ERIC DOLPHY PROJECT
L’intento di offrire una lettura dell’opera di Eric Dolphy non è motivato dall’esigenza di
onorare il quarantesimo anniversario della sua scomparsa: e sarebbe già tanto, a voler
essere sinceri, in un panorama culturale e musicale che neppure le ricorrenze hanno più
la forza di scuotere dalla distrazione di comodo.
L’operazione ha invece preso spunto – come spesso capita all’ombra del Nuraghe Arresi –
da una “scommessa”: consegnare nella mani di una delle massime espressioni del jazz
italiano la musica dell’ultimo lavoro discografico del polistrumentista losangelino, ‘ Out
To Lunch!’, cosi affascinante e ricca di quel “ mistero” artistico ed estetico che solo le
grandi opere possiedono. A farsene carico, secondo le scelte della Direzione a rtistica,
sarebbe stato l’ensemble Nexus, che ha accettato con entusiasmo il progetto affidato alla
sua cura. Successivamente è cresciuta la consapevolezza che Eric Dolphy avrebbe potuto
essere, per l’edizione 2004 del Festival, uno dei cardini attorno al quale far ruotare il
cartellone, fino alla decisione di farne un vero e proprio “ progetto” articolato in
molteplici momenti, sia musicali sia di esegesi critica. La passione con cui i musicisti
incaricati hanno accettato la sfida è, fin d’ora, il segno di una scelta indovinata, in attesa
che il palco di Sant’Anna Arresi formuli il proprio responso.
«OUT TO LUNCH!», UNA NUOVA FATICA PER NEXUS. Formazione di punta del jazz italiano
guidata con mano “ democratica ” dal batterista Tiziano Tononi e sassofonista Daniele
Cavallanti, Nexus affronterà una rilettura dell’ultima registrazione a nome di Dolphy:
un’operazione impegnativa, dopo le precedenti esperienze alle prese con le opere di Don
Cherry, John Coltrane e Rahsaan Roland Kirk.
La formazione ha festeggiato l’anno scorso il ventennale del primo ingresso in sala
discografica. In realtà le prime prove del quartetto originale risalgono al dicembre del
1980 – con Tononi e Cavallanti ci sono Luca Bonvini al trombone e Paolino Dalla Porta
al contrabbasso – e il primo concerto al marzo del 1981, mentre è appunto del 1983 il
primo disco, quell’ ‘ Open Mouth Blues ’ che insieme al successivo ‘ Night Riding’ non ha
ancora visto la doverosa ristampa in CD dell’originale vinile Red Records.
Da allora sono passati quattro lustri di musica, in cui il nome Nexus ha accolto tanti
jazzisti italiani, da Pino Minafra a Gianluigi Trovesi a Enrico Rava e altrettanti ospiti
stranieri, tra cui Glenn Ferris, Mark Dresser, Herb Robertson, Roswell Rudd, per non
allargarsi a vedere le tante diramazioni dei progetti solisti di Tononi e Cavallanti – che
non possono comunque essere concettualmente scissi in modo netto dall’esperienza Nexus.
Le parole di Tononi, relativamente a ‘ We Did It, We Did It! ’, trilogia dedicata a Kirk e
all’universo musicale afroamericano, sono una significativa testimonianza dell’approccio
di Nexus.
