, nell’ambito della definizione del presupposto oggettivo del tributo, elenca le ipotesi in cui la cessione del bene o la prestazione di servizi (art.3) non rientra in questo ambito, è escluso. Non sono considerate cessioni di beni tutte le cessioni che hanno per oggetto denaro, prestiti di denaro, le cessioni di conferimenti in società o altri enti, compressi i consorzi, le assicurazioni o le altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di aziende. Questa è una norma che ha risolto la questione delle cessioni d’azienda. Oggi il legislatore ha inserito tra le operazioni escluse le cessioni ed i conferimenti che hanno per oggetto aziende o rami d’azienda. Questa specificazione è importante perché bisogna tenere conto che, dal punto di vista dell’armonizzazione della nostra disciplina in relazione alla disciplina della CEE, il problema relativo alla scelta di inserire un’operazione nell’ambito delle operazioni escluse o nell’ambito delle operazioni esenti (nella legislazione europea non si prevedono operazioni escluse), comporta una differenza di trattamento fondamentale dal punto di vista delle detrazione d’IVA. Tutte le volte che il legislatore comunitario prevede un’operazione come operazione esente e nel nostro ordinamento quella stessa operazione è prevista come operazione esclusa, in dottrina ed in parte della giurisprudenza si sostiene la possibilità di detrarre il tributo a monte relativo a quella operazione. Mentre l’operazione esente limita la possibilità di detrarre l’IVA, l’operazione esclusa non prevede questa stessa limitazione. Tutte le volte che ci sono contrasti tra normativa interna e normativa comunitaria in relazione ad esenzioni o esclusioni (ipotesi che non è presa nella normativa comunitaria), ciò comporta automaticamente quell’operazione. Buona parte la possibilità delle di dottrina detrarre e parte l’IVA della in relazione a giurisprudenza dell’ordinamento nazionale ha previsto e prevede questa possibilità: detrazione dell’IVA anche in riferimento ad operazione escluse. Il legislatore nel 1997 con la riforma Visco ha dovuto riordinare e adeguare il sistema delle operazioni escluse ed esenti in relazione al principio di detrazione. Questo perché la Corte di Giustizia ha condannato l’Italia ad applicare la stessa normativa prevista in relazione alle detrazioni applicata dalla CEE. Fino al 1998 abbiamo avuto u disciplina delle detrazioni dell’IVA per alcuni aspetti in forte contrasto con la disciplina comunitaria. Il nostro sistema prevedeva la possibilità di detrarre l’IVA a monte tutte le volte che si fosse in presenza di un’operazione ad IVA esclusa. Questo, naturalmente, ha comportato una distorsione nell’ambito della CEE, nel senso che i soggetti passivi italiani avevano una disciplina che era nettamente più favorevole dal punto di vista delle detrazioni rispetto a quelle che erano previste negli altri paesi europei. Il problema che permane è che la nostra legislazione continua a mantenere un’indicazione di operazioni escluse, che nell’ambito della disciplina comunitaria non esiste. Nell’ambito della disciplina comunitaria le operazioni che nel nostro ordinamento sono escluse sono operazioni esenti, altrimenti non vengono proprio prese in considerazione, se sono in carenza di presupposto. Questo, naturalmente, comporta una ripartizione tra operazioni che caratterizza solamente il nostro sistema e che lascia sempre aperta la possibilità, il dubbio in relazione alla detrazione dell’imposta. Il legislatore, nella riforma, ha tentato di disciplinare il principio di detrazione in conformità da quanto stabilito dalla CEE, ma non ha ripercorso le medesime condizioni, per cui nel nostro sistema (che oggi è maggiormente adeguato a quello della CEE) esistono della discrepanze in relazione a questi due punti fondamentali: operazioni escluse presenti nell’ordinamento, che non esistono nella disciplina europea; principio di detrazione applicato comunque in maniera differente rispetto a quanto previsto dall’Unione Europea. La riforma Visco ha consentito un enorme passo avanti, dal punto di vista dell’adeguamento e dell’armonizzazione, ma che comunque non ha risolto tutti i dubbi. Un altro elemento particolarmente difficile da armonizzare è la quantificazione delle aliquote, ma questo non è un problema che riguarda solo l’Italia, ma molti paesi della CEE. In linea generale l’IVA è imposta non completamente armonizzata. L’elencazione delle operazioni escluse che il nostro legislatore ha attuato e in cui ha inserito anche ipotesi che prima non erano inserite, oggi va intesa come un’elencazione di operazioni che comunque non danno origine alla detrazione del tributo a monte. Bisogna tenere conto che con le modifiche che sono state apportate dalla riforma Visco, questo elenco di esclusioni nell’ambito dell’art.2 (cessione di beni) è un elenco che va a ripercorrere fattispecie previste nell’ambito comunitario come fattispecie di eventi. Questo comporta automaticamente l’impossibilità di detrarre il tributo a monte. La scelta del legislatore è stata quella di elencare in questo ambito operazioni che dal punto di vista della normativa comunitaria sono operazioni per cui è limitato il principio di detrazione. Il legislatore ha voluto mantenere l’esclusione, ma contemporaneamente ha adeguato l’esclusione all’esenzione comunitaria. I principi di applicazione contenuti nella fonte comunitaria, nella direttiva comunitaria devono essere automaticamente recepiti dal nostro ordinamento ed il modo di recepire questi principi nel nostro ordinamento è complesso, ma ciò non significa che la valenza di quel principio stabilito nel diritto comunitario non permanga. Comunque vanno applicati i principi della CEE. Questo lascia solamente spazio a possibili contenziosi che poi giungono di fronte alla Corte di Giustizia. quest’ultima regolarmente sottolinea ed applica i principi fondamentali che sono contenuti nell’ambito della legislazione europea. Nell’ambito delle prestazioni di servizi il legislatore prevede le prestazioni verso corrispettivo che dipendono da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito ed in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere. Il riferimento alle obbligazioni di fare, non fare e di permettere è un allargamento dell’ipotesi di prestazioni di servizi. La categoria delle prestazioni di servizi è un categoria ai fini dell’IVA molto ampia. Anche in questo caso il legislatore elenca le esclusione e le esenzioni. In questo