ARGOMENTI TRATTATI LA CULTURA: Un’importante componente della cultura americana è l'American Dream e il mito del selfmade man: l’idea che chiunque, indipendentemente dalla condizione alla nascita, possa fare ciò che vuole della propria vita, con la forza della disciplina, della determinazione, del duro lavoro. L’American dream unisce gli americani, al di là delle divisioni etniche e di classe e dà un obiettivo e un senso comune al loro stile di vita. Gli americani sono convinti che il successo o il fallimento dipendano più che altro dall’impegno individuale. Da qui il mito del self-made man, dell’uomo che si fa da sé. Tutti devono poter raggiungere qualunque posizione, anche la più elevata, e non è accettabile alcuna limitazione né politica, né economica. Cosa sia diventato il Sogno Americano, è una questione continuamente discussa, e alcuni ritengono che esso abbia portato ad enfatizzare il benessere materiale come misura del successo e della felicità. Il problema è: un terzo degli americani, in base a un recente sondaggio nazionale, non crede più nel Sogno Americano. Alcuni hanno perso fiducia perché hanno lavorato duramente tutta la vita, solo per trovarsi infine disperati e senza più tempo davanti. Altri mettono in discussione il sogno stesso, sostenendo che sottolinearne il principio è diventato sempre meno rilevante in un mondo sempre più interdipendente e interconnesso. Per la prima volta, il Sogno Americano non serve più per unificare il popolo americano. Lo stesso Braudel pone un quesito: sta sparendo l’America del self-made man? Un esempio recente della realizzazione del Sogno Americano è il caso di Tamir Sapir. Immigrato dall'ex repubblica sovietica, Sapir arrivò in America nel 1973 e iniziò a lavorare come tassista a New York. Nel 2002, meno di trent'anni dopo essere arrivato in America senza un soldo in tasca, Sapir è diventato un milionario. Braudel afferma che: gli elementi essenziali del cosiddetto American way of life, termine che fa riferimento all’ethos nazionalista proprio degli Stati Uniti d’America, sono: libertà e ricerca della felicità, rispetto dell’individuo, fede religiosa semplificata all’estremo e rivolta verso le opere, primato assoluto della lingua inglese. Oggi sotto la definizione di American way of life si fa rientrare qualsiasi aspetto della cultura, degli usi e dei costumi del popolo statunitense, nonché le caratteristiche dell'organizzazione sociale e statale (sanità, educazione, ecc.). American way of life significa quindi anche: detenzione di armi in mani private, pena capitale, fast food e obesità. Il modo di vivere “alla grande” degli americani è uno degli aspetti che più attrae molti europei: auto e frigoriferi giganti, tecnologia all’avanguardia, strade ampie, luci sempre accese e benzina a costi incredibilmente bassi per un europeo. Però un tale tenore di vita non può essere più tollerato perché comporta un enorme pompaggio di gas inquinanti nell’atmosfera che minaccia il benessere di tutto il mondo. Purtroppo il presidente Bush sembra non voler riconoscere l’enorme responsabilità del suo Paese in materia di politiche ambientali e di eccessivo consumo delle risorse quando afferma che «Lo stile di vita americano non è oggetto di negoziati». Ma tutti sappiamo che sarebbe un grave errore confondere l’America con George W. Bush. Braudel: Come collettività gli Stati Uniti si sono comportati alla stessa maniera: il loro passato è una serie di occasioni colte al volo e sfruttate appieno. Forse oggi l’attuale amministrazione degli Usa sta conducendo il Paese attraverso una serie di decisioni sbagliate e rischiose, si pensi all’esito fallimentare della guerra in Iraq e soprattutto alle decisioni legate alla salvaguardia dell’ambiente. AMBIENTE Dalle pagine della rivista Science lo scienziato britannico David King, ha lanciato un duro attacco al presidente Usa George W. Bush per il suo disinteresse politico al cambiamento climatico in corso. "Dal mio punto di vista, il cambiamento climatico e' il problema piu' serio che dobbiamo affrontare oggi, persino piu' serio della minaccia del terrorismo", ha detto King. L'amministrazione Bush ha sbagliato a non sottoscrivere il protocollo di Kyoto (trattato internazionale in materia di ambiente sottoscritto nel 1997 e entrato in vigore nel 2005), ha continuato lo scienziato, e ha sbagliato a insinuare che il trattato potesse avere effetti negativi sull'economia statunitense. "Come unica superpotenza mondiale, gli Stati Uniti sono abituati a mettersi alla guida di azioni internazionali. Ma di fronte alla sfida del riscaldamento terrestre il governo americano sta fallendo". (Si prevede che le emissioni di anidride carbonica aumenteranno ogni anno del 1,8% , raggiungendo nel 2030 il 70% in più di quanto ne produciamo oggi. Un ruolo importante in questo incremento riguarderà i paesi in via di sviluppo ma gli Stati Uniti resteranno la principale fonte di emissione.) Con il loro consumo sregolato di combustibili fossili, gli americani vivono come se non ci fosse un domani. C’è chi ritiene che il loro atteggiamento così sconsiderato nei confronti delle risorse naturali sia qualcosa di radicato nella psiche di un popolo che si è stabilito in un paese di tale vastità e ricchezza. EGEMONIA CULTURALE: GLOBALIZZAZIONE E COMUNICAZIONI. CINEMA Gli attributi con cui si denotano spesso gli Usa sono “super-megapotenza”, “impero americano”, “iperpotenza”: ciò per sottolineare la realtà di predominio globale senza precedenti nella storia mondiale. L’influenza degli Usa pervade ogni ambito: dalla politica, le istituzioni, la società, alla cultura. Nell’era, poi, del fenomeno noto come Globalizzazione, che significa internazionalizzazione dei mercati, abbattimento delle barriere economiche regionali e quindi libero fluire di capitali, merci e informazioni su scala planetaria, gli Usa hanno potuto estendere la loro egemonia in maniera capillare come non era mai accaduto prima. Per quanto riguarda la cultura, lo smodato utilizzo dell'entertainment, la spettacolarizzazione degli eventi fa si che tutto, o quasi, venga reso pubblico sotto forma di spettacolo. L’American way of life è praticamente esportata in tutto il mondo attraverso i sistemi di comunicazione. Internet in prima linea, ma lo stesso sistema dell’informazione e dello spettacolo ha il suo quartier generale proprio in Usa. La Fox Broadcasting Company, è per esempio una rete principalmente dedicata alle serie televisive di diverso genere che sono diventate dei veri e propri cult e hanno fatto storia anche negli altri Paesi (si pensi a Happy days o ai Simpson), e ciò non significa soltanto che un prodotto televisivo americano è stato venduto alle reti italiane, o spagnole, o tedesche, ma che le varie sit-com che arrivano sono i veicoli di modelli socio-culturali americani, ai quali tutti sembriamo ormai assuefatti. Si pensi ad esempio alla festa di Halloween: non ha niente a che fare con la nostra cultura, eppure da un po’ di anni se ne sente parlare e si “festeggia” anche da noi. Accanto a questo, un altro aspetto ancora più imponente di produzione ed esportazione della cultura è costituito dall’industria cinematografica. Sono numerosissimi i film che amplificano i temi del terrorismo, dei disastri ecologici, degli assassini seriali, della necessità di un ordine mondiale, ecc. Naturalmente qualunque tipo di sfida venga delineata, si rivendica la funzione guida degli Usa nella sua risoluzione, più o meno miracolosa, ma comunque senz’altro targata America. In questi