ricerca sull`america del nord dagli anni 60 ad oggi

ARGOMENTI TRATTATI
LA CULTURA:
Un’importante componente della cultura americana è l'American Dream e il mito del selfmade man: l’idea che chiunque, indipendentemente dalla condizione alla nascita, possa
fare ciò che vuole della propria vita, con la forza della disciplina, della determinazione, del
duro lavoro. L’American dream unisce gli americani, al di là delle divisioni etniche e di
classe e dà un obiettivo e un senso comune al loro stile di vita. Gli americani sono convinti
che il successo o il fallimento dipendano più che altro dall’impegno individuale. Da qui il
mito del self-made man, dell’uomo che si fa da sé. Tutti devono poter raggiungere
qualunque posizione, anche la più elevata, e non è accettabile alcuna limitazione né
politica, né economica.
Cosa sia diventato il Sogno Americano, è una questione continuamente discussa, e alcuni
ritengono che esso abbia portato ad enfatizzare il benessere materiale come misura del
successo e della felicità.
Il problema è: un terzo degli americani, in base a un recente sondaggio nazionale, non
crede più nel Sogno Americano. Alcuni hanno perso fiducia perché hanno lavorato
duramente tutta la vita, solo per trovarsi infine disperati e senza più tempo davanti. Altri
mettono in discussione il sogno stesso, sostenendo che sottolinearne il principio è
diventato sempre meno rilevante in un mondo sempre più interdipendente e
interconnesso. Per la prima volta, il Sogno Americano non serve più per unificare il popolo
americano.
Lo stesso Braudel pone un quesito: sta sparendo l’America del self-made man?
Un esempio recente della realizzazione del Sogno Americano è il caso di Tamir Sapir.
Immigrato dall'ex repubblica sovietica, Sapir arrivò in America nel 1973 e iniziò a lavorare
come tassista a New York. Nel 2002, meno di trent'anni dopo essere arrivato in America
senza un soldo in tasca, Sapir è diventato un milionario.
Braudel afferma che: gli elementi essenziali del cosiddetto American way of life, termine
che fa riferimento all’ethos nazionalista proprio degli Stati Uniti d’America, sono: libertà e
ricerca della felicità, rispetto dell’individuo, fede religiosa semplificata all’estremo e rivolta
verso le opere, primato assoluto della lingua inglese.
Oggi sotto la definizione di American way of life si fa rientrare qualsiasi aspetto della
cultura, degli usi e dei costumi del popolo statunitense, nonché le caratteristiche
dell'organizzazione sociale e statale (sanità, educazione, ecc.). American way of life
significa quindi anche: detenzione di armi in mani private, pena capitale, fast food e
obesità. Il modo di vivere “alla grande” degli americani è uno degli aspetti che più attrae
molti europei: auto e frigoriferi giganti, tecnologia all’avanguardia, strade ampie, luci
sempre accese e benzina a costi incredibilmente bassi per un europeo. Però un tale
tenore di vita non può essere più tollerato perché comporta un enorme pompaggio di gas
inquinanti nell’atmosfera che minaccia il benessere di tutto il mondo. Purtroppo il
presidente Bush sembra non voler riconoscere l’enorme responsabilità del suo Paese in
materia di politiche ambientali e di eccessivo consumo delle risorse quando afferma che
«Lo stile di vita americano non è oggetto di negoziati». Ma tutti sappiamo che sarebbe un
grave errore confondere l’America con George W. Bush.
Braudel: Come collettività gli Stati Uniti si sono comportati alla stessa maniera: il loro
passato è una serie di occasioni colte al volo e sfruttate appieno.
Forse oggi l’attuale amministrazione degli Usa sta conducendo il Paese attraverso una
serie di decisioni sbagliate e rischiose, si pensi all’esito fallimentare della guerra in Iraq e
soprattutto alle decisioni legate alla salvaguardia dell’ambiente.
AMBIENTE
Dalle pagine della rivista Science lo scienziato britannico David King, ha lanciato un duro
attacco al presidente Usa George W. Bush per il suo disinteresse politico al cambiamento
climatico in corso. "Dal mio punto di vista, il cambiamento climatico e' il problema piu' serio
che dobbiamo affrontare oggi, persino piu' serio della minaccia del terrorismo", ha detto
King.
L'amministrazione Bush ha sbagliato a non sottoscrivere il protocollo di Kyoto (trattato
internazionale in materia di ambiente sottoscritto nel 1997 e entrato in vigore nel 2005), ha
continuato lo scienziato, e ha sbagliato a insinuare che il trattato potesse avere effetti
negativi sull'economia statunitense. "Come unica superpotenza mondiale, gli Stati Uniti
sono abituati a mettersi alla guida di azioni internazionali. Ma di fronte alla sfida del
riscaldamento terrestre il governo americano sta fallendo".
(Si prevede che le emissioni di anidride carbonica aumenteranno ogni anno del 1,8% ,
raggiungendo nel 2030 il 70% in più di quanto ne produciamo oggi. Un ruolo importante in
questo incremento riguarderà i paesi in via di sviluppo ma gli Stati Uniti resteranno la
principale fonte di emissione.) Con il loro consumo sregolato di combustibili fossili, gli
americani vivono come se non ci fosse un domani. C’è chi ritiene che il loro atteggiamento
così sconsiderato nei confronti delle risorse naturali sia qualcosa di radicato nella psiche di
un popolo che si è stabilito in un paese di tale vastità e ricchezza.
EGEMONIA CULTURALE: GLOBALIZZAZIONE E COMUNICAZIONI. CINEMA
Gli attributi con cui si denotano spesso gli Usa sono “super-megapotenza”, “impero
americano”, “iperpotenza”: ciò per sottolineare la realtà di predominio globale senza
precedenti nella storia mondiale. L’influenza degli Usa pervade ogni ambito: dalla politica,
le istituzioni, la società, alla cultura. Nell’era, poi, del fenomeno noto come
Globalizzazione, che significa internazionalizzazione dei mercati, abbattimento delle
barriere economiche regionali e quindi libero fluire di capitali, merci e informazioni su scala
planetaria, gli Usa hanno potuto estendere la loro egemonia in maniera capillare come non
era mai accaduto prima.
Per quanto riguarda la cultura, lo smodato utilizzo dell'entertainment, la spettacolarizzazione degli eventi fa si che tutto, o quasi, venga reso pubblico sotto forma di spettacolo.
L’American way of life è praticamente esportata in tutto il mondo attraverso i sistemi di
comunicazione. Internet in prima linea, ma lo stesso sistema dell’informazione e dello
spettacolo ha il suo quartier generale proprio in Usa.
La Fox Broadcasting Company, è per esempio una rete principalmente dedicata alle serie
televisive di diverso genere che sono diventate dei veri e propri cult e hanno fatto storia
anche negli altri Paesi (si pensi a Happy days o ai Simpson), e ciò non significa soltanto
che un prodotto televisivo americano è stato venduto alle reti italiane, o spagnole, o
tedesche, ma che le varie sit-com che arrivano sono i veicoli di modelli socio-culturali
americani, ai quali tutti sembriamo ormai assuefatti. Si pensi ad esempio alla festa di
Halloween: non ha niente a che fare con la nostra cultura, eppure da un po’ di anni se ne
sente parlare e si “festeggia” anche da noi.