caso occorre ricordare che la maggior parte delle ipotesi delle esclusioni, che sono previste in questo campo, prevedono applicazione di un’imposta alternativa. All’art.4 il legislatore prevede l’esercizio d’impresa. L’esercizio d’impresa così come è oggi disciplinato si avvicina molto più a quanto previsto nell’ambito dell’imposizione reddituale. L’esercizio, qui, prevede le attività commerciali e le attività agricole, richiamando le norme del codice civile. In questa sede il legislatore ha richiamato l’art.2135 c.c. (attività agricole) e l’art.2195 c.c. (attività commerciali). Attualmente la norma prevede che, così come per l’imposizione sui redditi, queste attività se svolte, anche in forma non organizzata, rientrano nell’ambito dell’applicazione del tributo. Il legislatore riprende la norma dell’art.51 TUIR quando ci dice che le attività che non sono previste nell’art.2195 c.c., che sono dirette alle prestazioni si servizi e che sono organizzati in forma di impresa rientrano comunque nell’esercizio di impresa. Questo riferimento è dovuto alla riforma che è in corso, che ha teso riformare la disciplina dell’impresa commerciale sia dal punto di vista dell’imposta reddituale che dal punto di vista dell’IVA. Il legislatore inserisce nell’ambito dell’esercizio d’impresa comunque tutte le attività che sono svolte da società commerciali (s.n.c., S.A.S., s.p.a., s.a.p.a., ecc.). Tutte le operazioni comunque svolte da società commerciali sono operazioni che appartengono al campo IVA. Vige il principio di attrazione da un punto di vista del soggetto che compie l’operazione, ovvero qualunque tipo automaticamente, di divenire operazione compiuta quell’operazione, da quel tipo un’operazione di soggetto fa, propria dell’esercizio d’impresa. Nell’ambito della legislazione IVA vengono ricompressi tra i soggetti passivi anche gli enti pubblici e privati, che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Qui c’è un’importante distinzione da fare nei confronti della disciplina dell’imposizione reddituale. Innanzitutto nell’ambito dell’IVA rientrano le attività delle imprese agricole e quindi sono ricompresse società semplici o comunque enti non commerciali che svolgono attività ai fini IVA come soggetti passivi. Mentre nella disciplina per l’imposizione reddituale, per quanto riguarda i redditi d’impresa, vengono presi in considerazione solamente i soggetti enti commerciale o non commerciali che svolgono attività commerciale; nel campo della disciplina dell’IVA vengono presi in considerazione tutti gli enti pubblici o privati, commerciali o non commerciali che svolgono comunque le attività degli artt.2135 e 2195 c.c., agricola e commerciale. C’è una disciplina di esonero dal tributo e fortemente agevolativa per una serie di enti commerciali, che godono di agevolazioni sia da un punto di vista reddituale che da un punto di vista della legislazione IVA. Sono quegli enti inserite nell’ambito delle cosiddette ONLUS hanno un trattamento dal punto di vista dell’imposizione reddituale che è molto agevolativo. Da un punto di vista generale questi gli elementi del presupposto oggettivo e soggettivo. Poi c’è un presupposto territoriale. Bisogna tenere conto che nel presupposto soggettivo abbiamo una coincidenza con la discplina del reddito di lavoro autonomo. La sostanziale differenza tra esercizio di arte e professione inteso nel decreto IVA e quanto si intende nell’ambito del reddito di lavoro autonomo, era raprresentata fino a qualche mese fa tra le collaborazioni coordinate e continuative e non erano ricomprese nell’ambito della disciplina IVA. Passando le collaborazioni coordinate e continuative all’ambito del lavoro dipendente, possiamo dire che oggi coincidono quasi perfettamente le due definizioni che il legislatore dà in ambito di imposizione reddituale e nell’ambito dell’IVA. La disciplina dell’IVA già assimiliva le collaborazioni coordinate e continuative al lavoro dipendente, e quindi non prevedeva che le collaborazioni fossero attivitàda tenere in considerazione nel campo di applicazione dell’IVA, mentre così non era nell’ambito del reddito di lavoro autonomo. La disciplina dell’IVA ha tutta una serie di elementi peculiari che sono piuttosto complicati. Art.6 EFFETTUAZIONE DELLE OPERAZIONI. Il problema è stabilire quale è il momento in cui si deve prendere in considerazione l’operazione IVA, quale è il momento in cui l’operazione si considera effettuata. Anche la disciplina di questa norma è una disciplina recentemente modificata in modo abbastanza sostanziale. Nella legislazione dell’IVA, oggi, il momento di effettuazione dell’operazione e il momento di fatturazione dell’operazione tendenzialmente coincidono. Il fatto di prendere in considerazione il momento della fatturazione come momento di effettuazione dell’operazione significa nella sostanza l’obbligo di liquidare il tributo in quel certo momento perché è quello il momento in cui sorge il presupposto dell’imposta. Di conseguenza significa, naturalmente, dover considerare che il soggetto passivo che deve emettere la fattura (perché in quel momento sorge l’operazione), automaticamente ha l’obbligo di versare il tributo relativo a quell’operazione all’Erario anche se non lo ha riscosso. Dal punto di vista degli elementi essenziali e generali l’art.7 tratta della territorialità dell’imposta. Per quanto riguarda le questioni che attengono alla territorialità dovremmo studiare la disciplina del regime transitorio dell’IVA intracomunitaria e dovremmo preoccuparci di comprendere la distinzione tra territorio intracomunitario e territorio extracomunitario e territorio nazionale. Quello che è importante nell’ambito del principio generale è che l’IVA prende in considerazione il territorio europeo (della CEE). Inoltre dobbiamo tener presente che il concetto di importazione ed esportazione è molto diverso dal concetto di acquisto o cessione intracomunitario. La distinzione che va fatta non è tanto da territorio nazionale, ma da territorio europeo e territorio extraeuropeo. In linea di massima esiste, comunque, nell’ambito della legislazione dell’IVA un concetto di principio di territorialità che tiene conto dei confini dell’Unione Europea. Il nostro legislatore prende in considerazione, nell’ambito della territorialità dell’imposta, prima i confini nazionali e poi quelli europei. ATTENZIONE: quando si parla di confini nell’ambito dell’IVA, ora, si parla di confini dell’Unione Europea, non più dei confini dello stato italiano. Il