film l’America, in qualità di “gendarme del mondo”, rivendica la coerenza morale del suo comportamento anche in casi di disfatta, giustificando il proprio operato ed esaltandone il lato positivo. Il cinema americano riesce a trasformare una sconfitta sul campo in una vittoria dal profondo valore simbolico. Questo vizio di rielaborare gli eventi storici che hanno comportato delle sconfitte, per restituirli al pubblico in una versione riveduta e corretta a proprio uso e consumo, tipico del cinema americano risponde a una necessità del pubblico che vuole essere confortato nel proprio orgoglio patriottico da primo della classe. Il forte e viscerale patriottismo è un’altra grande caratteristica della cultura Americana. LA GLOBALIZZAZIONE E LA COMUNICAZIONE: ANTIAMERICANISMO VS ANTIEUROPEISMO: Bisogna dare due spiegazioni alternative all’intensità con cui l’Europa ha criticato gli Stati Uniti durante la crisi dell’Occidente: alcuni sostengono che all’origine c’è il comportamento unilaterale, arrogante e provocatorio dell’amministrazione Bush, altri che si tratta di un’espressione dell’antiamericanismo radicato, quasi genetico dell’Europa. In realtà ci sono europei senza un briciolo di antiamericanismo nelle vene, ma molto preoccupati per quell’unilateralismo militarista, goffo e arrogante dell’amministrazione Bush. La stessa preoccupazione condivisa da parecchi americani. È altrettanto vero, tuttavia, che i pregiudizi convenzionali sull’America, che si possono fare risalire alla cultura europea del XX sec, sono stati rinvigoriti da un presidente che sembra corrispondere perfettamente al vecchio stereotipo del cowboy texano, gretto e insolente. Entrambe le spiegazioni, l’antiamericanismo e l’antibushismo, contengono elementi di verità. Comunque dal momento che gli S.U. sono il Paese più potente del mondo, la maggioranza degli europei prova nei loro confronti quel misto di fascino e di risentimento che le potenze dominanti hanno sempre suscitato. Inoltre dopo la fine della guerra fredda Europa e S. U. non sono più unite da un singolo, evidente, nemico comune, e la neonata Unione Europea ha bisogno della presenza di un Altro per sottolineare e definire delle differenze che la distinguano per contrasto o aperta contrapposizione con l’America. Allo stesso modo si può affermare che tutta la storia americana è attraversata da un’ambivalenza nei confronti dell’Europa: un misto di fascino e di repulsione. In ogni periodo si trovano esempi di antieuropeismo e di eurofilia, così come in ogni periodo della storia europea si trovano antiamericanismo e americofilia. Ash afferma che guardando all’unione europea oggi, essa costituisce un problema per gli S. U., in parte perché non cresce, in parte perché lo ha fatto. USA: PAESE DELLE CONTRADDIZIONI Negli Stati Uniti c'è una cultura della violenza perpetuata dalla televisione, dal cinema, dal militarismo di questo Paese. Questo Paese è coinvolto in un enorme violenza in Medio Oriente e possiede truppe basi militari in tutto il mondo. La filosofia di questa amministrazione è di usare la violenza per risolvere i problemi del mondo. La usa frequentemente e con effetti devastanti e alimenta una cultura che considera la violenza normale e la perpetua nei videogames, in tv, nei film. Allo stesso momento esistono leggi che consentono alle persone di portare armi. ARMI (Gli americani, a differenza della maggioranza degli europei, possiedono armi da fuoco: 9 armi da fuoco ogni 10 americani privati, a confronto delle 3 scarse ogni 10 europei. Negli Stati Uniti il tasso di omicidi è più che quadruplo rispetto a quello degli stati europei. Si calcola che negli Stati Uniti vengono uccise ogni anno 11.127 persone con armi da fuoco. La sovrabbondanza di armi da fuoco è una differenza reale tra America ed Europa se si eccettuano certe zone dell’est europeo, dove si portano tuttora liberamente le pistole.) Attualmente, come afferma il Secondo Emendamento della Costituzione e alcune leggi statali, praticamente qualsiasi cittadino può comprare un'arma da fuoco. Il fatto è però che al tempo dell'elaborazione della Costituzione non esistevano armi automatiche. Ma non esistevano nemmeno i governi, con la loro dose di violenza. La Costituzione viene costantemente interpretata e reinterpretata, e oggi il secondo emendamento significa ciò che Bush e questo governo vogliono che significhi. Al tempo questa norma consentiva l'autodifesa in un Paese che usciva da una guerra civile. Il problema è politico, è la necessità di garantirsi i voti dei membri della National Rifle Association, che ha un potere enorme sui media, possiede compagnie aeree e via dicendo. La questione è semplicemente questa: il desiderio opportunistico di Bush di guadagnare questi voti e il rifiuto di imporre un divieto alla vendita di armi. In America l’industria delle armi è la lobby più potente. PENA DI MORTE Non in tutti gli stati della federazione americana si applica la pena di morte: in alcuni è stata abolita, oppure la sua esecuzione è stata sospesa. La pena di morte è comunque prevista per reati federali e militari, anche per cittadini di Stati dell'Unione in cui la pena di morte non è prevista per reati non federali. Sono 18 gli stati che di fatto non applicano la pena capitale. Presso l'opinione pubblica americana il dibattito sulla pena di morte è tuttora molto acceso. Nel 1993 l'allora Presidente George H. W. Bush, fece una legge che stabiliva l'iniezione letale come metodo per eseguire una condanna, lasciando liberi gli Stati che applicano la pena di morte di mantenere anche altri metodi (gas, scarica elettrica, fucilazione, impiccagione). L'iniezione letale consiste in tre veleni iniettati per via endovenosa. Il condannato è dichiarato morto di solito dopo 7 minuti, ma ci sono stati anche casi di agonie durate oltre 10 minuti. Gli oppositori della pena di morte sostengono che il condannato è cosciente mentre il secondo veleno provoca il soffocamento. Nel Novembre 2006 un condannato è morto dopo circa 40 minuti (invece dei 7 previsti) tra atroci sofferenze, questo ha sollevato ulteriori dubbi e perplessità sull'uso della pena capitale al punto che due stati hanno sospeso temporaneamente la pena di morte in attesa di una decisione definitiva. OBESITÀ Quasi un terzo degli americani soffre di quella malattia chiamata obesità. Nel Sud del mondo gli uomini, le donne e i bambini muoiono perché non hanno abbastanza da mangiare; in Usa e nel Nord del mondo perché mangiano troppo. Ogni giorno almeno un terzo dei bambini e degli adolescenti americani tra i quattro e i 19 anni mangiano cibi da fast food: ogni anno le catene di fast food spendono miliardi di dollari in pubblicità diretta ai ragazzi. La ricerca, condotta su oltre seimila ragazzi e ragazze in ogni regione geografica e in ogni classe sociale, ha dimostrato che sono stati soldi spesi molto bene: il consumo di hamburger e patatine e altri alimenti del genere tra bambini e adolescenti è quintuplicato rispetto agli anni Settanta. LA RELIGIONE: Gli americani sono, nel complesso, molto più religiosi degli europei; recenti sondaggi lo dimostrano con chiarezza: l’83% degli americani, contro il 49% degli europei, afferma di considerare Dio importante o molto importante; il 47% degli americani dichiara di recarsi in Chiesa almeno una volta a settimana contro il 20% degli europei e quattro americani su cinque credono nella vita dopo la morte. Braudel sostiene che secondo i sondaggi la società americana è religiosa al 100% e che già Benjamin Franklin