Accanto a questo, un altro aspetto ancora più imponente di produzione ed esportazione
della cultura è costituito dall’industria cinematografica. Sono numerosissimi i film che
amplificano i temi del terrorismo, dei disastri ecologici, degli assassini seriali, della
necessità di un ordine mondiale, ecc. Naturalmente qualunque tipo di sfida venga
delineata, si rivendica la funzione guida degli Usa nella sua risoluzione, più o meno
miracolosa, ma comunque senz’altro targata America. In questi film l’America, in qualità di
“gendarme del mondo”, rivendica la coerenza morale del suo comportamento anche in
casi di disfatta, giustificando il proprio operato ed esaltandone il lato positivo. Il cinema
americano riesce a trasformare una sconfitta sul campo in una vittoria dal profondo valore
simbolico. Questo vizio di rielaborare gli eventi storici che hanno comportato delle
sconfitte, per restituirli al pubblico in una versione riveduta e corretta a proprio uso e
consumo, tipico del cinema americano risponde a una necessità del pubblico che vuole
essere confortato nel proprio orgoglio patriottico da primo della classe.
Il forte e viscerale patriottismo è un’altra grande caratteristica della cultura Americana.
LA GLOBALIZZAZIONE E LA COMUNICAZIONE: ANTIAMERICANISMO VS
ANTIEUROPEISMO:
Bisogna dare due spiegazioni alternative all’intensità con cui l’Europa ha criticato gli Stati
Uniti durante la crisi dell’Occidente: alcuni sostengono che all’origine c’è il comportamento
unilaterale, arrogante e provocatorio dell’amministrazione Bush, altri che si tratta di
un’espressione dell’antiamericanismo radicato, quasi genetico dell’Europa.
In realtà ci sono europei senza un briciolo di antiamericanismo nelle vene, ma molto
preoccupati per quell’unilateralismo militarista, goffo e arrogante dell’amministrazione
Bush. La stessa preoccupazione condivisa da parecchi americani.
È altrettanto vero, tuttavia, che i pregiudizi convenzionali sull’America, che si possono fare
risalire alla cultura europea del XX sec, sono stati rinvigoriti da un presidente che sembra
corrispondere perfettamente al vecchio stereotipo del cowboy texano, gretto e insolente.
Entrambe le spiegazioni, l’antiamericanismo e l’antibushismo, contengono elementi di
verità. Comunque dal momento che gli S.U. sono il Paese più potente del mondo, la
maggioranza degli europei prova nei loro confronti quel misto di fascino e di risentimento
che le potenze dominanti hanno sempre suscitato. Inoltre dopo la fine della guerra fredda
Europa e S. U. non sono più unite da un singolo, evidente, nemico comune, e la neonata
Unione Europea ha bisogno della presenza di un Altro per sottolineare e definire delle
differenze che la distinguano per contrasto o aperta contrapposizione con l’America.
Allo stesso modo si può affermare che tutta la storia americana è attraversata da
un’ambivalenza nei confronti dell’Europa: un misto di fascino e di repulsione. In ogni
periodo si trovano esempi di antieuropeismo e di eurofilia, così come in ogni periodo della
storia europea si trovano antiamericanismo e americofilia.
Ash afferma che guardando all’unione europea oggi, essa costituisce un problema per gli
S. U., in parte perché non cresce, in parte perché lo ha fatto.
USA: PAESE DELLE CONTRADDIZIONI
Negli Stati Uniti c'è una cultura della violenza perpetuata dalla televisione, dal cinema, dal
militarismo di questo Paese. Questo Paese è coinvolto in un enorme violenza in Medio
Oriente e possiede truppe basi militari in tutto il mondo. La filosofia di questa
amministrazione è di usare la violenza per risolvere i problemi del mondo. La usa
frequentemente e con effetti devastanti e alimenta una cultura che considera la violenza
normale e la perpetua nei videogames, in tv, nei film. Allo stesso momento esistono leggi
che consentono alle persone di portare armi.
ARMI
(Gli americani, a differenza della maggioranza degli europei, possiedono armi da fuoco: 9
armi da fuoco ogni 10 americani privati, a confronto delle 3 scarse ogni 10 europei. Negli
Stati Uniti il tasso di omicidi è più che quadruplo rispetto a quello degli stati europei. Si
calcola che negli Stati Uniti vengono uccise ogni anno 11.127 persone con armi da fuoco.
La sovrabbondanza di armi da fuoco è una differenza reale tra America ed Europa se si
eccettuano certe zone dell’est europeo, dove si portano tuttora liberamente le pistole.)
Attualmente, come afferma il Secondo Emendamento della Costituzione e alcune leggi
statali, praticamente qualsiasi cittadino può comprare un'arma da fuoco. Il fatto è però che
al tempo dell'elaborazione della Costituzione non esistevano armi automatiche. Ma non
esistevano nemmeno i governi, con la loro dose di violenza. La Costituzione viene
costantemente interpretata e reinterpretata, e oggi il secondo emendamento significa ciò
che Bush e questo governo vogliono che significhi. Al tempo questa norma consentiva
l'autodifesa in un Paese che usciva da una guerra civile. Il problema è politico, è la
necessità di garantirsi i voti dei membri della National Rifle Association, che ha un potere
enorme sui media, possiede compagnie aeree e via dicendo. La questione è
semplicemente questa: il desiderio opportunistico di Bush di guadagnare questi voti e il
rifiuto di imporre un divieto alla vendita di armi. In America l’industria delle armi è la lobby
più potente.
PENA DI MORTE
Non in tutti gli stati della federazione americana si applica la pena di morte: in alcuni è
stata abolita, oppure la sua esecuzione è stata sospesa. La pena di morte è comunque
prevista per reati federali e militari, anche per cittadini di Stati dell'Unione in cui la pena di
morte non è prevista per reati non federali.
Sono 18 gli stati che di fatto non applicano la pena capitale. Presso l'opinione pubblica
americana il dibattito sulla pena di morte è tuttora molto acceso.
Nel 1993 l'allora Presidente George H. W. Bush, fece una legge che stabiliva l'iniezione
letale come metodo per eseguire una condanna, lasciando liberi gli Stati che applicano la
pena di morte di mantenere anche altri metodi (gas, scarica elettrica, fucilazione,
impiccagione).
L'iniezione letale consiste in tre veleni iniettati per via endovenosa. Il condannato è
dichiarato morto di solito dopo 7 minuti, ma ci sono stati anche casi di agonie durate oltre
10 minuti. Gli oppositori della pena di morte sostengono che il condannato è cosciente
mentre il secondo veleno provoca il soffocamento.
Nel Novembre 2006 un condannato è morto dopo circa 40 minuti (invece dei 7 previsti) tra
atroci sofferenze, questo ha sollevato ulteriori dubbi e perplessità sull'uso della pena
capitale al punto che due stati hanno sospeso temporaneamente la pena di morte in
attesa di una decisione definitiva.
OBESITÀ
Quasi un terzo degli americani soffre di quella malattia chiamata obesità. Nel Sud del
mondo gli uomini, le donne e i bambini muoiono perché non hanno abbastanza da
mangiare; in Usa e nel Nord del mondo perché mangiano troppo.
Ogni giorno almeno un terzo dei bambini e degli adolescenti americani tra i quattro e i 19
anni mangiano cibi da fast food: ogni anno le catene di fast food spendono miliardi di
dollari in pubblicità diretta ai ragazzi. La ricerca, condotta su oltre seimila ragazzi e
ragazze in ogni regione geografica e in ogni classe sociale, ha dimostrato che sono stati
soldi spesi molto bene: il consumo di hamburger e patatine e altri alimenti del genere tra
bambini e adolescenti è quintuplicato rispetto agli anni Settanta.
