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LORENZO MARATEA
IL CROCIFISSO NELLE AULE SCOLASTICHE. UN ILLECITO SENZA DANNO?
QUALCHE RIFLESSIONE IN MARGINE AL CASO LAUTSI C. ITALIA
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. (segue). La vicenda. – 3. Giurisdizione della Corte
europea dei Diritti dell’Uomo e modelli di diritto interno. – 4. Il diritto soggettivo
violato. – 5. Il pregiudizio. – 6. Le possibili ricadute in Italia. – 7. (segue). Una
normativa abrogata dalla Cedu? – 8. La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti
dell’Uomo e concretizzazione della norma-principio posta dalla Convenzione. – 9. Il
problema della giurisdizione e qualche considerazione conclusiva.
1. Premessa.
La recente sentenza, peraltro non definitiva, con la quale la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la presenza del crocifisso nelle aule
scolastiche ha alimentato il dibattito politico italiano e suscitato vivo interesse
presso l’opinione pubblica che si è divisa attorno ai temi sensibili implicati
dall’iniziativa giudiziaria della ricorrente.
La materia oggetto della controversia affonda infatti le proprie radici nel
problema, storicamente cruciale in Italia, della laicità delle istituzioni, campo non
solo del mai sopito scontro fra visioni guelfe e ghibelline del rapporto fra cosa
pubblica e fattore religioso ma anche di confronto fra ordinamenti nazionali e
norme internazionali. Stante la natura non univoca del suo significato, il principio di
laicità determina spesso tensione fra l’accezione in cui è inteso a livello interno e
quella internazionale; la sentenza sul crocifisso oltre ad essere eloquente
testimonianza di tale dialettica, rappresenta anche la conferma della acuta
sensibilità della Corte di Strasburgo verso il valore della neutralità dell’insegnamento
negli istituti di istruzione statali e verso la posizione del discente, che la
giurisprudenza di Strasburgo pretende libera da surrettizi condizionamenti
psicologici1[1]. Si dirà di seguito per quali ragioni le premure della Corte risultino, su
questo versante, eccessive, per intanto vale precisare che, nonostante l’evidente
fascino del tema della laicità, è estraneo agli intenti che ci si prefigge un esame
compiuto di una materia tanto complessa, che coinvolge le scienze filosofiche, la
sociologia, ed altri saperi, tutti a pari titolo legittimati a contribuire al dibattito 2[2]. Si
preferisce al contrario concentrare l’attenzione sull’aspetto giuridico internazionale
del caso e quindi sul profilo più specifico della legittimità della presenza del
1[1]
V. M. PARISI, Simboli e comportamenti religiosi all’esame degli organi di Strasburgo.
Il diritto all’espressione dell’identità confessionale fra presunte certezze degli organi
sovranazionali europei e verosimili incertezze dei pubblici poteri , in Dir. fam., 2006, 03, p.
1415.
2[2]
Nella consapevolezza della profondità delle implicazioni del tema della laicità, si
rinvia alle riflessioni di S. STAMMATI, Riflessioni minime in tema di laicità (della comunità
e dello Stato) in Dir. Pubbl., 2008, n. 2, p. 341 e ss.
crocifisso nelle aule, così come presa in esame dal giudice internazionale; si farà
pertanto solo cenno alla ricca prassi giurisprudenziale italiana in materia3[3]. Pur
adottando «un punto di vista internazionale», si cercherà di fare luce sugli aspetti
della decisione che coinvolgono più direttamente il rapporto fra diritto interno ed
internazionale; in particolare la vicenda sarà utilizzata come spunto per una serie di
riflessioni a più ampio raggio circa la natura del sindacato della Corte europea dei
Diritti dell’Uomo nei casi in cui la violazione del dettato convenzionale derivi
direttamente dalla applicazione di norme interne4[4].
Si può infatti notare che prima ancora che per il modo in cui il giudice
internazionale ha deciso il caso Lautsi, e prima che per le implicazioni sul piano del
rapporto fra Cedu e le norme interne, la pronuncia rappresenta anzitutto
un’occasione di riflessione sulle ambivalenze di una cognizione che parrebbe
coniugare in modo singolare (e felice) i caratteri salienti di una giurisdizione civile
3[3]
Per una ricognizione della giurisprudenza italiana amministrativa ed ordinaria, si
rinvia a M. LUCIANI, La problematica laicità italiana in Democrazia e Diritto, n. 2, 2008, p.
126 e ss.
4[4] V.
Lautsi c. Italia, 3 novembre 2009 , disponibile in Consulta OnLine all'indirizzo
telematico http://www.giurcost.org/casi_scelti/CEDU/CEDU03-11-09.htm.
“comune”, con taluni propri delle giurisdizioni di legittimità costituzionale, ma che in
realtà talvolta finisce per operare obiettive forzature sui modelli cui fa riferimento5[5].
L’affermazione merita più di una precisazione ma a tanto si provvederà lungo
tutto il corso del lavoro; giova infatti premettere qualche cenno sulla vicenda ed un
primo sintetico commento alla decisione.
2. (segue). La vicenda
Il caso sottoposto all’esame della Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha tratto
origine da una iniziativa giudiziaria assunta davanti al T.A.R. del Veneto dalla Sig.ra
Soile Lautsi nei confronti del Ministero dell’ istruzione, università e ricerca. La
ricorrente impugnò infatti la deliberazione 27 maggio 2002 dell’Istituto scolastico
comprensivo presso cui erano iscritti i propri figli nella parte in cui aveva stabilito di
lasciare esposto il crocifisso negli ambienti scolastici quotidianamente frequentati da
questi ultimi; tale presenza era infatti stata oggetto di opposizione da parte della
stessa Lautsi e del Sig. Massimo Albertin, padre dei due giovani studenti. Il processo
amministrativo che ha visto soccombere le ragioni avanzate dalla ricorrente tanto in
5[5]
V. JACKSON, Broniowsky v. Poland, A Recipe for Increased Legitimacy of the
European Court of Human Rights as Supranational Constitutional Court , in Connecticut
Law Review, 2006, p. 759.
primo grado quanto davanti al Consiglio di Stato, ha dato anche origine ad un
giudizio di legittimità costituzionale ad esito del quale la Consulta, rilevata la natura
regolamentare delle norme che annoverano il crocifisso fra gli arredi scolastici 6[6]
dichiarò la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale,
fondata sulla presunta violazione degli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 Cost.
Esaurite dunque le vie di ricorso interne, la ricorrente decise di adire la Corte
europea dei Diritti dell’Uomo, la quale disattendendo la valutazione data dai giudici
nazionali ha, come detto, condannato l’Italia. Cosa dire della decisione? Una dato
pare immediatamente emergente e concerne la struttura stessa del ragionamento della
Corte. Si può infatti osservare che l’iter argomentativo mentre investe in modo
compiuto il piano dell’(in)compatibilità fra gli effetti determinati dalla normativa
interna (i.e. la presenza del crocifisso nelle aule) e le norme convenzionali rilevanti
(comb. disp. artt. 2 Prot. 1 e 9 Cedu) presta il fianco a critiche nel momento in cui
procede alla valutazione della fattispecie concreta rimessa alla sua cognizione. Paiono
infatti non adeguatamente sondate in concreto le ricadute della condotta statale nella
sfera dei ricorrenti. Non a caso, anche nel decidere ai sensi dell’art. 41 Cedu, la Corte
ha riconosciuto un’equa soddisfazione per il danno morale cagionato alla ricorrente
che tuttavia trova la sua unica ragione di essere nell’indisponibilità italiana –
manifestata nel corso del processo - alla modifica delle norme regolamentari oggetto
6[6]
Ci si riferisce agli art. 119 (e allegata tabella C) del regio decreto 26 aprile 1928, n.