nel 1782 affermava che negli Stati Uniti l’ateismo era sconosciuto. Per Braudel, nel momento in cui parla, in America non c’è linguaggio ufficiale che non sia sotto il segno di Dio e ogni iniziativa americana all’estero tende ad assumere l’aspetto di una “crociata”. Per lui all’America poco importa il modo in cui ognuno concepisce la propria fede, ognuno è libero di credere a modo suo, purché creda: questo è l’unico obbligo. Quello che potrebbe sembrare agli occhi degli europei un esempio di tolleranza è, secondo Braudel, una situazione in cui il laicismo e l’ateismo di tipo occidentale, e soprattutto la laicità del governo e dell’istruzione, sono del tutto inconcepibili. Ma Braudel sbaglia nel prevedere che l’America religiosa fosse minacciata dal passaggio dei fedeli alla ricchezza. Oggi si sa infatti, che l’America, con la sua religiosità, è il solo paese al mondo ad essere ricco e religioso al tempo stesso. Negli Stati Uniti è presente un forte quanto variegato spirito religioso che si spiega facendo riferimento alla storia e alla costituzione materiale del Paese. I valori religiosi sono una parte importantissima della vita degli statunitensi. Di fatto si osserva che nascono continuamente moltissime confessioni religiose. Il Cristianesimo è presente in tutte le sue grandi derivazioni: in maggioranza protestanti (49,2%), seguiti dai cattolici (25,9%), mormoni (1,4%), Testimoni di Geova (0,7%) e ortodossi (0,3%). Le confessioni protestanti di maggiori tradizioni sono quelle della tradizione calvinista-riformata (presbiteriana, congregazionalista, nonché i battisti) e gli episcopali, questi ultimi ramo americano dell'Anglicanesimo, cui tradizionalmente fanno riferimento le classi alte (è la confessione della famiglia Bush). Le confessioni più diffuse sono nell'ordine la battista (17.2%), la metodista (7.2%), fede abbracciata dal presidente George W. Bush dopo il matrimonio, la luterana (4.9%), la presbiteriana (2.8%) e la episcopale (1.8%), oltre ad una miriade di Chiese evangeliche, pentecostali e minori. La singola chiesa più diffusa è quella cattolica, rafforzata dall'immigrazione ispanica degli ultimi 30 anni. Vi sono anche presenze ebraiche (1.4%), islamiche (0,6%), buddiste (0,5%), induiste (0,4%), sikh, caodaiste, scintoiste, e bahai, grazie all'enorme varietà di etnie presenti ogni religione è rappresentata. Negli ultimi decenni si è sviluppato il fenomeno delle TV and Web Churches, guidate dei cosiddetti tele-predicatori. Parallelamente sono nate e cresciute le cosiddette megachurches, grandissime chiese evangeliche non-denominazionali. Spesso la religione è dietro a molte questioni e controversie politiche riguardanti il razzismo (il movimento per la desegregazione dei neri era guidato da Martin Luther King), il pacifismo (la stessa guerra in Iraq ha diviso il panorama religioso tra favorevoli e contrari), la pena di morte (sostenuta dalle chiese protestanti di stampo evangelical e fermamente contestata dai cattolici), la bioetica, l'omosessualità, l'insegnamento della teoria dell'evoluzione delle specie e il Neodarwinismo. Fenomeno minoritario ma in crescita è la diffusione del Neopaganesimo, le cui numerose correnti sono tutte presenti negli Stati Uniti. Cadisciti, druidici, dodecateici, kemetici, odinisti, romanisti, slavisti e wiccani sono realtà religiose in forte crescita, in particolare tra la popolazione giovane. Le religioni neopagane hanno inoltre trovato, negli Stati Uniti, terreno fertile per l'istituzione di innumerevoli organizzazioni, come ad esempio le molte Chiese wiccane e la Casa di Netjer, Chiesa che diffonde il Kemetismo ortodosso. Cristiani 81,1% o Protestanti 49,2%; o Cattolici 25,9%; o Anglicani 1,8%; o Mormoni 1,4%; o Testimoni di Geova 0,7%; o Ortodossi 0,3% o Altri Cristiani 1,9% Ebrei 1,4%; Musulmani 0.6%; Buddhisti 0.5%; Induisti 0.4%; Altro 1,0% Atei e Agnostici 15,0%. LA DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA: Nella distribuzione della ricchezza, l’America presenta più disuguaglianze della maggioranza dei paesi europei. Attualmente negli Stati Uniti vivono più di 5 milioni di senza tetto. Gli Stati Uniti hanno la percentuale più alta di popolazione che versa in condizione di povertà cronica e, contemporaneamente, vantano quasi tre milioni di milionari. Pertanto, il ceto medio americano si trova tra una sottoclasse di poveri cronici ed una superclasse di ultra-ricchi. Secondo Braudel, la grande idea che animava i sostenitori della Dichiarazione d’indipendenza era proprio quella di salvaguardare la proprietà, la ricchezza, il privilegio sociale. Al suo atto di nascita, quindi, l’America aveva già i suoi ricchi, destinati per la loro ricchezza a guidare gli altri. L’ordine imposto dalla costituzione sotto il nome di libertà ed uguaglianza, era già l’ordine del capitalismo: ai ricchi il potere e la responsabilità di governo, agli altri la grande concessione di essere protetti dalla legge contro i ricchi, così come i ricchi lo sono contro di loro. Con l’aggiunta però che ognuno aveva la possibilità di tentare la sorte e di superare prima o poi i limiti della propria classe d’appartenenza: il self-made man diventa l’immagine classica di quell’America che, secondo Braudel, negli anni ’60 stava forse scomparendo. Oggi il 90 per cento degli americani risulta preoccupato per il crescente livello di poverta' nel loro Paese e le cose vanno sempre peggio. Nel 2003, infatti, il numero dei poveri e' aumentato di 1 milione e 700 mila persone e sembra incredibile ma nell'America dell'obesita' un bambino statunitense ogni sei vive nelle incertezze e nella fame. La maggior parte degli americani, sebbene preoccupati, non ha pero' idea di quanto diffuso sia il fenomeno. Moltissimi sono pero' consapevoli che la poverta' non e' un concetto astratto. Il 56 per cento teme, infatti, di potersi trovare nel bisogno prima o poi nella sua vita. Ancora una volta, la causa principale della poverta' viene vista nella mancanza di istruzione. Con il taglio delle sovvenzioni governative infatti, l'accesso ad un'istruzione adeguata diventa sempre più difficile per i bambini poveri. In molte grandi città la percentuale dei bambini che abbandona la scuola si aggira tra il 30% e il 70%. Nel 1980 i distretti scolastici più ricchi del New Jersey hanno speso per ogni bambino 800 $ in più di quelli spesi dai distretti poveri. Oggi la differenza è di più di 3000 $. Nel Texas nel 1978 i distretti ricchi hanno speso 600 $ in più di quelli poveri. Oggi la differenza è di 5000 $. Dal 1977 le rette dei college privati sono più che triplicate. La retta dell'anno scorso era mediamente di circa 8700 $. Nelle scuole pubbliche la retta è più che raddoppiata e quest'anno ammonta a circa 1700 $. IL RUOLO DELLO STATO, LA SANITÀ E WELFARE STATE: Nel poscritto del 1966 Fernand Braudel intravede con l’affermazione sempre più massiccia delle società multinazionali, la perdita degli stati della loro funzione equilibratrice, mentre nuove teorie liberali condannano ogni intervento dei governi in campo economico e richiedono una radicale riforma del welfare state, con la riduzione delle spese sociali (sanità, pensioni, istruzione pubblica) che gravano con la tassazione sui costi delle imprese. Dagli anni ’60 ad oggi il welfare ha subito vari cambiamenti. Inizialmente il Welfare fu adottato per fronteggiare i problemi sollevati dalla crisi del 1929. L'introduzione della previdenza sociale e dell' assicurazione contro la disoccupazione gettarono le basi per la costruzione dello