fatto che non esistano più le barriere doganali nell’ambito della CEE, automaticamente, comporta dal punto di vista dell’applicazione dell’IVA di una disciplina ormai uniformata nell’ambito europeo, che naturalmente si differenza nella sostanza dalla disciplina che riguarda tutti scambi al di fuori dei confini dell’Europa (confini extraeuropei). Prof. CORRADO 8 MAGGIO 2001 Quando si parla di IVA, si parla di operazioni imponibili, che sono quelle che danno luogo al normale regime IVA, alla normale applicazione del tributo. Perché un’operazione integri il presupposto oggettivo dell’IVA deve essere una cessione di beni o una prestazione di servizi così come il legislatore nel decreto 633 la intende. Che cosa intende il legislatore che sia una cessione di beni? Si ha cessione di beni ai fini dell’IVA quando c’è un trasferimento a titolo oneroso. Questa è la regola generale, che è derogata però dallo stesso legislatore che prevede cessioni di beni anche quando in realtà il titolo oneroso non sussiste, cioè quando si tratta di beni gratuitamente devoluti (omaggi o cose del genere), pur che non si tratti di specifici omaggi di modico valore che l’imprenditore o l’impresa decide di elargire ai propri clienti, fornitori, ecc. Naturalmente deve essere un trasferimento a titolo oneroso della proprietà di un bene o di un diritto reale di godimento e comunque di beni di ogni genere. Un’ampia definizione generale per la cessione di beni, a cui poi il legislatore deroga. Un deroga al principio generale è rappresentata da cessioni di denaro che vengono escluse dal legislatore all’art.2, perché altrimenti queste cessioni potrebbero rientrare nell’ambito dell’IVA, e dai conferimenti di beni e conferimenti di azienda. Recentemente sono state uniformate ai conferimenti d’azienda anche le cessioni d’azienda, che vengono attualmente viste come delle operazioni di riorganizzazione dell’impresa e quindi assoggettate alle imposte del registro (così come i conferimenti) e non più ad IVA. Esiste un principio di alternatività tra l’IVA e l’imposta del registro, cioè nel nostro ordinamento quando un’operazione che potrebbe rientrare nell’ambito del registro è assoggettata all’IVA non conta per il registro e viceversa. Questo per evitare una doppia imposizione indiretta. Normalmente è attrattiva l’IVA, nel senso che le operazioni che le operazioni che potrebbero essere assoggettate ad entrambe le imposte vengono assoggettate all’IVA e ciò esclude l’applicazione dell’imposta del registro, a meno che non ci sia una deroga espressa dal legislatore. Secondo presupposto oggettivo è la prestazione di servizio. La prestazione di servizio è molto ampia nell’ambito dell’IVA. Sono ricompressi, sostanzialmente tutte la prestazioni che sono effettuate verso corrispettivo in dipendenza di tutta una serie di contratti che il legislatore prende in considerazione. Queste prestazioni in genere hanno per oggetto un obbligo di fare. Anche in questo caso ci sono una serie di deroghe e quindi anche quando una prestazioni di servizio è una prestazione gratuita, spesso il legislatore impone l’applicazione dell’IVA. Questo accade tutte le volte che ci sono prestazioni di servizi in cui vi è la destinazione all’autoconsumo. Dal punto di vista soggettivo abbiamo l’esercizio d’impresa e l’esercizio di lavoro autonomo. Qui valgono, ormai, le medesime regole, sono quasi perfettamente coincidenti con quanto stabilito dalle norme del TUIR. Attualmente l’esercizio d’impresa commerciale, considerato ai fini dell’IVA (fatta salva l’ipotesi riguardante le attività dell’art.2135 c.c., le attività agricole che sono ricompresse nell’ambito dell’IVA seppure con un regime speciale), coincide sostanzialmente coincide con quella di impresa commerciale prevista dall’art.51 TUIR. Anche qui si ha esercizio d’impresa se c’è svolgimento delle attività dettate dall’art.2195 c.c., anche senza realizzazione di impresa, se vi è prestazione di servizio con un’organizzazione d’impresa. E’ necessario che ci sia abitualità nello svolgimento dell’attività, l’esercizio d’impresa deve essere svolto in modo abituale, anche se non esclusivo, così come accade nell’imposta reddituale. Le prestazioni occasionali d’impresa come di lavoro autonomo sono escluse dall’ambito di applicazione dell’IVA. Il legislatore del reddito di lavoro autonomo si è adeguato, sostanzialmente alla normativa IVA escludendo dal lavoro le collaborazioni coordinate e continuative ed inserendole nel lavoro dipendente. L’IVA prevedeva già questo tipo di applicazione, per cui pur essendo molto ampio il campo del lavoro autonomo nel campo dell’IVA (perché naturalmente non ci si limita esclusivamente all’esercizio di arte e professione in senso stretto, ma sono quelle attività che vengono esercitate autonomamente senza vincolo di subordinazione e in modo continuativo), il legislatore dell’IVA non prevedeva e non prevede le collaborazioni coordinate e continuative, che sono assimilate al lavoro dipendente. L’art.7 prende in considerazione il momento di effettuazione dell’operazione. E’ importante sapere quale è il momento dell’effettuazione dell’operazione perché da quel momento scatta l’obbligo per il contribuente/soggetto passivo di emettere la fattura e di instaurare quel complesso meccanismo che poi dà origine al prelievo finale dell’imposta. Allora il legislatore prevede un momento preciso di effettuazione dell’operazione , che naturalmente tiene in considerazione il fatto che si può di cessioni di beni o di prestazioni di servizi. Fa una distinzione fondamentale. Per quanto riguarda le cessioni di beni, il legislatore riprende in buona parte la normativa dettata nell’ambito del reddito d’impresa sul momento della competenza, cioè anche qui, come già accade per le imposte reddituali, il legislatore sottolinea precisamente quale momento è da considerarsi momento impositivo, che riguarda il periodo d’imposta. L’IVA è un’imposta che viene liquidata periodicamente, questo fa si che il momento di effettuazione debba ricondurre l’operazione alla frazione di periodo d’imposta che riguarda l’IVA (es. se l’operazione è compiuta il 10/01, l’IVA relativa dovrà essere liquidata entro il 15 del mese successivo in relazione al mese di gennaio. Nell’IVA abbiamo tante frazioni periodiche nell’ambito del periodo d’imposta. Se abbiamo una cessione di beni immobili, si considera effettuata nel momento in cui vi è la stipula dell’atto che trasferisce il bene. Se abbiamo, invece, una cessione di beni