IL DIRITTO PUBBLICO E LO STATO Come chiarito nei precedenti anni di corso, il diritto pubblico regola l’esercizio della sovranità e, dunque, quell’attività impositiva che è propria di specifici soggetti quali lo Stato, le Regioni, le Province ed i Comuni. Soggetti ai quali, soprattutto negli ultimi decenni, si è andata ad aggiungere un’organizzazione internazionale – ma, appunto, meglio dire sovranazionale – denominata U. E.: Unione Europea. Ciò che distingue questi soggetti – soggetti di diritto pubblico – da quelli di diritto privato è proprio la possibilità ad essi accordata dall’ordinamento giuridico di decidere ed imporre le proprie decisioni. In questo consiste la sovranità: nel poter imporre, eventualmente facendo uso della forza, le proprie decisioni: decisioni che prendono la forma di norme giuridiche (cioè, appunto, di regole di comportamento obbligatorie imposte alla generalità di coloro che si trovano in un determinato territorio). Dunque, attraverso l’esercizio della sovranità, così come regolato dal diritto pubblico, questi soggetti regolano coattivamente la vita della generalità di coloro che si trovano sul territorio: regolano la vita degli abitanti della polis. E’ per questo che la sovranità corrisponde al potere politico: è il potere politico; è, cioè, il potere di regolare la vita collettiva nella polis, nella città, nel territorio comune a tutti. Si può, perciò, anche dire che Stato, Regioni, Province, Comuni ed Unione Europea esercitano – ovviamente con delle differenziazioni – il potere politico. Insomma, Stato, Regioni, Province, Comuni ed Unione Europea possono imporre a tutti ed a ciascuno di noi delle norme da rispettare, ma nel farlo devono a loro volta rispettare delle norme: quelle, per esempio, che stabiliscono se a decidere su una questione debba essere la Regione o il Comune; quelle che stabiliscono se a decidere debba essere il Parlamento o, altrimenti, il Governo; quelle che stabiliscono ciò che può essere deciso ed anche ciò che non può essere deciso; quelle che stabiliscono come si fanno i processi per stabilire eventuali sanzioni a carico di chi, eventualmente, si fosse comportato in modo difforme rispetto alla norma; etc. etc. etc. Bene, tutte queste norme che regolano l’esercizio della sovranità – del potere politico – formano quello che chiamiamo diritto pubblico. Tra tutti questi soggetti pubblici (cioè, dotati di sovranità), il primo ad essersi storicamente affermato è lo Stato. Solo successivamente, e per volontà dello stesso Stato, la sovranità è stata ripartita tra la pluralità degli altri soggetti che abbiamo appena indicato. E’, dunque, dello Stato che occorre iniziare a parlare. LO STATO Lo Stato – così come oggi lo intendiamo: nel senso moderno, odierno, del termine – nasce tra il ‘400 ed il ‘600: nasce, cioè, al momento del superamento della società feudale. Una società – quella feudale – in cui il potere politico era frammentato e territorialmente gestito da una pluralità di soggetti; tra questi, i più importanti ed i più potenti: il papa ed il re; ma anche i Comuni, i signori feudali, le corporazioni. Ognuno di questi soggetti gestiva un frammento del potere politico (più o meno grande) e lottava con il proprio esercito contro gli altri soggetti per accrescere (a scapito degli altri) la dimensione del proprio potere. Insomma, una vera e propria lotta per il potere politico. Lo Stato nasce precisamente nel momento in cui questa frammentazione viene superata ed un solo soggetto diventa titolare di tutto il potere politico. E’ proprio ciò che avviene tra il’400 ed il ‘600 (in anni 1 diversi, a seconda degli Stati): quando il re sconfigge il papa e si afferma detentore unico del potere politico. Lo Stato, perciò, nasce nel momento in cui il potere politico – precedentemente frammentato in una pluralità di soggetti – viene centralizzato: nel momento in cui del potere politico si individua un centro di ogni decisione politica. E questo centro è il re. Dunque, lo Stato nasce come monarchia: nasce avendo a capo un re e nasce nella forma della monarchia assoluta. FORMAZIONE DELL’APPARATO DELLO STATO Il re, sbaragliato ogni antagonista nella lotta per il potere politico, diventa l’unico soggetto che possa assumere decisioni relative alla vita collettiva e ne possa imporre il rispetto ricorrendo, se necessario, all’uso della forza. Si tratta, tuttavia, di un potere che, per sua natura, richiede che il re si avvalga dell’opera di altri soggetti. Di una forza armata, per esempio: nel caso specifico, a quell’epoca, di un esercito. In realtà, il re aveva già un esercito, che gli aveva garantito la vittoria contro il papa; ma un esercito aveva anche quest’ultimo, così come lo avevano i Comuni ed i signori feudali. Ora, nel momento in cui l’intero potere politico è esercitato dal re, questi eserciti non hanno più ragion d’esistere: devono essere eliminati o inglobati in quello del re. Quello del re deve diventare un esercito nazionale, in grado di pretendere il rispetto delle decisioni del re in ogni angolo del territorio nazionale. E poi, occorre una magistratura: occorre un certo numero di giudici incaricati di dirimere eventuali liti, stabilendo, tra le parti, ragione e torto. Esercito e magistratura, necessari ad imporre il rispetto delle decisioni del re. Ma anche nel decidere, il re non può essere solo. Le decisioni da prendere sono tante – ed, a volte, così complesse – che nessuna persona al mondo potrebbe pretendere di decidere tutto da sola. E’ bene farsi aiutare da persone di propria fiducia, ad ognuna delle quali si affidi l’incarico di seguire uno specifico settore e di decidere in merito alle questioni che lì, in quel settore, si pongono: una per la difesa nazionale, una per i rapporti con gli altri Stati, una che si incarichi di seguire le questioni dell’ordine pubblico all’interno del territorio, un’altra che si occupi di sanità pubblica, etc. Persone che stiano al servizio (ministri) del re, per coadiuvarlo nelle sue decisioni. Insomma, il re deve formare un suo governo. Esercito nazionale, magistratura, governo … tutto questo costa: costano gli armamenti, costano i tribunali e le prigioni, costano i militari, i giudici, i ministri … per non dire della vita di corte dello stesso re … E chi paga?! Occorre introdurre delle imposte ed assicurarsi del fatto che i contribuenti le paghino e le paghino nella misura stabilita. Un certo numero di persone deve essere destinato proprio a questo compito. Costoro andranno a formare l’apparato fiscale: più semplicemente, il fisco. Esercito nazionale, magistratura, governo, fisco … cominciano ad intravvedersi quelle strutture (quegli organi) tipiche di ciò che noi, ancora oggi, in sintesi, chiamiamo Stato. Strutture – organi – che, tutte insieme, e ciascuna con un proprio specifico compito, consentono allo Stato di esercitare la sovranità. Ed allora, possiamo definire lo Stato come quella organizzazione – quell’apparato – che esercita la sovranità su un territorio e sulla comunità che in quel territorio vive . 2 Certo, possiamo distinguere tra i vari organi dello Stato. Possiamo distinguere dal punto di vista dei compiti affidati a ciascuno, ad esempio. Ed, infatti, vi sono organi che hanno il compito di prendere le decisioni (questi, all’epoca, erano il re ed il suo governo): questi organi si dicono politici. Altri organi, invece, hanno il compito di eseguire le decisioni prese dagli organi politici. Gli organi con funzioni esecutive si dicono burocratici. Nel tempo – molti secoli dopo la nascita delle prime monarchie – si vedrà che gli organi politici diventeranno elettivi e, perciò, temporanei (l’incarico politico, cioè, sarà affidato tramite elezione popolare e, perciò, valido fino alle nuove elezioni); mentre l’incarico burocratico sarà attribuito per concorso e, una volta attribuito, sarà da considerare tendenzialmente stabile (cioè valido per tutta la vita del lavoratore). In conclusione, possiamo definire lo Stato come quella organizzazione – quell’insieme di organi politici e burocratici – che esercita la sovranità su un territorio e sulla comunità che in quel territorio vive. LO STATO ASSOLUTO Il re, dunque, concentra nelle sue mani tutto il potere politico, forma un suo governo, costituisce un esercito nazionale ed una magistratura, struttura un apparato fiscale. Attraverso tutte queste strutture, il re decide sulla vita collettiva ed impone le sue decisioni. In questa attività decisionale e, poi, impositiva delle decisioni, il re non trova alcun limite: non trova, cioè, norme giuridiche che limitino la sua volontà, né dal punto di vista del contenuto, né dal punto di vista delle procedure con le quali le decisioni vengono prese. Insomma, il re decide ciò che vuole – prende le decisioni che vuole – e decide come vuole: non ci sono norme giuridiche limitative del suo potere. Quello del re, dunque, si definisce come potere assoluto, e la prima forma di Stato – quella di cui, appunto, stiamo parlando – come monarchia assoluta. Il termine assoluto, infatti, deriva dal latino ab solutum: senza limite, senza quei limiti giuridici (che, invece, successivamente, saranno introdotti) costituiti dalle norme giuridiche di regolamentazione del contenuto e delle procedure della sovranità. Ma perché quei limiti – quelle norme – vengano introdotte, bisognerà attendere la fine del 18° secolo, la Rivoluzione Francese e l’emanazione delle Costituzioni. Al cospetto del potere assoluto del re, tutti gli altri devono, per definizione, subordinarsi: al cospetto del potere del re, tutti gli altri sono sudditi: soggetti privi di diritti, senza diritti. E sono sudditi necessariamente: la sudditanza dei membri della comunità è l’altro lato della medaglia del potere assoluto del re. Infatti, se i membri della comunità avessero diritti, il re non potrebbe decidere qualunque cosa, ma solo ciò che non fosse in contrasto con questi diritti. Se i membri della comunità avessero diritti, il potere del re sarebbe limitato, non assoluto! Ne deriva, dunque, che la natura assoluta del potere del re implica, necessariamente, che la comunità sia costituita da soggetti privi di diritti: subordinati, appunto; tecnicamente, sudditi. E’ proprio questo che caratterizza e distingue lo Stato assoluto dalle altre forme di Stato che si susseguiranno nel corso della storia: il rapporto tra una organizzazione (lo Stato) dotata di una sovranità assoluta ed una comunità costituita da soggetti privi di qualunque diritto, una comunità di sudditi. 3 Quello del re è, dunque, un potere assoluto, illimitato. Il re può tutto: è onnipotente. Opera in terra come Dio nel cielo: è una sorta di Dio in terra. Ed, infatti, viene assunto come scelto da Dio: gode di un’investitura divina. E’ Dio che l’ha scelto, è lui che gli ha conferito l’incarico di governare: così si dice, per giustificare il potere del re nella sua onnipotenza. E, d’altra parte, non potendosi giustificare l’attribuzione del potere politico come espressione della volontà popolare (così sarebbe oggi, in conseguenza delle elezioni), necessariamente doveva offrirsi un’altra giustificazione: se l’incarico non può giustificarsi dal basso (dal popolo), deve giustificarsi dall’alto (appunto, da Dio). Si istituisce così un’analogia tra la potenza di Dio in cielo e quella del re in terra: questi governa in nome di Dio; per volontà di Dio; come emissario di Dio. C’è, però, un problema: che Dio, nella sua onnipotenza, è solo a governare dal cielo; il re, nella sua onnipotenza è solo a governare in terra. Dio è spirito; il re è, comunque, un uomo e, dunque, in quanto uomo, non può non temere i tentativi terreni, umani di rovesciare il suo potere. L’onnipotenza del re lo eleva rispetto a tutti gli altri membri della comunità (tutti suoi sudditi), ma, al contempo, lo isola rispetto a tutti gli altri: in una condizione di totale solitudine e, perciò, anche, di infinita debolezza, possibile vittima di qualunque congiura, di qualunque tentativo di destituzione violenta. Occorre che il re si renda meno solo: che si crei un consenso sociale; che intorno a lui si crei una massa di uomini che si avvantaggiano delle sue scelte e che, perciò, lo vogliono al potere. Meglio se si tratta di uomini importanti, influenti nella vita sociale: uomini dalle decisioni dei quali derivino i destini, più o meno felici, di tanti. Meglio, insomma, se il consenso proviene dalla classe economicamente (e, dunque, socialmente) dominante. All’epoca – si ricordi: siamo tra il ‘400 ed il ‘600 – l’economia era ancora pressochè totalmente agricola: il destino degli uomini, dunque, dipendeva dalle decisioni dei proprietari terrieri (degli aristocratici): a seconda che questi decidessero di tenere incolti i propri terreni, o di darli in affitto agli imprenditori agricoli … a seconda del livello degli affitti pretesi … le condizioni di vita della popolazione potevano migliorare di molto o, al contrario, di molto peggiorare, fino alla morte per fame. Erano questi – i proprietari terrieri: la classe dell’aristocrazia – la classe dominante. E’ di questa classe che il re cerca, riuscendoci, di conquistare il consenso. Il re, perciò, cerca il consenso degli aristocratici prima di tutto formando un governo aristocratico: scegliendo i ministri dalle file dei proprietari terrieri. Ed il governo aristocratico, ovviamente, adotta politiche favorevoli agli interessi dell’aristocrazia, piuttosto che a quelli della (nascente) borghesia capitalistica (la classe degli imprenditori): in particolare, il governo aristocratico pratica una politica economica protezionistica; ed una politica fiscale squilibrata a vantaggio delle rendite. Per politica protezionistica si intende una politica che impone elevati dazi doganali alle merci importate dai Paesi esteri, così da determinare un aumento dei prezzi degli stessi e spingere la domanda interna verso l’acquisto di beni prodotti sul territorio nazionale . E’ chiaro che una politica di questo tipo, eliminando o riducendo i beni di importazione (all’epoca, essenzialmente, i beni alimentari), spinge ad aumentare la produzione nazionale di quei beni, almeno fino al livello dei bisogni di sopravvivenza della popolazione. Di conseguenza, con una politica di questo tipo, aumenta la domanda di beni alimentari prodotti all’interno, questo fa aumentare la necessità di produzione interna di quei beni; da ciò, la necessità di aumentare la produzione agricola 4 mettendo a coltura sempre nuova terre: aumenta la domanda di terre e, con questa, le rendite (cioè i redditi dei proprietari terrieri). Dal punto di vista della politica fiscale il governo aristocratico riduce il carico tributario sulle rendite e lo aumenta sui profitti (cioè, sul reddito degli imprenditori) . In definitiva, dal punto di vista di classe, nello Stato assoluto: l’aristocrazia vede aumentare le proprie rendite e, su queste, paga anche meno tasse; la borghesia, paga rendite (affitti) più alti ed anche più tasse allo Stato. Lo Stato assoluto rappresenta il dominio dell’aristocrazia – sia sul piano economico, che su quello politico – sulla borghesia capitalistica. E, tuttavia, malgrado tutto, la borghesia capitalistica non ha poi da lamentarsi troppo. Infatti, la novità fondamentale costituita dallo Stato assoluto consiste nell’aver unificato l’intero territorio nazionale sotto il potere politico del re, eliminando tutte quelle zone territoriali che precedentemente erano attribuite a terzi (papa, Comuni, signori feudali). Ora le decisioni del re – che, ovviamente, si esprimono nella forma di norme giuridiche – valgono su tutto il territorio dello Stato. L’ordinamento giuridico diventa un ordinamento giuridico nazionale: regola, ad esempio, l’attività d’impresa allo stesso modo dalla Sicilia alla Val d’Aosta. E’ per questo che, ora, un’impresa siciliana può vendere (se ne è capace) anche in Val d’Aosta, ed un’impresa valdostana anche in Sicilia. Cioè, insomma, il mercato di riferimento delle imprese non è più locale, ma nazionale, perché nazionale è, ormai, l’ordinamento giuridico . Lo Stato assoluto, unificando l’ordinamento giuridico, unifica il mercato nazionale. Ogni impresa, perciò, può ora contare su una domanda ben più ampia che in precedenza: una domanda nazionale; dunque, può vendere di più e, vendendo di più, ottenere maggiori profitti; questi possono essere, almeno in parte reinvestiti nell’azienda, così che questa si ingrandisca sempre di più e diventi economicamente sempre più importante… Tutto questo è proprio ciò che le imprese fanno negli anni dello Stato assoluto, diventando via via sempre più grandi ed economicamente forti. In definitiva, è vero che nello Stato assoluto la classe economicamente dominante – tanto dal punto di vista economico, che politico – è l’aristocrazia; e, tuttavia, per la ragione appena detta, la borghesia accetta ben volentieri la sua condizione di subordinazione economica e politica, avvantaggiandosi dell’unificazione del mercato, conseguenza dello Stato assoluto. Insomma, dal punto di vista dei rapporti di classe, può dirsi che lo Stato assoluto è un compromesso: tra l’aristocrazia e la borghesia, sebbene a vantaggio dell’aristocrazia. LO STATO LIBERALE Dunque, nello Sato assoluto, malgrado il protezionismo e la politica fiscale sbilanciata a favore dell’aristocrazia, le imprese diventano sempre più grandi e sempre più alti i livelli di profitto. Una parte di questi viene reinvestita nelle innovazioni tecnologiche in agricoltura, ed una parte comincia ad essere investita in aziende manifatturiere (prima artigiane, poi industriali) sempre più grandi e sempre più produttive. Insomma, sempre più ingenti diventano i capitali investiti in agricoltura e, sempre di più, nell’industria: sempre più ricchi ed economicamente decisivi per le sorti della società diventano gli imprenditori capitalisti. 