LA RELIGIONE:
Gli americani sono, nel complesso, molto più religiosi degli europei; recenti sondaggi lo
dimostrano con chiarezza: l’83% degli americani, contro il 49% degli europei, afferma di
considerare Dio importante o molto importante; il 47% degli americani dichiara di recarsi in
Chiesa almeno una volta a settimana contro il 20% degli europei e quattro americani su
cinque credono nella vita dopo la morte. Braudel sostiene che secondo i sondaggi la
società americana è religiosa al 100% e che già Benjamin Franklin nel 1782 affermava
che negli Stati Uniti l’ateismo era sconosciuto. Per Braudel, nel momento in cui parla, in
America non c’è linguaggio ufficiale che non sia sotto il segno di Dio e ogni iniziativa
americana all’estero tende ad assumere l’aspetto di una “crociata”. Per lui all’America
poco importa il modo in cui ognuno concepisce la propria fede, ognuno è libero di credere
a modo suo, purché creda: questo è l’unico obbligo. Quello che potrebbe sembrare agli
occhi degli europei un esempio di tolleranza è, secondo Braudel, una situazione in cui il
laicismo e l’ateismo di tipo occidentale, e soprattutto la laicità del governo e dell’istruzione,
sono del tutto inconcepibili. Ma Braudel sbaglia nel prevedere che l’America religiosa
fosse minacciata dal passaggio dei fedeli alla ricchezza. Oggi si sa infatti, che l’America,
con la sua religiosità, è il solo paese al mondo ad essere ricco e religioso al tempo stesso.
Negli Stati Uniti è presente un forte quanto variegato
spirito religioso che si spiega
facendo riferimento alla storia e alla costituzione materiale del Paese. I valori religiosi sono
una parte importantissima della vita degli statunitensi. Di fatto si osserva che nascono
continuamente moltissime confessioni religiose. Il Cristianesimo è presente in tutte le sue
grandi derivazioni: in maggioranza protestanti (49,2%), seguiti dai cattolici (25,9%),
mormoni (1,4%), Testimoni di Geova (0,7%) e ortodossi (0,3%). Le confessioni protestanti
di maggiori tradizioni sono quelle della tradizione calvinista-riformata (presbiteriana,
congregazionalista, nonché i battisti) e gli episcopali, questi ultimi ramo americano
dell'Anglicanesimo, cui tradizionalmente fanno riferimento le classi alte (è la confessione
della famiglia Bush). Le confessioni più diffuse sono nell'ordine la battista (17.2%), la
metodista (7.2%), fede abbracciata dal presidente George W. Bush dopo il matrimonio, la
luterana (4.9%), la presbiteriana (2.8%) e la episcopale (1.8%), oltre ad una miriade di
Chiese evangeliche, pentecostali e minori. La singola chiesa più diffusa è quella cattolica,
rafforzata dall'immigrazione ispanica degli ultimi 30 anni.
Vi sono anche presenze ebraiche (1.4%), islamiche (0,6%), buddiste (0,5%), induiste
(0,4%), sikh, caodaiste, scintoiste, e bahai, grazie all'enorme varietà di etnie presenti ogni
religione è rappresentata.
Negli ultimi decenni si è sviluppato il fenomeno delle TV and Web Churches, guidate dei
cosiddetti
tele-predicatori.
Parallelamente
sono
nate
e
cresciute
le
cosiddette
megachurches, grandissime chiese evangeliche non-denominazionali. Spesso la religione
è dietro a molte questioni e controversie politiche riguardanti il razzismo (il movimento per
la desegregazione dei neri era guidato da Martin Luther King), il pacifismo (la stessa
guerra in Iraq ha diviso il panorama religioso tra favorevoli e contrari), la pena di morte
(sostenuta dalle chiese protestanti di stampo evangelical e fermamente contestata dai
cattolici), la bioetica, l'omosessualità, l'insegnamento della teoria dell'evoluzione delle
specie e il Neodarwinismo.
Fenomeno minoritario ma in crescita è la diffusione del Neopaganesimo, le cui numerose
correnti sono tutte presenti negli Stati Uniti. Cadisciti, druidici, dodecateici, kemetici,
odinisti, romanisti, slavisti e wiccani sono realtà religiose in forte crescita, in particolare tra
la popolazione giovane. Le religioni neopagane hanno inoltre trovato, negli Stati Uniti,
terreno fertile per l'istituzione di innumerevoli organizzazioni, come ad esempio le molte
Chiese wiccane e la Casa di Netjer, Chiesa che diffonde il Kemetismo ortodosso.

Cristiani 81,1%
o
Protestanti 49,2%;
o
Cattolici 25,9%;
o
Anglicani 1,8%;
o
Mormoni 1,4%;
o
Testimoni di Geova 0,7%;
o
Ortodossi 0,3%
o
Altri Cristiani 1,9%

Ebrei 1,4%;

Musulmani 0.6%;

Buddhisti 0.5%;

Induisti 0.4%;

Altro 1,0%

Atei e Agnostici 15,0%.
LA DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA:
Nella distribuzione della ricchezza, l’America presenta più disuguaglianze della
maggioranza dei paesi europei. Attualmente negli Stati Uniti vivono più di 5 milioni di
senza tetto. Gli Stati Uniti hanno la percentuale più alta di popolazione che versa in
condizione di povertà cronica e, contemporaneamente, vantano quasi tre milioni di
milionari. Pertanto, il ceto medio americano si trova tra una sottoclasse di poveri cronici ed
una superclasse di ultra-ricchi. Secondo Braudel, la grande idea che animava i sostenitori
della Dichiarazione d’indipendenza era proprio quella di salvaguardare la proprietà, la
ricchezza, il privilegio sociale. Al suo atto di nascita, quindi, l’America aveva già i suoi
ricchi, destinati per la loro ricchezza a guidare gli altri. L’ordine imposto dalla costituzione
sotto il nome di libertà ed uguaglianza, era già l’ordine del capitalismo: ai ricchi il potere e
la responsabilità di governo, agli altri la grande concessione di essere protetti dalla legge
contro i ricchi, così come i ricchi lo sono contro di loro. Con l’aggiunta però che ognuno
aveva la possibilità di tentare la sorte e di superare prima o poi i limiti della propria classe
d’appartenenza: il self-made man diventa l’immagine classica di quell’America che,
secondo Braudel, negli anni ’60 stava forse scomparendo. Oggi il 90 per cento degli
americani risulta preoccupato per il crescente livello di poverta' nel loro Paese e le cose
vanno sempre peggio. Nel 2003, infatti, il numero dei poveri e' aumentato di 1 milione e
700 mila persone e sembra incredibile ma nell'America dell'obesita' un bambino
statunitense ogni sei vive nelle incertezze e nella fame. La maggior parte degli americani,
sebbene preoccupati, non ha pero' idea di quanto diffuso sia il fenomeno. Moltissimi sono
pero' consapevoli che la poverta' non e' un concetto astratto. Il 56 per cento teme, infatti,
di potersi trovare nel bisogno prima o poi nella sua vita. Ancora una volta, la causa
principale della poverta' viene vista nella mancanza di istruzione. Con il taglio delle
sovvenzioni governative infatti, l'accesso ad un'istruzione adeguata diventa sempre più
difficile per i bambini poveri. In molte grandi città la percentuale dei bambini che
abbandona la scuola si aggira tra il 30% e il 70%.
Nel 1980 i distretti scolastici più ricchi del New Jersey hanno speso per ogni bambino 800
$ in più di quelli spesi dai distretti poveri. Oggi la differenza è di più di 3000 $.
Nel Texas nel 1978 i distretti ricchi hanno speso 600 $ in più di quelli poveri. Oggi la
differenza è di 5000 $. Dal 1977 le rette dei college privati sono più che triplicate. La retta
dell'anno scorso era mediamente di circa 8700 $. Nelle scuole pubbliche la retta è più che
raddoppiata e quest'anno ammonta a circa 1700 $.
IL RUOLO DELLO STATO, LA SANITÀ E WELFARE STATE:
Nel poscritto del 1966 Fernand Braudel intravede con l’affermazione sempre più massiccia
delle società multinazionali, la perdita degli stati della loro funzione equilibratrice, mentre
nuove teorie liberali condannano ogni intervento dei governi in campo economico e
richiedono una radicale riforma del welfare state, con la riduzione delle spese sociali
(sanità, pensioni, istruzione pubblica) che gravano con la tassazione sui costi
delle
imprese.