«Sono sempre stato molto affascinato dalla possibilità di suonare musica del tempo
presente, che alcuni definiscono avanguardia; musica che avesse un legame molto sa ldo
con la storia e la tradizione, e quindi da neofita ascoltatore di jazz e “apprendista”
percussionista ascoltavo Davis con Milt Jackson e allo stesso tempo Milford Graves e Don
Pullen, oppure la ‘Freedom Now Suite’ e il trio di Ayler con Gary Peacock e Sunny
Murray. Allora come oggi amavo moltissimo queste musiche così diverse ma anche
profondamente connesse tra di loro, in modi a volte sotterranei come i fiumi, altre volte
più palesi e diretti. In questo senso, pensare di fare un lavoro sulla musica e s ull’eredità
che Rahsaan ci ha lasciate è stato anche un modo di interrogarsi rispetto al problema del
linguaggio nel jazz di oggi, alla luce del fatto che questa musica si é molto trasformata
negli ultimi trenta-quarant’anni, accogliendo in maniera “fisiologica” stimoli e stilemi
provenienti da altre musiche. La riflessione è stata lunga, ed era come se inconsciamente
aspettassi delle “risposte” che avrebbero dovuto arrivarmi con modalità e tempi che non
potevo decidere io; mi si sarebbero presentate, forse, quando e come avrebbero voluto loro,
e credo che mai come in questo caso la pazienza sia stata una componente fondamentale
della riuscita del mio lavoro. […] Sono convinto che il jazz abbia bisogno di (ri)scoprire
una parte della sua storia, che nella mia idea coincide con gli anni ’60 e i primi ’70,
carica di indicazioni, di suggestioni e di vie da percorrere, e da lì possono arrivare
stimoli poco o addirittura mai raccolti, utili a vivificare questa musica dall’interno. Il
jazz è vivo e contiene “in sé” gli elementi per continuare ad esserlo, senza necessariamente
doversi rivolgere ad altri ambiti, colto-popolareschi, pseudo-etnici o italo-canzonistici.
Impariamo a scoprire quello che c'è in questa musica: continuo a pensare che sia la più
straordinaria che mi potesse capitare di incontrare ».
L’INSTANT COMPOSERS POOL SULLE ORME DI DOLPHY. Orchestra di tenaci improvvisatori
olandesi, nelle sue file militano due degli esponenti storici del jazz europeo e dei Paesi
Bassi: il pianista Misha Mengelberg e il batterista Han Bennink – che, particolare non
trascurabile, erano con il musicista in alcune delle ultime sedute di registrazione. L’Instant
Composers Pool ha registrato relativamente poco, ma ha ottenuto un consenso unanime a
livello internazionale per la sua sofisticata estemporaneità, le geniali interpretazioni di
compositori del valore di Duke Ellington e Thelonious Monk, nonché per lo straordinario
livello di abilità tecnica e musicale dei suoi componenti. La big band, che ha la sua “ base” ad
Amsterdam, propone fondamentalmente una miscela di musica improvvisata europea, jazz e
tipica irriverenza olandese, che produce una musica tanto sofisticata quanto divertente, che
da diversi decenni stupisce ed impressiona gli amanti della musica.
È insomma il prodotto “tipico” di una scuola che propone da decenni un personale ed
accattivante “ elogio della follia ” nel proporre la propria versione di jazz, decisamente
adeguata ad esaltare la vena sarcastica, “ luciferina” delle visioni dolphiane.
“ICP” è in principio un marchio discografico e il nome di un gruppo ideati nei tardi anni
Sessanta dallo specialista delle ance Willem Breuker e dal batterista Han Bennink, che
autoproducono un lavoro discografico in duo, denominando l’etichetta ICP. Il pianista
Misha Mengelberg sarà poi il terzo componente dell’ICP: la sigla sarebbe divenuta ben
presto una sorta di “ ombrello” sotto cui, nel decennio successivo alla fondazione, si esibì
una grande varietà di formazioni.
Fra Breuker e Mengelberg nascono subito forti divergenze sull’approccio alla live
performance, su che cosa ICP dovesse rappresentare e su altre questioni prettamente
musicali: la formazione includerà infatti l’uno o l’altro, ma non tutti e due. Breuker
preferisce provare e lavorare su un terreno tematico, Mengelberg predilige la
composizione radicale, istantanea. Il primo chiede che tutti i componenti dell’ensemble
abbiano voce in capitolo sulle decisioni, il secondo pretende che, ad avere l’ultima parola,
sia il nucleo dei tre “ fondatori ”: diverse anche le idee riguardo al teatro musicale,
esperienza che l’ICP intraprende già dalla fine degli anni Sessanta.