5 Ormai, nel ‘700, non è più possibile parlare dell’aristocrazia come sola classe dominante. Forse, dal punto di vista economico, non aveva ancora perso il suo dominio: l’agricoltura rimaneva un settore economico fondamentale, benchè sempre meno importante; la preminenza economica dell’aristocrazia terriera, perciò, permaneva ma sempre meno netta e sempre più affiancata (fino ad essere superata) dalla borghesia capitalistica (soprattutto, commerciale ed industriale). E, tuttavia, all’ascesa economica della borghesia continuava a fare riscontro il persistente dominio politico della sola aristocrazia, secondo l’assetto del potere politico che abbiamo descritto nello Stato assoluto. Una contraddizione, evidentemente, sempre meno accettabile. La borghesia, non più, ormai, classe dominata, non poteva ancora accettare di essere esclusa dall’esercizio del potere politico, limitandosi a subire le politiche economiche decise dal governo aristocratico. Non è un caso che le rivolte borghesi nei paesi anglosassoni si fanno al grido: “no taxation without rappresentation”; “nessuna tassazione senza rappresentanza”: non accettiamo più di pagare le tasse allo Stato, senza che ci siano nostri rappresentanti negli organi politici dello Stato. Occorre che nell’organizzazione dello Stato sia previsto un organo rappresentativo (della comunità … in realtà, vedremo, più precisamente: della borghesia). Un organo che, per essere rappresentativo della borghesia, deve essere da questa eletto: deve, cioè, essere espressione del voto dei borghesi. Con la Rivoluzione Francese, la borghesia rivendica l’istituzione di un Parlamento, quale organo rappresentativo eletto tramite voto censitario (il cui esercizio, cioè, veniva riconosciuto solo a coloro che fossero in possesso di un certo livello di censo, di reddito). Occorreva che il re emanasse una Costituzione, cioè un documento solenne nel quale fosse riconosciuto da un lato il diritto di voto, dall’altro fosse istituito il Parlamento. Ma anche questo non bastava: non poteva bastare! Infatti, votare significa scegliere: tra cosa?! Tra opinioni politiche diverse, evidentemente! E, dunque, occorreva che la Costituzione riconoscesse anche la libertà di manifestazione del pensiero, e – siccome il Parlamento era un organo dello Stato e, perciò, un organo nazionale – che le differenti idee politiche potessero esprimersi liberamente sugli organi di stampa: così che tutti potessero esserne informati. Cioè, insomma, il diritto di voto comportava il diritto alla libertà di stampa. Una libertà di parola, di pensiero, di stampa che doveva potersi esplicare in ogni campo: da quello politico, a quello culturale … anche a quello religioso (allora, come oggi, molto importante). Insomma, occorreva che tutti potessero professare e difendere liberamente la propria religione, così come esprimere le proprie idee politiche, o artistiche o culturali … senza che qualcuno potesse immaginare di sanzionarlo in conseguenza di quelle idee. E’ il diritto alla libertà personale, in base al quale nessuno può essere ristretto nei suoi movimenti e nella sua libertà (insomma, nessuno può essere incarcerato) se non in conseguenza di un reato commesso (e non della libera espressione di una sua opinione). In definitiva, nel corso del ‘700, con la Rivoluzione Francese, la borghesia capitalistica rivendica l’emanazione di una Costituzione che riconosca una serie di diritti ai membri della comunità: 6 il diritto di voto; la libertà di manifestazione del pensiero; la libertà di culto; la libertà di stampa; la libertà personale. E nemmeno questo basta, perché nessuno può a priori garantire che il governo del re, anziché – come dovrebbe – operare per tutelare questi diritti, in realtà non utilizzi l’esercito (la forza armata) per reprimere le libertà di chi col governo non è d’accordo. Il governo è un organo pericoloso: siccome è lui che dispone della forza armata e delle risorse economiche che derivano dalle entrate fiscali, potrebbe utilizzare questi due strumenti per colpire le libertà degli oppositori. Dunque, è necessario: che la Costituzione dichiari inviolabili i diritti dell’uomo; che i poteri del governo vengano limitati e controllati. E così accade: il re, costretto dalla Rivoluzione, concede (è costretto a concedere) una Costituzione: queste Costituzioni, le prime Costituzioni, infatti, si dicono concesse. Le Costituzioni sono divise in due parti: nella prima parte riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino; nella seconda parte, così come suggerito da Montesquieu, organizza la sovranità sulla base del principio della divisione dei poteri. Il carattere di inviolabilità che la Costituzione riconosce ai dritti dell’uomo e del cittadino – il fatto che questi vengano definiti inviolabili – sta a significare che a nessun soggetto è permesso violarli: nessuno può reprimerli, soffocarli, negarli … Sta a significare che essi sono costitutivi della stessa natura dell’uomo e, perciò, dello Stato. Nemmeno lo Stato, dunque, nemmeno il governo può reprimere i diritti costituzionalmente riconosciuti: al contrario, lo Stato, il governo si impegna a rispettarli integralmente; così come, d’altra parte, lo Stato pone a suo fondamento la Costituzione e si obbliga a rispettarla in ogni sua parte; così come, lo Stato si impegna al rispetto delle sue proprie leggi, del suo stesso ordinamento giuridico. Lo Stato, nel suo operare, si obbliga a rispettare il principio di legalità: ad operare nel rispetto delle leggi e, prima di tutto, della sua stessa Costituzione. La divisione dei poteri, ideata da Montesquieu, serve proprio a cercare di garantire meglio il rispetto del principio di legalità da parte del governo. Esso, infatti, prevede che i poteri del governo vengano ridotti al solo potere esecutivo (potere amministrativo) e che questo venga sottoposto ad un duplice limite: quello costituito da un Parlamento dotato del potere legislativo; quello di una magistratura – autonoma ed indipendente rispetto al Parlamento ed al governo – dotata del potere giurisdizionale e, dunque, incaricata anche di verificare il rispetto delle leggi da parte del governo, così come il rispetto della Costituzione da parte del Parlamento. Insomma, lo schema è questo: 7 il governo non decide: esegue quanto deciso dal Parlamento con le leggi; il Parlamento approva le leggi nel rispetto pieno della Costituzione; la Magistratura controlla che gli atti di esecuzione del governo siano conformi alla legge, altrimenti li annulla; e controlla che le leggi siano conformi alla Costituzione, altrimenti le annulla. In questo modo, con la divisione dei poteri, si cerca di limitare e di controllare il potere del governo che, altrimenti, se mal utilizzato, rischierebbe di annullare i diritti e le conquiste ottenuti con la Rivoluzione Francese. Ma, come sempre, tutto questo assume significato e giustificazione solo alla luce della sostanza economica dei rapporti tra le classi sociali all’epoca dominanti: l’aristocrazia terriera, in fase di decadenza; la borghesia capitalistica, in fortissima ascesa. I rapporti di forza tra queste due classi sociali si ribaltano, definitivamente, proprio con la Rivoluzione Francese. Le Costituzioni stabiliscono, nella loro prima parte, i principi di uguaglianza e di libertà di tutti gli uomini: affermano, per la prima volta nella storia dell’uomo, che tutti gli uomini sono ugualmente liberi; che, cioè, hanno uguali diritti, le stesse libertà. Che, dunque, i diritti che la Costituzione riconosce (che le leggi riconoscono) sono riconosciuti ugualmente a tutti gli uomini, senza distinzioni. E’ l’uguaglianza giuridica degli uomini: l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge. E’ con questo motto che si è realizzata la Rivoluzione Francese: libertè, egalitè!! Con la sua affermazione, decadono le caste sociali tipiche della società feudale pre-borghese, e si affermano le classi sociali. Al posto di raggruppamenti umani fissi, rigidi: chi nasceva contadino moriva contadino; si affermano le classi sociali: raggruppamenti di uomini accomunati dallo stesso (ipoteticamente) momentaneo rapporto con il lavoro: la classe dei lavoratori subordinati (proletariato); la classe degli imprenditori capitalisti, sovraordinati alla forza lavoro in quanto proprietari d’azienda. Raggruppamenti dai quali, riuscendoci, era possibile uscire: un operaio poteva, in teoria, diventare capitalista o, anche, semplicemente, agiato, ricco. Come, ad un capitalista, se le cose fossero andate male, era possibile, in teoria, cadere nel gruppo dei lavoratori subordinati. La struttura di classe, sottesa allo Stato che emerge dalla Rivoluzione Francese, vede, dunque, una classe subordinata (quella del proletariato); una classe dominante, ma in decadenza: l’aristocrazia; una classe dominante ed in impetuosa ascesa: la borghesia capitalistica. Questa struttura di classe della società si rivela con assoluta chiarezza nella struttura dello Stato. Il Parlamento, infatti, è costituito da due Camere: una Camera Alta, di nomina regia e destinata a rappresentare gli aristocratici; una Camera Bassa, eletta con diritto di voto censitario, destinata a rappresentare la borghesia capitalistica. La prevalenza, sempre più netta, della borghesia sull’aristocrazia, è resa evidente dal fatto che, nel tempo, la Camera Bassa è andata acquisendo sempre più potere, al cospetto di una Camera Alta che, invece, è andata perdendo potere. La subordinazione (anche) politica del proletariato è resa evidente dall’esclusione dei lavoratori dalla possibilità di esercitare il diritto di voto: non più per ragioni di casta, ma per ragioni censitarie. Di fatto, tuttavia, dall’esclusione dal Parlamento di qualunque forma di rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Una subordinazione politica – quella dei lavoratori – derivante, come sempre, da una subordinazione economica giuridicamente sancita. 8 Le Costituzioni borghesi, infatti, non dimenticavano affatto gli aspetti economici del vivere collettivo e ben rappresentavano – anche da questo punto di vista – gli interessi della nuova classe dominante (la borghesia capitalistica), lì dove riconoscevano e garantivano la proprietà privata (in generale e, dunque, anche quella dei mezzi di produzione) e la libertà di iniziativa economica privata (cioè la libertà, per chi avesse risorse economiche, di farne libero uso per i suoi privati interessi). Insomma, le Costituzioni sancivano giuridicamente l’assetto capitalistico della società, lasciando che fossero i privati ad occuparsi delle questioni economiche e prevedendo per lo Stato un ruolo minimo all’interno del sistema. In definitiva, volendo sintetizzare schematicamente le caratteristiche di questa nuovo Stato, che sorge in conseguenza della Rivoluzione Francese, dovremmo dire che si tratta di uno Stato costituzionale, in quanto si organizza ed opera secondo quanto è previsto dalla Costituzione; di diritto, in quanto pone a suo fondamento il principio di legalità, obbligandosi al rispetto dell’ordinamento giuridico; rappresentativo, in quanto, attraverso le elezioni, il potere politico si esercita non più in nome di Dio, ma in nome del popolo; elitario, in quanto, per effetto della natura censitaria del voto, il Parlamento rappresenta solo un piccolo gruppo (èlite) di cittadini; laico, in quanto, riservando a sé il potere politico ed escludendo da esso ogni pretesa della Chiesa, riconosce, tuttavia, a tutte le fedi religiose pari dignità e pari libertà di esercizio sul piano spirituale; liberista, in quanto, riducendo al minimo il proprio intervento, lascia che la materia economica sia sostanzialmente campo d’azione dei soli soggetti privati. Bene, uno Stato che abbia queste caratteristiche, si definisce, sinteticamente, liberale. Per effetto della Rivoluzione Francese alla forma di Stato assoluto succede quella liberale. Quest’ultima è, perciò, cronologicamente, la seconda forma di Stato. Nel mentre nello Stato assoluto l’apparato statale doveva confrontarsi con una comunità di soggetti privi di qualunque diritto, con una comunità di sudditi; nello Stato liberale il rapporto comincia a rovesciarsi: nel senso che l’apparato statale esercita il potere politico su mandato di una comunità di soggetti dotati di diritti (di cittadini). La comunità dei sudditi si trasforma in popolo: comunità di cittadini, di soggetti dotati di diritti. In questo passaggio storico possiamo rinvenire i primi segni del passaggio da un concetto di Stato come organizzazione che esercita la sovranità su un popolo stanziato in un determinato territorio (Stato-organizzazione), al concetto di Stato come comunità che, stanziata su un territorio, si organizza per l’esercizio della sovranità (Stato-comunità). POPOLO, TERRITORIO, SOVRANITA’ 9 Lo Stato, dunque, è l’organizzazione che esercita la sovranità su un popolo stanziato su un determinato territorio. Territorio, popolo e sovranità sono i tre requisiti dello Stato: sono i tre elementi in assenza dei quali non è possibile parlare di Stato. Per territorio si intende un insieme di elementi, quali: la terraferma, cioè la parte di crosta terrestre sulla quale lo Stato esercita la sovranità e separata da quella di altri Stati tramite i confini; il sottosuolo; lo spazio aereo (disponibile per i velivoli); le acque territoriali (che si estendono fino a 12 miglia dalla costa); le navi e gli aerei, anche se momentaneamente si trovano sul territorio di altri Stati; le sedi diplomatiche (consolati ed ambasciate). Su tutto questo vale la sovranità dello Stato di appartenenza. La questione del popolo, invece, è più interessante. Per popolo, infatti, si intende la comunità dei cittadini dello Stato: cioè, il gruppo di coloro che hanno la cittadinanza di un determinato Stato, anche se, eventualmente, al momento, si trovano all’estero. Fanno parte del popolo italiano tutti coloro che hanno cittadinanza italiana, che siano o meno in Italia. Non fanno parte del popolo italiano coloro che non hanno cittadinanza italiana, anche se, al momento, si trovano in Italia. Così è da un punto di vista giuridico. E, dunque, da questo punto di vista, importante è sapere come si acquisisce la cittadinanza di uno Stato: che sarebbe come dire, in che modo si diventa cittadini di uno Stato, componenti del suo popolo. E su questo, specificamente torneremo, in riferimento al caso italiano. Ma, intanto, dal punto di vista politico, importante è dire che non è possibile parlare di popolo nello Stato assoluto. Se, come abbiamo detto, per popolo si intende l’insieme dei cittadini e se, per cittadini, politicamente intendiamo soggetti titolari di diritti, allora dobbiamo dedurne che la comunità, nello Stato assoluto, era costituita da sudditi, non da cittadini! Quella dello Stato assoluto era una comunità di sudditi. Tale comunità si trasforma in popolo nel momento in cui, alla fine del ‘700 e per effetto dell’emanazione delle Costituzioni, ai membri della comunità vengono riconosciuti dei diritti: in quel momento, i sudditi si trasformano in cittadini, al rapporto di sudditanza si sostituisce quello di cittadinanza e la comunità diventa politicamente un popolo. Di qui, dunque, l’importanza del riconoscimento della cittadinanza. Ad essa sono legati una serie di diritti: per esempio, il diritto all’elettorato attivo (cioè il diritto di voto) e all’elettorato passivo (cioè il diritto di candidarsi alle elezioni per ottenere, se ci si riesce, dei voti ed essere, eventualmente, eletto); per esempio, il diritto al soggiorno ed alla libera circolazione sul territorio nazionale. Altri 10 diritti, invece, sono propri di tutti gli uomini a prescindere dalla cittadinanza: il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, quello all’integrità personale, quello alla salute. Insomma, la pienezza dei diritti costituzionali è legata al riconoscimento della cittadinanza: è legata al fatto che si venga riconosciuti come cittadini dello Stato. Ora, nel caso italiano, la cittadinanza si acquisisce in tre possibili modi : per nascita: quando chi nasce ha almeno un genitore (mamma o padre) italiano; per matrimonio: quando ci si sposa con un italiano o una italiana; per concessione: quando, dopo dieci anni di residenza in Italia, chi non ha la cittadinanza italiana la chiede al Capo dello Stato e questi, verificato l’esistenza dei requisiti, residenza, buona condotta, reddito … la concede. E’ evidente che, essendo così giuridicamente importante acquisire la cittadinanza, soprattutto in tempi di forti flussi migratori come gli attuali, in Italia si è aperta una lunga e tesa discussione intorno ai criteri di attribuzione della cittadinanza. In particolare è stato messo in discussione il primo criterio di attribuzione della cittadinanza: quello che abbiamo indicato “per nascita”. Questo criterio, infatti, risponde al principio del cosiddetto jus sanguinis: diritto di sangue, in base al quale è cittadino italiano chi ha sangue italiano; chi ha almeno un genitore italiano. Come si fa, si è detto, a non riconoscere la cittadinanza a chi nasce in Italia, frequenta le scuole italiane, parla italiano (e, spesso, anche il dialetto locale), lavora in Italia ed in Italia paga le tasse … per il solo fatto di avere genitori non italiani?! Questa situazione non pare accettabile! Bisogna affiancare allo jus sanguinis lo jus soli (il diritto di suolo): in base al quale è cittadino italiano chi nasce in Italia (anche, eventualmente, da genitori non italiani) . Questo consentirebbe di attribuire la cittadinanza a molti stranieri giunti in Italia attraverso i recenti flussi migratori, consentendo loro di entrare a far parte della comunità dei cittadini italiani e, così, favorendone l’integrazione. E, tuttavia, come facilmente si capirà, in molti non sono affatto d’accordo con questa indicazione: si pensi alla Lega Nord, ad esempio, o, in generale alle forze politiche di destra o, comunque, nazionaliste … e, in conclusione, la discussione è ancora in corso e non pare avrà uno sbocco in tempi stretti. La sovranità consiste nel potere impositivo dello Stato, nel potere politico: nel potere, cioè, di imporre alla comunità dei cittadini determinate regole di comportamento (norme giuriche). Come abbiamo visto, nello Stato moderno la sovranità nasce come assoluta, senza limiti normativi. E’ solo successivamente – con la nascita dello Stato liberale – che viene limitata in conseguenza dell’emanazione delle Costituzioni e del diritto di voto da queste previsto (e, dunque, del controllo popolare sulle decisioni politiche). Vedremo, in seguito, che, nel corso della storia, la sovranità dello Stato andrà subendo ancora ulteriori limitazioni. LA QUESTIONE SOCIALE E LA CRISI DELLO STATO LIBERALE Lo Stato liberale, abbiamo detto, istituisce una sorta di compromesso tra borghesia (nuova classe dominante) ed aristocrazia (vecchia classe dominante ma, ormai, in decadenza). 11 Ma lo scontro sociale, a partire dall’800, non sarà più tra borghesia ed aristocrazia, bensì tra borghesia ed la nuova classe sociale dei lavoratori dipendenti: quella che Marx chiama proletariato. La formazione di questa nuova classe sociale è la conseguenza dello sviluppo industriale del ‘700 e dell’800 e della formazione delle grandi fabbriche in luogo delle vecchie imprese artigiane. Lo sviluppo industriale determina da un lato la forza economica della borghesia capitalistica che di quelle fabbriche ha la proprietà; dall’altro, l’estensione numerica delle file dei lavoratori dipendenti che, sempre più numerosi, sono necessari in fabbriche sempre più grandi. Ed è evidente che tra queste due classi il rapporto sociale è giocato sullo scontro! Per effetto di interessi assolutamente contrapposti e per la prevalenza degli interessi della borghesia capitalistica rispetto a quelli del proletariato. I lavoratori, infatti, stretti nella morsa del ricatto della minaccia di licenziamento e della drammatica disoccupazione di tanti, sono di fatto costretti ad accettare condizioni di lavoro pessime: con orari lunghissimi (12-14 ore al giorno), salari bassissimi (a livello di sussistenza) ed assenza di qualunque diritto. Si comprende, perciò, come i lavoratori, nel corso dell’800, abbiano dato vita ad una ventata di lotte sociali tesa a migliorare le proprie condizioni di vita ma, soprattutto e prima di ogni altra cosa, a conquistare diritti. E’ ciò che si è definito questione sociale: la questione costituita dalle pessime condizioni di vita dei lavoratori e, conseguentemente, dalle lotte da questi poste in essere per riuscire a migliorarle. L’800 è, in buona parte, segnato dalla questione sociale! I lavoratori, dunque, vivono in condizioni pessime e cercano, con ogni mezzo possibile, di migliorare le proprie condizioni di vita. “Con ogni mezzo possibile”: ma, quali sono “i mezzi possibili”? Non ce ne sono! Non sono previsti! Le Costituzioni liberali non li riconoscono! Le Costituzioni liberali riconoscono sì dei diritti: importanti, fondamentali … ma si tratta di diritti individuali, diritti dell’uomo (singolo) e del (singolo) cittadino. I liberali pensano la società come l’insieme dei singoli uomini, dei singoli cittadini: ed a questi singoli che, tramite le Costituzioni, riconoscono dei diritti! Ora, una simile visione della società (ed un ordinamento giuridico costruito su queste basi) se può andar bene per un imprenditore capitalista – per un soggetto dotato di un proprio (caso mai, persino ingente) patrimonio, non può, certo, andare bene per un lavoratore, che altra ricchezza non ha che quella delle proprie braccia e delle braccia della propria prole (di qui, il termine proletariato). Sulla base dell’ordinamento giuridico liberale, le condizioni di lavoro erano determinate dall’accordo (accordo?) tra singolo lavoratore e singolo imprenditore. Ma chi volete che vinca in questo rapporto?! Chi volete che riesca ad imporre i propri interessi sull’altro?! E’ chiaro: l’imprenditore! Questi avanza le proprie proposte (?) al lavoratore, aggiungendo (esplicitamente o meno) che, se non gli piacciono… be’, è libero (?) di non accettare (restando disoccupato) … Che straordinaria libertà! Ancor più, in considerazione delle centinaia di miglia di disoccupati che girano per il mondo in attesa di riuscire a trovare, comunque, un lavoro!! 