1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare) ed
art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei
Regi istituti di istruzione media),
mediato della doglianza. A tale statuizione la Corte giunge sostenendo che la
presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ha quale effetto quello di comprimere
«le droit des parents d’éduquer leurs enfants selon leurs convictions ainsi que le droit
des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire». Un primo rilievo trae spunto
proprio dalle due classi di diritti violati.
Si ritiene infatti che un primo punto debole della sentenza risieda proprio nella non
perfetta distinzione fra diritto dei genitori «d’éduquer selon leur convictions» (posto
dall’art. 2 Prot. 1 Cedu) e diritto degli stessi figli «de croire ou de ne pas croire» (di
cui all’art. 9 Cedu); le due posizioni risultano, già concettualmente, non assimilabili e
dunque pare improprio il riferimento ad un combinato disposto fra le due norme il
quale sottende una sorta di reciproca interferenza, in vero inesistente, fra i precetti
contenuti nelle due disposizioni. Ad ogni buon conto, il punto che più di tutti merita
di essere esaminato criticamente concerne la struttura stessa della decisione la quale
presenta, come si diceva prima, un baricentro argomentativo marcatamente spostato
verso l’aspetto del conflitto fra norma interna e pattizia, mentre meno sviluppate
paiono le motivazioni addotte per quanto attiene alla valutazione della fattispecie
concreta.
Anzi, il silenzio della Corte finisce per essere de facto sintomatico di una
ammissione circa la legittimità di forme di ristoro dissociate da una compiuta prova
del pregiudizio e che questo risultato possa essere ottenuto attraverso la formula non
sempre agevolmente apprezzabile del danno morale, impiegato come vettore di una
liquidazione a valenza in senso lato punitiva7[7]. Anche su questa osservazione si
formuleranno delle precisazioni dirette a stabilire se sia corretto parlare di danno
punitivo ed, in caso di risposta positiva, se, in tale caso, si sia di fronte ad un’opzione
legittima.
3. Giurisdizione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e modelli di diritto
interno.
Fatte queste brevi premesse, un passo indietro si impone. Si diceva della natura
“anfibia”8[8] della cognizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed in
particolare dei tratti di analogia con la funzione che a livello interno svolgono le corti
costituzionali. Di primissimo acchito, la affermazione potrebbe risultare eretica, ma
lo è meno di quanto sembri a prima vista.
7[7]
La carenza delle motivazioni spese dal giudice a sostegno di una specifica
liquidazione del danno risarcito può essere spia di un impiego in chiave sanzionatoria
dello strumento civilistico. Cfr. sul punto A. DE PAULI, L'irriconoscibilità in Italia per
contrasto con l'ordine pubblico di sentenze statunitensi di condanna al pagamento dei
danni "punitivi" in Resp. civ. e prev., 2007, n. 10, p. 2100.
8[8]
L’adesione ad un modello «di legittimità» emerge, ad es., a livello di prassi
interpretativa della Commissione; v. Austria c. Italia, 11 gennaio 1961; chiamata a
giudicare di una violazione del testo convenzionale lamentata da uno Stato, la
Commissione non richiedeva che fosse provata la violazione di un diritto dello Stato, ma
unicamente l’esistenza dell’infrazione.
Gli elementi di contatto fra la Corte europea dei Diritti dell’Uomo e le giurisdizioni
di legittimità costituzionale, in apparenza tenui, possono al contrario essere
smontati solo al prezzo di una articolata digressione.
Sarebbe infatti fin troppo ovvio indicare quale trait d’union con le giurisdizioni di
legittimità costituzionale, l’aspirazione della Corte europea ad ottenere la reiezione
delle disposizioni nazionali che contrastano con le norme che è chiamata ad
applicare9[9] e, quale elemento differenziale, che di mera aspirazione si tratti, data la
evidente differenza di effetti fra il giudicato di accoglimento della Corte europea e
quello di un organo come la Corte costituzionale italiana.
In realtà, il vero fuoco della questione si colloca in corrispondenza del problema di
non agevole soluzione da cui si partiva: se cioè la responsabilità dello Stato per
violazione della Convenzione sia suscettibile di essere integrata solo dal mero dato
del conflitto di una o più norme interne con la Convenzione ed i suoi Protocolli.
Tale ipotesi, come si accennava, è indubbio che si realizzi quando la Corte ai sensi
dell’art. 33 Cedu è adita da un altro Stato, il quale non sarà evidentemente chiamato
a dimostrare alcuna lesione di un proprio diritto e meno che mai di un pregiudizio,
9[9]
V. S. BARTOLE E. RAIMONDI B. CONFORTI, Commentario alla Convenzione per la
Tutela dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali , 2001, Padova (Cedam), p. 555.
Gli AA. acutamente notano che specie laddove adita ai sensi dell’art. 33 Cedu, la C orte
può conoscere del contrasto con la Convenzione con una legge statale. Resta indubbio
che essa, non diversamente dai comportamenti materiali che ne realizzano il contenuto,
sia assunta “sub specie facti”.
ma pare estranea al caso in cui invece essa sia adita dall’individuo. Per tale ipotesi,
infatti, il dettato della Convenzione in modo non equivoco richiede “un qualcosa in
più” della semplice inosservanza di cui all’art. 33 Cedu, e cioè che il ricorrente provi
la violazione di uno dei diritti protetti dalla Convenzione.
L’elemento che sollecita qualche precisazione supplementare fonda però proprio
sulle norme della Convenzione, ed ancor più su talune massime della giurisprudenza
della Corte che in apparenza avallano l’idea che a determinate condizioni, la Corte,
anche quando adita da individui, possa procedere nel modo proprio delle
giurisdizioni costituzionali, le quali, avendo ontologicamente di mira la cura di
interessi meta-individuali, non sono vincolate dall’interesse di soggetti privati ed in
particolare di quelli cui si deve l’attivazione della cognizione, ossia le parti
processuali 10[10].
Si è di fronte ad un problema obiettivamente insidioso, che a monte concerne il
distinguo fra i due modelli ora indicati, ed, a valle, la dicotomia fra i due elementi
(l’uno necessario, l’altro accidentale) nei quali si articola la responsabilità dello Stato
nel sistema Cedu: ossia quello della violazione del diritto soggettivo vantato
10[10]
V. Karner c. Austria, 24 luglio 2003, in M. DE SALVIA & V. ZAGREBELSKY, Diritti
dell’uomo e Libertà fondamentali, Milano Giuffrè, 2008, Vol. III, p. 679.
dall’individuo-ricorrente e quello del conseguente (ma, per le ragioni dette,
eventuale) pregiudizio11[11].
È proprio in relazione a questi due punti che si concentrano le nostre perplessità.
4. Il diritto soggettivo violato
Si è detto che la prima indagine da compiere investe il ruolo che ha la posizione
soggettiva dell’individuo nel quadro del sistema di tutela delineato dalla
Convenzione: se cioè vi sia spazio al di fuori del perimetro tracciato dall’art. 33 Cedu
per illeciti di «mera inosservanza» di una delle norme della Cedu 12[12].
Va detto subito che la necessità di svolgere tale approfondimento è diretta
derivazione del tema da cui si è partiti e cioè quello della natura bifida del giudizio
della Corte. Essa, come si è detto ai sensi dell’art. 34 non può prescindere dal
riscontro della posizione soggettiva violata, mentre come giudice che aspira (sia
pure “de facto” ed imperfettamente) a sindacare la legittimità degli atti normativi
11[11]
La possibilità che alla violazione della posizione soggettiva di vantaggio non
corrisponda il pregiudizio è ben nota nel processo amministrativo, v. sul punto M. NIGRO,
Giustizia amministrativa, 2002, Bologna (Il Mulino), p. 105.