Alla fine, entrambi decidono di lavorare separatamente, con proprie combinazioni
dell’ICP, mentre Bennink, che non prende parte alla contesa, partecipa ad entr ambe le
situazioni, lavorando tuttavia più spesso con Mengelberg.
La formazione guidata da Breuker includerà musicisti come il bassista Maarten Altena,
il trombonista Willem van Manen, il sassofonista, fratello minore di Han, Peter
Bennink, il pianista Leo Cuypers e il tastierista Michel Waiaswitz. Mengelberg e
Bennink formeranno dapprima, a partire dal 1969, un trio con il sassofonista britannico
Evan Parker: successivamente daranno vita ad un quartetto con il sassofonista John
Tchicai e il chitarrista Derek Bailey, di cui si ricorda un breve tour e due registrazioni
discografiche, delle quali una, ‘ Fragments’, è rimasta un classico della musica
improvvisata europea. Qualche mese dopo, Mengelberg, Bennink e Parker si uniscono a
Bailey, al sassofonista Peter Brotzmann, al trombonista Paul Rutherford e a Peter
Bennink, per la realizzazione di un disco in settetto, ‘ Groupcomposing ’: nello stesso
periodo, Misha e Han registrano in duo un disco senza titolo per l’etichetta ICP.
Nel 1973, l’ormai inevitabile spaccatura, con i musicisti che si accasano con l’uno o con
l’altro: ne derivano, da una parte, il Willem Breuker Kollektief, ancora in piena attività,
ricco di spunti “ teatrali ” e di momenti di puro divertimento; dall’altra, Mengelberg
continua a portare a vanti la sigla dell’Instant Composers Pool, che tuttavia, per diverso
tempo, subirà continui mutamenti nella line up, di cui resteranno punti di forza lo stesso
Mengelberg, Bennink e lo statunitense specialista della tuba Larry Fishkind: a
rotazione, saranno presenti nelle file dell’orchestra gli stessi Brotzmann e Tchicai, il
violoncellista Tristan Honsinger, i sassofonisti Keshavan Maslak e Paul Termos, il
trombonista George Lewis.
La prima registrazione dell’ensemble allargato arriva all’inizio del 1977: ‘ICP-Tentet In
Berlin’. Il primo dei membri permanenti, il trombonista Wolter Wierbos, arriverà tre
anni dopo, raggiunto quasi subito dal sassofonista Michael Moore, che apparirà per la
prima volta nel disco DIW ‘ Japan Japon ’, così come la violista Maurice Horsthuis,
seguito ben presto dai colleghi dell’Amsterdam String Trio – il contrabbassista Ernst
Glerum e il violoncellista Ernst Reijsiger (Reijsiger, Moore e Bennink formeranno in
seguito il Clusone 3). Horsthuis si congeda qualche tempo dopo, senza es sere seguito da
Reijsiger e Glerum.
L’ensemble si sposta progressivamente dalla “composizione istantanea” all’improvvisazione
“guidata”, mutamento dovuto essenzialmente alle dimensioni della formazione, ormai
stabilmente sui dieci componenti: gli anni Ottanta sono segnati infatti dal sapido omaggio
dell’orchestra alla musica di Monk e Herbie Nichols Intorno al ’90, arrivano anche Ab
Baars e Thomas Heberer, rispettivamente al sax e alla tromba, mentre la metà del decennio
fa registrare il ritorno di Honsinger. Nel 1999 Ernsr Reijsiger ha lasciato definitivamente
l’ICP.
IL TRIBUTO DELL ’AVANGUARDIA DI NEW YORK. Terzo ed ultimo omaggio sarà quello del
duo composto dal grande sassofonista David S. Ware e dal pianista Mattew Shipp, che
incroceranno le vie dell’artista al centro del progetto con la propria versione di “ energy
music”, espressione di quella scuola newyorkese che sta indicando nuove strade al jazz e
alla musica.