Dagli anni ’60 ad oggi il welfare ha subito vari cambiamenti.
Inizialmente il Welfare fu adottato per fronteggiare i problemi sollevati dalla crisi del 1929.
L'introduzione della previdenza sociale e dell' assicurazione contro la disoccupazione
gettarono le basi per la costruzione dello stato sociale (Welfare State). Con tale termine si
intende la rete di servizi gratuiti e semi-gratuiti che uno stato garantisce ai suoi cittadini
(sanità, scuola, pensioni, casa, trasporti), attingendo alle risorse fornite dal prelievo fiscale.
Il welfare state verrà criticato e ridimensionato negli anni ’80 durante il neoliberalismo ad
opera di R. Raegan: riduzione delle tasse, massima libertà nei rapporti di lavoro
(deregulation), contrazione dello stato sociale.
I neoliberisti partono dall' idea del fallimento delle politiche keynesiane adottate nella parte
centrale del XX secolo e propongono di aumentare il grado di libertà delle imprese e degli
imprenditori.
Le classi medio alte non intendevano più farsi carico dei costi sociali indirizzati a tutta la
società: come accennato sopra, le politiche del Welfare state si affievoliscono essendo i
liberisti contrari all’ intervento dello stato in economia e favorevoli a una riduzione della
pressione fiscale. Negli anni ’90 sarà poi Clinton a proporre di riformare il welfare state per
diminuire il costo e l’ estensione dell’ assistenza pubblica e spingere i poveri al lavoro.
La riforma fu rinviata, aprendo così un ampio spazio di iniziativa e di risonanza pubblica ai
beni più radicali progetti di smantellamento avanzati dalla nuova destra; soprattutto Clinton
fu sconfitto sulla riforma sanitaria, che egli stesso aveva elevato a priorità fondamentale
della propria presidenza.
Dal 2000 in poi però, il presidente Bush ha sostenuto la privatizzazione parziale della
Previdenza sociale nazionale, in modo tale che ogni individuo possa essere libero di
investire una parte delle sue tasse per la previdenza in fondi pensionistici privati.
Oggi infatti in America chi possiede una cospicua pensione lo deve soltanto a sé stesso;
infatti ognuno può stabilire la percentuale da detrarre per il fondo pensionistico.
Le donne separate con figli a carico e disoccupate vengono tutelate; a quest’ultime viene
fornita una carta assistenziale dai 2 ai 6 mesi. Se però sei un uomo e godi di ottima salute
l’unico mezzo per ricevere l’assistenza è lavorare!
Nonostante però l’America spendi molto per la sanità (nel 2001 il 13,9% del pil), c’è da dire
si tratta della sanità privata, quindi riservata agli americani che se la sono potuta
permettere. In Europa il Paese che le si è avvicinato di più è la Svizzera (10% del pil).
Circa la sanità pubblica la spesa in America e GB è stata la stessa (6,2% del pil).
Soltanto per i suoi 40 milioni di poveri, il programma americano Medicaid spende più del
National Health Service britannico che invece assiste 60 milioni di abitanti. Se dovessimo
pensare a chi invecchia nelle migliori condizioni tra un tedesco e un americano
sicuramente sarà il primo. In Germania è stabilita una percentuale fissa per il fondo
pensione, disoccupazione e salute. Oltre la sanità il welfare comprende anche l’istruzione,
i trasporti. Il budget che l’America spende per questi servizi sociali è aumentato negli anni.
La migliore istruzione secondaria è in America (l’America spende il 2,7% del pil contro l’1%
di GB e Germania).
Braudel sottolinea che dal momento in cui lo stato federale americano assume una sua
responsabilità
nell’organizzazione
economica
del
paese,
questo
diventa
anche
responsabile dell’ingiustizia sociale. Braudel si chiede se tale intrusione dello stato nella
società, che risultava ripugnabile per ogni cittadino statunitense, si sarebbe potuta evitare
o no nel prossimo futuro. Egli insiste in particolar modo sulla differenza tra USA ed Europa
nel campo della previdenza sociale, in cui un cittadino americano a differenza di quello
europeo, gode di molte meno garanzie e sostiene che, nel momento in cui parla, sia la
classe dirigente americana che l’opinione pubblica, iniziano a prendere coscienza del
problema e a ritenere inevitabile ed auspicabile una politica sociale americana. Ciò,
secondo Bruadel, rischia di modificare profondamente le strutture della società e della
civiltà americane. Gli americani ritengono più importante che il governo li lasci liberi di
conseguire i loro obiettivi, mentre per gli europei è più importante che i governi
garantiscono a tutti la libertà dal bisogno. Allo stesso modo, gli americani sono convinti
che il successo o il fallimento dipendano dall’impegno di ciascun individuo. L’Europa, di
conseguenza, ha più welfare degli Stati Uniti, dove il prelievo fiscale è inferiore al 30%,
mentre in Europa, nel 2003, superava il 40%. Nonostante oggi l’America sia considerata “il
fanalino di coda del welfare” nel mondo sviluppato, in realtà però il contrasto con l’Europa
non è così netto.
IL CAPITALISMO:
Braudel negli anni ’60 considerava il capitalismo “l’animatore della vita materiale, della
politica e della civiltà americane che aveva dato vita ad uno sviluppo materiale senza
uguali nel mondo”, a quanto pare non possiamo dargli torto. “L’impero degli affari è
evidente e fa piena mostra di sé, con i giganteschi buildings di Manhattan”, suscitando
l’ammirazione dell’Europa.
Per comprendere l’evoluzione del capitalismo americano occorre rifarsi all’epoca dei trusts
(trust=fiducia), un’unione di azionisti che possiedono titoli di diverse società e delegano ai
trustees il compito di rappresentarli, anche se, alcuni di questi miravano, all’epoca di
Braudel, a costituire un monopolio.
Dal secondo dopoguerra in poi, il capitalismo anche se ha mantenuto inalterate le sue
principali tendenze di sviluppo, ha però rovesciato il rapporto tra l’attività economica ed il
ruolo dello stato.
Negli anni ’50 e ’60 economisti e politologi hanno parlato di neocapitalismo (talvolta
definito la “società dei consumi”) per indicare una fase in cui i governi sono intervenuti per
regolare il mercato, stimolare la domanda e stabilire alcune priorità produttive attraverso la
“programmazione economica”.
Però, come anche Braudel aveva notato al tempo in cui parla “con gli oligopoli, i sindacati
e il “potere equilibratore” dello stato “ andava
sorgendo in America una sorta di
neocapitalismo, che si adattava, nella sua forma matura, alle condizioni del secolo xx, ed è
già molto diverso dal capitalismo tradizionale”, negli ultimi due decenni invece, con
l’affermazione sempre più massiccia delle società multinazionali, gli stati hanno perso la
loro funzione equilibratrice, mentre nuove teorie liberali condannano ogni intervento dei
governi in campo economico e richiedono una radicale riforma del welfare state, con la
riduzione delle spese sociali (sanità, pensioni, istruzione pubblica) che gravano con la
tassazione sui costi delle imprese.
Sul piano più strettamente storiografico il parere degli economisti si è diversificato sul ruolo
e sul futuro del capitalismo contemporaneo.
Gli studiosi marxisti (come ad esempio gli americani Sweezy e O’Connor) hanno
continuato ad attribuire alle grandi imprese la responsabilità dello sfruttamento delle aree
arretrate, dei guasti sociali interni agli stessi paesi industrializzati e la distruzione
dell’equilibrio naturale del pianeta.
Altri, di orientamento liberale, hanno giudicato favorevolmente la nascita delle
multinazionali, quale fattore di prosperità e di progresso per tutta la popolazione del
mondo, Braudel non crediamo possa appartenere a questa schiera. Egli era sicurissimo
che gli oligopoli, il “regno dei giganti”, non si sarebbero mai frantumati in imprese di piccole
dimensioni. Si può assumere abbia già previsto le grandi multinazionali odierne e che in
esse quella che lui definisce la “pratica ossessionante” delle human relations e delle
pubblic relations.