stato sociale (Welfare State). Con tale termine si intende la rete di servizi gratuiti e semi-gratuiti che uno stato garantisce ai suoi cittadini (sanità, scuola, pensioni, casa, trasporti), attingendo alle risorse fornite dal prelievo fiscale. Il welfare state verrà criticato e ridimensionato negli anni ’80 durante il neoliberalismo ad opera di R. Raegan: riduzione delle tasse, massima libertà nei rapporti di lavoro (deregulation), contrazione dello stato sociale. I neoliberisti partono dall' idea del fallimento delle politiche keynesiane adottate nella parte centrale del XX secolo e propongono di aumentare il grado di libertà delle imprese e degli imprenditori. Le classi medio alte non intendevano più farsi carico dei costi sociali indirizzati a tutta la società: come accennato sopra, le politiche del Welfare state si affievoliscono essendo i liberisti contrari all’ intervento dello stato in economia e favorevoli a una riduzione della pressione fiscale. Negli anni ’90 sarà poi Clinton a proporre di riformare il welfare state per diminuire il costo e l’ estensione dell’ assistenza pubblica e spingere i poveri al lavoro. La riforma fu rinviata, aprendo così un ampio spazio di iniziativa e di risonanza pubblica ai beni più radicali progetti di smantellamento avanzati dalla nuova destra; soprattutto Clinton fu sconfitto sulla riforma sanitaria, che egli stesso aveva elevato a priorità fondamentale della propria presidenza. Dal 2000 in poi però, il presidente Bush ha sostenuto la privatizzazione parziale della Previdenza sociale nazionale, in modo tale che ogni individuo possa essere libero di investire una parte delle sue tasse per la previdenza in fondi pensionistici privati. Oggi infatti in America chi possiede una cospicua pensione lo deve soltanto a sé stesso; infatti ognuno può stabilire la percentuale da detrarre per il fondo pensionistico. Le donne separate con figli a carico e disoccupate vengono tutelate; a quest’ultime viene fornita una carta assistenziale dai 2 ai 6 mesi. Se però sei un uomo e godi di ottima salute l’unico mezzo per ricevere l’assistenza è lavorare! Nonostante però l’America spendi molto per la sanità (nel 2001 il 13,9% del pil), c’è da dire si tratta della sanità privata, quindi riservata agli americani che se la sono potuta permettere. In Europa il Paese che le si è avvicinato di più è la Svizzera (10% del pil). Circa la sanità pubblica la spesa in America e GB è stata la stessa (6,2% del pil). Soltanto per i suoi 40 milioni di poveri, il programma americano Medicaid spende più del National Health Service britannico che invece assiste 60 milioni di abitanti. Se dovessimo pensare a chi invecchia nelle migliori condizioni tra un tedesco e un americano sicuramente sarà il primo. In Germania è stabilita una percentuale fissa per il fondo pensione, disoccupazione e salute. Oltre la sanità il welfare comprende anche l’istruzione, i trasporti. Il budget che l’America spende per questi servizi sociali è aumentato negli anni. La migliore istruzione secondaria è in America (l’America spende il 2,7% del pil contro l’1% di GB e Germania). Braudel sottolinea che dal momento in cui lo stato federale americano assume una sua responsabilità nell’organizzazione economica del paese, questo diventa anche responsabile dell’ingiustizia sociale. Braudel si chiede se tale intrusione dello stato nella società, che risultava ripugnabile per ogni cittadino statunitense, si sarebbe potuta evitare o no nel prossimo futuro. Egli insiste in particolar modo sulla differenza tra USA ed Europa nel campo della previdenza sociale, in cui un cittadino americano a differenza di quello europeo, gode di molte meno garanzie e sostiene che, nel momento in cui parla, sia la classe dirigente americana che l’opinione pubblica, iniziano a prendere coscienza del problema e a ritenere inevitabile ed auspicabile una politica sociale americana. Ciò, secondo Bruadel, rischia di modificare profondamente le strutture della società e della civiltà americane. Gli americani ritengono più importante che il governo li lasci liberi di conseguire i loro obiettivi, mentre per gli europei è più importante che i governi garantiscono a tutti la libertà dal bisogno. Allo stesso modo, gli americani sono convinti che il successo o il fallimento dipendano dall’impegno di ciascun individuo. L’Europa, di conseguenza, ha più welfare degli Stati Uniti, dove il prelievo fiscale è inferiore al 30%, mentre in Europa, nel 2003, superava il 40%. Nonostante oggi l’America sia considerata “il fanalino di coda del welfare” nel mondo sviluppato, in realtà però il contrasto con l’Europa non è così netto. IL CAPITALISMO: Braudel negli anni ’60 considerava il capitalismo “l’animatore della vita materiale, della politica e della civiltà americane che aveva dato vita ad uno sviluppo materiale senza uguali nel mondo”, a quanto pare non possiamo dargli torto. “L’impero degli affari è evidente e fa piena mostra di sé, con i giganteschi buildings di Manhattan”, suscitando l’ammirazione dell’Europa. Per comprendere l’evoluzione del capitalismo americano occorre rifarsi all’epoca dei trusts (trust=fiducia), un’unione di azionisti che possiedono titoli di diverse società e delegano ai trustees il compito di rappresentarli, anche se, alcuni di questi miravano, all’epoca di Braudel, a costituire un monopolio. Dal secondo dopoguerra in poi, il capitalismo anche se ha mantenuto inalterate le sue principali tendenze di sviluppo, ha però rovesciato il rapporto tra l’attività economica ed il ruolo dello stato. Negli anni ’50 e ’60 economisti e politologi hanno parlato di neocapitalismo (talvolta definito la “società dei consumi”) per indicare una fase in cui i governi sono intervenuti per regolare il mercato, stimolare la domanda e stabilire alcune priorità produttive attraverso la “programmazione economica”. Però, come anche Braudel aveva notato al tempo in cui parla “con gli oligopoli, i sindacati e il “potere equilibratore” dello stato “ andava sorgendo in America una sorta di neocapitalismo, che si adattava, nella sua forma matura, alle condizioni del secolo xx, ed è già molto diverso dal capitalismo tradizionale”, negli ultimi due decenni invece, con l’affermazione sempre più massiccia delle società multinazionali, gli stati hanno perso la loro funzione equilibratrice, mentre nuove teorie liberali condannano ogni intervento dei governi in campo economico e richiedono una radicale riforma del welfare state, con la riduzione delle spese sociali (sanità, pensioni, istruzione pubblica) che gravano con la tassazione sui costi delle imprese. Sul piano più strettamente storiografico il parere degli economisti si è diversificato sul ruolo e sul futuro del capitalismo contemporaneo. Gli studiosi marxisti (come ad esempio gli americani Sweezy e O’Connor) hanno continuato ad attribuire alle grandi imprese la responsabilità dello sfruttamento delle aree arretrate, dei guasti sociali interni agli stessi paesi industrializzati e la distruzione dell’equilibrio naturale del pianeta. Altri, di orientamento liberale, hanno giudicato favorevolmente la nascita delle multinazionali, quale fattore di prosperità e di progresso per tutta la popolazione del mondo, Braudel non crediamo possa appartenere a questa schiera. Egli era sicurissimo che gli oligopoli, il “regno dei giganti”, non si sarebbero mai frantumati in imprese di piccole dimensioni. Si può assumere abbia già previsto le grandi multinazionali odierne e che in esse quella che lui definisce la “pratica ossessionante” delle human relations e delle pubblic relations. Secondo Ash, l’Europa sarà il concorrente più immediato degli Stati Uniti nel prossimo futuro. Le due economie oggi sono strettamente collegate, e per esempio gli investimenti europei in Texas superano quelli americani nel Giappone. Gli USA, oggi sono in deficit e per fronteggiare questa problematica hanno bisogno che gli europei continuino a comprare i bond americani. Con l’avvento dell’euro l’Europa può relazionarsi con gli USA “da gigante a gigante”. L’euro ha le potenzialità di diventare una moneta di riserva rivale del dollaro, soprattutto se le vendite di petrolio cominceranno ad essere espresse nella moneta europea. Ne è prova il fatto che il dollaro soffre spesso di ribassi nei confronti dell’euro; solo poche settimane fa, ha raggiunto il “minimo storico” nel cambio di moneta. Ma, il fatto che gli USA debbano prendere sul serio l’Europa sul piano economico non vuol dire che lo faranno sotto il profilo politico. Come disse d’altronde Braudel già negli anni Sessanta “il denaro è re nella libera democrazia che vuol essere l’America.” L’UNILATERALISMO, L’ISOLAZIONISMO E IL TERRORISMO: Gli Stati Uniti, infatti, detengono una potenza militare, politica, tecnologica e anche culturale che non ha eguali. Il termine unilateralismo che significa concentrazione delle decisioni, è spesso andato di pari passo con quello di unipolarità che significa concentrazione del potere, tanto che gli Stati Uniti hanno usato, per tanto tempo, il loro straordinario potere senza necessariamente condividere con altri le proprie posizioni. Si tratta di un’idea rivoluzionaria soprattutto in politica estera poiché spesso gli Stati Uniti hanno utilizzato il proprio potere per costruire solide alleanze multilaterali. La rottura di questa tradizione è legata in modo particolare all’Amministrazione Bush ed è, per certi versi, precedente agli stessi attacchi da parte del terrorismo dell’11 settembre. Infatti le decisioni di uscire dal protocollo di Kyoto sull’ambiente o di non sottoscrivere il nuovo protocollo della Convenzione sulle armi biologiche possono essere definite soltanto come unilaterali. Il primo elemento dell’unilateralismo consiste nel fatto che l’America deve cercare di conservare la propria superiorità militare rispetto alle altre potenze del mondo, per poter controllare il sistema internazionale e contrastare nel giusto modo i pericoli derivanti sia dal terrorismo internazionale. Una strategia del genere, che per alcuni può essere definita neo-imperiale, si scontra con la naturale tendenza degli altri Stati a controbilanciare lo Stato egemone, o almeno, ad ottenere da questo sostanziose concessioni. Un secondo elemento, connesso al primo, è quello per cui gli Stati Uniti non devono farsi imbrigliare dalle istituzioni multilaterali. Nel XX secolo tradizionalmente sono stati gli Stati Uniti a sostenere il multilateralismo, basti pensare all'appoggio mostrato nei confronti dell’unificazione dell’Europa o alla costituzione della Nato e dell'Onu. Il cambio di rotta è attestato dai numerosi articoli critici che ridicolizzano il ruolo dell’Onu, negando ad esso una qualsiasi funzione che non sia puramente decorativa, o che accusano la seconda guerra del Golfo di aver provocato una profonda frattura tra Stati Uniti e Nazioni Unite e di aver scardinato il sistema dell’Onu mostrandone l’inefficacia. Dal punto di vista europeo, il multilateralismo potrebbe essere considerato il tentativo di contenere lo strapotere statunitense, di controllarlo, di renderlo maggiormente prevedibile. Il terzo elemento è rappresentato dalla nota teoria della guerra preventiva. L’America rappresenterebbe l’avanguardia della libertà contro la nuova forma di totalitarismo rappresentata dal terrorismo islamico. Riprendendo una terminologia reaganiana gli Stati Uniti rappresenterebbero l’Impero del Bene contro quello del Male. Gli Usa rivendicano il diritto di intervenire ovunque per anticipare qualsiasi possibile futura minaccia alla propria sicurezza, e non solo quindi per rispondere a un attacco ricevuto. Gli europei, nel giro di qualche anno, rischiano di passare da alleati privilegiati degli Usa ad alleati eventuali più o meno desiderati, con un notevole declassamento. Il quarto ed ultimo elemento è quello della speranza di esportare con la forza la democrazia. Gli Stati Uniti cercano di imporsi agli altri Stati ma noi europei, nonostante la gratitudine che dobbiamo continuare a serbare per la potenza che per ben due volte ci ha offerto il suo aiuto nella lotta contro i totalitarismi, non dobbiamo necessariamente dipendere in tutto da essi. Per esempio, non dobbiamo necessariamente ritenere che la soluzione adottata dagli americani per affrontare il terrorismo islamico conseguente l’attacco dell’11 settembre che per la prima volta nella storia ha fatto vacillare l’invulnerabilità del territorio americano, sia la migliore. Del resto, se è vero che gli Stati Uniti hanno bisogno di alleati e di consenso per la loro politica, è anche vero che la comunità internazionale non può fare a meno della potenza americana e dei suoi migliori ideali, soprattutto di fronte alla lotta al terrorismo. Per questo alla fine converrebbe sia all’Europa che agli Stati Uniti un ordine internazionale multilaterale, con oneri e responsabilità condivise piuttosto che concentrate in un’unica capitale. In fine possiamo affermare che Braudel aveva afferrato appieno ciò che sarebbe accaduto in futuro, come lo dimostra la sua frase: "ogni loro gesto, lo vogliono o no, ha conseguenze mondiali". LA "GUERRA AL TERRORISMO" Gli attentati dell'11 settembre segnarono l'inizio della guerra al terrorismo con l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'esercito degli Stati Uniti nell'ottobre 2001 e la deposizione del governo talebano, che ospitava il leader di al-Qā'ida e campi d'addestramento e logistica di tale organizzazione. Anche l'invasione dell'Iraq e la cattura di Saddām Husayn da parte delle forze angloamericane nel 2003 sono state indicate dal Governo degli Stati Uniti come operazioni rientranti nella "guerra al terrorismo", sebbene non siano mai emersi collegamenti diretti tra il regime iracheno e gli attentati dell'11 settembre. L'8 settembre 2006, un rapporto ufficiale reso pubblico della Commissione Servizi Segreti del Senato degli Stati Uniti ha affermato che non ci sono prove di legami tra il regime di Saddām Husayn ed al-Qā'ida. Secondo il documento del Senato statunitense, infatti, l'ex Presidente iracheno diffidava di Osāma Bin Lāden, considerandolo una minaccia al proprio regime e aveva respinto ogni richiesta di sostegno da parte dell'organizzazione terroristica. Tuttavia, ancora nel settembre 2006, in almeno due diversi documenti dell'FBI riguardanti avvisi di ricerca per Bin Lāden, il leader di al-Qā'ida non risulta ricercato per gli attentati dell'11 settembre ma "in connessione con gli attentati del 7 agosto 1998 contro le ambasciate degli Stati Uniti di Dar es Salaam, Tanzania e di Nairobi, Kenya. Questi attacchi hanno ucciso oltre 200 persone. Inoltre, Bin Lāden è sospettato per altri attacchi terroristici nel mondo". L'FBI avrebbe spiegato, in un intervista, l'omissione degli attentati dell'11 settembre nei propri avvisi di ricerca con la carenza di "prove concrete" a propria disposizione per ottenere l'incriminazione formale di Bin Lāden anche per tali eventi. Il sito dell'FBI, nella pagina che raccoglie l'indice dei maggiori ricercati per terrorismo, tra