12 E, dunque, guarda un po’, il lavoratore liberamente (?) accetta le proposte dell’imprenditore: in genere, è difficile che avanzi anche una ipotesi di controproposta!! Accetta e basta, pur di non restare senza lavoro e senza alcun reddito. E’ sulla base di questo discorso, sulla base di questa analisi, che i lavoratori capiscono subito che, per riuscire a migliorare le proprie condizioni di vita, devono superare il piano del confronto individuale, per agire insieme, collettivamente. Capiscono che, se la forza dell’imprenditore è la ricchezza, quella dei lavoratori può essere il numero: il mettersi insieme, il difendere insieme le condizioni di vita di tutti i lavoratori, non dei singoli. Ma, per far questo, occorre poter esercitare dei diritti collettivi: il diritto di riunione (per poter discutere insieme e decidere, insieme, cosa fare), il diritto di associazione (per potersi organizzare insieme ed insieme decidere comuni iniziative), il diritto di sciopero (per far sentire insieme la propria voce e cercare di migliorare le condizioni di vita di tutti) … Diritti collettivi che, però, come abbiamo detto, le Costituzioni liberali non prevedevano. Indispensabili, però, ai lavoratori nella loro lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro. E’ così che le prime lotte dei lavoratori comportano durissimi scontri con la polizia: le assemblee, i cortei, gli scioperi vedono sistematicamente l’intervento della polizia inviata a ripristinare l’odine violato. Ma i lavoratori non si fermano: non possono fermarsi! E gli scontri continuano. E i morti si contano a centinaia. I lavoratori lottano, prima di tutto, per i diritti collettivi: premessa indispensabile per ogni altro discorso. Il caos, il disordine sociale generato dalle lotte dei lavoratori, la paura, la tensione, alla fine qualcosa determinano: i diritti collettivi, lentamente, progressivamente, vengono introdotti in Costituzione. E, dunque, le Costituzioni cambiano nella loro prima parte: lì dove venivano riconosciuto soltanto i diritti individuali, ora, grazie alle lotte dei lavoratori, si riconoscono anche i diritti collettivi. Ora, per i lavoratori, è possibile discutere, organizzarsi, manifestare, protestare, scioperare senza che ci sia più il rischio dell’intervento della polizia! Ora la voce dei lavoratori è più libera e, dunque, è più forte! Nascono, così, le prime associazioni dei lavoratori; in particolare, i lavoratori si organizzano sul piano economico-sociale e sul piano politico: sul piano economico-sociale, danno vita a quelle organizzazioni che prendono nome di sindacati (trade unions, in Inghilterra); sul piano politico, danno vita a quelle organizzazioni che prendono nome di partito: nascono i primi partiti dei lavoratori. Sindacati e partiti: gli uni – i sindacati – con il compito di agire così che i lavoratori potessero ottenere nell’immediato salari più alti, una riduzione dell’orario di lavoro, un maggior numero di riposi e di pause … Il partito, per estendere il diritto di voto in modo che esso diventasse esercitabile anche dai lavoratori ed, in prospettiva, per cercare di costruire – nella prospettiva indicata da Marx – una società di uomini liberi ed uguali, senza classi sociali, in cui non fosse distinguibile una classe di subordinati, rispetto ad una di sovraordinati, in cui nessuno uomo fosse più subordinato ad un altro, in cui non ci fosse più sfruttamento dell’uomo sull’uomo… Insomma, quella che Marx, appunto, chiamava società socialista o società comunista. 13 I sindacati dei lavoratori chiedono che si riduca l’orario di lavoro, che si tuteli il lavoro delle donne e dei bambini (si ricordi che, all’inizio della prima rivoluzione industriale, la manodopera era costituita, in maggioranza, proprio da donne e bambini): e per ottenere tutto questo, organizzano scioperi, proteste, manifestazioni. Una lunga serie di lotte sociali (la questione sociale, appunto), al termine della quale, tuttavia, qualcosa ottengono: lo Stato approva leggi che riducono l’orario di lavoro e che tutelano il lavoro delle donne e dei bambini. Si noti, così facendo, lo Stato rinuncia alle politiche liberiste proprie dello Stato liberale, interviene in materie economiche che, invece, secondo l’impostazione liberista, avrebbero dovuto rimanere appannaggio dei soli operatori economici privati: lo Stato comincia ad intervenire nel sistema economico. Da che era liberista, comincia ad adottare politiche interventiste. Lo sappiamo: non è la prima trasformazione dello Stato liberale indotta dalle lotte operaie. La prima l’abbiamo richiamata prima: l’introduzione in Costituzione dei diritti collettivi, a fianco a quelli individuali già contemplati. Ed un terzo cambiamento avviene per effetto dell’azione dei partiti dei lavoratori. Questi, l’abbiamo detto, rivendicano l’estensione del diritto di voto: vogliono che tutti possano andare a votare, indipendentemente dal reddito. Certo, ci sarà bisogno di anni, ma, in conclusione, sotto questa spinta, il livello del censo richiesto per l’esercizio del voto viene progressivamente diminuito, fino all’affermazione del suffragio universale: e, dunque, della possibilità per tutti di votare, indipendentemente dal proprio livello di reddito. Una conquista straordinaria, quella del suffragio universale, che in Italia si otterrà solo nel 1912: dopo anni di lotte e di scontri ed esclusivamente per i maschi. Bisognerà attendere il 1946 per il suffragio universale maschile e femminile. Un cambiamento politicamente rilevante: grazie al suffragio universale e, dunque, al voto dei lavoratori, in Parlamento diventeranno sempre più numerosi i rappresentanti dei partiti operai e contadini e, grazie a questi, sempre più forte si farà sentire la voce dei ceti poveri della società. Cambiamenti - quelli indotti dalle lotte dei lavoratori – giuridicamente rilevanti: tali da modificare alcune caratteristiche proprie dello Stato liberale. Ed, infatti: le lotte dei lavoratori spingono perché lo Stato liberale non sia più elitario, diventando universalmente rappresentativo: per effetto dell’estensione del voto; non sia più liberista, diventando sempre più interventista: per effetto delle leggi a tutela dei lavoratori; non contempli più solo i diritti individuali, ma riconosca anche quelli collettivi. Si tratta di trasformazioni in senso democratico dello Stato liberale: trasformazioni che una parte della società – in particolare le classi dominanti: la borghesia capitalistica ed, in Italia, ancora, i proprietari terrieri del sud – non vedono affatto di buon occhio ed alle quali, vedremo, cercheranno, tragicamente, di reagire. 14 Ma, per intanto, nel mentre in Inghilterra lo sviluppo industriale galoppa a velocità inaudita e, con esso, il consolidamento della società capitalistica e le conseguenti lotte operaie, l’Italia è alle prese con ben altro problema: quello della sua unità. L’UNITA’ D’ITALIA E LE POLITICHE DI INTEGRAZIONE L’Italia ha raggiunto molto tardi la sua unità politica: dopo tutti gli altri grandi Paesi europei ed a seguito di un processo storico molto complesso. C’è voluto l’esercito più forte presente sul territorio della penisola – quello del Regno di Sardegna – per conquistare all’unità dello Stato i territori del sud, fino ad allora assoggettati ai borboni. C’è voluta una spedizione militare (e la conseguente occupazione militare), con tutte le violenze ed i morti che sempre tali situazioni determinano, perché, nel 1861 si potesse proclamare l’unità d’Italia. E nemmeno fu sufficiente! Perché quell’unità – pur importante, fondamentale – tuttavia, non comprendeva i territori dello Stato Pontificio e, dunque, non comprendeva Roma che, del nuovo Stato italiano, era destinata ad essere la capitale naturale. Ci vollero ancora 10 anni ed una nuova impresa militare (la Breccia di Porta Pia), perché, nel 1871, anche Roma ed i territori precedentemente soggetti al potere politico del Papa, venissero, anch’essi, integrati nel nuovo Stato. L’unità d’Italia si è fatta sulla punta delle baionette: più un processo di annessione forzata, che di comune determinazione. E’ facile dimostrarlo: il re Vittorio Emanuele …., re di Sardegna, diventa automaticamente re d’Italia; lo Statuto Albertino – la Costituzione emanata nel 1848 dal re Carlo Alberto per il regno di Sardegna – diventa automaticamente la prima Costituzione italiana; le leggi del regno di Sardegna diventano automaticamente le leggi dell’Italia. Di fatto, dunque, l’Italia viene a configurarsi come un’estensione del vecchio regno di Sardegna ad altri territori. Questo, tuttavia, qualche problema, anche grave lo comporta. I territori annessi, quelli meridionali, infatti, presentano molte differenze ed assai rilevanti rispetto agli altri. Solo per fare qualche esempio: il sud è ancora, pressochè completamente, agricolo, a fronte di un nord in via di industrializzazione; il sud è assai povero, rispetto ad un nord con un tenore di vita europeo; nel sud la popolazione è ancora pressochè totalmente analfabeta e, piuttosto che parlare l’italiano, parla i dialetti locali; nel nord il livello di istruzione è mediamente più alto e la lingua parlata, in genere, è l’italiano; nel sud l’amministrazione pubblica borbonica è sempre stata un esempio di inefficienza; al nord l’amministrazione pubblica si è conformata ai meccanismi dell’amministrazione austriaca, tradizionalmente dotata di elevati livelli di efficienza. L’unità d’Italia ha unificato sul piano politico-istituzionale popolazioni – i settentrionali ed i meridionali – tra loro assai differenti: per condizione economica, per storia, per cultura. Il nuovo Stato, perciò, si trova immediatamente di fronte ad un grave e complesso problema: fatta l’unità dello Stato, 15 come fare l’unità del popolo; come integrare i meridionali con i settentrionali, così da formare una sola, compatta, comunità. Si pone il problema – oggi, per effetto dei flussi migratori da fuori confine, più attuale che mai – delle politiche di integrazione: quelle che, potremmo definire, politiche nazionali. Sì, perché bisogna distinguere: un conto è il popolo, altro conto è la nazione. Se per popolo intendiamo l’insieme dei cittadini: di coloro che hanno cittadinanza di uno Stato; per nazione intendiamo l’insieme di coloro che si sentono di appartenere ad uno stesso gruppo. Quello di popolo è un concetto giuridico: l’insieme di coloro che hanno la cittadinanza di uno Stato, in base alle sue leggi. Quello di nazione è un concetto culturale, psicologico: l’insieme di coloro che si sentono, avvertono, percepiscono di appartenere ad uno stesso gruppo. Esempio tipico di nazione è quello al quale si assiste durante una gara di baseball o di atletica leggera, o durante una commemorazione… negli Stati Uniti d’America, quando al suono dell’inno nazionale tutti si alzano – bianchi, neri, ispanici, asiatici, anglofoni o meno … - e cantano insieme: bene, quella è la nazione … lo spirito di appartenenza allo stesso gruppo, anche se si ha un diverso colore della pelle, anche se si hanno origini diverse, anche se si hanno diverse religioni e, caso mai, si parlano lingue diverse … insomma, anche se si appartiene a differenti etnie. Eccolo un altro importante – oggi, sempre di più – concetto: l’etnia. L’etnia è l’insieme di coloro che sono accomunati da caratteri somatici simili, da una stessa lingua, da una stessa religione, dalle stesse tradizioni, etc. E’ un concetto antropologico. Oggi, gli Stati ricchi del mondo – quelli europei e quelli nord-americani – sono sempre più multietnici, nel senso che sul loro territorio convivono etnie diverse e, sempre più spesso, soggetti appartenenti ad etnie diverse entrano a far parte dello stesso popolo (sono cittadini dello stesso Stato). E’ evidente che la multietnicità comporta politiche di integrazione: politiche nazionali, che facciano crescere quel comune spirito di appartenenza che travalica i confini etnici. Lo sanno bene gli Stati Uniti, che, da sempre, si sono dovuti confrontare con questo problema, per altro, come si vede bene dalle cronache, non ancora definitivamente risolto. E lo sanno – oggi più che mai – gli Stati europei, Italia compresa che, tuttavia, come si diceva, un problema di integrazione – pur all’interno della stessa etnia: tra meridionali e settentrionali – lo ha avuto sin dalla sua nascita come Stato unitario. Politiche di integrazione che i governi post-unitari hanno affrontato secondo due linee direttive: la politica scolastica; la politica di guerra. La politica scolastica – con l’obbligo della scuola elementare – serviva a ridurre l’analfabetismo, soprattutto nel meridione, e a diffondere dappertutto l’uso della lingua italiana. 16 La politica di guerra – con l’istituzione dell’esercito nazionale popolare: la naja obbligatoria – serviva ad affratellare – consentire la reciproca conoscenza e favorire la solidarietà reciproca – tra meridionali e settentrionali. Questo, soprattutto, in considerazione del fatto che l’esercito veniva effettivamente utilizzato nelle imprese coloniali (…………., ………..): l’avere di fronte un esercito nemico, richiedeva un saldo rapporto di solidarietà, una forte compattezza tra i membri dell’esercito, a prescindere dalle origini geografiche di ciascuno. Si tratta di politiche – quella scolastica e quella di guerra e coloniale – che, avviate subito dopo l’unità d’Italia, proseguiranno, sostanzialmente immodificate, fino agli anni ’40 del secolo scorso. GLI ESITI DELLA CRISI DELLO STATO LIBERALE E’ chiaro che allo scontro tra borghesia e proletariato (alla questione sociale), alle tensioni sociali derivanti da questi scontri che hanno segnato l’intera storia della società capitalistica, bisognava dare una qualche soluzione. E’ chiaro che le lotte dei lavoratori qualcosa avrebbero dovuto, necessariamente produrre: o nel senso della prospettiva rivoluzionaria indicata da Marx (e sulla quale, tra breve, torneremo); o nel senso della repressione di quelle lotte, a favore degli interessi e della permanenza al potere della borghesia capitalistica; o, infine, nel senso di un qualche accordo di convivenza tra le due classi, di una sorta di compromesso tra interessi antagonisti. Ed, infatti, tutte e tre le prospettive appena indicate si sono storicamente realizzate. Sul piano cronologico, nel seguente modo: nel 1917, in Russia, con la rivoluzione comunista di Lenin e la nascita dello Stato socialista; nel 1922, in Italia, con l’ascesa al governo di Benito Mussolini e la nascita dello Stato fascista; negli anni ’30, soprattutto negli Stati Uniti, con l’opera di governo del presidente T. Roosevelt e del suo consigliere economico J. M. Keynes e la nascita dello Stato democratico. Sono queste le tre nuove forme di Stato che derivano dalla crisi dello Stato liberale , derivante dalla questione sociale o, come avrebbe detto Karl Marx, dallo scontro di classe. Ognuna di queste tre nuove forme di Stato rappresenta, come abbiamo detto, un differente tentativo di soluzione dello scontro tra borghesia e proletariato: lo Stato socialista, rappresenta una soluzione istituzionale che si pone dalla parte dei lavoratori; lo Stato fascista, una soluzione che si pone dalla parte della borghesia capitalistica del nord e dei proprietari terrieri del sud Italia; lo Stato democratico, rappresenta una sorta di compromesso di classe, che concede qualcosa ai lavoratori, pur confermando la loro condizione di subordinazione politica ed economica alla borghesia capitalistica. MARX ED IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA 17 Nel 1848, Karl Marx, un filosofo tedesco poi dedicatosi a estesissimi e fondamentali studi economici, pubblica “Il manifesto del Partito Comunista”, un libricino destinato a divulgare, tra i lavoratori e coloro che erano culturalmente e politicamente schierati dalla loro parte, l’idea della necessità e dell’opportunità di avviare e portare a termine un processo rivoluzionario. In quel libretto si delineava l’ipotetico percorso che la rivoluzione avrebbe dovuto seguire, secondo le tappe qui, sinteticamente, riportate: i lavoratori avrebbero dovuto costituire un proprio partito; il partito dei lavoratori avrebbe dovuto andare al governo; dal governo avrebbe dovuto espropriare i mezzi di produzione (aziende, terre, banche, negozi) ai privati e socializzarli; contemporaneamente alla socializzazione dei mezzi di produzione avrebbe dovuto instaurare la dittatura del proletariato (Stato socialista); infine, con l’attenuarsi dei tentativi controrivoluzionari fino all’estinzione degli stessi, si sarebbe potuto dare vita alla società comunista. Questa, la logica di tale processo: per costruire una società socialista – una società, cioè, priva della proprietà privata dei mezzi di produzione – occorreva mettere nel conto l’uso della forza: nessuno, infatti, si lascia espropriare senza provare, in ogni modo, a reagire ed a cercare di impedirlo. Perciò, gli espropri darebbero stati possibili solo dal governo: potendo, solo da lì, far uso della forza pubblica. Per questo – per andare al governo – era necessario il partito dei lavoratori (il Partito Comunista). Dal governo, contemporaneamente agli espropri, il Partito Comunista avrebbe dovuto instaurare la dittatura del proletariato: vale a dire, fare uso della forza per stroncare ogni tentativo controrivoluzionario, teso a ripristinare la società capitalistica appena rovesciata. L’autoritarismo dello Stato si sarebbe dovuto mantenere per tutti gli anni che fossero stati necessari per eliminare, nell’immaginazione delle vecchie classi privilegiate, e nei loro discendenti, ogni velleità di ripristinare il precedente ordine, inducendo queste ad accettare pacificamente il nuovo stato di cose. Marx sosteneva che la dittatura del proletariato è la massima espressione della democrazia, in quanto è lo strumento col quale la stragrande maggioranza della popolazione impone la propria volontà ed i propri interessi ad una ristretta minoranza di (ex) privilegiati. La socializzazione dei mezzi di produzione e la contemporanea dittatura del proletariato caratterizzano quella che si definisce società socialista. E’ solo nel prosieguo del processo rivoluzionario, solo allorquando – terminati i tentativi controrivoluzionari – non ci sarà più bisogno dello Stato autoritario, non ci sarà più necessità della repressione dello Stato, che questo – come centro della sovranità, come monopolista della forza, verrà meno: lo Stato si attenuerà come soggetto dell’esercizio del potere di imperio e rimarrà, essenzialmente, come soggetto organizzatore di servizi per la collettività. A quel punto, con mezzi di produzione definitivamente socializzati ed in presenza di uno Stato puro erogatore di servizi, nascerà la società comunista: una società senza classi, di uomini tutti uguali politicamente ed economicamente, in grado di autogovernarsi. LA RIVOLUZIONE SOVIETICA E LO STATO SOCIALISTA 18 Le condizioni della rivoluzione socialista si creano in Russia, nel 1917. In Russia: non proprio nella situazione ideale! Marx, infatti, pensava che la rivoluzione si sarebbe dovuta realizzare in un Paese industrialmente sviluppato … in Inghilterra, in Germania … dove sviluppato culturalmente e forte organizzativamente fosse anche la classe operaia… La Russia, al contrario, era un Paese poverissimo: quasi soltanto, ancora, agricolo; con un regime politico – lo zarismo – preliberale … una sorta di regime ancora feudale … In ogni caso, è lì che si creano le condizioni della rivoluzione… Lì, infatti, vi è un partito operaio, il Partito Socialdemocratico Russo (POSDR): non proprio un partito rivoluzionario. Un partito diviso in due: una parte riformista ed una rivoluzionaria. La parte rivoluzionaria si trovò ad essere maggioranza nel partito: per questo si chiamò bolscevica (in russo “bolscevico” significa, appunto, di maggioranza). L’altra parte, quella riformista si definì menscevica: appunto, di minoranza. A capo della fazione bolscevica vi era V. I. Lenin. A seguito di un lungo periodo di sommosse e di tentativi rivoluzionari di vario genere, che durò anni, il partito operaio socialdemocratico russo si trovò a far parte del governo della Russia: dunque, la parte maggioritaria – bolscevica – di quel partito - ed il capo di quella parte: Lenin – si trovarono nella condizione di poter controllare l’operato del governo russo. Nell’ottobre del 1917, a seguito dell’ennesimo tentativo rivoluzionario, Lenin – bolscevico: rivoluzionario, comunista – divenne capo del governo e presidente della Repubblica. Immediatamente, a seguito della rivoluzione che portò Lenin al governo, la Russia cambiò nome e si definì URSS: Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; così anche fece il POSDR, che divenne Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Oltre alle cariche di capo del governo e presidente della Repubblica, Lenin assunse anche quella di segretario generale del Partito Comunista. Da quella posizione – in particolare, da capo del governo comunista – Lenin diede immediatamente inizio ai provvedimenti necessari alla costruzione di una società socialista: in particolare all’espropriazione dei mezzi di produzione e alla repressione di tutte le forze politiche, i movimenti, le organizzazioni, le manifestazioni culturali, le pubblicazioni editoriali e giornalistiche controrivoluzionarie. Si trattava di misure che davano attuazione a quel programma rivoluzionario che Marx aveva indicato nel Manifesto del Partito Comunista; con un paio di specificazioni, tuttavia: 1. si consentì ai privati di continuare a tenere la proprietà delle aziende più piccole; 2. i mezzi di produzione sottratti ai privati vennero statalizzati, affidati, cioè, allo Stato. In realtà, Marx non ha mai parlato di statalizzazione dei mezzi di produzione. Mai, nelle migliaia di pagine da lui scritte, compare il termine statalizzazione. Marx ha sempre utilizzato il termine socializzazione!, e non è necessariamente detto che per socializzazione debba intendersi statalizzazione! Molti, infatti, nel movimento comunista internazionale, non furono d’accordo con la scelta di Lenin di statalizzare i mezzi di produzione: pensavano a differenti forme di socializzazione! 