Secondo Ash, l’Europa sarà il concorrente più immediato degli Stati Uniti nel prossimo
futuro. Le due economie oggi sono strettamente collegate, e per esempio gli investimenti
europei in Texas superano quelli americani nel Giappone. Gli USA, oggi sono in deficit e
per fronteggiare questa problematica hanno bisogno che gli europei continuino a comprare
i bond americani. Con l’avvento dell’euro l’Europa può relazionarsi con gli USA “da gigante
a gigante”. L’euro ha le potenzialità di diventare una moneta di riserva rivale del dollaro,
soprattutto se le vendite di petrolio cominceranno ad essere espresse nella moneta
europea. Ne è prova il fatto che il dollaro soffre spesso di ribassi nei confronti dell’euro;
solo poche settimane fa, ha raggiunto il “minimo storico” nel cambio di moneta.
Ma, il fatto che gli USA debbano prendere sul serio l’Europa sul piano economico non vuol
dire che lo faranno sotto il profilo politico. Come disse d’altronde Braudel già negli anni
Sessanta “il denaro è re nella libera democrazia che vuol essere l’America.”
L’UNILATERALISMO, L’ISOLAZIONISMO E IL TERRORISMO:
Gli Stati Uniti, infatti, detengono una potenza militare, politica, tecnologica e anche
culturale che non ha eguali. Il termine unilateralismo che significa concentrazione delle
decisioni, è spesso andato di pari passo con quello di unipolarità che significa
concentrazione del potere, tanto che gli Stati Uniti hanno usato, per tanto tempo, il loro
straordinario potere senza necessariamente condividere con altri le proprie posizioni.
Si tratta di un’idea rivoluzionaria soprattutto in politica estera poiché spesso gli Stati Uniti
hanno utilizzato il proprio potere per costruire solide alleanze multilaterali.
La rottura di questa tradizione è legata in modo particolare all’Amministrazione Bush ed è,
per certi versi, precedente agli stessi attacchi da parte del terrorismo dell’11 settembre.
Infatti le decisioni di uscire dal protocollo di Kyoto sull’ambiente o di non sottoscrivere il
nuovo protocollo della Convenzione sulle armi biologiche possono essere definite soltanto
come unilaterali.
Il primo elemento dell’unilateralismo consiste nel fatto che l’America deve cercare di
conservare la propria superiorità militare rispetto alle altre potenze del mondo, per poter
controllare il sistema internazionale e contrastare nel giusto modo i pericoli derivanti sia
dal terrorismo internazionale. Una strategia del genere, che per alcuni può essere definita
neo-imperiale, si scontra con la naturale tendenza degli altri Stati a controbilanciare lo
Stato egemone, o almeno, ad ottenere da questo sostanziose concessioni.
Un secondo elemento, connesso al primo, è quello per cui gli Stati Uniti non devono farsi
imbrigliare dalle istituzioni multilaterali. Nel XX secolo tradizionalmente sono stati gli Stati
Uniti a sostenere il multilateralismo, basti pensare all'appoggio mostrato nei confronti
dell’unificazione dell’Europa o alla costituzione della Nato e dell'Onu. Il cambio di rotta è
attestato dai numerosi articoli critici che ridicolizzano il ruolo dell’Onu, negando ad esso
una qualsiasi funzione che non sia puramente decorativa, o che accusano la seconda
guerra del Golfo di aver provocato una profonda frattura tra Stati Uniti e Nazioni Unite e di
aver scardinato il sistema dell’Onu mostrandone l’inefficacia.
Dal punto di vista europeo, il multilateralismo potrebbe essere considerato il tentativo di
contenere lo strapotere statunitense, di controllarlo, di renderlo maggiormente prevedibile.
Il terzo elemento è rappresentato dalla nota teoria della guerra preventiva. L’America
rappresenterebbe l’avanguardia della libertà contro la nuova forma di totalitarismo
rappresentata dal terrorismo islamico. Riprendendo una terminologia reaganiana gli Stati
Uniti rappresenterebbero l’Impero del Bene contro quello del Male. Gli Usa rivendicano il
diritto di intervenire ovunque per anticipare qualsiasi possibile futura minaccia alla propria
sicurezza, e non solo quindi per rispondere a un attacco ricevuto. Gli europei, nel giro di
qualche anno, rischiano di passare da alleati privilegiati degli Usa ad alleati eventuali più o
meno desiderati, con un notevole declassamento.
Il quarto ed ultimo elemento è quello della speranza di esportare con la forza la
democrazia. Gli Stati Uniti cercano di imporsi agli altri Stati ma noi europei, nonostante la
gratitudine che dobbiamo continuare a serbare per la potenza che per ben due volte ci ha
offerto il suo aiuto nella lotta contro i totalitarismi, non dobbiamo necessariamente
dipendere in tutto da essi. Per esempio, non dobbiamo necessariamente ritenere che la
soluzione adottata dagli americani per affrontare il terrorismo islamico conseguente
l’attacco dell’11 settembre che per la prima volta nella storia ha fatto vacillare
l’invulnerabilità del territorio americano, sia la migliore.
Del resto, se è vero che gli Stati Uniti hanno bisogno di alleati e di consenso per la loro
politica, è anche vero che la comunità internazionale non può fare a meno della potenza
americana e dei suoi migliori ideali, soprattutto di fronte alla lotta al terrorismo. Per questo
alla fine converrebbe sia all’Europa che agli Stati Uniti un ordine internazionale
multilaterale, con oneri e responsabilità condivise piuttosto che concentrate in un’unica
capitale.
In fine possiamo affermare che Braudel aveva afferrato appieno ciò che sarebbe accaduto
in futuro, come lo dimostra la sua frase: "ogni loro gesto, lo vogliono o no, ha conseguenze
mondiali".
LA "GUERRA AL TERRORISMO"
Gli attentati dell'11 settembre segnarono l'inizio della guerra al terrorismo con l'invasione
dell'Afghanistan da parte dell'esercito degli Stati Uniti nell'ottobre 2001 e la deposizione
del governo talebano, che ospitava il leader di al-Qā'ida e campi d'addestramento e
logistica di tale organizzazione.
Anche l'invasione dell'Iraq e la cattura di Saddām Husayn da parte delle forze angloamericane nel 2003 sono state indicate dal Governo degli Stati Uniti come operazioni
rientranti nella "guerra al terrorismo", sebbene non siano mai emersi collegamenti diretti
tra il regime iracheno e gli attentati dell'11 settembre.
L'8 settembre 2006, un rapporto ufficiale reso pubblico della Commissione Servizi Segreti
del Senato degli Stati Uniti ha affermato che non ci sono prove di legami tra il regime di
Saddām Husayn ed al-Qā'ida. Secondo il documento del Senato statunitense, infatti, l'ex
Presidente iracheno diffidava di Osāma Bin Lāden, considerandolo una minaccia al
proprio regime e aveva respinto ogni richiesta di sostegno da parte dell'organizzazione
terroristica.
Tuttavia, ancora nel settembre 2006, in almeno due diversi documenti dell'FBI riguardanti
avvisi di ricerca per Bin Lāden, il leader di al-Qā'ida non risulta ricercato per gli attentati
dell'11 settembre ma "in connessione con gli attentati del 7 agosto 1998 contro le
ambasciate degli Stati Uniti di Dar es Salaam, Tanzania e di Nairobi, Kenya. Questi
attacchi hanno ucciso oltre 200 persone. Inoltre, Bin Lāden è sospettato per altri attacchi
terroristici nel mondo". L'FBI avrebbe spiegato, in un intervista, l'omissione degli attentati
dell'11 settembre nei propri avvisi di ricerca con la carenza di "prove concrete" a propria
disposizione per ottenere l'incriminazione formale di Bin Lāden anche per tali eventi.