mobili, il momento di effettuazione dell’operazione si considera quando il bene viene consegnato o spedito. Se vi è traslazione del diritto prima della consegna del bene, il momento di effettuazione è quello relativo alla traslazione del diritto. Se la traslazione del diritto è successiva a quella della consegna del bene, il momento di effettuazione è sempre quello della traslazione del diritto. Per i servizi il criterio si discosta dal criterio utilizzato nell’ambito delle imposte reddituali. Il principio di competenza per i servizi nelle imposte sui redditi prevede la ultimazione del servizio; nell’ambito dell’IVA si prevede che il momento dell’effettuazione sia il momento sia il pagamento del corrispettivo, che normalmente coincide con l’ultimazione del servizio, ma non necessariamente. Quindi da un punto di vista IVA ciò che rileva è il momento in cui il corrispettivo viene pagato. Naturalmente ci possono essere servizi che si dilungano nel tempo, ad es. i contratti di appalto. In questo caso ogni volta che vi è il pagamento di un corrispettivo, si ha il momento dell’effettuazione dell’operazione. Questo significa che ogni volta che vi è pagamento del corrispettivo, vi è anche la fatturazione di quella parte di lavoro che è stata già effettuata. Quindi per quella parte del contratto l’operazione si è perfezionata, il che fa sorgere il debito d’imposta e tutti i conseguenti obblighi successivi. Nella recente riforma Visco il legislatore ha modificato la norma sul momento di effettuazione in relazione ad un punto piuttosto importante, ovvero si è introdotto il concetto della esigibilità dell’imposta. Normalmente il momento di effettuazione coincide con il momento in cui l’imposta diventa esigibile, questa è la regola generale. Con la riforma si è inserita la distinzione a causa del fatto che esistono delle operazioni che si compiono nei confronti di soggetti/enti pubblici che normalmente hanno dei ritardi di pagamento estremamente diluiti nel tempo. Per cui accadeva che un soggetto passivo si trovasse ad emettere una fattura nei confronti di un ente pubblico (il fatto stesso di emettere la fattura comporta che l’operazione si consideri effettuata, altra regola generale), in quel momento sorgeva l’indeducibilità dell’imposta, ma lente pubblico magari pagava dopo un, due, tre anni. Quindi il soggetto passivo si trovava esposto di quell’ammontare IVA relativo a quell’operazione, che doveva naturalmente versare all’Erario in conseguenza dell’emissione della fattura e di cui rientrava solo dopo molto tempo. Il legislatore, di conseguenza, a scisso il concetto di effettuazione dal momento di esigibilità fiscale. Per cui in questi casi l’operazione si considera effettuata esattamente come in tutti gli altri casi, in presenza di questi soggetti; ma l’esigibilità dell’imposta è correlata al momento del pagamento dei corrispettivi. Quindi il soggetto passivo emette la fattura, ma non è obbligato a versare l’imposta, che non diviene esigibile fino a che l’ente non ha a sua volta versato l’IVA a debito al proprio fornitore. Questo da un lato creo un po’ di confusione perché sono situazione in cui di volta in volta bisogna emettere la fattura, ma poi stornare in un certo senso quella fattura dal computo dell’IVA da liquidare e rinviarla ad un periodo successivo quando ci sarà il pagamento. Dall’altro lato ha risolto una situazione che era estremamente pesante per tutti quei soggetti che si trovavano a lavorare esclusivamente con soggetti di questo tipo e quindi erano costantemente in una situazione di esposizione, dal punto di vista dell’attività, penalizzante. Il momento della fatturazione nella normalità dei casi diviene momento di effettuazione dell’operazione, salvo in questi casi particolari. Indipendentemente dal fatto che il legislatore preveda tutti questi momenti di effettuazione ben precisi e stabiliti, se un soggetto passivo emette la fattura anticipatamente, con l’emissione di quella fattura abbiamo il momento di effettuazione di quell’operazione fatturata, il che comporta l’esigibilità dell’imposta. Quindi temporalmente questo è il momento in cui si perfeziona l’imposta. PRESUPPOSTO TERRITORIALE Il presupposto territoriale dell’IVA viene preso in considerazione immediatamente quando il legislatore ci dice che si considerano operazioni imponibili quelle effettuate nel territorio dello Stato. All’art.7 il legislatore ci dice cosa dobbiamo considerare effettuata nel territorio dello Stato, cioè quale è il territorio dello Stato da prendere in considerazione. Tutto ciò che non rientra nell’ambito del territorio dello Stato automaticamente è una operazione esclusa dall’imposta perché non perfeziona il presupposto territoriale. Il principio generale è quello della tassazione del paese di destinazione nell’ambito interno, cioè il paese dove avviene il consumo finale, non dove il bene viene prodotto. Questo ci serve anche a spiegare il fatto che nell’ambito delle operazioni imponibili vengono ricompresse tutte le importazioni, mentre sono considerate non imponibili tutte le esportazioni. Quando parliamo di importazioni ed esportazioni facciamo riferimento al territorio doganale, cioè all’intero territorio comunitario fondamentalmente. Il territorio extracomunitario può prevedere le importazioni e le esportazione. Le dogane nell’ambito dell’Unione Europea non esistono più. Il principio generale è quello della destinazione, che si collega a la questione di importazioni ed esportazioni in operazioni imponibili o non imponibili. Nell’ambito interno dell’Unione Europea vige un regime differente. Le cessioni di beni si considerano effettuate nel territorio dello stato quando il bene si trova nell’ambito territoriale dello stato. Si trova all’interno di quell’ambito come bene nazionale o nazionalizzato o di temporanea importazione. Bisogna considerare il fatto che tutte le volte che un’operazione (cessione di beni o prestazione di servizi) è effettuata nel territorio dello Stato da un non residente, il suo assoggettamento all’IVA dipendente dal fatto che ci sia nell’ambito del territorio dello Stato un soggetto passivo, quindi o una stabile organizzazione o un rappresentante fiscale. Quando si è in presenza di tale organizzazione e di cessioni di beni nell’ambito del territorio dello Stato ci sarà una particolare procedura attraverso la quale viene assoggettato ad imposizione quell’operazione come se fosse un’operazione normalmente applicata nell’ambito del territorio dello stato. Questo