19 Fatto sta che questa – la statalizzazione – fu la scelta del governo leninista. La statalizzazione dei grandi mezzi di produzione: di quelli più importanti, più decisivi per le sorti economiche della nazione. Non di quelli più piccoli: secondo quanto previsto dalla NEP (Nuova Politica Economica) voluta da N. Bucharin, ministro dell’economia del governo Lenin. Con queste misure, lo Stato socialista iniziò ad assumere determinate caratteristiche: quelle di uno Stato autoritario: tale, cioè, da reprimere con la forza il dissenso politico rispetto al governo e di uno Stato a partito unico: tale, cioè, da considerare legale, sostanzialmente, solo il Partito Comunista. Insomma, Lenin instaurò quella che Marx chiamava la dittatura del proletariato. Conseguentemente, la società si intrise di violenza: quella delle forze di polizia e dell’esercito contro le attività controrivoluzionarie. Tra le forze controrivoluzionarie, bisogna fare uno specifico riferimento alla Chiesa, nel caso dell’Unione Sovietica, alla Chiesa ortodossa. Questa, evidentemente, non era affatto favorevole alla rivoluzione: essa stessa era da annoverare tra i grandi proprietari terrieri e, dunque, tra coloro che avevano subito le espropriazioni. Per di più, Marx aveva sostenuto che la religione è l’oppio dei popoli: rimandando il riscatto dei poveri ad un momento extraterreno – alla fine della vita – induceva questi all’inattività nel corso della vita, ad accettare la propria condizione – per altro, voluta da Dio: giacchè nulla accade senza la sua volontà – supinamente, senza reagire. Dunque, il contrario della prospettiva rivoluzionaria che, invece, incita all’azione, a prendere in mano il proprio destino, per costruire oggi, qui in terra, una società più giusta. E, dunque, conseguentemente, la religione fu vietata: furono vietati tutti i culti religiosi. L’ateismo divenne l’unica ideologia “religiosa” ammessa dallo Stato. Lo Stato divenne ateo. E, tuttavia, gli anni successivi al 1917 furono, in Unione Sovietica, anni di grande fulgore nel campo delle arti (della poesia, del teatro, della letteratura, della danza, del cinema…): anni di grandi sperimentazioni e di grandi dibattiti e confronti culturali, dentro alle forze, politiche ed intellettuali, schierate dalla parte della rivoluzione. Tanto dura fu la repressione contro la reazione borghese, quanto ampio ed intenso fu il dibattito all’interno del campo delle forze rivoluzionarie! Nel 1922 Lenin si ammala di una malattia degenerativa che, progressivamente, lo porta a non poter più esercitare le funzioni pubbliche che gli erano state affidate. Si apre, perciò, la lotta per la successione. La morte di Lenin sopravviene nel 1924. Il dibattito per la successione presenta tre distinte posizioni: 20 quella di Bucharin, designato da Lenin come suo preferito a succedergli, che rappresenta la linea di continuità col periodo leninista; quella di Trotzskj, riassumibile nel motto rivoluzione permanente; quella di Stalin, riassumibile nel motto socialismo in un Paese solo. Mentre Bucharin, come detto, s poneva in continuità con Lenin – del quale, d’altra parte, era stato ministro dell’economia – Trotzskj e Stalin si ponevano un problema nuovo, inedito: quello di come difendere la rivoluzione in Unione Sovietica, visto che il mondo intero era assoggettato a regimi capitalistici. Da questi, era prevedibile, in qualunque momento, anche nell’immediato, un attacco militare allo scopo di spazzare via l’unica esperienza rivoluzionaria esistente al mondo. Occorreva, dunque, prepararsi a respingere tale attacco, possibilmente prevenirlo e, comunque, essere militarmente in grado di resistere e sconfiggere il tentativo militare reazionario delle potenze capitalistiche. Occorreva mettere il socialismo, per quanto possibile, al riparo: in sicurezza. A questo problema Trotzskj e Stalin offrono due risposte diametralmente opposte. Il ragionamento di Trotzskj è questo: per difendere la rivoluzione in URSS occorre rompere l’accerchiamento capitalistico, occorre che anche in altri Paesi scoppi la rivoluzione, occorre dare alleati all’URSS. Dunque, la rivoluzione non è finita: deve continuare anche in altri Paesi. Di qui, il motto della rivoluzione permanente. Tutt’altro il ragionamento di Stalin; questo: l’URSS non ha le forze per esportare la rivoluzione; bisogna prendere atto che l’unico Paese socialista al mondo è l’Unione Sovietica. E’ qui che bisogna concentrare le forze per dotarsi di un esercito in grado di prevenire ed, eventualmente, respingere l’attacco delle potenze capitalistiche. E bisogna farlo subito, immediatamente: mettendo in campo tutti gli sforzi possibili, essendo disponibili ad ogni sacrificio. Il durissimo scontro tra le varie posizioni nel Comitato Centrale del PCUS si concluse con la vittoria di Stalin che, dunque, divenne segretario generale del PCUS, capo del governo e presidente della Repubblica. Inizia così, nel 1924 e sotto il motto socialismo in un Paese solo il periodo stalinista della rivoluzione. La necessità di costruire un esercito sufficientemente potente da poter contrastare quelli dei Paesi capitalistici, costituiva, in URSS, un enorme problema. Il Paese, come abbiamo detto, era quasi completamente agricolo, l’elettricità era ancora un bene assai scarso… Occorreva, perciò, dotarsi velocemente di una rete elettrica distribuita in tutto il Paese e di una struttura industriale destinata alla costruzione di armamenti. Occorreva elettrificare il Paese e mettere in funzione fabbriche nel settore dell’industria pesante: quella siderurgica, elettronica, metalmeccanica, chimica…: le industrie necessarie per produrre armamenti, appunto. Occorreva distogliere i lavoratori dal lavoro nei campi e portarli nelle zone industriali a scavare carbone, a lavorare nelle industria aeronautiche, siderurgiche…: a costruire carri armati, aerei, bombe, navi da guerra… Ciò di cui c’era bisogno, nell’immediato, più che del pane, erano le armi. Stalin diede inizio a questo processo forzato di industrializzazione nel 1928, con l’avvio del primo piano quinquennale: un piano di produzione predisposto dallo Stato e tale da definire gli obiettivi produttivi da raggiungere, settore per settore, nell’arco di un quinquennio. Allo scopo di realizzare tale progetto, una enorme massa di lavoratori vennero mandati via dalle campagne e spostati nei centri urbani intorno alle fabbriche ed alle miniere. Si diffuse la retorica del lavoro socialista, dell’eroe socialista del lavoro che contribuisce alla rivoluzione con la sua attività produttiva, instancabile, perché consapevole della necessità di difendere la costituenda società dei liberi e degli uguali. Vennero istituiti premi a quei lavoratori che si dimostrassero più produttivi. Stakanov ne è stato l’emblema: di qui, il termine stakanovismo, per indicare una attività lavorativa che non prevede sosta e che si svolge a ritmi elevatissimi. 21 Il primo piano quinquennale ebbe grande successo: gli obiettivi produttivi in esso fissati, vennero raggiunti in anticipo; in solo quattro anni, anziché in cinque. Così che, nel 1932, con un anno di anticipo, appunto, partì il secondo piano quinquennale. Grazie ai piani quinquennali l’URSS riuscì in breve tempo a dotarsi di un potentissimo esercito: così potente da poter competere con quello inglese e statunitense, i più grandi del mondo. E, tuttavia, la realizzazione dei piani quinquennali significò anche l’abbandono delle campagne ad opera di una massa enorme di popolazione: milioni e milioni di persone che smisero di produrre grano e tutto quanto era necessario alla vita delle persone, per mettersi a produrre armi. Di qui, la povertà, la penuria, la scarsità di alimenti e la denutrizione: condizioni di lavoro durissime e poco, assai poco da mangiare! Una situazione assai problematica, perché il malcontento dei lavoratori andava a saldarsi con le spinte reazionarie delle vecchie classi dominanti (la borghesia e l’aristocrazia terriera), costituendo una minaccia per il governo rivoluzionario. Non bastava, perciò, il piano quinquennale. Occorreva, nel contempo, accentuare la repressione nei confronti dei tentativi controrivoluzionari: occorre stroncarli e, per quanto possibile, prevenirli individuando ed eliminando per tempo chi ne fosse a capo. Stalin agì in questa direzione, adottando la teoria del nemico interno: la teoria secondo la quale, i controrivoluzionari occorreva scovarli non al di fuori del Partito Comunista, ma al suo interno, tra i dirigenti stessi del partito. Infatti, chi avesse voluto rovesciare il governo rivoluzionario, sapendo di non poterlo fare all’esterno del partito – perché sarebbe stato immediatamente represso – avrebbe agito spacciandosi per comunista, anzi, per comunista integerrimo, cercando di raggiungere i massimi livelli di potere nel partito e nel governo e, da lì, operando contro la rivoluzione. E’ chiaro che una simile teoria era terribile per il clima all’interno stesso del partito e del movimento rivoluzionario: perché significava instillare il sospetto nei confronti di colui che ha sempre lavorato al tuo fianco; significava diffondere l’idea che chiunque potesse essere un traditore, anche colui del quale mai prima avresti sospettato. E come distinguere, poi, tra comunisti e comunisti: come distinguere i veri comunisti, dai comunisti falsi, dai traditori vestiti da comunisti? La risposta fu semplice ed ovvia. Individuando in Stalin il capo della rivoluzione, ne discendeva come conseguenza che chiunque non fosse stato d’accordo con Stalin era un possibile traditore; e tanto più rilevante era il dissenso da Stalin, tanto più probabile era che il dissenziente fosse un controrivoluzionario spacciatosi per comunista. Ebbe così inizio la stalinizzazione del Partito Comunista e dello Stato. Si noti la torsione storica del processo: per Marx la dittatura del proletariato doveva essere la più piena delle democrazie: la sovranità esercitata dalla stragrande maggioranza della popolazione, contro una piccola minoranza di privilegiati nostalgici dei propri privilegi; nel periodo leninista diventò la dittatura del Partito Comunista, per quanto larga fosse la discussione ed il confronto delle idee dentro quel partito ed, in generale, all’interno del movimento rivoluzionario; con Stalin divenne, infine, la dittatura di un uomo solo, ritenuto unico, autentico interprete degli interessi dei lavoratori e l’unica, legittima prospettiva di salvezza per i poveri ed i subordinati di tutto il mondo. 22 Stalin – la persona di Stalin – venne elevato dalla propaganda ad una dimensione sovra-umana: issata ad un livello quasi divino. Di qui, l’avvio di una sorta di adorazione nei suoi confronti: quello che è stata definito culto della personalità. A Stalin vennero attribuite qualità eccezionali, straordinarie: carismatiche. E la sua persona fu posta al centro dell’intero apparato statuale. Lo Stato venne così a definirsi come carismatico, cioè organizzato intorno alla personalità di un soggetto al quale si riconoscono qualità eccezionali: carismatiche, appunto. E tuttavia, come sempre succede in tutti i casi in cui un soggetto viene elevato al di sopra del livello umano (come succedeva al sovrano nello Stato assoluto); come succede in tutti i casi in cui ad un soggetto vengono attribuiti poteri illimitati, fino a corrispondere ad una sorta di onnipotenza, si crea il problema del consenso: il problema, cioè, di garantire al sovrano un’adesione popolare che ne eviti la solitudine e, dunque, l’assoggettamento ad ogni possibile e facile tentativo di ribaltamento. Fu così per il sovrano nello Stato assoluto, fu così anche per Stalin in Unione Sovietica. Stalin affrontò il problema del consenso cercando di risolverlo con una strategia nuova: quella del totalitarismo. Questo fu il ragionamento: alla creazione del consenso non basta l’autoritarismo. Con questo non creo consenso, semplicemente elimino i dissenzienti, o impedisco loro di operare pubblicamente: li reprimo. Per creare consenso al governo ed al suo capo, invece, occorre educare ai valori ed al pensiero del capo: occorre diffondere dappertutto il suo punto di vista, la sua ideologia; far intendere che il capo è presente ovunque, e che sostiene e rassicura tutti, educando ad agire nell’interesse comune da lui indicato e da lui rappresentato. Se i valori, l’ideologia, la presenza del capo si avverte dappertutto, in ogni ambito; se, in ogni ambito, si educa a quei valori ed a quella ideologia; se l’informazione è interamente governata dal capo… allora sì, si può sperare che tra la gente si diffonda, automaticamente, come per natura, l’ideologia del capo e, con questa, il consenso nei suoi confronti. E’ questo il totalitarismo: l’idea di occupare ogni ambito della vita sociale, civile, politica, economica, culturale, allo scopo di generare consenso al capo ed alle sue idee. Di qui, da questa strategia, il conformarsi dello Stato sovietico come Stato totalitario. Una strategia di occupazione millesimale di ogni ambito della vita individuale e collettiva. Dalla politica, in cui già il controllo era ferreo per via della legittimità del solo partito unico; all’economia, in cui già lo Stato era l’unico soggetto economico ammesso; alle scuole ed all’università (dove lo Stato si assicurava che gli insegnanti fossero di provata fede stalinista e che i libri adottati ricalcassero il pensiero di Stalin e ne esaltassero la persona; per altro, nelle scuole venne introdotta l’ora di dottrina marxista); ai giornali, ammessi soltanto se conformi alla volontà ed alle idee del capo; ai libri, sottoposti ad autorizzazioni e censura per poter essere stampati e posti in vendita; al cinema, al teatro, alla radio … Tutto venne posto sotto controllo e omologato. Fu istituita anche una polizia segreta – con una rete di spionaggio, costituita da gente comune, appositamente pagata – incaricata di riferire alle forze di sicurezza delle opinioni eventualmente espresse in privato, di critica all’operato del governo ed al suo capo. Si può comprendere bene come certo la situazione non fosse delle migliori dal punto di vista delle libertà. Ma il tutto si giustificava con la necessità di intensificare l’attività economica per riuscire a costruire un esercito e degli armamenti in grado di difendere la neonata rivoluzione. E, sotto questo altro profilo, le cose andarono per il verso giusto. In pochissimi anni, l’Unione Sovietica – paese agricolo e poverissimo – riuscì a dotarsi di un esercito imponente, in grado di entrare 23 nella seconda guerra mondiale al fianco degli eserciti di Stati Uniti ed Inghilterra, ed a uscirne vittorioso contro la Germania Nazista. Per altro, l’esercito sovietico fu il primo ad entrare ad Aushwitz ed a liberare gli ebrei che ancora stavano lì, essendo fortunosamente riusciti a sfuggire alle camere a gas. La fine della guerra si ha nel 1945: la conclusione ufficiale si fa risalire al 6 agosto, quando gli americani sganciarono la bomba atomica su Hiroshima. Tuttavia, che le sorti della guerra volgessero ormai a sfavore dell’alleanza tra Hitler, Mussolini ed il Giappone era ormai chiaro dall’anno precedente: tanto che, appunto nel 1944, i leader dell’alleanza antinazista – Roosevelt per gli USA, Churchill per l’Inghilterra e Stalin per l’URSS – tennero tre conferenze internazionali, proprio allo scopo di decidere come organizzare politicamente il mondo, una volta che la guerra fosse definitivamente finita. In quelle conferenze, le potenze vincitrici decisero che il mondo dovesse essere diviso in due grandi blocchi: da una parte, il blocco dei Paesi occidentali, sotto l’egemonia statunitense; dall’altra, quella dei Paesi orientali, sotto il dominio sovietico. Dopo molte discussioni, l’Italia fu attribuita al blocco dei Paesi occidentali. E, così, accadde, effettivamente. Emblema di questa divisione del mondo in due blocchi fu la Germania, divisa in due differenti Stati: la Germania dell’est, sul modello sovietico; e quella dell’ovest, sul modello statunitense. Una divisione addirittura millesimale, tracciata all’interno della stessa città – Berlino – a sancire, anche fisicamente, la quale fu costruito nel 1961 il famigerato muro: il muro di Berlino. La divisione del mondo in due blocchi veniva a rappresentare, geopoliticamente, il ritorno dei due grandi contendenti – USA e URSS – su fronti opposti e contrapposti, non appena spazzata via la minaccia comune del nazifascismo. Fu la premessa di quella che venne definita guerra fredda: una situazione, cioè, di continua minaccia di guerra, di continuo, imminente rischio di apertura di una nuova guerra, senza, tuttavia, che tale minaccia si concretizzasse mai; senza che, effettivamente, e per fortuna, una nuova guerra fosse mai davvero avviata. Una situazione strana, di guerra, per fortuna non guerreggiata sebbene continuamente minacciata: quella situazione che, pure, è stata definita equilibrio del terrore. Equilibrio del terrore: a significare il terrore di ciascuno dei due contendenti – USA e URSS – rispetto alla possibile risposta dell’altro ad un eventu ale attacco militare. Il terrore di una risposta militare che sarebbe potuta essere devastante, annichilente. Insomma, la paura di una risposta atomica, ad un eventuale attacco. L’equilibrio del terrore si reggeva, dunque, sulla capacità di ciascuno di terrorizzare l’altro rispetto alla propria capacità militare. Di qui, quella che è stata chiamata ed è rimasta nella storia come corsa agli armamenti: una corsa, cioè, ad armarsi via via di più, per scoprire armi sempre più devastanti, destinate ad un uso definitivo; una corsa che ha coinvolto entrambe le super-potenze. E, dunque, sia gli Stati Uniti, che l’Unione Sovietica. L’URSS, perciò, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha dovuto continuare a finanziare l’industria degli armamenti, trascurando ancora i settori economici destinati a migliorare le condizioni di vita della popolazione. E’ così che, nei decenni 50 e 60, le condizioni di vita della popolazione in Unione Sovietica non sono sostanzialmente cambiate e, conseguentemente, non si è affievolito il malcontento sociale, né la necessità, per lo Stato, di ricorrere al controllo ed alla repressione del dissenso. 