Il sito dell'FBI, nella pagina che raccoglie l'indice dei maggiori ricercati per terrorismo, tra i
quali Bin Lāden [10], afferma che «Gli accusati per terrorismo in questa lista sono stati
incriminati da Grand Juries federali di diversi distretti negli Stati Uniti per i reati riportati
negli avvisi di ricerca (...). Le imputazioni attualmente elencate negli avvisi permettono il
loro arresto e la loro consegna alla Giustizia. Future incriminazioni potrebbero essere
formulate in quanto sono in corso diverse indagini relative ad altri attacchi terroristici come,
ad esempio, quelli dell'11 settembre 2001[3]».
MOTIVAZIONI
L'ultima grande menzogna della propaganda è quella della cosiddetta "guerra al
terrorismo" provocata dagli attentati dell'11 settembre 2001. Questa è una guerra di
conquista, una guerra fatta scoppiare per obiettivi di carattere strategico ed economico in
Asia centrale, collegata a quelle dell'ultimo decennio, e preparata da almeno quattro anni.
Se noi guardiamo alla storia, se abbiamo un minimo di senso storico, ci accorgiamo che
tutte le guerre sono sempre state guerre di conquista motivate da considerazioni
economiche, cioè controllo delle risorse, di territori e così via. E questa non fa eccezione.
Ne sarebbe prova sufficiente la formulazione nel 1997 da parte del Congresso USA del
Silk Road Strategy Act, essenzialmente sulla creazione di una sfera
di influenza
americana - un corridoio strategico - dal Mediterraneo all'Asia centrale passando per il
bacino del Caspio, la base per l'espansionismo USA in un'area di grande importanza
economico-strategica.
Vi sono tuttavia anche altre ragioni, ma sempre complementari alla motivazione
fondamentale.
La prima è di carattere economico contingente. Quando i titoli delle società high-tech sono
crollati e la recessione economica è divenuta evidente, ed il governo USA ha risposto
spostando risorse dal settore civile al complesso militar-industriale, un processo già
accelerato dopo le elezioni presidenziali del 2000. Enormi risorse dunque verranno
trasferite nelle casse dei contraenti della difesa, che a loro volta sono strettamente legati
alle società petrolifere, che a loro volta sono connesse al settore dei mass media e dello
spettacolo e così via: il denaro dei contribuenti andrà alle corporations in misura ancora
maggiore, persino dopo i generosi tagli fiscali concessi in precedenza dall'amministrazione
Bush al grande capitale.
G.W. Bush il 6 settembre 2001: "Ho detto ripetutamente che l'unica periodo durante il
quale si può usare il denaro della sicurezza sociale è in tempo di guerra, in periodi di
recessione e di gravi emergenze, e ne sono convinto". Nel sistema capitalista, quando il
grande capitale ha problemi ed i mercati non funzionano più, vi è una sovracapacità
produttiva che crea una recessione profonda e prolungata, uno dei modi tradizionali per
uscirne è quello di liquidare una gran parte del capitale ed il miglior modo per liquidarlo
molto velocemente è la guerra. Dunque, il modo per risolvere il problema del saggio di
profitto in discesa in un'economia di mercato è l'uso di meccanismi non di mercato. E dopo
una guerra viene sempre la ricostruzione, almeno così è stato finora.
Un altra ragione è di carattere politico strategico. Anche l'impero americano - come è
accaduto per tutti gli altri imperi - sta cominciando a disgregarsi. Ovunque, ma soprattutto
nel terzo mondo, l'America, una volta ammirata, viene ora solamente temuta. Ciò è parte
di un'evoluzione storica che ad un certo momento diventa inevitabile. L'impero di
conseguenza diventa ancora più pericoloso.
L’IMMIGRAZIONE E IL RAZZISMO:
Immigrazione: Braudel analizza come uno degli elementi essenziali della società
americana sia lo straordinario afflusso di uomini. Egli parte analizzando gli emigranti del
1880, distinguendo le loro diverse provenienze. In seguito, sostiene che dagli anni ’50 in
poi non prevalgono solo gli immigranti nordici ma anche i tedeschi e gli inglesi. Essi
diventano americani a tutti gli effetti, con comportamenti e reazioni specificamente
americani perché in America il meccanismo dell’assimilazione ha sempre funzionato bene.
Braudel ci dice che negli anni ’60 le uniche correnti di immigrazione fanno capo al sud dal
Messico e da Porto Rico e a nord dal Canada francese, ma si tratta solo di infiltrazioni. I
nuovi arrivati hanno fornito all’industria americana la manodopera americana per il suo
avviamento ed il suo sviluppo ma hanno dato anche un contributo di poveri e di proletari
alle enormi città di cui New York è il prototipo insuperato. Nonostante la sua straordinaria
trasformazione per l’arrivo in massa di uomini nuovi, la civiltà americana ha assimilato
tutto: macchine, fabbriche, settore terziario e anche gli immigranti non protestanti. La vera
immigrazione si sviluppa negli anni 70, ma specialmente negli anni 80.
Un numero crescente di immigrati, provenienti soprattutto dall’Asia e dai paesi latinoamericani, si riversò negli Stati Uniti. Un altro flusso di immigrazione proveniva dall’Europa
e dall’ Asia, Medio Oriente, America Latina, Carabi. Questi contribuirono a formare
un’America multietnica e multirazziale. Il melting pot, il crogiuolo di razze, connota infatti
l’attualità dell’America contemporanea. Non è un caso che l’Economist vi abbia dedicato
un numero speciale. Le cifre riportate dal settimanale non passano inosservate: dal 1990 a
oggi gli immigrati con cittadinanza statunitense sono passati da sei a venticinque milioni.
"E’ la più grande ondata migratoria dai tempi dei primi pionieri europei", commenta
l’Economist. E aggiunge altri numeri: nel censimento del 1950 gli americani bianchi erano
l’89 per cento e i neri il 10 per cento della popolazione. Oggi i latino americani sono il 12
per cento, entro cinque anni diventeranno la prima minoranza etnica del paese, entro dieci
saranno la maggioranza nella regione di Los Angeles e in vent’anni lo saranno in tutta la
California e nel Texas. Se la tendenza odierna dovesse proseguire, nel 2050 un cittadino
su quattro sarà di origine latina. Sono questi i "nuovi americani". Immigrati che lavorano
nei ristoranti, negli alberghi, nei campi, nelle fabbriche, fanno i custodi o i tassisti, affollano
la Silicon Valley, dove c’è bisogno di manovalanza e non solo dei geni che mandano
avanti la tecnologia dell’informazione e la nuova economia. Sbrigano i lavori indispensabili
che gli americani non vogliono più fare. Non hanno diritti e non possono difendersi, perché
chi li assume li ricatta: se chiedono il minimo salariale o l’assistenza sanitaria vengono
denunciati e, in base alla legge attuale, espatriati.
Sono circa mezzo milione le persone cui gli Usa hanno negato lo status di rifugiati politici.
Poi vengono circa 350 mila immigrati di lungo corso, che risiedono negli Stati Uniti da
almeno quindici anni e che ancora non sono stati messi in regola. Infine l’Afl-Cio segnala
10 mila liberiani scampati alla guerra civile che vivono in America con permessi di
soggiorno temporanei. Il sindacato intende difendere coloro che ormai hanno passato il
confine e bonificare una situazione ormai ingestibile ed estendere la unionization anche
agli immigrati. Ma questo non significa che sia a favore di un’apertura delle frontiere. Al
contrario, alcuni vincoli devono rimanere.