se c’è un soggetto passivo dell’IVA come acquirente. Se, invece il soggetto acquirente è un consumatore finale, quindi non è un soggetto passivo ai fini dell’IVA o non c’è un’organizzazione stabile o un rappresentante fiscale del cedente, allora quest’operazione fuoriesce dal campo di applicazione del tributo, non viene presa in considerazione come operazione imponibile ai fini dell’IVA. Quindi per la cessione di beni si fa riferimento a dove si trova il bene, naturalmente vengono perfezionati tutti gli altri elementi: dobbiamo guardare anche al soggetto, al titolo di cessione, ecc. La prestazione di servizi ha una diversa connotazione. La norma sulla territorialità della prestazione di servizi è una norma che ripercorre puntualmente la disciplina dettata dalla direttiva comunitaria. Quindi è molto precisa e molto puntuale. Il problema per la prestazione di servizio è un problema più sentito, nel senso che se può essere semplice riuscire a stabilire dove un bene è collocato, un servizio è più difficilmente collocabile. Allora la CEE fa riferimento, a seconda dei tipi di servizio, a tre diversi criteri, che sono ripresi a pari passo dal nostro ordinamento: 1. Residenza del prestatore di sevizio Criterio generale in cui si prevede che il luogo del consumo finale coincida sostanzialmente con la sede del prestatore di servizio. Tutte le volte che si è in presenza di servizi in cui con ogni probabilità vi è questa coincidenza, allora prevale questo criterio; 2. Residenza del cliente Tutte le volte che vi sono prestazioni in cui si ritiene che il consumo finale avvenga lì dove vi è la residenza del cliente il legislatore prevede l’appli di questo criterio. 3. Ubicazione del bene oggetto della prestazione Queste prestazioni solitamente sono legate ad un bene, es. intermediazioni mobiliari (bene immobile ceduto attraverso intermediazione naturalmente segue il criterio di territorialità del bene). Fondamentalmente si guarda al consumo finale del bene. Considerati questi profili il legislatore distingue all’art.8 ss. le operazioni non imponibili, cioè le cessioni alle esportazioni. Esportazioni che riguardano paese extracomunitari. Queste operazioni, tutte le cessioni fatte al di fuori del territorio comunitario sono operazioni non imponibili, il che presuppone che un soggetto passivo che compie operazioni di questo tipo, si trovi nella posizione normalmente di svolgere delle operazioni a cui non viene applicato il tributo, ma che gli consentono la detrazione dell’IVA sostenuta sugli acquisti. Questo significa fatturare l’operazione esattamente come se fosse un’operazione imponibile, naturalmente specificando che l’operazione è una operazione non imponibile e non applicando IVA. Poi registrare quella fattura e trovarsi a fronte una serie di acquisti con addebito dell’IVA. Quindi il normale risultato di questa situazione è una posizione di perenne credito d’imposta verso l’Erario, ovvero situazione in cui non si applica IVA a debito, ma si paga sempre l’IVA sugli acquisti e si matura credito per l’indetraibilità dell’IVA sugli acquisti. Allora il legislatore prevede che nell’ipotesi di importatori ed esportatori abituali, i contribuente possa acquistare senza applicazione dell’IVA fino al tetto delle operazioni non imponibili effettuate nel periodo d’imposta precedente. Colui che importa ed esporta abitualmente ha la possibilità di godere di una agevolazione, dal punto di vista contabile, per cui acquista senza applicazione dell’IVA fino al tetto che corrisponde a quanto ha maturato nel periodo d’imposta precedente come non imponibile. Questo si fa in modo da evitare che si creino situazioni estremamente penalizzanti per il soggetto passivo, cioè ci si trovi di fronte ad credito d’imposta elevato, che comporta tempi molto lunghi dal punto di vista del rimborso da parte dell’Erario. Perciò c’è questo meccanismo di semplificazione. In questo caso il legislatore in modo forfetario stabilisce un limite che è quello che dovrebbe condurre al pareggio dell’IVA a credito del contribuente rispetto alle operazioni non imponibili effettuate. Può accadere che un contribuente faccia operazioni in misura superiore, a quel punto dovrà essere applicata l’IVA e dovrà versare l’IVA al proprio fornitore, avendo così un IVA indetraibili a credito. Negli altri casi in cui non si hanno questi tipi di situazione di importazione ed esportazione abituale, naturalmente, invece, si verifica un credito che deve essere rimborsato dall’Erario e che il soggetto passivo richiederà a rimborso. Ci possono essere anche ipotesi in cui un contribuente pone in essere più operazioni non imponibile che operazioni imponibili, a quel punto detrarrà la propria IVA direttamente dall’IVA sulle operazioni imponibili applicate. Rapporti intracomunitari In questo caso la disciplina è differente. C’è un regime transitorio vigente che è entrato in vigore dopo una direttiva della CEE del 1991 e che è lungi dall’essere modificato. Rimarrà in vigore, probabilmente, almeno fino al 2003. In questo regime transitorio si prevede una disciplina attraverso la quale c’è una netta distinzione fra l’ipotesi in cui il cliente è un soggetto passivo dell’IVA e l’ipotesi in cui il cliente è un consumatore finale. Questo regime vige in tutti i paesi dell’Unione Europea, è un regime applicato uniformemente. Nell’ambito di questo regime se si tratta di cliente consumatore finale l’operazione viene effettuata con l’applicazione dell’aliquota del paese di cui si è fornitori. Quindi l’imposta si applica sulla base delle norme che sono vigenti nello Stato del fornitore, ovvero del produttore. Naturalmente succede come se quest’operazione fosse svolta sul territorio di quello Stato, il fornitore fattura, applica la propria aliquota e versa l’IVA. Nell’ipotesi in cui, invece, il cliente sia soggetto passivo dell’IVA la questione è più complessa. Il legislatore prevede l’applicazione del principio, non più di origine ma di destinazione. Quando l’acquirente è un soggetto IVA, il venditore, che è di un altro stato dell’Unione Europea, non applica l’aliquota IVA del proprio paese, non applica affatto l’imposta. Questo viene fatto in conseguenza ad un segnalazione del cliente che avvisa di essere un soggetto passivo dell’IVA. A quel punto il venditore non applica il tributo e l’acquirente, invece, emette un’autofatturazione ed applica l’aliquota del proprio paese, quindi principio di destinazione. L’operazione diventa non imponibile per il fornitore, che