24 Anzi, in quel lasso di tempo, l’esercito sovietico fu inviato a reprimere moti popolari – per altro guidati da dirigenti comunisti locali – fuori dai confini sovietici: nel 1956 in Ungheria; nel 1968, in Cecoslovacchia. Qualche elemento di cambiamento si intravede nel corso degli anni ’70, inizialmente per effetto di fenomeni sociali che nulla sembrerebbero avere a che fare con le vicende politiche internazionali. A muovere un po’ le acque furono, infatti, le trasmissioni via satellite e il turismo di massa. Le trasmissioni via satellite diffusero sugli schermi televisivi di tutti i Paesi del mondo – quindi, anche nei Paesi socialisti – le immagini che la televisione trasmetteva in occidente. E quelli erano gli anni di Canzonissima, di Rischia Tutto… di trasmissioni leggere, di intrattenimento che, alla sera, incollavano allo schermo le grandi masse popolari, bisognose di sublimare nel sogno della TV la realtà, non semplice, delle loro vite. La televisione mandava in onda, in Italia, ma anche nei Paesi dell’est, la (falsa) immagine di una società dedita allo show, al ballo, al divertimento, alle canzoni, alla risata: una società felice, scanzonata, in cui a tutti era data la possibilità di divertirsi. Ed il turismo di massa interveniva a confermare quella (falsa) immagine. I decenni ’50 e ’60 costituirono nell’occidente europeo un periodo di fortissima espansione economica: trainata dalle esigenze proprie della ricostruzione post-bellica e dal ritorno della produzione industriale a destinazioni civili, piuttosto che alla soddisfazione delle esigenze militari dello Stato. Quegli anni, in Italia, vennero qualificati come gli anni del boom economico. In quel periodo lo sviluppo industriale, fondato sulla produzione di massa (in serie, tayloristica), consentì il raggiungimento di elevati livelli di occupazione (sebbene, concentrati al nord, lasciando gravemente depresso il meridione d’Italia) e, conseguentemente, di livelli di benessere sociale via via più elevati anche per i lavoratori. Costoro poterono così accedere a consumi precedentemente riservati a ristretti gruppi sociali, privilegiati rispetto al tenore di vita medio della popolazione. Tra questi nuovi consumi, la possibilità di viaggiare e di visitare altri Paesi in qualità di turisti. Frotte di lavoratori – famiglie di lavoratori – partivano, dunque, dall’Italia – come, d’altra parte, dagli altri Stati europei – per sbarcare in Paesi stranieri, ma non troppo distanti e, comunque, accessibili per le tasche dei lavoratori: nei Paesi dell’est, dunque, geograficamente vicini e poco dispendiosi. A Budapest, in Polonia, a Mosca e negli altri Paesi dell’est europeo cominciarono, così, ad arrivare gruppi di lavoratori occidentali per puro scopo turistico. Arrivavano i ricchi, nella psicologia dei cittadini di quei luoghi: lavoratori come loro, ma più fortunati; ricchi, anziché, come loro, poveri; insomma, lavoratori occidentali: che avevano avuto la fortuna di nascere e di vivere in occidente, in un Paese capitalistico, anziché in uno Stato socialista. In un Paese capitalistico, occidentale, che non soltanto conferiva loro i mezzi economici per viaggiare, ma concedeva loro la libertà di farlo: di uscire dal territorio dello Stato di appartenenza, per recarsi altrove. Cosa, quest’ultima, che certamente non era consentita ai cittadini degli Stati dell’est. Il turismo di massa, dunque, rappresenta, agli occhi dei cittadini dell’est, la condizione di un occidente in cui i lavoratori erano più ricchi e più liberi di quanto loro non fossero. E ciò, a conferma di quanto già le trasmissioni via satellite lasciavano immaginare. 25 Tutto questo, ovviamente, non faceva che inasprire il risentimento delle popolazioni contro i governi e le autorità che guidavano quei Paesi, rinfocolando volontà di cambiamento e di omologazione a quelle società occidentali ritenute più fortunate. Si inasprì, dunque, e si diffuse una grande voglia di cambiare le cose. Una protesta, al momento silente, nascosta, che, però, trovò una sponda importante nell’elezione di Karol Wojtyla a papa, nel 1978. Prima che diventasse papa con il nome di Giovanni Paolo II, infatti, Wojtyla era vescovo di una città polacca: Kracovia; perciò, di una delle città appartenenti a quei Paesi che avevano usato la repressione anche contro la Chiesa, legittimando solo l’ateismo, e contro le comunità dei credenti. In quanto eminente membro della Chiesa polacca, Wojtyla era stato da sempre avversario del regime socialista. Era, perciò, sperabile che, anche ed ancor più dopo l’elezione a papa, si opponesse pubblicamente e con tutta la forza – morale e culturale – del suo alto magistero ai regimi socialisti dell’est, alle loro politiche repressive ed ai governi che le adottavano. I cittadini dell’est vedono nell’elezione di Wojtyla a papa l’occasione buona per liberarsi di quei regimi e di quei governi: di cambiare quelle società, per assimilarle a quelle occidentali. Pensano che, ora che c’è un papa polacco, non sarebbe più stato possibile per i governi dell’est reprimere con la violenza la protesta popolare: perché certamente il papa sarebbe intervenuto a difesa dei cittadini e della loro libertà di espressione e di associazione. E la protesta popolare ha inizio. Ha inizio a Danzica: città polacca dei cantieri navali. Qui, i lavoratori dei cantieri scendono in sciopero per protestare contro condizioni di vita e di lavoro particolarmente disagiate e per rivendicare diritti di libertà politica e sindacale; occupano le fabbriche; costituiscono un sindacato autonomo ed indipendente rispetto al Partito Comunista: prende nome di Solidarnosc, issano sulla fabbrica le bandiere di solidarnosc. Il governo, le autorità di polizia sono presi di sorpresa. Sono tentati di intervenire, ma sono consci che un intervento militare, questa volta, potrebbe scatenare la reazione del Vaticano. Esitano… rimandano l’intervento… quindi, l’occupazione continua… E, come previsto, il papa interviene: a sostegno dei lavoratori di Danzica e delle loro rivendicazioni. Non solo: il Vaticano interviene anche a finanziare le lotte di quei lavoratori ed il loro sindacato. Giorni… mesi di lotte operaie… addirittura, di occupazione delle fabbriche, senza l’intervento rpressivo della polizia! Una situazione inaudita: mai vista prima, in un Paese socialista! Le televisioni di tutto il mondo rimandano questa notizia straordinaria e le immagini dei lavoratori festanti ed in lotta. Ed il contagio si diffonde a tutti i Paesi dell’est europeo: se è possibile farlo in Polonia, allora è possibile anche in Germania est ed in Romania ed in Ungheria… Dappertutto, nel blocco dei Paesi socialisti, si diffonde la protesta popolare: durissima e questa volta non più repressa dalle forze di polizia. Ed il fiume diventa sempre più grande ed impetuoso. Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica capisce – non può non capirlo – che bisogna cambiare qualcosa. Nel 1985 viene eletto segretario generale del PCUS, capo del governo e presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbacev. Questi presenta un programma di importanti riforme sociali e politiche: l’idea che lo muove è quella di riuscire a salvare il socialismo accogliendo una serie di rivendicazioni popolari. Lancia, perciò, due parole d’ordine, che fanno da guida all’azione del suo governo: glasnost, cioè trasparenza e perestroika, cioè ristrutturazione. 26 Glasnost, vale a dire trasparenza, quella che deriva dal fatto che le notizie sugli accadimenti politici, economici, sugli eventi culturali, sui fatti internazionali, etc., non vengano più filtrati esclusivamente dalla lente del governo, ma possano venire raccontati da chiunque voglia farlo e raccolga notizie per farlo. E’ la premessa teorica indispensabile alla realizzazione di un programma riformista per il pluralismo delle opinioni e per la libertà di informazione e di stampa. Sono i primi elementi di libertà e di democrazia che, dopo tanti decenni, vengono introdotti nel sistema politico sovietico. Perestroika, vale a dire ristrutturazione. Ristrutturazione di un sistema economico totalmente affidato alle mani dello Stato, in favore del ritorno della piccola proprietà privata e della libertà delle piccole imprese private: insomma, una sorta di ritorno alla NEP (Nuova Politica Economica) di Bucharin e Lenin. Gorbacev capisce che non è più possibile difendere il socialismo impedendo qualsivoglia modifica. Capisce che, per placare il malcontento e la protesta popolare, ed anche per gli obiettivi insegnamenti della storia, sono necessarie profonde modifiche al sistema: e, con la glasnost e la perestroika, le mette in cantiere; modifiche politiche ed economiche. E spera, così, di salvare, adeguandolo il socialismo sovietico. Ma, ormai, il malcontento popolare è tale, è così dirompente, che nulla può arginarlo. Alle popolazioni dei Paesi dell’est non bastano più singole riforme… vogliono un cambiamento totale: vogliono uscire dal socialismo e vivere in società come quelle occidentali. E lo stesso Gorbacev, in patria, è visto come un comunista sotto mentite spoglie: insomma, una persona inaffidabile. Dunque, le proteste continuano. In particolare, in Germania prendono la forma dei tentativi di scavalcare il muro di Berlino: quel muro che per decenni aveva diviso, oltre che il mondo, le stesse famiglie tedesche, separate artificialmente (ma definitivamente) tra coloro che vivevano ad est e coloro che vivevano ad ovest. Questa situazione penosa di affetti spezzati – unita alla volontà dei cittadini dell’est di liberarsi della coercizione del regime – aveva moltiplicato, negli anni, i tentativi dei tedeschi orientali di scavalcare il muro per passare ad ovest. Contro questi tentativi, sempre, sistematicamente, l’esercito aveva risposto con le armi e con la violenza. Ma in quel fatidico anno 1989, quando masse enormi di cittadini di Berlino est si riversarono alla porta di Brandeburgo per scavalcare il muro ed andare, finalmente, ad ovest (verso la libertà, verso la democrazia, verso i propri familiari), l’esercito e la polizia non intervennero: per una volta zittirono le armi. Il muro fu preso d’assalto, fu scavalcato, fu picconato… in breve, cadde: fu la caduta del muro di Berlino e, con esso, cadde la divisione del mondo in due blocchi, venne meno la divisione della Germania in due distinte repubbliche, caddero gli Stati socialisti. Da quell’anno ebbe inizio una nuova storia del mondo. I nuovi conflitti non si sarebbero più svolti sulle coordinate est-ovest, quanto nord-sud del mondo. Altri equilibri si sarebbero determinati, altri soggetti si sarebbero affermati, altri problemi sarebbero insorti. Un nuovo mondo: una nuova storia. La fine dell’esperienza socialista nel mondo (ora ne sono rimaste poche e malconce briciole…) pone, soprattutto a chi ha sperato nei cambiamenti promessi, domande ineludibili. Perché? Poteva andare diversamente? Al contrario di ciò che pensano in tanti (“con i se non si fa la storia”), si può senza dubbio dire che alcune scelte fondamentali non erano obbligatorie (ed, infatti, furono ampiamente discusse). Non era obbligatorio statalizzare i mezzi di produzione: si potevano realizzare altre forme di socializzazione; non era obbligatoria l’ascesa al potere di Stalin nel ’24 e, dunque, non era obbligatoria l’affermazione della teoria 27 del nemico interno, con tutto quanto ne è conseguito dal punto di vista del dibattito democratico e dell’accentramento del potere (ipoteticamente) proletario nelle mani di una sola persona. Non si tratta di riflessioni inutili, perché, se è vero che il socialismo (il socialismo reale, quello che storicamente si è riusciti a realizzare) ha fallito, intatti, ineludibili e sempre più drammatici restano i problemi ai quali quell’esperienza intendeva rispondere: il problema di una disparità di ricchezza nel mondo che fa sì che ogni 6 secondi un bambino muoia di fame, nel mentre, nei Paesi ricchi, altri muoiono per gli effetti della bulimia; il problema di masse enormi di popolazione costrette alla subordinazione economica e politica nei confronti di ridottissime minoranze detentrici del potere economico e politico; il problema di un dominio capitalistico mondiale che costringe buona parte dei Paesi del mondo alla condizione di colonie o di Stati vassalli; il problema della distruzione e della rapina delle risorse naturali della terra, al fine di aumentare il più possibile il lucro di pochi; il problema di libertà democratiche, anche giuridicamente affermate, e, tuttavia, conculcate per effetto di uno strapotere economico che non conosce limiti, né regole… Tutti questi problemi permangono e pretendono, ancora oggi, una risposta – civile, democratica – se non si vuole che esplodano come strumenti di guerra nelle mani delle organizzazioni terroristiche internazionali. LO STATO FASCISTA L’esperienza socialista è stata un tentativo di porre fine allo scontro sociale (alla questione sociale), ponendosi dalla parte dei lavoratori e cercando di costruire, per la prima volta nella storia dell’uomo, una società di persone libere ed uguali: dal punto di vista giuridico e politico (come già era – ed è - nella società borghese-capitalistica) ma anche, ed anzi, prima di tutto, dl punto di vista economico (eliminando subordinazione e sfruttamento). Ma, è ovvio, in uno scontro sono previsti almeno due soggetti; e nello scontro sociale del quale qui si parla sono coinvolte due classi: la borghesia capitalistica da un lato, ed il proletariato dall’altro. E, dunque, è nell’ordine delle cose che, se le forze socialiste e comuniste si sono impegnate a rappresentare gli interessi e le aspettative di quest’ultimo, qualcun altro dovesse prendere le parti – rappresentare gli interessi e le aspettative – della prima. Questo qualcun altro sono stati i fascisti: ed il fascismo come ideologia. Il fascismo – e Benito Mussolini, che ne era il capo – va al potere in Italia, nel 1922: precisamente, il 28 ottobre. Ma per capirne le ragioni ed il senso bisogna ricostruire un po’ il contesto storico nel quale questa ascesa al potere avviene. Dunque, già lo sappiamo, dalla fine dell’800 i lavoratori fanno sentire sempre più forte la loro voce organizzandosi in partiti e sindacati rappresentativi dei propri interessi. E, come ancora sappiamo, le lotte dei lavoratori portano, benchè lentamente, a grandi conquiste: innanzitutto un più ampio intervento dello Stato nel sistema economico, a tutela dei soggetti sociali più deboli; quindi, ad una sempre più ampia estensione del diritto all’esercizio del voto. Sotto quest’ultimo profilo, il suffragio universale maschile si conquista, in Italia, nel 1912. E’ di tutta evidenza l’importanza del suffragio universale: grazie ad esso è ora possibile che in Parlamento ci siano sempre più rappresentanti dei partiti dei lavoratori e che, dunque, grazie all’iniziativa di questi soggetti, le leggi sanciscano sempre più ampi diritti e sempre più estese provvigioni pubbliche a favore delle classi sociali più povere. 28 Tutto questo, ovviamente, non può far piacere alle classi dominanti: la borghesia industriale del nord e l’aristocrazia terriera del sud (l’Italia, all’epoca, era ancora un Paese completamente agricolo nella sua parte centro-meridionale: tale, per altro, rimarrà fino agli anni ’50). Per di più, l’Italia entra nella prima guerra mondiale nel 1915 . La guerra serve anche come sbocco per una gran massa di disoccupati che trovano nel lavoro militare (nella carneficina della grande guerra) la possibilità di riuscire a recuperare un reddito per sostenere le proprie famiglie. Ma la guerra finisce – nel 1918 – e, con essa, anche il lavoro ed il reddito. Una massa enorme di lavoratori tornano alle proprie case e, così come prima di partire per il fronte – tornano ad essere disoccupati e, dunque, ad una vita da accattoni e sottoproletari: massa di uomini disponibili – per un tozzo di pane – a qualunque lavoro, anche sporco. 1917: rivoluzione comunista in Unione Sovietica. Non proprio un evento che lasci indifferenti la borghesia capitalistica e l’aristocrazia agraria occidentale. Il timore è che quanto sta avvenendo in URSS possa estendersi anche in occidente e che, dunque, da un momento all’altro un governo proceda, anche qui da noi, agli espropri che avevano caratterizzato la prima fase della rivoluzione in Unione Sovietica. Un pericolo, questo, che le classi dominanti hanno assai sbandierato e tale, per loro - da dover essere scongiurato ad ogni costo. In realtà, un pericolo assolutamente inesistente in Italia. Qui, infatti, l’unico Partito rappresentativo degli operai del nord – il PSd’I, Partito Socialista d’Italia – era strettamente in mano al suo segretario Filippo Turati: un signore anziano di fede decisamente riformista e, dunque, senza alcuna velleità rivoluzionaria. Ed anche il partito più rappresentativo dei contadini del sud, nato nel 1919, il Partito Popolare era il prodotto dell’iniziativa di un prete – Don Luigi Sturzo – e, dunque, assumeva come ideologia non certo la teoria marxista, quanto, invece, la dottrina sociale della Chiesa. Insomma, in Italia, mancavano forze rivoluzionarie e, dunque, del pericolo comunista mancava proprio qualunque premessa politica. In realtà, l’agitare un pericolo in realtà inesistente serviva alle classi dominanti non per scongiurare un ipotetico tentativo rivoluzionario, ma per un’esigenza ben più concreta ed immediata: per giustificare la repressione delle lotte poste in essere dai lavoratori, soprattutto nei periodi dei rinnovi dei contratti di lavoro. Per questa specifica ragione si formarono le prime squadre fasciste: squadre paramilitari pagate dai latifondisti del sud e dagli industriali del nord per mettere in atto azioni di intimidazione nei confronti dei leader sindacali, dei dirigenti dei partiti dei lavoratori e dei loro giornali, dei dirigenti delle cooperative e, direttamente, dei lavoratori in lotta: si trattava di minacciare, bastonare; a volte, uccidere; dare fuoco alle sedi… insomma, tutto quanto si riteneva necessario per costringere all’interruzione della lotta e a far tornare a lavorare i lavoratori. Dunque, non sedare tentativi controrivoluzionari, ma costringere i lavoratori ad una silente subordinazione. A questo scopo, venivano utilizzati disoccupati, reduci spiantati della prima guerra mondiale, soggetti border line tra il rispetto della legge e la pratica di attività illegali, persone aduse alla violenza: insomma, quel sottoproletariato povero ed incolto disponibile a qualunque attività pur di racimolare un qualche guadagno. In realtà, all’interno del PSd’I vi era una ridottissima fazione di rivoluzionari: capeggiati da un sardo trapiantato a Torino – Antonio Gramsci – che aveva fondato una rivista l’Ordine Nuovo. Furono questi che guidarono le lotte degli operai nel 1919-1920: quelli che son rimasti nella storia come il cosiddetto biennio rosso. Dal nome della rivista di riferimento questi rivoluzionari 29 presero il nome di ordinovisti: furono quelli che, nel congresso del PSd’I di Livorno, del 1921, uscirono da quel partito per fondare il PCd’I (Partito Comunista d’Italia). Ma, appunto, una ristrettissima minoranza del Partito Socialista. Le lotte dei lavoratori per i contratti, le attività intimidatorie dei fascisti e gli scontri diretti tra questi ed i lavoratori, creavano (artatamente, volutamente) un clima sociale di tensione che sembrava pretendere l’intervento delle forze di polizia per rispristinare l’ordine. Per di più, industriali del nord e latifondisti del sud – ma anche ampi settori di piccola borghesia – ed i loro rispettivi rappresentanti (ipocritamente) spingevano perché il re ed il governo intervenissero con sempre maggiore decisione per il ripristino dell’ordine violato (il che, concretamente, dal loro punto di vista, significava far smettere le proteste e costringere i lavoratori a rinunciare alle proprie rivendicazioni e tornare, in silenzio, al lavoro). E per ripristinare l’ordine chi meglio dei fascisti (che, con le loro intimidazioni, erano proprio quelli che l’ordine lo violavano continuamente)? Tanto più che – proprio tramite l’esercizio della violenza – i fascisti aveva dato ampia prova di riuscire nell’intento! E per dare un’ulteriore dimostrazione di forza, Mussolini convoca tutte le squadracce fasciste d’Italia a Roma per il 28 ottobre 1922: doveva trattarsi di un corteo armato; quella che restò nella storia come la marcia su Roma. Una vera e propria occupazione armata ed illegale della capitale dello Stato. Un’iniziativa alla quale il re Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto rispondere con la dichiarazione dello stato di emergenza e facendo intervenire contro i fascisti polizia ed esercito. Tutto questo, come si sa, non avvenne. Il re, al contrario, la sera stessa del 28 ottobre nominò Mussolini capo del governo. Nacque, così, il primo governo Mussolini: con un’alleanza tra fascisti, conservatori, una parte dei liberali, una parte dei cattolici. Come si vede, Mussolini non era affatto isolato. Al contrario, riuscì a mettere su una alleanza all’interno della quale erano presenti, sostanzialmente, tutte le forze antioperaie presenti nel panorama politico italiano; coinvolgendo in questa operazione anche personalità del mondo liberale e cattolico che, in origine, non si resero conto del pericolo che Mussolini ed il fascismo avrebbero costituito per le libertà ed i diritti democratici così duramente conquistati nel nostro Paese, al prezzo di enormi sacrifici. Giunsero troppo tardi a questa consapevolezza, ma, allora il disastro era, ormai, già compiuto. Nel 1923 il governo Mussolini fece approvare la riforma elettorale. Per riforma elettorale si intende la riforma del sistema elettorale. IL SISTEMA ELETTORALE Intanto, occorre dire che i seggi sono i posti disponibili per i parlamentari (o, anche, per i consiglieri regionali, provinciali o comunali): ogni parlamentare, un seggio. Così che se ad una lista vengono attribuiti 100 seggi, significa che quella lista ha diritto a 100 parlamentari. Occorre, però, capire cosa vuol dire corrispondente, cioè come si determina il numero di seggi – cioè, appunto, di parlamentari – ai quali una lista – un partito che presenti la sua lista di candidati alle elezioni – ha diritto. 