12[12]
L’inosservanza delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli integra gli
estremi sufficienti a fondare l’azione ex art. 33.
interni, tende ad emanciparsi da tale limite, specie quando è coinvolto in maniera
evidente l’interesse meta-individuale13[13].
Questo spiega per quale ragione alla partecipazione al processo della «vittima»
vada conferita valenza condizionante dell’azione solo in via relativa e tendenziale
mentre se si affermasse che lo Stato, adito ai sensi dell’art. 34 Cedu, possa essere
condannato anche in assenza di prova circa la violazione di uno fra i diritti previsti
dal “decalogo”, si sarebbe inevitabilmente al cospetto di una affermazione falsa.
In sintesi, il diritto convenzionale vivente, pur riconoscendo che per il loro
particolare rilievo, taluni giudizi non possano dipendere dal contegno processuale
della parte che li abbia introdotti14[14], non per questo ammette eccezioni alla regola
secondo cui la condanna dello Stato consegue alla violazione di uno fra i diritti
contemplati dalla Convenzione.
13[13]
Si dice “tradizionalmente” poiché nei modelli più recenti di ricostruzione della
responsabilità civile non si esige la prova del diritto soggettivo violato, come premessa
necessaria del ristoro, tale condizione pare imprescindibile invece nel caso della Cedu,
dal momento che il giudice internazionale è: (i) saldamente legato alla citata logica del
“decalogo” - pur temperata dalla capacità espansiva delle norme convenzionali -; ( ii )
condizionato dalla loro formulazione come norme positive di diritti – sia pur mediante
frequente ricorso a clausole generali.
14[14]
Questo spiega anche la ratio della norma di cui all’art. 37 comma II Cedu sulla
cancellazione dal ruolo, la quale contempla e disciplina proprio l’ipotesi della sfasatura
fra interesse di parte ed interesse meta-individuale, accordando prevalenza al secondo.
Sono infatti ben distinti il piano della legittimazione ad agire del ricorrente
(asseritamente vittima) e quello della titolarità del diritto soggettivo; ancora diverso
è poi il piano del pregiudizio15[15]. Quello che la Corte giunge ad ammettere è che la
valenza meta-individuale di un caso possa far sì che si decida per la prosecuzione del
giudizio a prescindere dalle vicende della vittima16[16]; ciò, peraltro, non rappresenta
una anomalia, specie se si tiene conto che le apparenti oscillazioni del sistema
ripetono ambivalenze che sono insite in generale nelle variegate tutele
dell’individuo che hanno la loro fonte nel diritto internazionale.
Sarà un caso, ma è significativo che, ad esempio, nel campo della protezione
diplomatica, che è l’istituto che più di ogni altro si pone quale antesignano degli
odierni sistemi di tutela dei diritti umani, viva la stessa eterna dialettica fra la
dimensione individuale dell’interesse oggetto della protezione ed il piano della
titolarità del diritto il quale, come noto, nelle letture tradizionali competeva e forse
ancora compete allo Stato17[17].
15[15]
Si rinvia a De Wilde, Ooms e Versyp c. Belgio, 10 marzo 1972 in particolare ai parr.
23-25 in M. DE SALVIA & V. ZAGREBELSKY, Diritti dell’uomo e Libertà fondamentali,
Milano Giuffrè, 2006, Vol. I, p. 166. nei quali la Corte pur non negando in capo ai
ricorrenti la qualità di vittime accoglie l’eccezione del governo circa la mancanza di
pregiudizio.
16[16]
Nel caso di cui alla nt. 5, il ricorrente era deceduto.
17[17]
Su questi aspetti illuminanti i rilievi di N. COLACINO, Sul fondamento giuridico
dell’intervento
dello
Stato
in
protezione
diplomatica
nel
diritto
internazionale
contemporaneo in La Protezione diplomatica: sviluppi e prospettive, 2009, Torino
In realtà per quanto si voglia valorizzare e considerare insopprimibile l’
aspirazione del giudice internazionale a stare il meno possibile ancorato alle vicende
del caso concreto per cercare di realizzare al più vasto raggio possibile gli obiettivi
trasfusi nella Convenzione, il sistema di tutela resta indiscutibilmente legato alla
logica che la condanna dello Stato debba essere necessariamente configurata come
effetto dell’accertamento della lesione di uno o più diritti soggettivi.
La lunga digressione chiarisce dunque una cosa e cioè che, quando adita
dall’individuo e non da altro Stato, la Corte non può prescindere da una valutazione
della concreta attitudine della condotta oggetto di doglianza a ledere il bene
giuridico individuale, concreto, personale che le norme convenzionali tutelano.
Se risulta confermato che «condicio sine qua non» dell’azione sia la violazione di
un diritto soggettivo, ascrivibile ad una condotta dello Stato, parrebbe oltremodo
infondato ricostruire il sistema declassando prima la funzione dell’individuo da “fine
ultimo” a mero strumento di attivazione del sindacato della Corte18[18], per poi
“correggere
la
rotta”,
esasperando
il
meccanismo
presuntivo
ai
fini
dell’accertamento del diritto violato e corrispondendo eque soddisfazioni dissociate
dalla dimostrazione di un concreto pregiudizio.
(Giappichelli), p. 19 e ss; cfr. altresì A. BASSU, La rilevanza dell’interesse individuale
nell’istituto della protezione diplomatica, 2008, Milano (Giuffré), p. 11 e ss..
18[18]
Una simile lettura farebbe coincidere l’interesse di chi agisce con quello al mero
rispetto della legalità convenzionale, impostazione che pare erede di letture superate
della giustizia amministrativa.
Su queste premesse si può giungere ad un primo rilievo dedicato alla sentenza in
commento: ebbene, essa rispetto al nodo del diritto violato, si articola su un giudizio
di evidente sapore sillogistico; esso, infatti, partendo dalla premessa maggiore che la
esposizione di un simbolo religioso in un luogo a-confessionale per definizione,
come la scuola pubblica, abbia attitudine lesiva dell’interesse tanto del minore
quanto dei suoi genitori, passa attraverso la constatazione della obiettiva prova di
tale esposizione per dedurne la lesione dei diritti coinvolti nella vicenda. Sarebbe
inopportuno discorrere ora dell’attitudine lesiva del simbolo in quanto tale rispetto
alle posizioni soggettive azionate, attitudine lesiva che è obiettivamente dubbia19[19];
è tuttavia certo che dalla verosimiglianza di una premessa maggiore che il giudice
sottrae a verifica (e che, invece, avrebbe richiesto un più profondo corredo di
argomenti), viene fatto dipendere lo sviluppo successivo e la tenuta della
conclusione, la quale evidentemente risulterà appagante solo per coloro che non
solo ritengono vera la premessa e cioè che un simbolo affisso alle mura di un luogo
a-confessionale leda l’interesse del non religioso, ma anche che tale assunto non
ammetta smentita in alcun caso.
19[19]
Sul punto si rinvia alle indicazioni fornite da F. TERRUSI, Considerazioni sull’uso
improprio della tutela di urgenza, ex art. 70 c.p.c., rispetto a presunta lesione del diritto
di libertà religiosa in Giur. mer., 2004, 3, p. 606 e ss.. L’A. osserva che «la libertà di
religione come diritto individuale presuppone la sempre libera facoltà di form are e
nutrire nel chiuso recinto della propria coscienza, idee, sentimenti, di qualsiasi
contenuto, non certamente coartate, né conculcate dalla semplice affissione muraria di
un simbolo cristiano»
Peraltro, quello che ancor meno convince è il passaggio dell’iter argomentativo
che è dedicato alla determinazione del pregiudizio ed alla sua quantificazione: e di
ciò al prossimo paragrafo.