Razzismo: Nell’est e nel centro ovest si possono vedere sempre più spesso dei negri
mescolarsi alla vita dei bianchi, ma per i bianchi essi restano sempre dei negro. Braudel
temeva che queste contraddizioni interne alla società porteranno ad una fonte di
malessere intellettuale e morale ed augurava che l’America trovasse una soluzione
appropriata.
Ciò che effettivamente egli temeva si verificò tra il ’65 e il ’67 quando nacque la
mobilitazione dei neri, egemonizzata da Martin Luther King, ispirata all’ideologia
rivoluzionaria e separatista .
Le grandi manifestazioni pacifiche così come i violenti riot che punteggiarono l’America
durante gli anni Sessanta affondano le radici nella metà degli anni Cinquanta, quando una
sentenza della Corte suprema del 1954 dichiarò incostituzionale la segregazione
scolastica dei neri aprendo una crepa nella dottrina razzista vigente che considerava la
popolazione nera “separata ma eguale. L’importanza della seppur limitata concessione del
tribunale permise la nascita di un Movimento per i diritti civili deciso a lottare con la
disubbidienza civile e la non violenza contro il sistema di leggi razziste degli stati del
“Vecchio Sud”. In questa fase, Martin Luther King, fu il portavoce del movimento.
Passando attraverso il grande raduno di Washington del 1963 per arrivare fino alla marcia
di Selma del 1965, il Movimento per i diritti civili si sviluppò con vigore e riuscì a tenere
insieme un composito fronte di organizzazioni vecchie e nuove, con l’appoggio prudente
ma efficace del governo federale e una certa simpatia dell’opinione pubblica moderata,
soprattutto nel Nord degli Stati uniti. È innegabile che il movimento non solo innescò una
stagione d’impegno politico generale ma contribuì anche a fare uscire la popolazione nera
dalla sua lunga sottomissione materiale e psicologica. L’obiettivo di Martin Luther King era
l’integrazione dei neri a pieno titolo nella società americana. Il dottor King credeva nel
“sogno americano”, nella vocazione democratica e nella tradizione protestante del paese.
Attraverso la disubbidienza civile non violenta e la sua superiorità morale di fronte
all’ingiustizia che combatteva, il pastore di Atlanta pensava di “costringere” il governo
federale, i moderati del Sud, i progressisti del Nord e la comunità bianca che faceva capo
alle varie chiese a estendere il “sogno” alla comunità nera, prevalendo sulla parte
reazionaria e razzista degli americani che voleva impedirlo. L’integrazionismo impersonato
da Martin Luther King non era però l’unica soluzione al “problema nero” che circolava
all’interno della comunità afro-americana. A esso si contrapponeva il nazionalismo che
aveva in Malcolm X il suo più lucido e influente esponente. Malcolm non nutriva la stessa
fiducia di King, non credeva nella possibilità dell’integrazione: il sistema che aveva
relegato la popolazione nera in una situazione di inferiorità, dopo averla strappata all’Africa
e sfruttata come schiava, non era “strutturato” per dare piena cittadinanza agli afro-
americani. Malcolm vedeva il “sogno americano” dalla parte delle vittime e lo chiamava
“l’incubo americano”. Essere nazionalisti significava rigettare una cittadinanza “bianca” di
seconda classe e affermare orgogliosamente le proprie radici africane, rivendicare il diritto
a una storia e una cultura propria, a sentirsi parte di una nazione nera dispersa
geograficamente ma non sradicata. Secondo lui, da un lato era necessario un
cambiamento massiccio di portata nazionale, dall’altro , l’avanzamento di una strategia di
internazionalizzazione e di collegamento con le lotte di liberazione in Africa, America
Latina e Vietnam. Ma nel 1965 fu ucciso. Nel 1966 il fronte delle organizzazioni del
Movimento per i diritti civili si sfaldò e una sua parte intraprese la strada della
radicalizzazione. Le differenti istanze presenti nel movimento vennero a maturazione e
pubblicamente dichiarate durante la marcia di Meredith, nel giugno del 1966. Quella
manifestazione di protesta nel Mississippi riunì insieme per l’ultima volta il fronte
organizzativo del Movimento per i diritti civili. Durante la marcia venne lanciata una nuova
parola d’ordine: Black Power, Potere nero. Non era la prima volta che quel binomio di
parole veniva utilizzato ma questa volta era un’espressione che faceva paura. Questo
movimento condusse una campagna sistematica di ribellione contro il governo degli Stati
Uniti e i valori e le istituzioni che esso rappresentava. Il Potere nero venne condannato
dalle organizzazioni religiose integrazioniste nere e considerato eresia da tutti i media
nazionali; per gran parte dell’opinione pubblica evocò l’immagine dei guerriglieri pronti a
portare la violenza dei riot nelle zone residenziali bianche. Il grido Black Power fu accolto
positivamente nella comunità nera. Esso esprimeva la rabbia non ancora organizzata di
molti neri, soprattutto giovani, poveri e urbanizzati, facendo prevalere i temi nazionalisti su
quelli integrazionisti. Per il nazionalismo i neri dovevano controllare politicamente ed
economicamente la propria comunità, sviluppare organizzazioni autonome e liberarsi dal
condizionamento dei bianchi. La gente nera doveva cercare alleati nelle nuove nazioni
africane o nei popoli del Terzo mondo che si stavano liberando dal giogo coloniale. Come
ultimo corollario del credo nazionalista veniva ribadita e generalizzata la necessità
dell’autodifesa. Questo era il terreno di crescita nazionalista, pieno di fermento,
conflittualità e radicalismo, da cui ebbe origine l’esperienza delle Pantere nere. Il
movimento nero dimostrò dunque di volere andare al di là degli iniziali obiettivi di
integrazione nel sistema, ma anche di avere la capacità di ispirare e catalizzare altri
movimenti sociali, da quello delle altre “nazioni oppresse” a quello degli studenti e,
successivamente, delle femministe e dei gay. La rabbia dei ghetti e delle grandi fabbriche,
soprattutto nel Nord, entrò nel movimento e ne cambiò la sostanza: non più azioni non
violente per l’integrazione nella società americana, ma la sollevazione spontanea e spesso
armata contro lo stato e i suoi simboli.
Gli anni tra il 1968 e il 1972 rappresentano uno dei periodi di repressione più violenti della
storia americana contemporanea. Se il partito delle Pantere nere si proponeva come
avanguardia rivoluzionaria di quel nuovo movimento, le operazioni Cointelpro – termine
utilizzato per designare operazioni “coperte” dell’Fbi volte a distruggere tutte le forme di
dissenso interno – rappresentarono la risposta governativa alle richieste sempre più
urgenti e pressanti delle classi subalterne. Le operazioni Cointelpro costituirono un vero e
proprio salto di qualità nella gestione del dissenso. Durante gli anni Sessanta Fbi e polizia
criminale
divennero
sempre
più
metodici,
efficienti
e
criminali,
focalizzandosi
sull’eliminazione dei leader più in vista del movimento nero e si accanirono con tutta la loro
violenza sul Black Panther Party”. Con una base costituita da individui ai margini della
società – poveri, tossici, prostitute, disoccupati, criminali – i nuovi eredi del pensiero di
Malcolm X offrirono all’America nera la possibilità di sfogare tutta la rabbia che il
Movimento per i diritti civili non era stato in grado o non aveva voluto esprimere. Vestiti
con uniformi, baschi e giacche di pelle nera, armati e con un atteggiamento di sfida aperta
all’establishment, le pantere catturarono rapidamente l’immaginario popolare e i titoli dei
maggiori media, diventando il simbolo dell’orgoglio nero e delle paure della classe media
bianca. In poco più di due anni il partito aveva superato i cinquemila membri. Il partito si
diffuse a macchia d’olio in tutti gli Stati Uniti dando vita a una serie di “programmi di
sopravvivenza” nelle comunità nere – colazioni gratuite per bambini, distribuzione di vestiti
e cibo, scuole della liberazione e cliniche popolari – che ebbe un impatto radicale sulla
popolazione. Contro le Pantere nere, l’Fbi attivò in maniera metodica, quasi scientifica,
operazioni di sorveglianza, infiltrazione, vessazione, discredito fino ad arrivare
all’eliminazione fisica di militanti del partito. Fu Richard Nixon, a partire dal 1969, a
tracciare la linea definitiva e sanguinosa tra il dissenso accettabile e quello non
accettabile, mentre contemporaneamente l’allora governatore della California Ronald
Reagan liquidava il Black Panther Party e il movimento degli studenti di Berkeley. La
decade dei Settanta si apre così con il massacro degli studenti di Kent Stante, degli
universitari neri della Johnson State e della Southern University di Baton Rouge e con la
repressione del movimento dei detenuti neri. L’escalation delle operazioni clandestine
dell’Fbi di Hoover e della repressione poliziesca portarono alla disgregazione e, in un
secondo momento, alla dissoluzione del movimento di protesta di quegli anni.