30 Da questo punto di vista, vi sono, fondamentalmente, due tipi di criteri possibili: quello proporzionale e quello maggioritario. Conseguentemente, vi sono due tipi di sistemi elettorali: Il sistema elettorale proporzionale, Il sistema elettorale maggioritario. Per sistema elettorale proporzionale si intende quel sistema elettorale che attribuisce ad ogni partito una percentuale di seggi pari alla percentuale di voti ottenuta alle elezioni. Dunque, se un partito ha ottenuto il 25% dei voti, avrà diritto al 25% dei seggi in Parlamento (al 25% dei parlamentari); se ha ottenuto il 37% dei voti, avrà diritto al 37% dei parlamentari; etc. etc. Per sistema elettorale maggioritario si intende quel sistema elettorale che attribuisce al partito di maggioranza (quello che ha ottenuto il maggior numero di voti) una percentuale di voti maggiore di quella che avrebbe avuto con il sistema proporzionale. Dunque, se il partito che ha ottenuto più voti alle elezioni ha ottenuto il 25% dei voti, avrà diritto al 30, al 40, al 50, al 60… % dei seggi; se il partito che ha ottenuto più voti alle elezioni ha ottenuto il 40% dei voti, avrà diritto al 50, al 60… % dei parlamentari. I sistemi elettorali sono fondamentalmente così: o proporzionali, o maggioritari. Poi sono possibili infinite modalità intermedie, che mischiano i due sistemi (in parte proporzionali ed in parte maggoritari), cercando di correggere i difetti dell’uno e dell’altro: ed allora avremo l’infinita serie dei maggioritari corretti e dei proporzionali corretti. Sì, perché questo è il problema: che né il sistema proporzionale, né quello maggioritario sono privi di difetti. Anzi, ognuno ha sia pregi, che difetti: precisamente, hanno pregi e difetti opposti l’uno all’altro. Il sistema proporzionale ha un pregio indiscutibile: con esso il Parlamento è pienamente rappresentativo della volontà popolare. Ogni partito – anche i partiti più piccoli – è presente in Parlamento se e nella misura nella quale è presente tra i cittadini. Il pregio è la massima rappresentatività dei cittadini. Il difetto del sistema proporzionale è l’instabilità politica che determina (o contribuisce a determinare). Infatti, proprio perché in Parlamento vi sono tutti i partiti politici, anche quelli più piccoli, ognuno col proprio peso misurato dalla percentuale dei voti ottenuti, è facile trovarsi nella situazione nella quale nessun partito, da solo, abbia la maggioranza in Parlamento. Questo determina la necessità – per approvare le leggi, per formare un governo – delle coalizioni tra partiti: anche 3… 4… 5… partiti. Ed è ovvio, che è più facile litigare tra partiti diversi, che nello stesso partito. In definitiva, è facile che i partiti in coalizione ad un certo momento comincino a litigare, che la coalizione si sciolga, che in Parlamento non ci sia più una maggioranza e che, perciò, cada il governo e si debba andare alle elezioni anticipate. Il difetto del sistema proporzionale è l’instabilità del sistema politico. 31 Col sistema maggioritario accade il contrario. Siccome favorisce il partito più grande, questo sistema sfavorisce i partiti più piccoli: e può sfavorirli tanto che molti piccoli partiti alle elezioni non si presentano nemmeno, perché tanto sanno che non riusciranno ad entrare in Parlamento. Così che in Parlamento ci sono pochi partiti e, tra questi, uno, alle elezioni sarà risultato quello più votato. Bene, a questo partito si dà un numero di seggi abbastanza alto perché possa, da solo, avere la maggioranza in Parlamento: il 55… il 60… % dei seggi. Il pregio di questo sistema è, dunque, la stabilità del sistema politico. Il difetto è che il Parlamento è poco rappresentativo della volontà popolare. Infatti, mettendo insieme i partiti più piccoli non entrati in Parlamento (o con meno parlamentari della propria percentuale di voti), la quota di cittadini che non ha rappresentanti (o ne ha pochissimi) potrebbe essere anche molto elevata. E questo è palesemente non giusto. Ora, fino al 1923 il sistema elettorale italiano era stato un sistema proporzionale. Con la legge Acerbo – dal nome del ministro proponente – il sistema divenne maggioritario. Tale legge prevedeva che la lista che alle elezioni avesse avuto il maggior numero di voti, con una percentuale comunque superiore al 25% dei voti, avrebbe ottenuto in Parlamento il 75% dei seggi. Ben si comprende la follia – o, meglio, la natura autoritaria – di una simile disposizione. Con essa, infatti, il partito più votato alle elezioni, che, per esempio, avesse avuto il 30% dei consensi, avrebbe ottenuto i ¾ dei seggi in Parlamento: avrebbe, cioè, controllato completamente il Parlamento con un terzo dei voti degli elettori! E gli altri 2/3 dei cittadini – che avevano votato altri partiti – non avrebbero avuto alcun potere e quasi nessuna rappresentanza! E’ chiaro che, in una simile situazione, per ogni partito, diventava fondamentale riuscire a vincere le elezioni: ad ottenere anche solo un voto in più rispetto agli altri partiti. Chi non fosse risultato vincitore sarebbe stato destinato all’irrilevanza. Le elezioni si tengono nel 1924. Ovviamente, anche in quell’anno continuano le scorribande delle squadracce fasciste: le minacce, i manganellamenti, fino agli assassini (il deputato socialista Giacomo Matteotti venne assassinato proprio in quell’anno). Dato il nuovo sistema elettorale avrebbe dovuto essere chiaro, per chiunque si presentasse alle elezioni, che c’era la necessità di aggregarsi; di presentare le liste più ampie possibili, così da convogliare il maggior numero di voti possibile: perché la lista che avesse preso anche solo un voto in più delle altre, avrebbe ottenuto il 75% dei seggi in Parlamento e, dunque, avrebbe potuto approvare pressochè qualunque legge e formare un proprio, solido governo. Questa necessità di aggregazione la comprese Mussolini, che presentò una lista di candidati in gran parte fascisti, ma che comprendeva anche candidati conservatori, liberali e cattolici: insomma, una lista – il cosiddetto listone – comprendente i rappresentanti di tutte e forze politiche che sostenevano il primo governo Mussolini. Al contrario, le forze antifasciste (comunisti, socialisti, popolari) fecero prevalere le ragioni della loro reciproca differenza, presentandosi separatamente, ognuno per conto proprio. Chi volete che vincesse le elezioni?! Mussolini, ovviamente!, il listone… cioè, insomma, i fascisti… In questo modo il Parlamento si trovò sotto il pieno controllo dei fascisti che, progressivamente, emarginarono sempre di più i loro alleati liberali e cattolici; Mussolini divenne capo del governo. 32 A partire dal 1925, con le cosiddette leggi fascistissime, comincia la costruzione dello Stato fascista. Per comprendere la logica unitaria di quelle che, appunto, sono state chiamate leggi fascistissime, bisogna partire da una caratteristica fondamentale dell’ideologia fascista e, dunque, dello Stato fascista: il corporativismo. Lo Stato fascista è, innanzitutto, uno Stato corporativo. Da un punto di vista socialcomunista, da un punto di vista marxista, una tale organizzazione non ha senso: non si possono mettere insieme, nella stessa organizzazione, lavoratori ed imprenditori. Questi, infatti, sono soggetti tra loro antagonisti, con interessi contrapposti e tra loro confliggenti. Ognuno di questi soggetti avrà una propria organizzazione, tramite la quale cercherà di realizzare al meglio i propri interessi, scontrandosi con l’organizzazione avversa. Quella marxista è la logica del conflitto: di quel conflitto che dovrebbe condurre alla distruzione della società capitalistica ed alla costruzione della società socialista. Precisamente il contrario del corporativismo fascista. Secondo questa ideologia, infatti, gli imprenditori sono assimilabili ai lavoratori: come loro lavorano (benchè con funzioni direttive, piuttosto che esecutive), come loro hanno interesse al buon funzionamento dell’impresa (all’aumento della produzione e del reddito d’impresa). Dunque, non c’è alcuna ragione di conflitto. Anzi, c’è la possibilità e la necessità della collaborazione per migliorare le sorti dell’impresa. E c’è la possibilità e la necessità di coesistere e cooperare all’interno di una unica associazione di settore: la corporazione, appunto. Per altro, cooperando al buon funzionamento dell’impresa e del sistema economico, si contribuisce al raggiungimento di quell’obiettivo di interesse nazionale che è l’aumento del PIL e, dunque, del benessere generale della società. Per converso, chi si ostina a fomentare il conflitto (gli scioperi dei lavoratori, le loro proteste, etc.), chi indice scioperi, chi vi partecipa, etc., agisce contro l’interesse nazionale e, dunque, commette un reato. Per di più, il lavoratore che sciopera viene meno ad un suo preciso dovere contrattuale e, dunque, è giusto che ne subisca le conseguenze sul piano civilistico. Ecco, questa, in sintesi, è la sostanza del corporativismo. Un’ideologia dalla quale sono, come adesso vedremo, derivate buona parte di quelle leggi fascistissime che hanno strutturato il regime fascista. Dalla logica corporativa, infatti, deriva che il conflitto sociale non ha ragion d’essere e chi l’organizza o vi aderisce opera contro immotivatamente l’interesse nazionale: commette, cioè, un reato. Di qui, le leggi che eliminano il diritto di sciopero, dichiarandolo reato ed inadempimento contrattuale, con la conseguenza che coloro che dovessero indire o aderire ad uno sciopero verrebbero licenziati ed incarcerati. 33 E chi dichiara scioperi? Quali organizzazioni si avvalgono degli scioperi come normale, ordinaria forma di pressione nei confronti degli imprenditori, allo scopo di conseguire migliori condizioni per i lavoratori? I sindacati, ovviamente! Dunque, leggi che dichiarano illegali le organizzazioni sindacali e che ne impediscono l’attività, facendo spazio, così, alla nascita delle corporazioni. Ma eliminare i sindacati non basta. Queste, infatti, sono organizzazioni che operano grazie al sostegno delle forze politiche non corporative; che hanno come dirigenti persone con una determinata idea politica differente rispetto a quella del partito fascista. Quali sono queste forze politiche? Tutte: tutte quelle non corporative!, tutte le forze politiche che non siano il partito fascista. Di qui, le leggi che dichiaravano illegali tutte le forze politiche che non fossero il partito fascista. E, perciò, la formazione di uno Stato autoritario e a partito unico. L’esercizio della forza contro gli oppositori politici venne affidato ad un particolare ramo della magistratura appositamente istituito: il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, incaricato di perseguire i reati politici ed i cui giudici rispondevano direttamente al governo. Per questa via, la magistratura – organo assolutamente autonomo ed indipendente rispetto al potere politico, nello Stato liberale – venne assoggettata al governo ed alle sue disposizioni. Il governo sommò nelle sue mani il potere esecutivo – conformemente al modello liberale – ma anche quello giurisdizionale, in radicale contraddizione con quello stesso modello. Ma lo stesso Parlamento fu completamente travolto, a seguito di un lento processo di svuotamento. Intanto, perse la sua natura di organo rappresentativo della volontà popolare, a seguito della natura del fascismo come Stato autoritario e a partito unico. E’ evidente, infatti, che non può ritenersi rappresentativo un organo eletto sulla base di una sola lista di candidati scelti dal partito fascista e dal governo fascista! Poi, il governo operò così da ridurre, fino ad eliminare il potere legislativo del Parlamento, attribuendolo progressivamente al governo. Dunque, da un lato, il Parlamento rimase una scatola vuota: priva di senso politico (non più rappresentativo) e privo di poteri (esautorato); tanto che, nel 1939, venne definitivamente eliminato e sostituito con la camera dei fasci e delle corporazioni. Dall’altro lato, il governo venne a detenere ogni potere: quello suo proprio, quello esecutivo; ma anche, come visto, quello giurisdizionale; ed infine, anche quello legislativo. Ma, in realtà, dovremmo meglio specificare: non fu, infatti, il governo – nella sua collegialità – a sommare su di sé tutti i poteri. Piuttosto, fu chi guidava quel governo – Mussolini – giuridicamente qualificato come capo del governo: sopraelevato, dunque, rispetto ai suoi altri membri (i ministri). Mussolini veniva, così, a ricoprire un ruolo centrale nella struttura statuale: dotato di un enorme potere assoluto, non più limitato da alcun contrappeso istituzionale. Lo Stato venne identificato con Mussolini. E per giustificare un così ampio ed illimitato potere, a Mussolini vennero attribuite qualità eccezionali, superiori a quelle di qualsiasi altro uomo, quasi divine: gli venne attribuito un carisma tale da rendere sensato l’attribuzione alla sua persona di un così grande potere. 34 Lo Stato fascista si strutturò, dunque, intorno alla figura carismatica di Mussolini: depositario di ogni potere. Quello fascista fu uno Stato carismatico. E per la stessa logica che già abbiamo visto in opera nello Stato socialista – con Stalin – e, prima ancora – per altre vie – nello Stato assoluto, col re, anche in questo caso si pone il problema del consenso: di dotare la figura del leader (del duce) di un consenso, il più possibile largo, di massa tra la popolazione. Un problema, quello del consenso, che Mussolini e lo Stato fascista affrontano con determinazione: seguendo la stessa logica (il totalitarismo) dello Stato socialista, ma, forse, con più incisività e più efficacia. Nella logica totalitaria, lo Stato fascista controlla e pervade ogni ambito della vita sociale, civile e politica della popolazione: controlla, come già sappiamo, la politica, consentendo il solo partito fascista; l’istruzione: le scuole e le università, imponendo nelle scuole l’ora obbligatoria di dottrina fascista, libri di testo commemorativi del regime e della figura di Mussolini, e pretendendo – a prezzo del licenziamento – da tutti gli insegnanti il giuramento di fedeltà al fascismo (pochi rifiutarono e vennero cacciati dalle scuole e dalle università); la stampa e l’editoria, impedendo l’uscita dei giornali di opposizione o, comunque, non allineati col governo e ripristinando, per gli altri e per i libri, la censura (la cui eliminazione era stata una grande conquista liberale); il cinema, attraverso l’istituzione di un apposito istituto pubblico gestito dal governo, l’Istituto Luce; la radio, anche qui istituendo un ulteriore istituto pubblico gestito dal governo, l’EIAR, che, alla caduta del fascismo diventerà RAI; l’economia, a partire dagli anni ’30, con la costituzione, nel ’33, dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), destinato a gestire imprese in crisi per effetto della grande depressione partita dagli Stati Uniti d’America; con l’ideologia corporativa, la nascita delle corporazioni e l’eliminazione dei sindacati; il tempo libero delle persone, con una serie di associazioni in cui era pressochè obbligatorio iscriversi, che seguivano ogni individuo dalla nascita fino alla morte (i figli della lupa, i balilla, i giovani avanguardisti, etc.)… tutto, insomma, tutto controllato dallo Stato e, per esso, dal governo. Solo un soggetto sfuggiva al controllo dello Stato, un soggetto forte, potente: la Chiesa cattolica. Un soggetto potente ed, allo stesso tempo, inaffidabile: per la sua avversione filosofica alla violenza, per un orientamento politico che la legava piuttosto al partito popolare, che a quello fascista… E Mussolini seguì, con la Chiesa cattolica, il vecchio adagio secondo il quale se uno non si può sconfiggere, allora è il caso di farselo amico. In questa strategia, Mussolini approfittò del rincrescimento, che ancora covava nei vertici ecclesiastici, per la conquista di Roma nel 1971 da parte dei bersaglieri di casa Savoia e per la conseguente eliminazione del potere politico papale. Nel 1929, il governo fascista ed il papa Pio XI (per lui, il segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri) firmarono i Patti Lateranensi. I patti lateranensi sono degli accordi che consistono in tre documenti: il trattato, il concordato e la convenzione finanziaria. 