5. Il pregiudizio
Nessuno nega che tecnicamente sia arduo motivare in maniera convincente
l’esistenza del danno morale, il cui apprezzamento è condizionato dalla impossibilità
di sondare efficacemente la psiche umana e le sue reazioni al fatto illecito, ma è
altrettanto vero che è la liquidazione di un ristoro a tale titolo è variabile dipendente
della prova (sia pure raggiunta per presunzioni) di un condizionamento psicologico,
di uno stress, di una sofferenza subita dall’individuo per effetto della condotta
illecita posta in essere dal danneggiante. La giurisprudenza Cedu non fa
eccezione20[20].
Certo, il rischio di “derive psicologistiche” è presente, ma è irrinunciabile - ai fini
della tutela dei diritti – che un approfondimento in chiave soggettiva dell’effettività
20[20]
V. Maestri c. Italia, 17 febbraio 2004, par. 48; Assanidzé c. Georgia, 8 aprile 2004,
par. 199; significativa anche la giurisprudenza della Corte concernente il danno morale
subito dalle persone giuridiche, v. sul punto Comingersoll S. A. c. Portogallo, 6 aprile
2000.
del danno e del suo valore vi sia e che esso sia condotto in strettissima aderenza alla
fattispecie concreta. Non è un caso che quando, messe di fronte a simili problemi, le
giurisdizioni cui è devoluto un sindacato di tipo astratto – come appunto le
giurisdizioni sulla legittimità costituzionale delle leggi - incontrino minori difficoltà.
Esse non sono infatti condizionate dai peculiari lineamenti del caso concreto e
possono fare ricorso ad argomenti di tipo aprioristico. Da questo punto di vista, sono
un caso scolastico le pronunce della Corte costituzionale italiana sul tema delle
formule sacramentali nel giuramento del testimone, le quali riconoscono
correttamente la attitudine «in astratto» del riferimento alla divinità a comprimere
ingiustamente la posizione del non credente all’atto di rendere la propria
testimonianza21[21].
La premessa ora formulata esce poi ulteriormente confermata se si passa ad una
verifica di tale assunto in relazione al caso della esposizione del crocifisso nelle aule
scolastiche. In tal senso, la valutazione dei precedenti italiani rilevanti è illuminante.
21[21]
Ci si riferisce in particolare alla sent. 10 ottobre 1979 n. 117, dove il riferimento ai
«turbamenti, casi di coscienza conflitti di lealtà fra doveri dl cittadino e fedeltà alle
convinzioni del non credente» è affrontato elegantemente dalla Consulta nella chiave
propria della sua cognizione, ossia quella astratta; essa si rivela la più idonea per i
problemi di cui si discute poiché consente di aggirare quello psicologismo di cui si diceva
attraverso una cognizione che è per sua natura ex ante.
I problemi legati alla prova del pregiudizio si sono, infatti, presentati anche al
giudice nazionale; è sintomatico p.e. che il Tribunale di L’Aquila22[22]. che venne adito
peraltro in via di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., risolvesse positivamente il
problema della dimostrazione del «periculum in mora» facendo ricorso in maniera
surrettizia alla nozione di danno “in re ipsa”, nozione che, come noto, serve sovente
ad aggirare la obiettiva difficoltà (se non una vera e propria impossibilità) nella
prova del danno che contrassegna talune vicende, e, fra queste, quella in
commento23[23]. Posta di fronte ad un problema per certi versi analogo la Corte svolge
un ragionamento che, a parte il fondamento presuntivo della soluzione circa la
attitudine del crocifisso ad infirmare i diritti azionati dalla ricorrente, appare
apodittico quanto al profilo correlativo del nesso eziologico fra la violazione e quel
danno morale poi indennizzato. Si ha insomma che pur fondata su un impianto
argomentativo solido quanto alla disamina della compatibilità astratta fra norma
nazionale e internazionale24[24], la sentenza risente dell’emarginazione del profilo del
22[22]
Ci si riferisce alla ord. 23 ottobre 2003 resa dal Tribunale de l’Aquila in A. Smith c. Scuola Materna
ed Elementare Statale Antonio Silveri di Ofena, testo del provvedimento disponibile sul sito
www.unife.it/convegni/amicuscuriae. Ai nostri fisi assume significato la parte in cui il giudice afferma che è «la
circostanza di fatto – pacifica – dell’esposizione del crocifisso (…) ad essere di per sé sufficiente per ritenere
la sussistenza dell’imminenza del pregiudizio».
23[23]
Utili spunti in F. TERRUSI, Considerazioni sull’uso improprio della tutela di
urgenza, ex art. 70 c.p.c., rispetto a presunta lesione del diritto di libertà religiosa in Giur.
merito, 2004, 3, p. 606 e ss..
24[24] Di
questo avviso S. RODOTÀ, La battaglia su un simbolo in La Repubblica 4
novembre 2009, p. 1.
rapporto fra i diritti vantati da “quei minori” e l’affissione del simbolo religioso “in
quello specifico contesto”.
Eppure, tale profilo, sebbene rimasto privo di dimostrazione, era stato
espressamente allegato dalla ricorrente, secondo la quale «cette situation a entre
autres pour répercussions une pression indiscutable sur le mineurs», e la stessa
Corte pareva averne riconosciuto il rilievo salvo poi di fatto non sondarne
minimamente il merito25[25].
Questa defaillance appare tanto più singolare dal momento che non si trattava
(diversamente dal caso di L’Aquila) di una violazione «in itinere», ma di una già
consumata.
A fronte della carenza di riferimenti agli stati emotivi (angoscia, stress, incertezza
e/o altre perturbazioni psichiche) che strutturano di regola il danno morale, l’equa
soddisfazione viene espressamente ricollegata alla manifesta non volontà dello
Stato di adeguare la legislazione26[26].
25[25] La
Corte (cfr. par. 50) nello stabilire le linee del proprio iter argomentativo indica
gli aspetti sui quali intende focalizzare la propria atte nzione; fra questi, «la nature du
symbol religieux et son impact sur des élèves d’un jeune âge, en particulier les enfants de
la requérante». Come detto, il successivo svolgimento della sentenza è decisamente
avaro sotto il profilo del nesso eziologico fra l’esposizione del simbolo e quel
perturbamento emotivo di cui apoditticamente parla la Corte.
26[26]
Sul danno morale, v. S. BARTOLE - B. CONFORTI - G. RAIMONDI, Commentario alla
Convezione europea per la Salvaguardia del Diritti dell’Uomo , Padova (Cedam), ult. ed., p.
Sul rilievo di tale fattore, è lecito spendere qualche riflessione supplementare.
La decisione di liquidare una soddisfazione equitativa in luogo di quella più
coerente di procedere alla mera constatazione della violazione della Convenzione,
sulla falsariga di quanto verificatosi nel caso Folgerø, solleva infatti un problema
cruciale che investe la stessa coerenza della giurisprudenza della Corte.
Come si è visto prima, anche a volere concedere che una ricognizione “in
astratto” dell’incompatibilità fra norme interne e disciplina convenzionale, nel senso
manifestato dalla giurisprudenza Karner sia possibile, la conseguenza è sempre
l’assenza in tesi di un pregiudizio che possa essere risarcito27[27].
Vi è dunque più di un dubbio che la soddisfazione equitativa possa essere decisa quale alternativa al risarcimento in forma specifica - in assenza di prova del
pregiudizio e solo sulla base; (1) della accertata incompatibilità astratta delle norme
interne con la Cedu; (2) della determinazione dello Stato a non modificare il proprio
ordinamento giuridico tanto più che il pregiudizio, come nei modelli civilistici
tradizionali è elemento distinto e separato, eventuale peraltro, basti a riguardo
considerare la non equivoca formula adoperata dall’art. 41 che consente alla Corte
666 dove è appunto notata una attenuazione delle esigenze probatorie in materia di
«danno morale».