Tutt’oggi la società americana presenta anche delle contraddizioni sul piano della
discriminazione. Infatti, la comunità nera in parte è perfettamente integrata nelle varie
strutture istituzionali riuscendo anche ad assumere incarichi di rilievo, mentre In molti Stati,
non solo i pestaggi ma varie altre forme di tortura sono diventate una pratica comune,
normalmente usate per ottenere una confessione forzata. Le statistiche generali sono
allarmanti. Nella città di New York per esempio il 92,5% delle persone uccise dalla polizia
facevano parte delle minoranze. Nel 1990 41 persone sono state uccise dalla polizia , 15
erano Afro-americani, 23 erano Latini e solo 3 erano bianchi. Il Ministero della Giustizia
USA registra 15000 casi di brutalità da parte della polizia ed abuso di potere ma il governo
USA guarda dall'altra parte. Ci sono circa 2.400 persone nei bracci della morte. Più del
41% dei prigionieri in attesa di esecuzione sono Afro-Americani. Chi assassina un bianco
ha maggiori probabilità di essere condannato a morte di chi uccide dei Neri".La polizia ha
una virtuale licenza di uccidere per quanto riguarda le comunità Afro-americane, Latine,
Nativo-americane e Asiatiche. Ogni anno centinaia di poliziotti sono accusati di abusi o di
assassini gratuiti, ma solo pochi vengono messi sotto inchiesta per questi crimini e di
questi solo una piccolissima percentuale vengono giudicati colpevoli. E in queste rare
occasioni in cui un poliziotto viene giudicato colpevole di violenza, o di tortura, o di
omicidio, e ancor più raro che il colpevole finisca in carcere, e i mass-media e l'udienza
dello spettacolo razzisti passano sotto silenzio questo terrore poliziesco e dipingono i Neri
e la gente del Terzo Mondo come criminali violenti e trattano la violenza della polizia,
come un fatto normale e del tutto giustificato. Il messaggio è ripetuto all'estenuazione in
svariati modi, rendendo implicito che i Neri e la gente del Terzo Mondo comunque
meritano di essere picchiati e presi a fucilate.
Vi è poi il problema estremamente attuale della cosiddetta “islamofobia”. Recenti sondaggi
indicano che quasi la metà dei cittadini americani ha una percezione negativa dell’Islam, e
che una persona su quattro ha una visione “estremamente” anti-musulmana. In
un’inchiesta condotta dal Consiglio per le relazioni americano-islamiche (CAIR) è emerso
che un quarto degli abitanti degli Usa crede a stereotipi come: “I musulmani danno un
valore diverso alla vita rispetto ad altri popoli”, e “la religione musulmana insegna la
violenza e l’odio”.
Nel 2005, CAIR ha ricevuto 1.972 reclami sui diritti civili, rispetto ai 1.522 del 2004. E cioè
il 29,6 per cento in più rispetto ai ricorsi nel 2004 per molestie, violenze e comportamenti
discriminatori contro i musulmani. È il maggior numero di reclami per i diritti civili dei
musulmani mai presentati a CAIR.
Dopo l’11 settembre, il Dipartimento di giustizia Usa (DOJ) ha cominciato a non fare più
distinzione tra gli arabi e gli altri musulmani e, erroneamente, chiunque avesse un aspetto
“mediorientale”, compresi i Sikh dell’Asia meridionale. Nei mesi immediatamente
successivi agli attacchi, 5.000 uomini sono stati trattenuti senza accuse formali, la maggior
parte di essi senza poter contattare un avvocato o i propri familiari. Come conferma
un’inchiesta dell’ispettore generale del DOJ, molti sono stati incarcerati e tenuti in
isolamento e hanno subito abusi fisici.
Nessuna di queste persone ha subito procedimenti legali o condanne. Alcuni, che si
trovavano negli Usa con un visto scaduto o avevano commesso altre trasgressioni relative
all’immigrazione, sono stati espulsi dal paese.
Da allora, l’elenco apparentemente infinito di molestie e abusi dei diritti civili dei cittadini
Usa è andato inesorabilmente infoltendosi. Alcuni esempi: Un uomo che stava viaggiando
in autobus verso Chicago, è stato fatto scendere dal mezzo con i propri bagagli a Toledo,
Ohio, dopo aver detto all’autista di essere iracheno. A San Francisco un attivista per i diritti
civili non ha potuto imbarcarsi su un aereo perché indossava una maglietta con la scritta:
“Non resteremo in silenzio”, in arabo e in inglese. Sei imam che erano stati visti pregare in
un aeroporto di Minneapolis sono stati fatti scendere da un aereo della US Airways, dopo
che un passeggero ha dichiarato all’assistente di volo di aver visto gli uomini comportarsi
in modo sospetto. Gli imam sono stati portati fuori dall’aereo in manette. Sono stati
interrogati e poi rilasciati, ma la compagnia aerea ha dichiarato che l’equipaggio aveva
agito bene nel respingere gli imam, e ha rifiutato di emettere nuovi biglietti per il giorno
successivo. Gli imam hanno fatto causa alla compagnia.
Ma questa isteria post 11 settembre non si limita ai soli Stati Uniti. In Gran Bretagna,
anch’essa vittima di attacchi terroristici, il parlamentare ed ex ministro degli esteri Jack
Straw ha suggerito che le sue elettrici musulmane si togliessero il velo con cui coprono il
proprio viso, così che lui potesse interagire meglio con loro.
In Olanda, un tempo considerata la società più aperta e tollerante in Europa, il governo di
centro-destra ha promesso di introdurre una legislazione per proibire l’uso del burqa e di
altri veli sul viso in quasi tutti i luoghi pubblici, tra cui tribunali, scuole, treni e persino in
strada.
La Francia, sconvolta la scorsa estate dai tumulti nelle periferie povere di Parigi, abitate in
gran parte da immigrati nordafricani e mediorientali, ha già vietato agli studenti nelle
scuole pubbliche di indossare veli che coprano il capo. Nicolas Sarkozy, un ministro del
governo e tra i candidati favoriti per la presidenza del paese, ha adottato la linea dura sia
verso l’immigrazione che nei confronti della vasta popolazione musulmana della Francia.
Sostiene di non volere l’Islam “in Francia”, ma di sostenere “un Islam francese”.
Secondo Sutherland, capo della divisione diritti civili del Dipartimento della sicurezza
nazionale, il governo ha bisogno dell’aiuto di questi gruppi nella lotta contro il terrorismo
nel paese.
La maggior parte dei membri di questa comunità pensa che il governo stia - forse
inavvertitamente - alimentando il fuoco del bigottismo, con l’uso di frasi come “islamicofascisti”, prese dal vocabolario che ha coniato per la “guerra globale al terrore”, e con
iniziative come conferenze stampa di alto profilo annunciando persecuzioni che spesso
falliscono.