35 Con il trattato lo Stato italiano tornava a riconoscere alla Chiesa cattolica la sovranità su una parte della città di Roma, ricostituendo, così, lo Stato Vaticano e sanando la ferita inferta con la breccia di Porta Pia del 1871 e mai, precedentemente, risanata. Con il concordato lo Stato italiano riconosceva alla Chiesa cattolica tutta una serie di privilegi; tra questi: il riconoscimento della religione cattolica come religione dello Stato (in realtà, era già così per effetto dell’art. 1 dell’allora Costituzione italiana, lo Statuto Albertino. Il Concordato ribadisce tale principio e lo rafforza); l’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado dell’ora obbligatoria di religione cattolica; il riconoscimento ai fini civili dei matrimoni religiosi (per effetto di questa norma il sacerdote diventa, in qualche misura, funzionario di stato civile); il riconoscimento ai fini civili dello scioglimento del matrimonio decretato dai tribunali ecclesiastici (la cosiddetta Sacra Rota). Con la convenzione finanziaria lo Stato italiano riconosceva alla Chiesa cattolica tutta una serie di agevolazioni economiche, soprattutto di natura fiscale. Si può comprendere bene come i Patti Lateranensi potessero soddisfare le esigenze di una Chiesa cattolica ancora risentita per i fatti del Risorgimento italiano: per la perdita di Roma e, dunque, del potere politico su una parte del territorio italiano; per la perdita delle sue proprietà confiscate ed acquisite dallo Stato italiano. Soprattutto, con i Patti Lateranensi lo Stato fascista si configura come Stato confessionale: uno Stato che assume una specifica religione come religione di Stato, elevandola rispetto al livello delle altre fedi religiose e, di conseguenza, conferendo ad essa diritti non riconosciuti, invece, alle altre confessioni. In questo modo, con la stipulazione dei Patti Lateranensi, si compie il disegno totalitario dello Stato fascista: attraverso il controllo di ogni ambito e di ogni soggetto della vita sociale e civile delle persone e tramite l’alleanza con quei soggetti (la Chiesa cattolica) che non appaiono assoggettabili a controllo. E, tuttavia, il potere assoluto del governo ed il controllo totalitario da esso esercitato sulla società devono pur avere un indirizzo di fondo, devono pure orientarsi verso uno specifico, individuabile obiettivo. E l’obiettivo, in effetti, si individua: la formazione di una società organica (dunque, non conflittuale), di un organismo sociale compatto che si rappresenti nello Stato e nella determinatezza della sua azione. Una organicità sociale che si esplichi sul piano economico (corporativismo), sul piano ideologico (totalitarismo), ed anche sul piano culturale ed istituzionale. Sul piano culturale, il fascismo si trova a dover fronteggiare gli stessi problemi di integrazione tra meridionali e settentrionali con i quali avevano dovuto fare i conti i primi governi nazionali dopo l’Unità d’Italia. E li affronta seguendo pressochè la stessa linea di condotta: 36 scuola elementare obbligatoria, per diffondere, su tutto il territorio nazionale, la comprensione e l’uso – nella forma scritta ed in quella orale – della lingua italiana, in luogo, soprattutto nel meridione, dei dialetti locali. Anzi, il fascismo, nella sua concezione autoritaria dello Stato, radicalizza tale approccio, procedendo con la cosiddetta italianizzazione forzata: impedendo, cioè, alle minoranze linguistiche, situate nelle zone di confine del Paese (Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta), di parlare la loro lingua tradizionale (il tedesco ed il francese), per costringerle a parlare l’italiano. Per altro, elimina dalla lingua italiana tutti i termini di derivazione anglofona; esercito nazionale popolare – quella che un tempo si chiamava naia – così da imporre a tutti i giovani del nord e del sud un periodo (forzato) di convivenza e, dunque, di conoscenza reciproca, di reciproca comunicazione e di reciproco affratellamento; guerra: guerra di conquista coloniale, così, anche, da costruire un nemico esterno (gli eserciti nazionali anti-coloniali) per combattere il quale l’esercito nazionale italiano avrebbe dovuto mostrarsi compatto, solidale e solido, al di là delle origini territoriali dei singoli componenti dello stesso, condividendo tutti la stessa, drammatica, sorte. Insomma, lo Stato fascista, ai fini dell’integrazione nazionale, adotta, sostanzialmente, due politiche: una politica scolastica, una politica di guerra. Nel corso del ventennio fascista sono state intraprese numerose guerre: in Libia, in Somalia, in Eritrea, in Etiopia, in Albania … fino al disastro della seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista. Quello fascista, dunque, fu anche uno Stato di guerra. La sete e la volontà di controllo del regime su ogni aspetto della vita civile e sociale non poteva, infine, non avere un riscontro anche dal punto di vista istituzionale. Occorreva che la volontà del governo fosse vigente e rispettata ad ogni livello territoriale, tanto sul piano nazionale, che su quello locale. All’epoca non esistevano le Regioni; vi erano, però, i Comuni e le Province. Bene, il governo fascista, per assicurarsi che anche le politiche locali fossero conformi alla sua volontà ed al suo orientamento, mise a capo delle Province i Prefetti, nominati dal governo stesso; e, per quanto riguarda i Comuni, abolì la figura del Sindaco – soggetto eletto dai residenti del Comune e, dunque, autonomo rispetto agli orientamenti politici del governo – per sostituirla con quella del Podestà, soggetto, anche questo, nominato dal governo. Agì, dunque, in modo da attribuire ogni decisione al governo: organo dello Stato centrale, in quanto deputato ad assumere decisioni relative all’intero territorio dello Stato. Sostanzialmente, eliminò ogni autonomia locale, rimettendo ogni potere allo Stato e, nello specifico, al governo. E’ per questo che, sul piano istituzionale, è possibile dire che lo Stato fascista fu uno Stato accentratore. Dal punto di vista internazionale – geopolitico – il regime fascista, lo abbiamo detto, operò come uno Stato di guerra: per la conquista delle colonie; in sostegno al colpo di Stato di Francisco Franco in Spagna, nel 1936; ed, infine, per l’ingresso nella II guerra mondiale, a fianco della Germania di Hitler. Quest’ultima follia – che si rivelò il definitivo disastro dell’Italia e del regime – aveva, tuttavia, bisogno di una certa preparazione. Occorreva che Mussolini desse prova di adesione ai piani criminali nazisti di sterminio nei confronti degli ebrei: che sostenesse fattivamente e legislativamente i nazisti nel loro tentativo di soluzione finale della questione ebraica (secondo il loro linguaggio). 37 E Mussolini si adoperò a questo scopo, approvando, nel 1938, le leggi antiebraiche: leggi razziste che impedivano agli ebrei di sposarsi liberamente, di avviare un’impresa, di lavorare alle dipendenze dello Stato o di istituzioni educative, di studiare, etc.. E ciò, quando non imponevano rastrellamenti, detenzioni in carcere o in campi di concentramento, o affidamenti ai tedeschi perché fossero loro a decidere la sorte di queste persone (e la storia ci insegna quale sorte i nazisti abbiano riservato agli ebrei). Le politiche coloniali e le leggi antiebraiche qualificano, dunque, lo Stato fascista come Stato razzista. Dunque, in definitiva, volendo sintetizzare le caratteristiche proprie dello Stato fascista, dovremo dire che lo Stato fascista è: corporativo, in quanto rifiuta l’idea del conflitto sociale e pretende di imporre la cooperazione tra le classi sociali; autoritario, in quanto reprime con la violenza il dissenso politico rispetto al governo; a partito unico, in quanto mette fuori legge tutti i partiti che non siano quello fascista; carismatico, in quanto si struttura intorno alla figura del capo del governo, al quale vengono attribuite qualità sovra-umane; totalitario, in quanto controlla e pervade, con la sua ideologia, ogni campo della vita sociale e civile delle persone; confessionale, in quanto assume una religione come religione di Stato, sopraelevandola rispetto a tutti gli altri culti religiosi; accentratore, in quanto elimina ogni autonomia degli Enti Locali rispetto al governo centrale; razzista, in quanto, con le leggi antiebraiche, aderisce e coopera con l’ideologia nazista della superiorità della razza ariana; di guerra. In quanto usa l’esercito per conquistare territori ed in funzione delle politiche di integrazione nazionale. Il regime fascista entra in guerra, al fianco della Germania di Hitler, 10 giugno 1940. Hitler ha già occupato buona parte dell’Europa e pare non avere ostacoli al suo progetto di conquista. Mussolini pensa che, alleandosi con Hitler, riuscirà a guadagnare territori a seguito della vittoria di questi. In realtà, le sorti della guerra, dopo qualche anno e per effetto dell’intervento anglo-americano, volgono in direzione opposta. Con l’avanzata dell’esercito sovietico verso la Germania e lo sbarco in Sicilia degli inglesi e degli americani, nel luglio del 1943, la guerra è ormai persa: e nella maniera più vergognosa. E’ così che, nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo, organo che riunisce i capi del regime e del partito, vota la sfiducia nei confronti di Mussolini. Finalmente, il re Vittorio Emanuele III, che era rimasto silente e connivente per un ventennio, torna a prendere la parola per destituire Mussolini e sostituirlo col generale dell’esercito Pietro Badoglio. Questi, immediatamente, dichiara fuori legge il partito fascista, facendo tornare alla legalità tutti gli altri partiti. L’Italia, intanto, è divisa in due: occupata a sud dalle truppe anglo-americane che dalla Sicilia risalgono verso Roma, ed a nord dalle truppe tedesche che, a loro volta, si dirigono verso Roma per fermare l’avanzata anglo-americana. Per di più, Mussolini non ha affatto rinunciato al governo. Liberato, dal luogo (sul Gran Sasso, a Campo Imperatore) dove era tenuto prigioniero dopo l’arresto, da un commando tedesco, e portato a nord, 38 sul Lago di Garda sotto la tutela dei tedeschi, a Salò fissa la sede del suo nuovo governo, per opera del quale avrebbe dovuto ricostruire in Italia un nuovo regime fascista: è la cosiddetta Repubblica di Salò. L’8 settembre 1943 Badoglio firma (in realtà, rende pubblico, essendo stato già firmato nei giorni precedenti) l’armistizio con gli anglo-americani. Per effetto di questo atto, l’Italia, prima alleata con la Germania, diventa alleata degli inglesi e degli americani. Non accade spesso una cosa così! Fu un momento di grande confusione: di sbandamento, come si disse. Per un certo tempo non si capiva bene se i militari italiani dovessero ancora continuare a combattere contro gli anglo-americani o, invece, dovessero volgere le armi contro i tedeschi. La confusione politica e della catena di comando, spinse moltissimi a scegliere individualmente: alcuni, i nostalgici del fascismo, seguirono Mussolini a Salò; altri, gli antifascisti, scelsero di organizzarsi in squadre paramilitari (squadre partigiane), per affiancare gli angloamericani con azioni di guerriglia (quel fenomeno che fu chiamato Resistenza). La liberazione del territorio italiano dall’occupazione nazi-fascista fu definitivamente conquistata nel 1945: il 25 aprile. Gli anni compresi tra la seconda metà del 1943 ed il primo di gennaio 1948, data in cui entrò in vigore la nuova Costituzione della Repubblica democratica italiana, sono ricordati come il cosiddetto periodo transitorio. Transitorio, cioè di passaggio: dal regime fascista ad una nuova forma di Stato: lo Stato democratico. Durante gli anni dal ’43 al ’45, La Resistenza coinvolse tutte le forze politiche antifasciste: anche quelle – liberali e cattoliche - che originariamente non avevano ben compreso la gravità del fenomeno fascista ed, anzi, avevano dato il loro sostegno a Mussolini. Si formarono, così formazioni partigiane liberali, cattoliche, oltre, ovviamente, a quelle socialiste e comuniste. Un panorama composito al quale, tuttavia, occorreva garantire coerenza d’intenti e d’azione. A questo scopo venne costituito il Comitato di Liberazione Nazionale, organo di direzione della guerra partigiana, composto unitariamente da esponenti di tutte le forze politiche antifasciste: dai liberali, ai comunisti. Si comprenderà assai bene, negli anni successivi, l’importanza di questa esperienza unitaria nella lotta di liberazione: dirigenti di orientamento politico assai differente, costantemente in dialogo allo scopo di raggiungere un obiettivo per tutti, analogamente, fondamentale; l’obiettivo di liberarsi definitivamente della dittatura fascista e dell’occupazione nazista del territorio italiano. Questi partiti politici ed i loro dirigenti anteposero questo obiettivo immediato alle differenze di prospettiva politica che, ovviamente, sarebbero tornate ad essere centrali una volta conseguito l’obiettivo unitario. Ed, anzi, per il raggiungimento di questo obiettivo, in un ulteriore sforzo di reciproca comprensione, diedero vita, a partire dal 1944, ai cosiddetti governi di unità nazionale: governi composti da ministri di tutti i partiti politici antifascisti e guidati dai capi del Comitato di Liberazione Nazionale (il governo Parri ed il governo Bonomi). Il periodo transitorio fu, dunque, una grande, importantissima palestra unitaria per le forze politiche antifasciste. E, tuttavia, non bastava aver definitivamente sconfitto il nazifascismo. Occorreva procedere alla costruzione di un nuovo Stato, ben diverso rispetto a quello appena crollato. Si decise così di convocare, per il 2 giugno del 1946, a suffragio universale maschile e femminile 39 un referendum istituzionale e l’elezione della Assemblea Costituente. Un referendum istituzionale, col quale il popolo fosse chiamato a scegliere se l’Italia dovesse restare una monarchia o, altrimenti, diventare una Repubblica. L’elezione di una Assemblea Costituente, cioè di un organismo di 556 componenti, incaricato di scrivere una nuova Costituzione in sostituzione del vecchio ed arretrato Statuto Albertino. Come si sa, nel referendum istituzionale la Repubblica ebbe la meglio sulla monarchia. L’Assemblea Costituente si trovò, dunque, a scrivere una nuova Costituzione questa volta non più monarchica, ma repubblicana. E’ proprio in sede di lavori dell’Assemblea Costituente che si rivelò fondamentale l’esperienza unitaria, antifascista, del periodo transitorio. Infatti, i partiti politici antifascisti, forti di quella esperienza, riuscirono a dialogare tra loro al di là delle differenze politiche: così da dare al nuovo Stato democratico italiano una Costituzione profondamente innovativa rispetto all’esperienza fascista e, allo stesso tempo, fortemente unitaria e, dunque, di compromesso tra orientamenti politici spesso assai differenti. Tanto che, se si volessero sintetizzare i caratteri propri della Costituzione italiana, occorrerebbe dire che essa è innovativa e di compromesso. Innovativa, nel senso che organizza una comunità ed uno Stato completamente diversi rispetto a quelli dell’esperienza fascista. Di compromesso, nel senso che essa realizza una sintesi fra differenti scuole di pensiero politico, estraendo da ciascuna la parte migliore e ponendola a sintesi con i contributi provenienti dalle altre parti. Insomma: nella Costituzione italiana è possibile rinvenire elementi del pensiero politico social-comunista, liberale e cattolico, senza, tuttavia, che sia possibile comprenderla nella sola ottica di uno qualsiasi di questi orientamenti politici. Ma più nello specifico del dettato costituzionale entreremo in seguito. Ora occorre soffermarci sulle caratteristiche di questa nuova forma di Stato, che abbiamo chiamo democratico, e che in Italia, come abbiamo visto, si conquista solo con la fine della dittatura fascista. LO STATO DEMOCRATICO Se, in Italia, lo Stato democratico si conquista solo a seguito della caduta del fascismo, in altri Paesi il processo è più veloce. Per comprendere come tale processo si articola, è bene ricordare che quella democratica è una terza forma si Stato che deriva dalla questione sociale. Si ricorderà che dallo scontro tra proletariato e borghesia capitalistica – appunto, la cosiddetta questione sociale – derivano 40 lo Stato socialista lo Stato fascista e, ora lo possiamo dire, lo Stato democratico. Tuttavia, mentre i primi due – lo Stato socialista e quello fascista – rappresentalo uno stravolgimento dell’assetto socio-economico e politico del sistema capitalistico (quello fascista, essenzialmente, del solo sistema politico; quello socialista, di entrambi) e, dunque, richiedono la realizzazione di una qualche azione rivoluzionaria; lo Stato democratico non è affatto una rivoluzione del sistema capitalistico – non è affatto un suo ribaltamento – quanto, piuttosto, una sua evoluzione (un suo lento adeguamento alle nuove situazioni storiche, che si realizza senza che vengano meno le sue caratteristiche di fondo). Dunque, la democrazia si conquista, nel mondo, progressivamente, lentamente: a seguito di ripetuti cambiamenti in vari aspetti del precedente assetto politico-economico liberale. Tanto che, lo Stato democratico mantiene, come vedremo, molte delle caratteristiche proprie dello Stato liberale, qualificandosi, come molti pure dicono, come Stato liberal-democratico. Un primo cambiamento in senso democratico dello Stato liberale avviene già nel corso dell’800, in conseguenza delle lotte del movimento operaio. I lavoratori, infatti, come abbiamo visto, non potevano accontentarsi dei diritti individuali – dell’uomo e del cittadino – che le Costituzioni liberali riconoscevano. Avevano, piuttosto, bisogno di poter esercitare diritti collettivi: di poter svolgere un’assemblea; di potersi associare per formare un partito politico, o un sindacato; di poter indire e realizzare uno sciopero… Furono queste le prime rivendicazioni operaie… Rivendicazioni portate avanti a suon di scontri con le forze dell’ordine, di arresti, di incarcerazioni, di morti anche… E, però, alla fine, i governi ed i parlamenti furono costretti a riconoscere questi nuovi diritti: affiancandoli nelle Costituzioni, come diritti collettivi, ai già riconosciuti diritti individuali. Questo fu il primo grande cambiamento in sede costituzionale: nelle Costituzioni democratiche si riconoscono oltre ai dritti individuali, anche quelli collettivi. Ed altri cambiamenti giunsero a seguito dell’esercizio di quei diritti collettivi appena conquistati. I partiti dei lavoratori (il Partito socialista… quello comunista…: ebbero varie definizioni, a seconda dei luoghi…) si proposero immediatamente un obiettivo: quello di riuscire ad estendere la possibilità di esercizio del diritto di voto anche a coloro che, al contrario, ne erano esclusi in base al criterio del voto censitario. Ed anche qui: non fu facile… ci vollero anni… In Italia, si ricorderà, si dovette attendere il 1912… E, tuttavia, il diritto di voto venne progressivamente esteso fino a ricomprendere l’intera popolazione: prima soltanto maschile (suffragio universale maschile), poi anche quella femminile (suffragio universale maschile e femminile; in Italia, nel 1946 ). Ed eccola, un’ulteriore differenza tra lo Stato liberale e quello democratico: lo Stato liberale riconosce il diritto di voto censitario e, dunque, si qualifica per essere uno Stato elitario (rappresentativo, cioè, del ristretto gruppo – elite – dei più ricchi); lo Stato democratico riconosce il suffragio universale e, dunque, si qualifica per essere uno Stato universalmente rappresentativo (cioè, rappresentativo di tutta la popolazione). In definitiva, ecco le prime caratteristiche: lo Stato democratico è uno 41 Stato costituzionale, di diritto, universalmente rappresentativo. Esercitando gli appena conquistati diritti collettivi, i lavoratori costituirono propri partiti politici e diedero vita a delle proprie associazioni in campo socio-economico. Queste ultime presero nome di sindacati. Attraverso i sindacati, i lavoratori si organizzarono allo scopo di ottenere migliori condizioni di lavoro: una riduzione delle ore di lavoro giornaliere; l’aumento delle retribuzioni; una qualche forma di provvigione nel caso di malattia, o di infortunio, o di vecchiaia; una qualche salvaguardia in caso di malattia… Rivendicazioni che i lavoratori rivolgono agli imprenditori, certamente; ma questi, ovviamente, fanno resistenza, tentano di non cedere, o di cedere il meno possibile… ed hanno la forza di cedere il meno possibile: hanno la forza che deriva loro dalle sostanze economiche di cui dispongono. Ed, allora, i lavoratori e le loro organizzazioni rivolgono le loro rivendicazioni allo Stato: l’unico