27[27]
V. sul punto Karner c. Austria, 23 luglio 2003 in particolare par. 24 dove è detto
che la Convenzione non autorizza gli individui a dolersi «in abstracto» di una legge per il
solo fatto che sembra loro violare la Convenzione.
di valutare «caso per caso» l’esistenza di un pregiudizio da compensare. Quando è
adita da individui ai sensi dell’art. 34 Cedu, la Corte può concedere l’equa
soddisfazione a condizione che sia provata l’antigiuridicità della condotta nel senso
duplice che essa sia “non iure” (ossia in contravvenzione di una norma giuridica) e
che sia “contra ius” (i.e. lesiva di uno dei diritti soggettivi posti dal decalogo) e che
ricorra un pregiudizio. Queste due ultime condizioni non coincidono poiché la
carenza di diritto individuale violato non rende possibile l’accoglimento della
domanda, la carenza di pregiudizio invece incide solo ai fini dell’art. 41 Cedu28[28].
Ora, se, come nel caso in esame, la sentenza è solo ricognitiva della flagrante
contraddizione con la Convenzione di una o più norme interne, ma l’«iter» non
scende a sondare le ricadute concrete-individuali del fatto illecito contestato
all’Italia, se, soprattutto, la sentenza riconnette il danno (morale) alla mera
manifestazione da parte dell’Italia della non volontà di adeguare il proprio
ordinamento interno ad una pronuncia di condanna dunque ad un contegno
successivo alla definitiva consumazione dell’illecito, si potrebbe essere indotti a
sostenere che si sia di fronte ad una applicazione di fatto dello strumento del
«danno punitivo». Quest’ultimo, come noto, si compendia nella possibilità che la
determinazione del ristoro non sia correlata all’entità del pregiudizio, ma sia
28[28]
Sulla dicotomia si rinvia alle utili indicazioni di E. SAVARESE, Il Protocollo n. 14
alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in Riv. Dir. Int., 2004, Vol. II, p. 726 in
particolare nt. 22.
piuttosto variabile dipendente della condotta del danneggiante. Anche a questo
proposito, qualche puntualizzazione appare necessaria.
In particolare, vale soffermarsi su due dati: il primo concerne il rifiuto,
quantomeno di principio, da parte della Corte di riconoscere la categoria del danno
punitivo. Il secondo riguarda la giurisprudenza interna italiana, la quale potrebbe
trovarsi investita in futuro da azioni identiche a quella proposta dalla ricorrente e
che è ferma nel ritenere la logica sottesa al danno morale radicalmente estranea al
danno punitivo29[29].
Il primo, come statuisce la Corte di Cassazione italiana, non è affatto al di fuori
dello schema del “compensatory damage”, mentre il secondo persegue, per
definizione, finalità sanzionatorie o melius di deterrenza.
Certo, l’ “overlapping” fra le due categorie è fatale30[30]. Del resto, “la natura
civilistica” del giudizio della Corte31[31] non adultera la matrice internazionalistica
29[29]
V. M. LOPEZ DE GONZALO, Punitive damages e ordine pubblico, in Riv. Dir. Int.
Priv. e Proc. 2008, n. 1, p. 77 e ss. In generale sulla nozione, si rinvia a B. C. ZIPURSKY, A
theory of punitive damages, in Texas Law Rev., 2005, Vol. 84, p. 105-171. Nella dottrina
italiana, v. E. URSO, I punitive damages fra regole standards e principi, in Riv. Dir. Pubbl.
Comp. Eur., 2001, n. 4, p. 2011 e ss..
30[30]
Paradossale è che la stessa Corte non ritenga tale strumento ammissibile (v. sul
punto P. FAVA, Punitive damages e ordine pubblico: la Cassazione blocc a lo sbarco, in Il
Corriere Giuridico, n. 4 2007, p. 503; indicativa l’osservazione di A. SIROTTI GAUDENZI, I
punitive damages nella giurisprudenza di alcuni Paesi dell’Europa continentale e della
Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, in Dirit to & Diritti, inserito il 5 marzo
dell’organo e ciò ai fini della ammissibilità del “danno punitivo” rappresenta dato
non di poco conto; non si può infatti non tenere conto di quanto nella dottrina di
diritto internazionale sia diffuso il convincimento che nelle relazioni fra Stati anche
la riparazione del danno morale abbia una natura prettamente sanzionatoria32[32]. Da
ciò la sensazione che al di là delle petizioni di principio, anche la Corte non disdegni
una valorizzazione del danno morale in chiave sanzionatoria33[33]. Del resto,
autorevole dottrina ha messo bene in luce quanto la funzione della sanzione di
diritto internazionale consista nella induzione del trasgressore al rispetto del diritto
oggettivo violato34[34]; tale tesi a ben vedere finisce per fare luce in maniera decisiva
2000 il quale osserva che «quando la Corte di Strasburgo condanna uno Stato, non si può
non avvertire quell’effetto “pedagogico” che sta alla base dell’istituto dei “punitive
damages”: la condanna al risarcimento dei danni patiti dal cittadino leso passa quasi in
secondo piano, dato che ciò che rileva è che la pronuncia possa essere un forte monito
affinché la violazione non si ripeta».
31[31]
Nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, v. ancora Karner c.
Austria, 24 luglio 2003, in particolare par. 26 in DE SALVIA ZAGREBELSKY, Diritti
dell’Uomo cit., p. 679.
32[32]
G. CARELLA, I punitive damages e la riparazione del danno morale in diritto
internazionale, in Riv. Dir. Int., 1983, p. 757.
33[33]
Il danno morale è del resto forma di pregiudizio decisamente più malleabile di
quello patrimoniale; non è casuale che sovente la Corte lo liquidi prescindendo da una
sua prova compiuta e facendo leva unicamente sul dato della normale attitudine del
comportamento attribuito allo Stato ad arrecare sofferenze psicologiche. V. Maestri c.
Italia, (Grande Camera), 17 febbraio 2004, par. 48.
34[34]
V. J. C OMBAÇAU , Sanctions in Encyclopedia of Public International Law, IV, 2000, p.
314. Utili spunti in M. D OXEY , International Sanctions in Contemporary Perspective, 1996,
sulla materia di cui ci si occupa, poiché, se bene si riflette, il danno morale cui si è di
primo acchito attribuita valenza di «punitive damage», nel modello cui la sentenza
Lautsi c. Italia aderisce, svolge una funzione diversa, assimilabile più a quella tipica
della “astreinte” la quale, a sua volta, è istituto del diritto processuale che non al
danno punitivo che appartiene al diritto sostanziale.
Nel caso di specie, è verosimile infatti che la natura di leading case della
controversia abbia spinto la Corte ad individuare un mezzo attraverso cui indurre lo
Stato autore dell’illecito alla rimozione delle cause strutturali (poiché normative) di
un possibile contenzioso seriale; lo scopo non pare che sia stato quello (proprio della
liquidazione del danno a valenza punitiva) di aggravare la responsabilità in ragione
della peculiare natura dell’illecito contestato35[35].
Del resto, nel caso del crocifisso non viene in alcun modo in rilievo l’elemento
soggettivo nella condotta dello Stato, ossia una peculiare intenzionalità della
violazione, ma solo le aspettative del sistema facente capo alla Convenzione circa
l’adeguamento dello Stato resistente alla posizione espressa dalla Corte.
(St. Martin’s Press), ibid.. Nella dottrina italiana v. L. F ORLATI P ICCHIO , La sanzione nel
diritto internazionale, 1974, Padova (Cedam), ibid.
35[35]
Sulla procedura di sentenza pilota si rinvia ai rilievi svolti da F. M. PALOMBINO, La
procedura di sentenza pilota nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti
dell’uomo, in Riv. Dir. Int. Priv. e Proc., 2008, n. 1, p. 91.