non applica il tributo, ed imponibile come acquisto intracomunitario per il cliente che autofattura ed applica il tributo. Dopo di che per mantenere la neutralità del tributo quel cliente, che ha emesso l’autofattura, deve registrare l’autofattura sia come acquisto che come fattura emessa (la fattura viene registrata sia dal punto di vista del credito che del debito), in modo che ci sia una equiparazione di questo acquisto con tutti gli altri acquisti normali che un soggetto passivo effettua. Nell’ambito dell’Unione Europea l’intento chiaramente è quello di andare al principio di origine, perché così è stabilito nei trattati. Se questo è abbastanza agevole in presenza di consumatore finale, nel caso, invece, di più soggetti IVA molto più complesso riuscire a disciplinare queste operazioni, in considerazione del fatto che solamente i paesi produttori godrebbero del gettito. E poi tuttora le aliquote non sono armonizzate, quindi vi può essere una distorsione del mercato dovuto al fatto che ciascun acquirente si rivolge a fornitori di stati ad aliquote più agevolate. Questo comporterebbe tutta una serie di distorsioni. Dal punto di vista del consumatore questo può accadere analogamente, perciò il legislatore ha preso dei provvedimenti correttivi. Il legislatore ha assunto un correttivo in relazione al consumo finale, per beni di particolare valore o su cui vi sono applicazioni di aliquote molto distante fra di loro. Quindi per questi beni il legislatore ha stabilito che si deve applicare l’aliquota del paese di destinazione, cioè l’aliquota del paese di consumo. Per il consumo finale i correttivi sono abbastanza agevoli. Molto in certa è la questione in relazione ai soggetti passivi dell’IVA, notoriamente i volumi sono molto più consistenti o comunque in qualche modo possono distorcere il mercato in maniera molto più consistente. Inoltre c’è da capire come regolare tecnicamente la parte del gettito va destinata ad ogni singolo paese, finché non ci sarà un correttivo interno all’Unione Europea non si riuscirà a disciplinare uniformemente l’applicazione del tributo con l’applicazione del principio di origine (del paese produttore). L’obiettivo finale è quello di giungere ad una situazione in cui l’Unione Europea sia come un unico paese. Quindi aliquote con una disciplina di aggiustamento del gettito ai paesi che producono beni piuttosto ai paesi esclusivamente consumatori. Questo regime è stato posto in essere per evitare che dovessero rimanere le dogane tra paese e paese. Quando un paese importa un bene, essendo un’operazione imponibile ai fini dell’IVA, l’IVA va pagata in dogana. Ma se non c’è più la dogana dove si paga quest’IVA? Non ci può in questo modo il pagamento del tributo. Allora la costruzione è stata fatta in modo da evitare che ci fossero dogane per poter poi abbattere i confini doganali all’interno della CEE e poter creare quest’ambito di mercato unico. Quindi operazioni non imponibili che sono rappresentate da tutte le operazioni di esportazioni e le operazioni assimilate alle esportazioni in paesi extraeuropei. E poi un regime transitorio di disciplina dei rapporti intracomunitari, con applicazione differenziata del principio di origine o di destinazione a seconda del cliente (consumatore finale o soggetto passivo dell’IVA). Con conseguenza che gli acquisti intracomunitari divengono operazioni imponibili, esattamente come le importazioni. L’art.10 prende in considerazione le operazioni esenti. Le operazioni esenti sono operazioni che vengono esonerate dal tributo dal legislatore, pur ripercorrendo (nella maggior parte dei casi) i presupposti soggettivi, oggettivi e così via, che fanno scattare l’operazione imponibile ai fini dell’IVA. Quindi si tratta di operazioni che avrebbero tutte le caratteristiche per essere operazioni imponibili, ma che vengono esonerate dal tributo per scelta legislativa. E’ un insieme di operazioni in genere molto vari, tra cui rientrano operazioni di carattere sociale (spese mediche, canoni di locazione, prestazioni didattiche), una serie di operazioni che hanno una finalità sociale che il legislatore ritiene prevalente, rispetto all’applicazione del tributo. Ci sono anche operazioni di carattere finanziario che normalmente richiedono l’applicazione di altri tributi e che comunque per scelta legislativa il legislatore esonera all’applicazione dell’IVA. Poi ci sono altre operazioni di carattere assicurativo. Nell’art.10 abbiamo un elenco piuttosto ampio delle operazioni esenti dal tributo. Queste sono operazioni, prese in considerazione dal campo applicativo dell’IVA, comportano la mancanza di applicazione del tributo a valle, però contemporaneamente la limitazione della detrazione dell’IVA sugli acquisti a monte. Chi pone in essere un’operazione attiva esente, non applica il tributo, ma non può nemmeno detrarre il tributo pagato sugli acquisti effettuati per porre in essere quell’operazione. L’operazione esente comporta l’indetraibilità dell’IVA a monte. Questo tipo di operazione in qualche modo interrompe il principio di neutralità del tributo, cioè dove non c’è quella detrazione IVA da IVA collegata al passaggio successivo. Il problema dell’indetraibilità è un problema che in buona parte è stato risolto in relazione all’armonizzazione con le direttive comunitarie con la riforma Visco. Il legislatore ha deciso con la riforma Visco (a causa di una sentenza della Corte di Giustizia che condannava l’Italia ad adeguare la propria legislazione alle direttive comunitarie) di consentire la detraibilità dell’IVA in relazione a tutte quelle operazioni attive che prevedessero l’applicazione del tributo. In sostanza il legislatore italiano ha ripreso il principio dell’inerenza (nell’ambito del reddito d’impresa prevede la deducibilità del costo in relazione al ricavo che consegue, cioè all’imponibile del ricavo per cui il costo è stato sostenuto). Il legislatore nazionale ha ripreso il concetto di fondo di inerenza per l’imposta reddituale ed ha connesso e collegato la detraibilità dell’IVA a monte all’imponibile dall’IVA a valle. Esempio. Se si effettua un acquisto sostenendo IVA, quale pagamento d’imposta, per svolgere correlativamente un’operazione attiva imponibile o non imponibile, l’IVA a monte è detraibile. Altrimenti quell’IVA a monte è indetraibile. C’è una regola che in linea generale riconduce alla detraibilità, alla specificità dell’acquisto in relazione all’operazione attiva effettuata. E’ ovvio che non è così facile