i quali Bin Lāden [10], afferma che «Gli accusati per terrorismo in questa lista sono stati incriminati da Grand Juries federali di diversi distretti negli Stati Uniti per i reati riportati negli avvisi di ricerca (...). Le imputazioni attualmente elencate negli avvisi permettono il loro arresto e la loro consegna alla Giustizia. Future incriminazioni potrebbero essere formulate in quanto sono in corso diverse indagini relative ad altri attacchi terroristici come, ad esempio, quelli dell'11 settembre 2001[3]». MOTIVAZIONI L'ultima grande menzogna della propaganda è quella della cosiddetta "guerra al terrorismo" provocata dagli attentati dell'11 settembre 2001. Questa è una guerra di conquista, una guerra fatta scoppiare per obiettivi di carattere strategico ed economico in Asia centrale, collegata a quelle dell'ultimo decennio, e preparata da almeno quattro anni. Se noi guardiamo alla storia, se abbiamo un minimo di senso storico, ci accorgiamo che tutte le guerre sono sempre state guerre di conquista motivate da considerazioni economiche, cioè controllo delle risorse, di territori e così via. E questa non fa eccezione. Ne sarebbe prova sufficiente la formulazione nel 1997 da parte del Congresso USA del Silk Road Strategy Act, essenzialmente sulla creazione di una sfera di influenza americana - un corridoio strategico - dal Mediterraneo all'Asia centrale passando per il bacino del Caspio, la base per l'espansionismo USA in un'area di grande importanza economico-strategica. Vi sono tuttavia anche altre ragioni, ma sempre complementari alla motivazione fondamentale. La prima è di carattere economico contingente. Quando i titoli delle società high-tech sono crollati e la recessione economica è divenuta evidente, ed il governo USA ha risposto spostando risorse dal settore civile al complesso militar-industriale, un processo già accelerato dopo le elezioni presidenziali del 2000. Enormi risorse dunque verranno trasferite nelle casse dei contraenti della difesa, che a loro volta sono strettamente legati alle società petrolifere, che a loro volta sono connesse al settore dei mass media e dello spettacolo e così via: il denaro dei contribuenti andrà alle corporations in misura ancora maggiore, persino dopo i generosi tagli fiscali concessi in precedenza dall'amministrazione Bush al grande capitale. G.W. Bush il 6 settembre 2001: "Ho detto ripetutamente che l'unica periodo durante il quale si può usare il denaro della sicurezza sociale è in tempo di guerra, in periodi di recessione e di gravi emergenze, e ne sono convinto". Nel sistema capitalista, quando il grande capitale ha problemi ed i mercati non funzionano più, vi è una sovracapacità produttiva che crea una recessione profonda e prolungata, uno dei modi tradizionali per uscirne è quello di liquidare una gran parte del capitale ed il miglior modo per liquidarlo molto velocemente è la guerra. Dunque, il modo per risolvere il problema del saggio di profitto in discesa in un'economia di mercato è l'uso di meccanismi non di mercato. E dopo una guerra viene sempre la ricostruzione, almeno così è stato finora. Un altra ragione è di carattere politico strategico. Anche l'impero americano - come è accaduto per tutti gli altri imperi - sta cominciando a disgregarsi. Ovunque, ma soprattutto nel terzo mondo, l'America, una volta ammirata, viene ora solamente temuta. Ciò è parte di un'evoluzione storica che ad un certo momento diventa inevitabile. L'impero di conseguenza diventa ancora più pericoloso. L’IMMIGRAZIONE E IL RAZZISMO: Immigrazione: Braudel analizza come uno degli elementi essenziali della società americana sia lo straordinario afflusso di uomini. Egli parte analizzando gli emigranti del 1880, distinguendo le loro diverse provenienze. In seguito, sostiene che dagli anni ’50 in poi non prevalgono solo gli immigranti nordici ma anche i tedeschi e gli inglesi. Essi diventano americani a tutti gli effetti, con comportamenti e reazioni specificamente americani perché in America il meccanismo dell’assimilazione ha sempre funzionato bene. Braudel ci dice che negli anni ’60 le uniche correnti di immigrazione fanno capo al sud dal Messico e da Porto Rico e a nord dal Canada francese, ma si tratta solo di infiltrazioni. I nuovi arrivati hanno fornito all’industria americana la manodopera americana per il suo avviamento ed il suo sviluppo ma hanno dato anche un contributo di poveri e di proletari alle enormi città di cui New York è il prototipo insuperato. Nonostante la sua straordinaria trasformazione per l’arrivo in massa di uomini nuovi, la civiltà americana ha assimilato tutto: macchine, fabbriche, settore terziario e anche gli immigranti non protestanti. La vera immigrazione si sviluppa negli anni 70, ma specialmente negli anni 80. Un numero crescente di immigrati, provenienti soprattutto dall’Asia e dai paesi latinoamericani, si riversò negli Stati Uniti. Un altro flusso di immigrazione proveniva dall’Europa e dall’ Asia, Medio Oriente, America Latina, Carabi. Questi contribuirono a formare un’America multietnica e multirazziale. Il melting pot, il crogiuolo di razze, connota infatti l’attualità dell’America contemporanea. Non è un caso che l’Economist vi abbia dedicato un numero speciale. Le cifre riportate dal settimanale non passano inosservate: dal 1990 a oggi gli immigrati con cittadinanza statunitense sono passati da sei a venticinque milioni. "E’ la più grande ondata migratoria dai tempi dei primi pionieri europei", commenta l’Economist. E aggiunge altri numeri: nel censimento del 1950 gli americani bianchi erano l’89 per cento e i neri il 10 per cento della popolazione. Oggi i latino americani sono il 12 per cento, entro cinque anni diventeranno la prima minoranza etnica del paese, entro dieci saranno la maggioranza nella regione di Los Angeles e in vent’anni lo saranno in tutta la California e nel Texas. Se la tendenza odierna dovesse proseguire, nel 2050 un cittadino su quattro sarà di origine latina. Sono questi i "nuovi americani". Immigrati che lavorano nei ristoranti, negli alberghi, nei campi, nelle fabbriche, fanno i custodi o i tassisti, affollano la Silicon Valley, dove c’è bisogno di manovalanza e non solo dei geni che mandano avanti la tecnologia dell’informazione e la nuova economia. Sbrigano i lavori indispensabili che gli americani non vogliono più fare. Non hanno diritti e non possono difendersi, perché chi li assume li ricatta: se chiedono il minimo salariale o l’assistenza sanitaria vengono denunciati e, in base alla legge attuale, espatriati. Sono circa mezzo milione le persone cui gli Usa hanno negato lo status di rifugiati politici. Poi vengono circa 350 mila immigrati di lungo corso, che risiedono negli Stati Uniti da almeno quindici anni e che ancora non sono stati messi in regola. Infine l’Afl-Cio segnala 10 mila liberiani scampati alla guerra civile che vivono in America con permessi di soggiorno temporanei. Il sindacato intende difendere coloro che ormai hanno passato il confine e bonificare una situazione ormai ingestibile ed estendere la unionization anche agli immigrati. Ma questo non significa che sia a favore di un’apertura delle frontiere. Al contrario, alcuni vincoli devono rimanere. Razzismo: Nell’est e nel centro ovest si possono vedere sempre più spesso dei negri mescolarsi alla vita dei bianchi, ma per i bianchi essi restano sempre dei negro. Braudel temeva che queste contraddizioni interne alla società porteranno ad una fonte di malessere intellettuale e morale ed augurava che