A tali aspettative nella sentenza della Corte viene conferito un rilievo decisivo in
sede di quantificazione del pregiudizio, come del resto era già accaduto (sia pure
nella direzione di una decisione opposta) in Folgerø ed altri c. Norvegia, caso nel
quale, a differenza di quanto accaduto in quello in commento, la Corte aveva
ritenuto sufficiente la mera constatazione della violazione e ciò proprio in virtù della
disponibilità della resistente a modificare le norme del proprio ordinamento.
In sintesi, nella sentenza si ha una chiara e convincente spiegazione delle ragioni
di contrasto fra norma interna e CEDU, ma nel complesso una scarsa delineazione
del diritto violato, del pregiudizio subito ed una valorizzazione della posizione
italiana rispetto alla modifica del proprio ordinamento ai fini della determinazione
dell’equa soddisfazione che pare mettere in crisi la tradizionale refrattarietà della
Corte europea verso la corresponsione di ristori non aventi funzione meramente
compensativa36[36].
36[36]
Quanto al profilo del rapporto fra diritto violato e pregiudizio, si è alle soglie di
un discorso complesso che non può essere sviluppato in questa sede in quanto espressivo
delle coordinate stesse della cognizione della Corte. La responsabilità dello Stato sorge
per il solo effetto della accertata illegittimità della sua condotta oppure è necessario che
vi sia la prova che la condotta illecita abbia leso un diritt o fra quelli posti dalla
Convenzione? Ancora, ai fini dell’equa soddisfazione è necessario che vi sia la
dimostrazione di un pregiudizio? Infine, è possibile che il pregiudizio assorba la prova del
diritto violato, come si ammette nei modelli più evoluti d i ricostruzione della
responsabilità civile.
6. Le ipotizzabili ricadute in Italia
Su altro versante emerge la necessità di una ennesima riflessione circa gli effetti
che la ratifica della Convenzione ha prodotto e produce nel nostro ordinamento e
che la giurisprudenza costituzionale ha cercato di risolvere con le sentenze n. 348 e
349 del 2007. Come noto, infatti, sui delicati problemi di coordinamento fra la fonte
internazionale e quella nazionale è intervenuta recentemente la Corte
costituzionale, ma la peculiarità del caso consiglia un approfondimento
supplementare, funzionale a verificare se, ed eventualmente in che misura, la
posizione assunta dalla Consulta fornisca una soddisfacente risposta a tutti i quesiti
posti dalla presente vicenda ed in particolare una soluzione che possa essere tenuta
in considerazione dai giudici di merito (in particolare il giudice amministrativo) ai
quali è plausibile che nuove domande di rimozione del crocifisso vengano
sottoposte.
7. (segue). Una normativa abrogata dalla Cedu?
Il primo fattore che è degno di considerazione è la fonte da cui sorge l’obbligo di
affissione del crocifisso, la quale, come già accennato, ha natura regolamentare.
Pare appena il caso di dire che le pronunce del 2007 della Consulta affrontano il più
delicato tema della composizione del contrasto fra fonte convenzionale e le fonti
che sono oggetto del sindacato della Corte costituzionale ossia la legge ordinaria e
gli atti ad essa equiparati, il che, quantomeno in linea teorica, rende non conferenti
le recenti decisioni della Consulta37[37].
Del resto la questione della legittimità costituzionale della presenza obbligatoria
del crocifisso è stata già esaminata dalla Corte costituzionale che decise nel senso
della inammissibilità della “quaestio” per essere questa estranea alla sua cognizione
(v. supra par. 2.).
Su tale base, si pone come preliminare una questione, che è quella di verificare se
le norme poste dai regi decreti siano ancora vigenti nell’ordinamento italiano,
problema che risulta centrale data la posteriorità delle norme convenzionali rispetto
a quelle in virtù delle quali il crocifisso è obbligatoriamente presente nelle aule
italiane delle scuole elementari e medie.
Sono diverse le considerazioni che vanno fatte: che il dettato della Convenzione
sia talora dotato di «vis abrogans» rispetto a norme interne antecedenti è soluzione
sulla quale vi è concordia e che incontra il conforto anche di talune pronunce della
37[37] La
negata titolarità in capo al giudice di merito del potere di disapplicare la norma
interna che sia in contrasto con la Cedu così come interpretata dalla Corte europea dei
Diritti dell’Uomo si riferisce alle norme interne poste da legge ordinaria.
Cassazione penale38[38]. Al contempo, viene a sostegno dell’idea che le norme del
R.D. possano essere state abrogate dalla Convenzione l’orientamento del Tribunale
de l’Aquila che pur riferendo il fenomeno abrogativo alla promulgazione della
Costituzione, non dunque al testo convenzionale, ammetteva per implicito che
l’abrogazione possa aversi anche fra fonti aventi diverso rango ed anche quando la
successiva, ma di rango superiore, sia di principio39[39].
Non mancano argomenti forti che operano in senso contrario; a livello interno si
limita la portata dell’art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale e ciò
primariamente allo scopo di non comprimere l’ambito rimesso dalla Costituzione
alla cognizione della Consulta; non è un caso che la Corte costituzionale abbia sin
38[38]
Ci si riferisce a Cass. Pen. Sez. IV, 1 marzo 2000 n. 439 testo disponibile su
www.unife.it/convegni/amicuscuriae. In dottrina v. per tutti, F. VIGANÒ, Diritto penale
sostanziale e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., n. 1,
2007, p. 42 e ss. nella parte in cui ammette pacificamente la possibilità per il giudice
ordinario «di disapplicare norme precedenti l'incorporazione della Cedu nell'ordinamento
italiano, in quanto implicitamente abrogate a partire dall'entrata in vigore della l.
848/1955».
39[39]
V., Trib. l’Aquila, ord. 23 ottobre 2003 cit.. Scrive il giudicante che «L’esplicita abrogazione del
principio della religione cattolica come religione di Stato, contenuta nel punto 1, in relazione all’articolo 1
del Protocollo addizionale agli Accordi di modifica del Concordato del 1929, ha sicuramente introdotto un
nuovo assetto normativo che si pone in contrasto insanabile con la disciplina (scolastica e non) che impone
l’esposizione del crocifisso». Continua, poi osservando che «l’abrogazione esplicita di un principio giuridico
comporta necessariamente e naturalmente l’abrogazione tacita delle disposizioni che vi fanno riferimento,
in particolare se si tratta di normativa di rango secondario, che offre una minore resistenza nell’eventuale
contrasto determinatosi con l’introduzione di una nuova disciplina della materia, dovendo le disposizioni
regolamentari, per loro stessa natura, eseguire il dettato di determinate disposizioni di legge».
dagli albori privilegiato un’interpretazione restrittiva del margine di apprezzamento
del giudice comune verso l’applicazione del criterio cronologico statuendo che «il
campo della abrogazione è più ristretto in confronto di quello della illegittimità
costituzionale»40[40]. Tale argomento ha del resto spalle forti anche a livello
dogmatico se si considera che l’abrogazione è descritta da una parte della dottrina
come fenomeno concepibile solo nelle relazioni fra norme di pari rango e comunque
non ammissibile laddove la fonte successiva non si presenti come sufficientemente
precisa sotto il profilo del contenuto precettivo41[41]. Tale assunto - precocemente
acquisito dalla Corte costituzionale - era infatti nel senso che, in assenza di un
contrasto diretto e puntuale, sia ben arduo discorrere di abrogazione42[42]. Ad
ulteriore conforto della conclusione che nel caso di specie non possa aversi
abrogazione, è un recente orientamento della Consulta che ha sposato la tesi
secondo la quale anche nell’ipotesi di contrasto fra la CEDU (assunta quale fonte
parametrica interposta) e norme poste da legge ordinaria antecedente sia da
sollevare la questione di costituzionalità, il che parrebbe confermare lo sfavore
verso l’applicazione del criterio cronologico43[43].