stabilire di volta in volta questa inerenza o afferenza dell’acquisto alla singola operazione attiva, nel senso che un soggetto passivo può compiere operazioni attive imponibili, non imponibili, esenti, però può effettuare degli acquisti che possono essere acquisti effettuati per svolgere tutti i tre metodi di operazione (non c’è necessariamente questo filo diretto tra operazioni a monte ed operazioni a valle effettuata). Ci sono una serie di aggiustamenti. Posto che c’è questo principio generale il legislatore prevede che riapplichi il cosiddetto pro rata. Quindi che si vada a determinare sulla base di un rapporto, che confronta l’ammontare delle operazioni che consentono la detrazione dell’IVA con l’ammontare delle operazioni che consentono la detrazione dell’IVA più quelle che non lo consentono. In questo modo si va a determinare una percentuale di detraibilità dell’IVA a monte. Sostanzialmente si guarda l’incidenza delle operazioni esenti ed escluse rispetto al volume d’affari delle operazioni attive effettuate. Sulla base di questo rapporto si determina una percentuale di detraibilità. Questa percentuale va applicata all’IVA a monte sostenuta sugli acquisti per determinare quale parte di essa è da detrarre e quale, invece, si ritiene indetraibile. Nell’ambito della direttiva comunitaria questa visione del legislatore italiano è assolutamente differente. I principi sono i medesimi, cioè sostanzialmente la CEE stabilisce nelle sue direttive il principio di inerenza ed afferenza. La legislazione attualmente in vigore è adeguata ai principi generali della direttiva comunitaria. Per cui l’eventuale nuovo giudizio della Corte di Giustizia probabilmente sarebbe favorevole alla regola applicata dello Stato italiano; ma ha creato una situazione estremamente complessa nella distinzione di tutta questa serie di principi diversi: inerenza, afferenza, ma anche forfetizzazione in relazione all’ammontare delle operazioni effettuate. E nello stesso tempo applicazione di un altro principio: principio di detrazione immediata, così come esiste nella legislazione dell’Unione Europea, ora esiste anche nella nostra legislazione il principio in base al quale quando si effettua un acquisto, l’IVA relativa a quell’acquisto è immediatamente detraibile. Questo comporta un’altra serie di problemi legati al fatto che ci possono essere acquisti che vengono effettuati nell’immediato con l’obiettivo di compiere operazioni a fini imponibili, ma che in realtà vengono utilizzati per compiere operazioni esenti o escluse. Quindi nell’immediato il soggetto passivo detrae l’IVA perché la legge prevede che vi sia applicazione immediata del principio di detrazione. Poi in un momento successivo può accadere che il soggetto passivo si renda conto di aver utilizzato quel bene per operazioni attive che non consentivano la detraibilità dell’IVA, allora dovrà andare ad effettuare delle variazioni di volta in volta al fine di restituire all’Erario quell’IVA detratta che non doveva essere detratta. Secondo la nostra legislazione occorre verificare immediatamente a quale scopo viene effettuato l’acquisto. Se l’acquisto risulta, immediatamente, effettuato per lo svolgimento di operazioni che danno la possibilità di detrarre quell’imposta, allora il soggetto passivo, legittimamente, può detrarre l’IVA. Se, invece, effettua un’operazione diversa da quella che si era considerata, il contribuente/soggetto passivo può rettificare la detrazione effettuata nei periodi d’imposta precedenti. Il principio di immediatezza della detrazione è un principio che si applica a tutti gli acquisti, anche per gli acquisti di beni strumentali, a fecondità ripetuta, che hanno durata pluriennale, quindi tutti quegli strumenti che hanno valori particolarmente elevati. Questo comporta che, al momento dall’acquisto del bene strumentale, il soggetto passivo detragga immediatamente l’imposta, che è l’imposta che ha normalmente un ammontare particolarmente elevato. Dopo di che nei periodi d’imposta successivi, quando si è in presenza di beni strumentali ad elevati costi, il legislatore prevede che si debba andare a riverificare il cosiddetto pro rata (rapporto tra operazioni che danno origine a detraibilità e operazioni che non danno origini alla detraibilità), per evitare che il soggetto passivo usufruisca di una detrazione IVA particolarmente favorevole in relazione al periodo d’imposta in cui la detraibilità è, percentualmente, molto elevata. Questa è una norma antielusiva, nata al fine di evitare che ci sia un risparmio d’imposta eludendo naturalmente la norma precedentemente vigente, dovuta alla scelta del soggetto passivo di collocare l’acquisto di un bene strumentale (che ha un’elevata componente d’imposta) e di indirizzare questo acquisto in un periodo particolarmente favorevole. In pratica il contribuente ha un periodo d’imposta in cui sa di avere compiuto, proporzionalmente, un ammontare di operazioni che danno la possibilità di detrarre IVA (imponibile o non imponibile) in modo superiore rispetto a quello che è la normale attività negli altri periodi d’imposta. Potrebbe accadere che il soggetto passivo fatto il calcolo di godere in un certo di una percentuale di detraibilità molto ampia rispetto alla sua ordinarietà, acquisti un bene strumentale e detragga una percentuale elevata di IVA rispetto a quella immediatamente, che doveva naturalmente, essere quel normalità. Poiché contribuente detrae la detrazione immediatamente avviene quella percentuale. Nei periodi d’imposta successivi potrebbe emergere una percentuale di detraibilità molto più ridotta. Allora se questo accade, il legislatore prevede che, se vi è uno scostamento di oltre il 10% della percentuale di detraibilità, nei periodi successivi si debbano rettificare le detrazioni effettuate nel periodo d’imposta in cui è stato effettuato l’acquisto. Questo in modo da evitare che un soggetto passivo possa speculare su un pro rata vantaggioso in un certo periodo d’imposta rispetto alla normalità. La riforma Visco ha previsto anche che ci fosse l’indetraibilità dell’IVA in relazione ad operazioni attive escluse. Su questa questione in Italia ancora la dottrina non è assolutamente concorde. Tutte le volte che si è in presenza di operazioni attive, che nel nostro ordinamento sono considerate escluse, ma che in ambito comunitario sono considerate esenti, si prevede anche dalla dottrina italiana che vi sia in detraibilità del tributo. tutte le volte, invece, che si è in presenza di operazioni