l’America trovasse una soluzione appropriata. Ciò che effettivamente egli temeva si verificò tra il ’65 e il ’67 quando nacque la mobilitazione dei neri, egemonizzata da Martin Luther King, ispirata all’ideologia rivoluzionaria e separatista . Le grandi manifestazioni pacifiche così come i violenti riot che punteggiarono l’America durante gli anni Sessanta affondano le radici nella metà degli anni Cinquanta, quando una sentenza della Corte suprema del 1954 dichiarò incostituzionale la segregazione scolastica dei neri aprendo una crepa nella dottrina razzista vigente che considerava la popolazione nera “separata ma eguale. L’importanza della seppur limitata concessione del tribunale permise la nascita di un Movimento per i diritti civili deciso a lottare con la disubbidienza civile e la non violenza contro il sistema di leggi razziste degli stati del “Vecchio Sud”. In questa fase, Martin Luther King, fu il portavoce del movimento. Passando attraverso il grande raduno di Washington del 1963 per arrivare fino alla marcia di Selma del 1965, il Movimento per i diritti civili si sviluppò con vigore e riuscì a tenere insieme un composito fronte di organizzazioni vecchie e nuove, con l’appoggio prudente ma efficace del governo federale e una certa simpatia dell’opinione pubblica moderata, soprattutto nel Nord degli Stati uniti. È innegabile che il movimento non solo innescò una stagione d’impegno politico generale ma contribuì anche a fare uscire la popolazione nera dalla sua lunga sottomissione materiale e psicologica. L’obiettivo di Martin Luther King era l’integrazione dei neri a pieno titolo nella società americana. Il dottor King credeva nel “sogno americano”, nella vocazione democratica e nella tradizione protestante del paese. Attraverso la disubbidienza civile non violenta e la sua superiorità morale di fronte all’ingiustizia che combatteva, il pastore di Atlanta pensava di “costringere” il governo federale, i moderati del Sud, i progressisti del Nord e la comunità bianca che faceva capo alle varie chiese a estendere il “sogno” alla comunità nera, prevalendo sulla parte reazionaria e razzista degli americani che voleva impedirlo. L’integrazionismo impersonato da Martin Luther King non era però l’unica soluzione al “problema nero” che circolava all’interno della comunità afro-americana. A esso si contrapponeva il nazionalismo che aveva in Malcolm X il suo più lucido e influente esponente. Malcolm non nutriva la stessa fiducia di King, non credeva nella possibilità dell’integrazione: il sistema che aveva relegato la popolazione nera in una situazione di inferiorità, dopo averla strappata all’Africa e sfruttata come schiava, non era “strutturato” per dare piena cittadinanza agli afro- americani. Malcolm vedeva il “sogno americano” dalla parte delle vittime e lo chiamava “l’incubo americano”. Essere nazionalisti significava rigettare una cittadinanza “bianca” di seconda classe e affermare orgogliosamente le proprie radici africane, rivendicare il diritto a una storia e una cultura propria, a sentirsi parte di una nazione nera dispersa geograficamente ma non sradicata. Secondo lui, da un lato era necessario un cambiamento massiccio di portata nazionale, dall’altro , l’avanzamento di una strategia di internazionalizzazione e di collegamento con le lotte di liberazione in Africa, America Latina e Vietnam. Ma nel 1965 fu ucciso. Nel 1966 il fronte delle organizzazioni del Movimento per i diritti civili si sfaldò e una sua parte intraprese la strada della radicalizzazione. Le differenti istanze presenti nel movimento vennero a maturazione e pubblicamente dichiarate durante la marcia di Meredith, nel giugno del 1966. Quella manifestazione di protesta nel Mississippi riunì insieme per l’ultima volta il fronte organizzativo del Movimento per i diritti civili. Durante la marcia venne lanciata una nuova parola d’ordine: Black Power, Potere nero. Non era la prima volta che quel binomio di parole veniva utilizzato ma questa volta era un’espressione che faceva paura. Questo movimento condusse una campagna sistematica di ribellione contro il governo degli Stati Uniti e i valori e le istituzioni che esso rappresentava. Il Potere nero venne condannato dalle organizzazioni religiose integrazioniste nere e considerato eresia da tutti i media nazionali; per gran parte dell’opinione pubblica evocò l’immagine dei guerriglieri pronti a portare la violenza dei riot nelle zone residenziali bianche. Il grido Black Power fu accolto positivamente nella comunità nera. Esso esprimeva la rabbia non ancora organizzata di molti neri, soprattutto giovani, poveri e urbanizzati, facendo prevalere i temi nazionalisti su quelli integrazionisti. Per il nazionalismo i neri dovevano controllare politicamente ed economicamente la propria comunità, sviluppare organizzazioni autonome e liberarsi dal condizionamento dei bianchi. La gente nera doveva cercare alleati nelle nuove nazioni africane o nei popoli del Terzo mondo che si stavano liberando dal giogo coloniale. Come ultimo corollario del credo nazionalista veniva ribadita e generalizzata la necessità dell’autodifesa. Questo era il terreno di crescita nazionalista, pieno di fermento, conflittualità e radicalismo, da cui ebbe origine l’esperienza delle Pantere nere. Il movimento nero dimostrò dunque di volere andare al di là degli iniziali obiettivi di integrazione nel sistema, ma anche di avere la capacità di ispirare e catalizzare altri movimenti sociali, da quello delle altre “nazioni oppresse” a quello degli studenti e, successivamente, delle femministe e dei gay. La rabbia dei ghetti e delle grandi fabbriche, soprattutto nel Nord, entrò nel movimento e ne cambiò la sostanza: non più azioni non violente per l’integrazione nella società americana, ma la sollevazione spontanea e spesso armata contro lo stato e i suoi simboli. Gli anni tra il 1968 e il 1972 rappresentano uno dei periodi di repressione più violenti della storia americana contemporanea. Se il partito delle Pantere nere si proponeva come avanguardia rivoluzionaria di quel nuovo movimento, le operazioni Cointelpro – termine utilizzato per designare operazioni “coperte” dell’Fbi volte a distruggere tutte le forme di dissenso interno – rappresentarono la risposta governativa alle richieste sempre più urgenti e pressanti delle classi subalterne. Le operazioni Cointelpro costituirono un vero e proprio salto di qualità nella gestione del dissenso. Durante gli anni Sessanta Fbi e polizia criminale divennero sempre più metodici, efficienti e criminali, focalizzandosi sull’eliminazione dei leader più in vista del movimento nero e si accanirono con tutta la loro violenza sul Black Panther Party”. Con una base costituita da individui ai margini della società – poveri, tossici, prostitute, disoccupati, criminali – i nuovi eredi del pensiero di Malcolm X offrirono all’America nera la possibilità di sfogare tutta la rabbia che il Movimento per i diritti civili non era stato in grado o non aveva voluto esprimere. Vestiti con uniformi, baschi e giacche di pelle nera, armati e con un atteggiamento di sfida aperta all’establishment, le pantere catturarono rapidamente l’immaginario popolare e i titoli dei maggiori media, diventando il simbolo dell’orgoglio nero e delle paure della classe media bianca. In poco più di due anni il partito aveva superato i cinquemila membri. Il partito si diffuse a macchia d’olio in tutti gli Stati Uniti dando vita a una serie di “programmi di sopravvivenza” nelle comunità nere – colazioni