40[40] V.
Corte cost. 14 giugno 1956 n.1.
41[41]
V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, 1993, Padova (Cedam), p. 175 e ss.
42[42]
Ancora V. CRISAFULLI, Lezioni cit. 1993, Padova (Cedam), p. 225 e ss.
43[43]
V. sul punto R. MASTROIANNI, La sentenza della Corte costituzionale n. 39 del
2008 in tema di rapporti fra leggi ordinarie e Cedu: anche le leggi cronologic amente
precedenti vanno rimosse dalla Corte costituzionale, in Forum dei Quaderni costituzionali.
Presentate sommariamente le ragioni a sostegno dei due orientamenti ci si limita
a fornire qualche spunto per una riflessione ulteriore. Anzitutto, la già ricordata
pronuncia di inammissibilità resa dalla Consulta sulla questione fa sì che la principale
ragione alla base dello «stato di minorità» dello strumento abrogativo, quella cioè di
non creare concorrenza fra i giudici di merito e la Consulta, non abbia spazio rispetto
al caso di specie.
Pertanto, la critica più puntuale che è lecito muovere alla tesi della abrogazione
rispetto alla vicenda in esame è difatti quella imperniata sulla eterogeneità non
tanto di rango quanto di struttura fra la norma abrogante pattizia e quella abrogata.
La natura di principio del disposto della Convenzione parrebbe scarsamente
adatta a fare sì che – in assenza di una dichiarazione espressa - l’interprete sia
comunque legittimato a ritenere non più esistente la norma regolamentare44[44].
Anche questa lettura presta però il fianco a critica: due fattori paiono deporre in
senso contrario; il primo emerge dall’art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale
ed è dato dal ricorso fatto dal legislatore alla nozione di «incompatibilità» quale
chiave di volta per ritenere che pur in assenza di dichiarazione espressa possa aversi
abrogazione. Non è agevole esprimere in modo compiuto un giudizio sul significato
44[44]
Sul punto ancora F. VIGANÒ, Diritto penale sostanziale cit., p. 42 che rimarca la
natura di principio delle norme Cedu e la loro ontologica apertura «a bilanciamenti
ampiamente discrezionali, che ciascun giudice di merito sarebbe a quel punto facoltizzato
ad operare».
giuridico della relazione di incompatibilità, ma è certo che essa evochi l’idea che fra i
due precetti vi sia una insanabile contraddizione. Ciò che è poco persuasivo è
sostenere che debba trattarsi di una contraddizione testuale, ben potendo al
contrario aversi un’incompatibilità, per così dire, «di principio» fra norme45[45]. Ciò
che dunque va visto è se la contemporanea presenza nell’ordinamento italiano delle
norme poste dal R.D. e di quelle poste dalla Convenzione evochi non tanto un
problema di legittimità, quanto una autentica «contradictio in adiecto». In tale
direzione, come si anticipava, milita un ulteriore argomento che si cercherà di
esporre in modo compiuto nel successivo paragrafo.
8. La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo nella
concretizzazione della norma-principio.
Se il problema principale sotteso all’adesione alla tesi dell’abrogazione è
l’eterogeneità materiale-strutturale fra le norme che si presumono incompatibili, è
quantomeno lecito verificare se la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
del’Uomo sia o meno in grado di svolgere un ruolo nel senso della concretizzazione
45[45] V.
sul punto P. VERONESI, Una “croce” sul crocifisso nelle scuole pubbliche? A
proposito di una questione di legittimità pendente davanti alla Corte costituzionale , in
Studium Iuris, 2004, n. 9, p. 1067-1068.
del comando, tale cioè da far sì che quella che è una norma afflitta da una
ontologica carenza di concretezza, ne acquisti attraverso la mediazione
dell’interpretazione della Corte, in misura tale da porla sullo stesso piano della
norma temporalmente precedente ed avente contenuto contrastante46[46].
Il profilo è degno di analisi specie se si considera che è in atto un processo di
progressiva valorizzazione della giurisprudenza internazionale ed, in particolare, di
quella della Corte europea. A tale riguardo, pare di certo significativa la apertura
fatta alla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo dalla stessa Corte
costituzionale nelle sentenze n. 348 e 349 dell’ottobre 2007, spunto che merita di
ricevere una applicazione concreta per non restare nel limbo delle affermazioni
declamatorie47[47].
Si ha insomma che a prescindere dai profili di costituzionalità sollevati dalla
presenza del crocifisso nelle aule scolastiche48[48], parrebbe ben possibile che la
natura «vaga», «di principio», «programmatica» che è propria non solo di talune
46[46] V.
C. ZANGHÌ, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte
europea dei Diritti dell’Uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze n. 348
e 349 del 2007.
47[47] V.
48[48] La
Corte cost. sent. 24 ottobre 2007 n. 348 par. 4.6.
decisione della Consulta di ritenere inammissibile la questione di legittimità
costituzionale della presenza del crocifisso non esclude evidentemente che un problema
di contrasto con il principio di laicità esista o possa esistere. V. S. SICARDI, Il principio di
laicità nella giurisprudenza della Corte costituzionale , in Diritto pubblico, Maggio Agosto,
2007, p. 501.
norme costituzionali, ma anche delle fonti convenzionali in materia di diritti umani,
possa essere «alterata» in via giurisprudenziale.
Del resto, anche a livello interno accade che al giudice sia affidata una attività di
concretizzazione del precetto normativo. Si tratta infatti della più evidente
implicazione del ricorso a «clausole generali» quale tecnica redazionale delle norme
giuridiche49[49].
Oltretutto, la compartecipazione della giurisprudenza alla delineazione della
norma giuridica è funzione che in diritto internazionale può addirittura dirsi tipica,
specie se si considera la valenza non meramente applicativa che normalmente
assumono le sentenze internazionali. Di tutto ciò pare avvertita la stessa Corte
costituzionale la quale in più passaggi delle citate sentenze manifesta adesione
all’idea di una compenetrazione inestricabile fra la norma convenzionale e
l’interpretazione che ne è offerta dalla Corte, conclusione ben sintetizzata da quella
dottrina che, non a caso, utilizza il termine «obbligatorietà» per connotare
l’interpretazione formulata dalla Corte, in luogo della parola «autorità» che a livello
interno si associa normalmente alla attività giurisprudenziale, anche quando di
vertice50[50].
49[49] Per
tutti S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, 2004, Milano (Giuffrè),
ibid..
50[50] V.
C. ZANGHÌ, La Corte cit., p. 13.
Nondimeno, rispetto alla prospettiva di una valorizzazione dell’interpretazione
resa dalla Corte europea che giunga alle soglie di una ridiscussione del concetto
stesso di «autenticità» dell’interpretazione, non si nascondono le perplessità. Come
si è avuto modo di specificare51[51], si è dell’idea che il conferimento al giudice
internazionale di una funzione di sostanziale produzione (melius precisazione) del
comando giuridico (sia pure nei limiti segnati dalla norma-principio convenzionale)
sia estraneo alla nostra tradizione e che il più vigoroso argomento a sostegno
dell’esistenza di un vincolo in capo al giudice interno rispetto agli orientamenti
giurisprudenziali della Corte di Strasburgo non abbia natura giuridica ma promani
dalla collocazione naturalmente verticistica di questa ultima e soprattutto dalla
rischio che, in mancanza di adeguamento dello Stato trasgressore, tale organo possa
continuarne a censurare le condotte dello Stato52[52].
Sulla base delle opposte argomentazioni ora riassunte è lecito formulare
un’ipotesi a partire dagli effetti “ultra partes” di una eventuale sentenza definitiva di
condanna. In tale frangente, si porrebbe infatti anche il problema – scaturente dal
51[51] Sul
punto sia consentito rinviare a L. MARATEA, Il valore della giurisprudenza della
Corte europea dei Diritti dell’Uomo nell’ordinamento italiano: Spunti di riflessione critica ,
in Riv. Coop. Giur. Int., 2006, 4, ibid.