La linea che connette l’universo dolphiano e il voluminoso bagaglio che Ware porta con
sé è quella della forza espressiva. Il sassofonista di Plainfield possiede una cifra
stilistica che poggia sul suono del suo sassofono tenore: una voce potente e profonda,
densa e pastosa, genealogicamente legata al “ ramo” che da Coleman Hawkins passa per
Sonny Rollins e giunge all’estremo, invalicabile limite segnato dal love cry di Albert
Ayler. Sul timbro, Dolphy ha fondato la propria complessa costruzione armonicomelodica, e sul suono Ware ha costruito la propria solida struttura di sintesi della
cultura musicale degli anni Settanta – un mondo che, come ha notato acutamente Arrigo
Polillo, da più d’una delle indicazioni lanciate da Dolphy prese le mosse nel delineare il
proprio orizzonte. Due linguaggi che iscrivono la propria cittadinanza
nell’espressionismo e negli abissi della poesia: laddove Eric ne cavò una parlata
concitata, torrenziale, quasi fosse esito di una sorta di horror vacui , mentre David del
vuoto non alcun timore e se ne serve – attraverso silenzi scoscesi – come a dare scultorea
evidenza a una massa sonora stentorea, tonante.
Nelle mani di Matthew Shipp, la consueta e sempre più efficace forza percussiva del suo
pianismo, sintesi di ritmo e armonia profondamente afroamericana che rifugge ogni
tentativo “sistematico”, così come mostra il caleidoscopio delle sue esperienze – dal free
all’elettronica, dal lavoro con Ware alla partnership con dj e “ manipolatori ” di supporti
sonori. Nella sua eloquenza così prodiga di riferimenti, il richiamo alla tradizione (nel
suo caso, quella degli anni Sessanta) non è che un terreno di dialogo, da cui spiccare,
distillare, sublimare una sostanza eminentemente individuale: in questa schiatta di
artisti rivive l’essenza dell’arte dolphiana.
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A Eric Dolphy è dedicato, quest’anno, anche il Concorso “ Marcello Melis ”: il bando di
partecipazione prevede infatti l’impegnativa, quanto stimolante, interpretazione di due
brani – The Prophet e Fire Waltz – contenuti in nelle session al Five Spot.
Si darà vita inoltre al convegno sull’arte e la personalità del musicista, « “Tender
Warrior”: l’eredità musicale di Eric Dolphy a 40 anni dalla morte ». Vi prenderanno parte
musicisti, studiosi, giornalisti e organizzatori provenienti da tutto il mondo. Il musicista,
giornalista e scrittore americano Mike Zwerin ha collaborato con Dolphy nell’ambito
dell’Orchestra USA, una pionieristica iniziativa che presentava concerti di musica
contemporanea e di jazz; l’intervento di Zwerin sarà centrato su questa esperienza diretta di
lavoro comune. Alan Saul gestisce il sito web più ricco e documentato su Dolphy, e
riassumerà le conoscenze sulle registrazioni audio e video della sua musica, presentando
anche filmati rari o inediti; Graham Connah, pianista californiano che si è in particolare
dedicato alla musica di Dolphy presentandola in concerto con il suo gruppo, esaminerà
analiticamente l’importanza delle sue composizioni; Gérard Rouy, giornalista e fotografo
francese, ha appositamente raccolto una serie di testimonianze di musicisti di jazz
contemporanei sull’impatto che ha su di loro avuto la musica di Dolphy; Paul Karting,
l’organizzatore della tournée olandese del 1964 durante la quale Dolphy incise “Last Date”
presenterà informazioni complete su quel periodo, e al convegno interverranno anche Misha
Mengelberg e Han Bennink, che con Dolphy suonarono in quiell’occasione. Infine il
giornalista italiano Claudio Sessa, che ha dedicato specifica attenzione a Dolphy in una
serie di articoli su Musica Jazz, dedicherà il suo intervento all’influenza di Dolphy sulle
avanguardie della musica afroamericana, da Albert Ayler ai musicisti dell’AACM.
L’incontro sarà concluso da una tavola rotonda di sintesi tra tutti gli i relatori coordinata da
Francesco Martinelli, cui il Festival ha affidato la realizzazione dell’iniziativa.