gratuite per bambini, distribuzione di vestiti e cibo, scuole della liberazione e cliniche popolari – che ebbe un impatto radicale sulla popolazione. Contro le Pantere nere, l’Fbi attivò in maniera metodica, quasi scientifica, operazioni di sorveglianza, infiltrazione, vessazione, discredito fino ad arrivare all’eliminazione fisica di militanti del partito. Fu Richard Nixon, a partire dal 1969, a tracciare la linea definitiva e sanguinosa tra il dissenso accettabile e quello non accettabile, mentre contemporaneamente l’allora governatore della California Ronald Reagan liquidava il Black Panther Party e il movimento degli studenti di Berkeley. La decade dei Settanta si apre così con il massacro degli studenti di Kent Stante, degli universitari neri della Johnson State e della Southern University di Baton Rouge e con la repressione del movimento dei detenuti neri. L’escalation delle operazioni clandestine dell’Fbi di Hoover e della repressione poliziesca portarono alla disgregazione e, in un secondo momento, alla dissoluzione del movimento di protesta di quegli anni. Tutt’oggi la società americana presenta anche delle contraddizioni sul piano della discriminazione. Infatti, la comunità nera in parte è perfettamente integrata nelle varie strutture istituzionali riuscendo anche ad assumere incarichi di rilievo, mentre In molti Stati, non solo i pestaggi ma varie altre forme di tortura sono diventate una pratica comune, normalmente usate per ottenere una confessione forzata. Le statistiche generali sono allarmanti. Nella città di New York per esempio il 92,5% delle persone uccise dalla polizia facevano parte delle minoranze. Nel 1990 41 persone sono state uccise dalla polizia , 15 erano Afro-americani, 23 erano Latini e solo 3 erano bianchi. Il Ministero della Giustizia USA registra 15000 casi di brutalità da parte della polizia ed abuso di potere ma il governo USA guarda dall'altra parte. Ci sono circa 2.400 persone nei bracci della morte. Più del 41% dei prigionieri in attesa di esecuzione sono Afro-Americani. Chi assassina un bianco ha maggiori probabilità di essere condannato a morte di chi uccide dei Neri".La polizia ha una virtuale licenza di uccidere per quanto riguarda le comunità Afro-americane, Latine, Nativo-americane e Asiatiche. Ogni anno centinaia di poliziotti sono accusati di abusi o di assassini gratuiti, ma solo pochi vengono messi sotto inchiesta per questi crimini e di questi solo una piccolissima percentuale vengono giudicati colpevoli. E in queste rare occasioni in cui un poliziotto viene giudicato colpevole di violenza, o di tortura, o di omicidio, e ancor più raro che il colpevole finisca in carcere, e i mass-media e l'udienza dello spettacolo razzisti passano sotto silenzio questo terrore poliziesco e dipingono i Neri e la gente del Terzo Mondo come criminali violenti e trattano la violenza della polizia, come un fatto normale e del tutto giustificato. Il messaggio è ripetuto all'estenuazione in svariati modi, rendendo implicito che i Neri e la gente del Terzo Mondo comunque meritano di essere picchiati e presi a fucilate. Vi è poi il problema estremamente attuale della cosiddetta “islamofobia”. Recenti sondaggi indicano che quasi la metà dei cittadini americani ha una percezione negativa dell’Islam, e che una persona su quattro ha una visione “estremamente” anti-musulmana. In un’inchiesta condotta dal Consiglio per le relazioni americano-islamiche (CAIR) è emerso che un quarto degli abitanti degli Usa crede a stereotipi come: “I musulmani danno un valore diverso alla vita rispetto ad altri popoli”, e “la religione musulmana insegna la violenza e l’odio”. Nel 2005, CAIR ha ricevuto 1.972 reclami sui diritti civili, rispetto ai 1.522 del 2004. E cioè il 29,6 per cento in più rispetto ai ricorsi nel 2004 per molestie, violenze e comportamenti discriminatori contro i musulmani. È il maggior numero di reclami per i diritti civili dei musulmani mai presentati a CAIR. Dopo l’11 settembre, il Dipartimento di giustizia Usa (DOJ) ha cominciato a non fare più distinzione tra gli arabi e gli altri musulmani e, erroneamente, chiunque avesse un aspetto “mediorientale”, compresi i Sikh dell’Asia meridionale. Nei mesi immediatamente successivi agli attacchi, 5.000 uomini sono stati trattenuti senza accuse formali, la maggior parte di essi senza poter contattare un avvocato o i propri familiari. Come conferma un’inchiesta dell’ispettore generale del DOJ, molti sono stati incarcerati e tenuti in isolamento e hanno subito abusi fisici. Nessuna di queste persone ha subito procedimenti legali o condanne. Alcuni, che si trovavano negli Usa con un visto scaduto o avevano commesso altre trasgressioni relative all’immigrazione, sono stati espulsi dal paese. Da allora, l’elenco apparentemente infinito di molestie e abusi dei diritti civili dei cittadini Usa è andato inesorabilmente infoltendosi. Alcuni esempi: Un uomo che stava viaggiando in autobus verso Chicago, è stato fatto scendere dal mezzo con i propri bagagli a Toledo, Ohio, dopo aver detto all’autista di essere iracheno. A San Francisco un attivista per i diritti civili non ha potuto imbarcarsi su un aereo perché indossava una maglietta con la scritta: “Non resteremo in silenzio”, in arabo e in inglese. Sei imam che erano stati visti pregare in un aeroporto di Minneapolis sono stati fatti scendere da un aereo della US Airways, dopo che un passeggero ha dichiarato all’assistente di volo di aver visto gli uomini comportarsi in modo sospetto. Gli imam sono stati portati fuori dall’aereo in manette. Sono stati interrogati e poi rilasciati, ma la compagnia aerea ha dichiarato che l’equipaggio aveva agito bene nel respingere gli imam, e ha rifiutato di emettere nuovi biglietti per il giorno successivo. Gli imam hanno fatto causa alla compagnia. Ma questa isteria post 11 settembre non si limita ai soli Stati Uniti. In Gran Bretagna, anch’essa vittima di attacchi terroristici, il parlamentare ed ex ministro degli esteri Jack Straw ha suggerito che le sue elettrici musulmane si togliessero il velo con cui coprono il proprio viso, così che lui potesse interagire meglio con loro. In Olanda, un tempo considerata la società più aperta e tollerante in Europa, il governo di centro-destra ha promesso di introdurre una legislazione per proibire l’uso del burqa e di altri veli sul viso in quasi tutti i luoghi pubblici, tra cui tribunali, scuole, treni e persino in strada. La Francia, sconvolta la scorsa estate dai tumulti nelle periferie povere di Parigi, abitate in gran parte da immigrati nordafricani e mediorientali, ha già vietato agli studenti nelle scuole pubbliche di indossare veli che coprano il capo. Nicolas Sarkozy, un ministro del governo e tra i candidati favoriti per la presidenza del paese, ha adottato la linea dura sia verso l’immigrazione che nei confronti della vasta popolazione musulmana della Francia. Sostiene di non volere l’Islam “in Francia”, ma di sostenere “un Islam francese”. Secondo Sutherland, capo della divisione diritti civili del Dipartimento della sicurezza nazionale, il governo ha bisogno dell’aiuto di questi gruppi nella lotta contro il terrorismo nel paese. La maggior parte dei membri di questa comunità pensa che il governo stia - forse inavvertitamente - alimentando il fuoco del bigottismo, con l’uso di frasi come “islamicofascisti”, prese dal vocabolario che ha coniato per la “guerra globale al terrore”, e con iniziative come conferenze stampa di alto profilo annunciando persecuzioni che spesso falliscono.