52[52]
V. sul punto GARDINO CARLI, Stati e Corte europea di Strasburgo nel sistema di
protezione dei diritti dell'uomo, 2005, p. 89 ss p. 164
dettato dell’art. 46 Cedu – della sorte delle situazioni individuali analoghe a quella
azionata53[53].
Ai sensi dell’art. 46 Cedu, l’Italia dovrebbe infatti adeguare il proprio ordinamento
alla sentenza della Grande Camera attraverso misure generali la cui prevedibile
carenza potrebbe però essere supplita dal potere giurisdizionale. L’esistenza di
margini
di
discrezionalità
circa
l’individuazione
del
quomodo
spingerà
plausibilmente i giudici nazionali ad evitare (nei limiti del possibile) vie scarsamente
compatibili con prassi interpretative inveterate, il che ci convince del fatto che
difficilmente la concretizzazione apportata dalla sentenza Lautsi al comando posto
dagli art. 9 Cedu e 2 Prot. 1 Cedu, sarà tale da spingere i giudici nazionali ad
affermare l’abrogazione delle norme regolamentari seguendo il solco che venne
tracciato dal Tribunale di L’Aquila con riferimento al dettato costituzionale; più
verosimilmente il contrasto sarà risolto in termini di illegittimità delle norme poste
dai regi decreti per contrasto con le norme poste dalla fonte superiore con cui l’Italia
ha adattato il proprio ordinamento alla Cedu.
9. Il problema della giurisdizione e qualche considerazione conclusiva.
53[53]
La situazione potrebbe essere riguardata dagli organi di Strasburgo nei termini
delineati nella ben nota sentenza Broniowski c. Polonia, 22 giugno 2004 in DE SALVIA &
ZAGREBELSKY, Op. cit. III, p. 793 e ss.
Avviandoci alla conclusione, è naturale chiedersi cosa potrà accadere laddove la
decisione dovesse trovare conferma presso la Grande Camera. Ebbene, a parte le
potenzialità espansive di un giudizio – quello qui commentato – che guarda al di là
del caso scolastico, ma più in generale a tutte le ipotesi nelle quali l’individuo è
tenuto a stare in un ambiente ove sia affisso il simbolo religioso54[54], vi è più di una
ragione di dubbio circa le concrete possibilità di sviluppo di un contenzioso seriale
sulla base del leading case in commento; la esteriorizzazione di una convinzione
avente natura personalissima, quale quella che fondò la pretesa dei coniugi Albertin
verosimilmente rappresenterà un fattore di dissuasione, specie se si tiene conto
delle attuali asperità del dialogo interreligioso, delle difficoltà in cui si muovono le
minoranze religiose nel nostro paese e della esiguità della componente atea ed
agnostica. Si tratta evidentemente di una mera supposizione; più fruttuoso è infatti
formulare qualche osservazione rispetto all’ipotesi contraria e cioè che vengano
promosse cause identiche a quella intentata dai coniugi di Padova. Tale ipotesi
richiama anzitutto il problema della giurisdizione il quale è stato risolto dalle Sezioni
Unite in favore del giudice amministrativo in quanto titolare della giurisdizione
54[54]
Pur non venendo evidentemente in rilievo la garanzia posta dalla norma di cui
all’art. 2, Prot. 1, è pensabile che la sentenza investa anche i problemi sorti nel contesto
del lavoro pubblico. V. sulla esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia, le gustose
osservazioni di S. PRISCO, Laicità, un percorso di riflessione, 2009, Torino, (Giappichelli),
p. 40
esclusiva (ai sensi dell’art. 33 D. lgs. 31 marzo 1998 n. 80) nella materia dei pubblici
servizi, ambito nel quale a sua volta sarebbe attratto il contenzioso sulla rimozione
del crocifisso in quanto forma diretta ed immediata di manifestazione del potere
dell'Amministrazione in ordine all'organizzazione ed alle modalità di prestazione del
servizio scolastico55[55].
Mettendo da parte le istintive perplessità che solleva la sussunzione nella materia
dei pubblici servizi56[56], ed ancora di più la descrizione della posizione dell’individuo
come interesse legittimo57[57] è lecito ipotizzare che le eventuali domande giudiziali
rivolte al giudice amministrativo saranno dirette; (i) all’annullamento delle citate
disposizioni regolamentari per illegittimità derivante dal contrasto con la Cedu, così
come applicata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; (ii) alla caducazione degli
atti amministrativi assunti in base ai regolamenti; nonché (iii) al ristoro del danno
consequenziale la cui cognizione, ai sensi dell’art. 35, pure è affidata al G.A.
Resta il problema dell’individuazione del fondamento giuridico delle domande di
rimozione; in particolare resta poco chiaro se il giudice amministrativo possa
55[55]
V. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ord. 10 luglio 2006 n. 15614 in cui viene
accolta la tesi della giurisdizione esclusiva ex art. 33 D. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 nei casi
in cui venga richiesta la rimozione del crocifisso dalla aule scolastiche.
56[56]
Pare dunque escluso che un contenzioso davanti al giudice ordinario possa
svilupparsi, del resto la decisione della Corte di Cassazione (v. supra nt. 55) è netta nell’
escludere che la condotta dello Stato nel caso di specie possa essere considerata come
meramente materiale.
57[57]
V. Cons. di Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2006 n. 556.
condannare la P.A. a questo facere specifico ai sensi dell’art. 35, D. lgs. 31 marzo
1998 n. 80 o se piuttosto la rimozione possa essere descritta come espressione
dell’obbligo di conformazione della pubblica amministrazione indotto dallo stesso
giudicato58[58]; nella difficoltà di “fare pronostici”
59[59],
l’unico dato certo a nostra
disposizione è il netto rifiuto da parte delle Sezione Unite (nella più volte citata
pronuncia) della qualificazione della rimozione come forma di risarcimento,
soluzione che colloca tale domanda al di fuori della logica dell’art. 35 del sopra
citato D. lgs., disposizione che sarebbe coerente con le sole eventuali domande di
risarcimento del danno non patrimoniale. Nondimeno si è convinti che il giudice
amministrativo accorderà con parsimonia (nella migliore delle ipotesi) risarcimenti
pecuniari per danno morale conseguente alla esposizione del crocifisso e ciò per
effetto delle evidenti difficoltà probatorie su cui ci si è soffermati60[60].
58[58]
Sul punto M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 2002, Bologna (Il Mulino), in
particolare pp. 313-315.
59[59]
Sul punto per tutti, A. TRAVI, Processo amministrativo e azioni di risarcimento del
danno: il risarcimento in forma specifica, in Dir. proc. amm., 2003, n. 4, p. 994 e ss..
60[60]
Il contrasto originerebbe dalla incompatibilità fra l’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924 n. 965 ed art. 119
r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 con il comb. disp. degli art. 2 Protocollo n. 1 e 9 CEDU. Si tratterebbe di un vizio
suscettibile di determinare l’illegittimità dell’atto che trae fondamento dal rapporto di sovra-ordinazione
della fonte internazionale rispetto a quella interna secondaria. Si sarebbe di fronte ad un problema
insomma di risolvere in chiave gerarchica.
Questo potrebbe creare una sfasatura fra la valutazione adottata dalla Corte ai
sensi dell’art. 41 e quella dei giudici interni chiamati a decidere su eventuali
domande di ristoro.
Tutto ciò renderebbe oltremodo auspicabile che un intervento del legislatore
riempia lo spazio lasciato vuoto dalla pronuncia di inammissibilità resa dalla
Consulta, ma è cosa nota che da questo punto di vista vi siano ben poche chances.