che non vengono trattate dalla CEE come operazioni esenti, allora secondo gran parte della dottrina italiana l’IVA (relativa agli acquisti) a monte sarebbe detraibile. La tendenza della Corte di Giustizia è sempre stata quella che se non c’è applicazione del tributo a valle (di operazioni imponibili o non imponibili) l’IVA a monte è indetraibile. Il italiano è legato al fatto che la disciplina si discosta da quella dettata dalla CEE perché in ambito europeo le operazioni fuori dal campo di applicazione del tributo non vengono neppure prese in considerazione. OBBLIGHI FORMALI DI APPLICAZIONE DEL TRIBUTO Nell’IVA riveste molta importanza l’emissione della fattura perché il legislatore fa coincidere con questo momento il momento di effettuazione. Ci sono tutta una serie di obblighi che tutti i soggetti passivi hanno nei confronti dell’A.F. che sono obblighi di tipo formale. Sono obblighi che devono essere posti in essere dal soggetto passivo perché attraverso questo meccanismo di obblighi formali si esplica effettivamente il meccanismo impositivi. L’IVA prevede che vi sia una dichiarazione di inizio attività, da parte del soggetto passivo, che deve essere effettuata entro un breve periodo di tempo da momento in cui si inizia un’attività che rientra nell’ambito applicativo del tributo. In questa dichiarazione di inizio attività ogni soggetto passivo deve indicare quale attività va svolgere, tutte le proprie generalità, quale è il regime contabile che adotterà (regime in contabilità ordinaria o regime in contabilità semplificata) e segnalare quindi all’A.F. che da quel momento parte l’attività d’impresa o di arte professione. Contestualmente l’A.F. attribuisce ad ogni soggetto un numero di partita IVA, che serve a identificare quel soggetto in relazione a quel tributo. da quel momento quel contribuente è un soggetto passivo dell’IVA. Quindi ha obbligo da quel momento emettere fattura per ogni operazione effettuata e all’interno di questa fattura dovrà indicare tutte le volte l’operazione svolta, oltre al proprio numero di partita IVA, le proprie generalità, la sede del proprio esercizio d’impresa, l’ammontare del bene ceduto, il prezzo del bene ceduto, l’imponibile a cui viene poi applicata l’aliquota IVA e se si tratta di esenzioni o di non imponibilità alla norma in base alla quale vi è esenzione o non imponibilità. Quindi emettere la fattura nel momento in cui si effettua l’operazione, registrare nel registro delle fatture emesse e nel registro degli acquisti (se si tratta di fatture ricevute) le fatture entro i termini previsti. Inoltre mensilmente raffrontare l’ammontare dell’IVA a debito con quello dell’IVA a credito e liquidare la differenza all’Erario, con la possibilità deroga del termine mensile optando per una liquidazione trimestrale (sempre che non siano in contabilità ordinaria). Se vi è IVA a credito eccedente viene confutata come credito dell’IVA dei mesi successivi. Alla fine del periodo d’imposta vi è l’obbligo di fare la dichiarazione da parte del contribuente. ogni anno il contribuente presenta una dichiarazione in cui si riepiloga il volume di affari di quel soggetto passivo. Quindi si ha la sommatoria delle operazioni imponibili, non imponibili ed esenti effettuate nel periodo d’imposta. Si riepilogano tutti i versamenti mensili effettuati, si confronta l’ammontare dei versamenti effettuati con l’IVA totale risultato globale dell’ammontare globale delle operazioni attive e passive effettuate nel periodo d’imposta. In quella sede si determinano gli eventuali pro rata, cioè le percentuali di detraibilità riferiti a quel periodo d’imposta che verranno poi mantenute nel successivo periodo d’imposta come riferimento. In questa sede si effettuano le eventuali rettifiche per quanto attiene il cosiddetto pro rata temporis. (Pro rata temporis è quella percentuale di detraibilità che riguarda l’IVA detraibile dei beni strumentali, che può essere variata). Quindi si va a determinare come risultato se c’è IVA a debito o IVA a credito. L’IVA a debito va liquidata. Mentre l’IVA a credito può essere rinviata al periodo d’imposta successivo, quindi scontata rispetto all’eventuale IVA a debito del periodo successivo oppure può essere richiesto il rimborso. Questi sono gli obblighi formali che il legislatore prevede, in linea generale, per l’applicazione del tributo. anche in questo caso il legislatore prevede delle possibili deroghe. Le deroghe fondamentali riguardano le vendite al dettaglio, cioè i commercianti al minuto. Esiste, in alternativa all’emissione della fattura, la possibilità per coloro che svolgono attività in cui hanno una grande nascita di cessioni di beni per importi che possono essere anche irrisori, per questi soggetti c’è la possibilità di usare lo scontrino fiscale. In questo caso la legislazione prevede che vi sia una sorta di registro dei corrispettivi in cui devono essere registrati i corrispettivi di ogni giornata per massa. Il soggetto passivo a fronte di richiesta da parte del cliente sia obbligato a emettere la fattura. Ci sono anche altre ipotesi di semplificazioni che attengono alle ricevute fiscali, documenti alternativi, similari alle ipotesi di scontrino fiscale. La regola generale vuole la fattura, però ci sono delle ipotesi di semplificazione. Nell’ambito comunitario lo scontrino fiscale non esiste, l’orientamento è verso l’eliminazione dello scontino fiscale. Questa eliminazione è naturalmente collegata e correlata all’impedimento nell’ordinamento ad effettuare degli accertamenti. Infatti il legislatore ha previsto dei metodi di accertamento di tipo automatico e forfetario. Questo strumento di controllo che si fa con lo scontrino è naturalmente un elemento che il legislatore ha inserito nell’ordinamento al fine di ottenere la possibilità per l’A.F. di effettuare dei controlli rispetto a soggetti che sono difficilmente controllabili, perché l’operazione svolta con ilo consumatore finale è difficile da controllare. In questo modo l’A.F. può controllare la regolarità delle registrazioni e delle emissioni di documenti dei commercianti al minuto. Con riferimento a questi metodi di accertamento da più parti si solleva la necessità di eliminare tutta questa serie di pratiche anche onerose. Il meccanismo di questo tributo è un meccanismo complesso, che riesce ad essere applicato grazie a tutta questa serie di elementi formali. Elementi formali ed obbligatori che attengono esclusivamente il soggetto passivo e mai il consumatore finale.