soggetto in grado di imporre con la forza, tramite le leggi, quelle migliori condizioni di lavoro che, altrimenti, gli imprenditori tarderebbero così tanto ad accettare. Le lotte sindacali e dei lavoratori sono così intense, ed anche così prolungate nel tempo, che lo Stato, in definitiva, anche sotto la pressione dei partiti dei lavoratori, è costretto ad accettare: ad emanare leggi che si muovono nella direzione delle richieste del movimento operaio. E’ così che vengono approvate le leggi sulla riduzione della giornata lavorativa, che riducono le ore di lavoro giornaliere; sulla tutela del lavoro minorile e femminile, che impediscono ai bambini al di sotto di una certa età di andare al lavoro ed impediscono ai datori di lavoro di utilizzare donne in gravidanza nei turni lavorativi notturni e nei lavori pesanti. Nel far questo, lo Stato opera per la pace sociale, per l’attenuazione del conflitto sociale e, in qualche modo, riconosce la legittimità delle richieste dei lavoratori. Ma, operando in questo modo, soprattutto, lo Stato implicitamente riconosce l’opportunità e, forse, la necessità di intervenire nelle questioni di ordine economico: di intervenire in quelle materie che le politiche liberiste avrebbero lasciato completamente nelle mani dei soggetti privati (lavoratori da un lato, imprenditori dall’altro). In questo modo, lo Stato è meno liberista e più interventista: più interessato, più attento e più partecipe di quanto avviene nel sistema economico. Inizia così, dalle prime leggi approvate nell’800 in questioni di ordine economico, quel processo che porterà lo Stato ad intervenire sempre più massicciamente nel sistema economico: soprattutto, a tutela dei soggetti sociali più deboli. Un processo che si articolerà nelle prime forme di previdenza sociale realizzate in Prussia da Otto Von Bismarck, all’amplissimo piano di interventi infrastrutturali e redistributivi (new deal) posti in essere da Franklin D. Roosevelt, negli Stati Uniti, allo scopo di superare i disastrosi effetti della crisi del ’29. Fino a giungere alla formazione di sistemi economici – quali, ad esempio, quello italiano – che, pur mantenendo una struttura indiscutibilmente capitalistica, prevedono, tuttavia, un amplissimo intervento pubblico nel sistema economico sia in forma diretta (attraverso la gestione di aziende in mano pubblica), che indiretta (attraverso strumenti di politica economica): sistema capitalistico ad economia mista. Insomma, 42 lo Stato democratico è interventista: interviene nel sistema economico, soprattutto a vantaggio delle fasce di popolazione più deboli. Nel far questo, lo Stato democratico si conforma come Welfare State (Stato sociale): uno Stato che opera allo scopo di assicurare a tutti un livello minimo accettabile di benessere sociale. Si comprende bene quali siano gli effetti politici dell’intervento pubblico in economia. Essi servono a ridurre l’intensità delle lotte sociali: insomma, a ridurre la rabbia dei lavoratori per le proprie condizioni di vita e di lavoro; e, per questa via, a preservare la solidità e la stabilità di un sistema capitalistico che, altrimenti, a fronte di lotte particolarmente veementi, rischierebbe di venir meno. La logica è: se si vuole evitare una rivoluzione come quella sovietica, allora bisognerà fare in modo che i lavoratori non abbiano troppo da lamentarsi! L’intervento pubblico in economia – le misure di welfare – funzionano come ammortizzatori sociali: misure capaci di contenere e ridurre lo scontro sociale (rinsaldando così, la stabilità del sistema). Quello democratico è, dunque, dal punto di vista del rapporto tra le classi sociali, uno Stato di compromesso: la borghesia capitalistica mantiene intatto il potere economico (e, dunque, politico), concedendo, tuttavia, ai lavoratori provvidenze che ne migliorano (a volte anche in modo significativo) le condizioni di vita. Dunque, in definitiva, potremmo dire che lo Stato democratico non è altro che lo Stato liberale così come, nel tempo, è andato modificandosi sotto due riguardi: quello politico, attraverso l’abbandono del suffragio censitario a favore del suffragio universale; quello economico, attraverso l’abbandono delle politiche liberiste a favore dell’intervento in economia e delle politiche di welfare. LA COSTITUZIONE ITALIANA Il 2 giugno 1946, per effetto del referendum istituzionale, l’Italia diventa una Repubblica. L’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale maschile e femminile quello stesso giorno, deve, dunque, scrivere la Costituzione repubblicana di uno Stato che intende essere assolutamente diverso rispetto all’appena decaduto Stato fascista. Deve trattarsi, perciò, di una Costituzione innovativa. Ed innovativa, effettivamente, è; per un’infinita serie di aspetti – che cercheremo di vedere nello specifico – ma che, in sintesi, potremmo indicare con un solo termine: antifascista. La nostra Costituzione è, prima di tutto ed essenzialmente, una Costituzione antifascista: una Costituzione nata dalla Resistenza al nazi-fascismo. Lo si dice esplicitamente, negli artt. 12 e 13 delle Disposizioni finali e transitorie: nell’art. 12 che dichiara “vietata la ricostituzione, sotto ogni forma, del disciolto partito fascista”; nell’art. 13 che dispone l’esilio per i membri ed i discendenti di Casa Savoia (per via delle enormi responsabilità della monarchia Savoia nella nascita del governo fascista, nella costruzione e nelle politiche del regime). 43 E poi, il carattere innovativo della Costituzione italiana risulta evidente dall’ art. 1, che definisce lo Stato italiano una Repubblica (per di più, una Repubblica nella quale non è consentito tornare ad una forma istituzionale monarchica) ed una Repubblica democratica fondata sul lavoro (sul diritto al lavoro: art. 4) e, cioè, sul riconoscimento dell’autonomia organizzativa e politica dei lavoratori e sulla piena tutela dei loro diritti. In questo senso è da intendere il diritto alla libertà sindacale (art. 39), ripristinata in luogo della coazione corporativa e, conseguentemente, il diritto di sciopero (art. 40); il diritto alla retribuzione (art. 36), proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto e, comunque, tale da “assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; il diritto alla parità della donna lavoratrice con le condizioni riservate ai lavoratori maschi per identiche attività lavorative (art. 37); il diritto all’assistenza sanitaria e previdenziale (art. 38). Una democrazia nella quale lo Stato interviene ampiamente a garantire i diritti dei lavoratori – quelli appena indicati, ed altri ancora previsti in apposite leggi – ed, in generale, il benessere dell’intera collettività, anche, se necessario, limitando la libertà d’impresa. Di qui, gli artt. 41-42-43 che, pur disegnando un sistema economico capitalistico (riconoscimento della proprietà privata dei mezzi di produzione, delle aziende (quelli che l’art. 42 chiama “beni economici”) e la “libertà di iniziativa economica privata” (art. 41), impongono allo Stato di intervenire nel sistema economico allo scopo di assicurare “la sicurezza, la libertà, la dignità umana” (art. 41), anche, eventualmente, con proprie aziende (art. 42), e persino espropriando aziende precedentemente private (art. 43). Un sistema dunque, sì capitalistico, ma ad economia mista ed a sviluppo programmato. E, poi, gli articoli che sostanziano, dal punto di vista delle libertà, l’assetto democratico – e, perciò, pluralista - dello Stato: art. 13, la libertà personale; art. 17, libertà di riunione; art. 18, la libertà di associazione (in generale) e quella di associazione in partiti politici (art. 49); art. 19, la libertà di culto; art. 21, la libertà di manifestazione del pensiero, con la connessa libertà di stampa e l’eliminazione della censura. 44 Infine, gli articoli che strutturano lo Stato democratico dal punto di vista istituzionale: quelli che ripristinano la divisione dei poteri, dando al Parlamento nuova centralità ed, anzi, rafforzandone i poteri; quelli che ripristinano, rafforzandola, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dal potere politico; quelli che recuperano l’autonomia degli enti pubblici territoriali rispetto al potere centrale ed, anzi, pongono le basi per quell’ampio decentramento dei poteri che ha caratterizzato la storia istituzionale italiana per buona parte degli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, fino ai giorni nostri. Altri ancora, pur molto importanti, ne potremo citare: l’art. 6, che riconosce e tutela le minoranze linguistiche; l’art. 11, che stabilisce il ripudio della guerra. Insomma, l’abbiamo già detto, in sintesi, la nostra, è una Costituzione antifascista. E, tuttavia, si trattava di realizzare insieme queste innovazioni: così come, insieme, era stata condotta la guerra di liberazione nazionale dal nazi-fascismo. Si trattava, perciò, di mettere d’accordo correnti politiche diverse; appunto, quelle che avevano dato vita alla Resistenza: quella social-comunista, quella liberale e quella cattolica. Alle forze politiche che esprimevano questi differenti orientamenti era rimesso il compito di trovare tra loro un compromesso, un accordo per scrivere insieme la Costituzione del nuovo Stato democratico italiano. E l’accordo fu trovato. Ne venne fuori, appunto, una Costituzione di compromesso, segnata da un delicato equilibrio tra principi di ispirazione ed origine politica diverse. Molti articoli della Costituzione portano i segni di questo compromesso: anche molti degli articoli più innovativi citati in precedenza. Facciamone qualche esempio: art. 1, che definisce lo Stato italiano una Repubblica democratica, nel senso di liberal(democratica) – un principio propriamente liberale, dunque – ma fondata sul lavoro (e sulla tutela dei diritti dei lavoratori), secondo un principio tipicamente socialcomunista; art. 2, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (secondo un principio propriamente liberale… dalla Rivoluzione Francese…); ma, al contempo, richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà economica e sociale (secondo un principio di origine socialcomunista e cattolica); art. 3, che riconosce l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge (uguaglianza tipicamente liberale), ma pretende che lo Stato agisca per eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto, impediscono una effettiva uguaglianza tra gli uomini 45 (richiamo, questo, alla tradizione socialcomunista); artt. 7-8 e 19, che, nel complesso, disegnano uno Stato laico (secondo l’ispirazione liberale) e, tuttavia, riconoscendo, all’art. 7, i Patti Lateranensi, introduce in Costituzione elementi di confessionalismo (secondo le volontà dei cattolici); e poi, gli artt. 41-42-43 che, disegnano uno società sì capitalista, secondo l’ispirazione liberale, ma ad economia mista ed a sviluppo programmato (riprendendo, così, l’idea, socialcomunista ed anche cattolica, della necessità dell’intervento pubblico nel sistema economico, soprattutto a tutela dei più deboli). Insomma, sul testo della Costituzione italiana si è realizzato un compromesso che ha visto tutte le forze politiche antifasciste, pur di differente orientamento politico, convergere sull’esigenza di procedere a grandi innovazioni nella struttura giuridica della società e dello Stato italiani. Un compromesso di alto profilo, dunque, capace di disegnare uno Stato democratico molto avanzato sul piano giuridico, sociale e civile; un compromesso pensato per durare nel tempo. Tanto che, se dal punto di vista del contenuto, come detto, la Costituzione italiana è innovativa e di compromesso, dal punto di vista formale – cioè, delle procedure di approvazione e di revisione – è votata e rigida. Votata, nel senso che fu votata dall’Assemblea Costituente eletta dal popolo a suffragio universale; rigida, nel senso che prevede alcune parti immodificabili (per esempio la natura repubblicana dello Stato), e le altre parti – modificabili – possono essere modificate solo attraverso leggi costituzionali, più lunghe e più difficili da approvare rispetto alle leggi ordinarie. La difficoltà alla quale l’Assemblea Costituente ha voluto sottoporre le modifiche alla Costituzione, sta a significare il fatto che il dettato costituzionale, così come approvato, era destinato – come poi è effettivamente successo – a permanere nel tempo in modo stabile: a costituire un saldo punto di riferimento della vita istituzionale e civile del Paese. Sarebbe stato logico attendersi una veloce attuazione delle nuove norme costituzionali: soprattutto di quelle più innovative. Per questo c’era stata la guerra di liberazione: per cambiare radicalmente lo stato di cose e per farlo al più presto possibile. Le cose, però, non andarono così. GLI ANNI DELLA REPUBBLICA: gli anni ‘50 Le prime elezioni politiche in Italia si tengono il 18 aprile 1948. 46 Si tengono in un clima di fortissimo scontro, non soltanto per ragioni interne: i partiti politici, una volta abbattuto il regime fascista, tornano a scontrarsi in conseguenza delle radicale differenze politiche ed ideologiche; ma anche per ragioni internazionali: Stati Uniti ed Unione Sovietica si erano divisi il mondo e l’Italia, dopo grandi discussioni, era stata inserita nel blocco occidentale dominato dagli USA. La campagna elettorale del ’48, dunque, risente fortemente di questo clima di contrapposizione internazionale: la DC (Democrazia Cristiana) rappresenta il partito politico di riferimento degli Stati Uniti, il PCI (il partito di riferimento dell’Unione Sovietica). Che vinca l’uno, o vinca l’altro, a vincere o a perdere non è soltanto il partito, ma anche una delle due superpotenze. Insomma, la campagna elettorale del ’48 è, in sede locale, un momento dello scontro tra le due grandi potenze del mondo. Le elezioni sono vinte dalla Democrazia Cristiana che – appoggiata anche dalla Chiesa, oltre che dagli USA – riesce a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Non si rivelò un buon inizio per l’applicazione della Costituzione: soprattutto, non lo fu per l’attuazione di quella parte della Costituzione più innovativa. D’altra parte, la DC è sempre stata un partito moderato, ostile ad ogni forma di veloce e profondo cambiamento: più portato ai tempi lenti ed ai cambiamenti lievi e progressivi… A seguito delle elezioni dell’aprile del 1948, la Democrazia Cristiana formò un governo di coalizione comprendente 4 partiti: se stessa, ovviamente, il PRI (Partito Repubblicano Italiano), il PSDI (Partito Socialdemocratico Italiano) e il PLI (Partito Liberale Italiano); insomma, un governo di centro-destra. L’attuazione della Costituzione fu molto lenta. Solo nel 1956 – dunque, otto anni dopo la sua entrata in vigore – fu istituita la Corte Costituzionale. Solo nel 1958 – dieci anni dopo – fu istituito il CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. Si badi che si tratta di organi importanti. La Corte Costituzionale ha come propria funzione fondamentale l’annullamento delle leggi che risultino, secondo il suo giudizio, in contrasto con la Costituzione. E tante ce ne dovevano essere in quel periodo, visto che si veniva fuori dal ventennio fascista e, dunque, una parte consistente delle leggi allora in vigore era stata approvata in quel periodo: perciò, molto probabilmente, da annullare. La mancata istituzione immediata della Corte Costituzionale ha, quindi, determinato grandi ritardi nel rinnovamento della legislazione italiana in senso antifascista e democratico: tanto più se si considera che non bastava istituire la Corte… occorre che questa iniziasse a funzionare effettivamente… ed anche questo richiese un certo tempo… Insomma, ci siamo tenuti leggi fasciste per tanto tempo, dopo la caduta del fascismo (si pensi solo alla legge sulla scuola…); ed ancora oggi, non ci siamo ancora completamente liberati di quel retaggio. Il CSM è l’organo che garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rispetto al potere politico: dunque, garantisce quel principio di legalità che è a fondamento dello Stato democratico. Ora, se si ricorda che lo Stato fascista asservì la magistratura al governo, si comprende bene come fosse necessario istituire immediatamente il CSM, per garantire al nuovo Stato italiano quella divisione dei poteri che è struttura tipica di uno Stato democratico. Anche sotto questo profilo, al contrario, i ritardi sono stati tali che c’è da chiedersi se le pretesa di impunità che spesso viene imputata al potere politico e l’inefficienza della magistratura per troppo tempo troppo distratta rispetto alle malversazioni della classe politica, non dipendano … certo dal fascismo, ma anche da chi, dopo la liberazione, non ha saputo immediatamente disfarsi dei retaggi del fascismo. Tuttavia, il governo italiano, in quegli anni, non era solo chiamato ad attuare la nuova Costituzione, ma anche ad operare per la ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra e rilanciare l’economia nazionale. 47 Quest’ultimo era compito del governo italiano, come, d’altra parte, di tutti i Paesi dell’Europa occidentale. E proprio con l’intento di sostenere al meglio il rilancio dei sistemi economici, nel 1951, 6 Paesi europei – tra questi l’Italia – diedero vita alla CECA: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Dal punto di vista elettorale, tuttavia, c’è da considerare che la Democrazia Cristiana – maggioranza assoluta in Parlamento, con le elezioni del 1948 – è andata progressivamente perdendo consensi, a vantaggio del Partito Comunista e della sinistra in generale. GLI ANNI DELLA REPUBBLICA: gli anni ‘60 Gli anni ’50 e ’60 sono ricordati come gli anni del boom economico: il periodo nel quale, in Italia, ma non solo, si assiste ad uno sviluppo economico fortissimo, dovuto alle esigenze di ricostruzione poste dalle conseguenze della seconda guerra mondiale ed ai finanziamenti pervenuti a questo scopo dagli Stati Uniti d’America (il cosiddetto Piano Marshall). Si trattò di una fase di fortissima espansione, trainata soprattutto dall’industria del nord e, più nello specifico, dalla FIAT di Torino. In funzione di quest’ultima e del suo consolidamento, si dotò l’Italia delle infrastrutture necessarie all’incremento del traffico veicolare privato: strade e autostrade, trascurando, di converso, lo sviluppo dei trasporti pubblici che, altrimenti, avrebbero finito per fare concorrenza a quello provato automobilistico e, dunque, alla FIAT. Lo sviluppo industriale del nord, con il corrispondente ritardo di sviluppo del sud (rimasto agricolo e povero), spinse masse enormi di popolazione meridionale ad emigrare verso il triangolo industriale, in cerca di lavoro e di un reddito sufficiente ad assicurare alle famiglie una vita dignitosa. La grande disponibilità di manodopera (in buona parte ex contadini meridionali) per le industrie del nord, fece sì ce i livelli salariali restassero assai bassi, seppure in ascesa nel corso del tempo. E, dunque, emigrazione e bassi salari si rivelarono le architravi dello sviluppo economico italiano degli anni ‘50 e ’60. Una condizione che, ovviamente, gli operai non potevano considerare soddisfacente: che cercavano di migliorare, attraverso le lotte sindacali e politiche. Il problema di quelle grandi masse di popolazione che producevano il benessere di un Paese – l’Italia – sempre più ricco, rimanendo esse, tuttavia, in condizioni di indigenza; e di una popolazione meridionale sempre più povera rispetto a quella settentrionale, richiamò anche l’attenzione della Chiesa cattolica. Nel 1958, viene eletto papa Angelo Roncalli, con il nome di Giovanni XXIII. Nel 1962 papa Giovanni XXIII convoca il Concilio Vaticano II. L’elezione del nuovo papa, così come l’orientamento emerso dal Concilio Vaticano II, spingono la Chiesa ad una presenza e ad un’azione più netta e determinata sul terreno della difesa dei diritti dei più poveri, dei più deboli, degli sfruttati e degli oppressi: con ciò riprendendo le tematiche che erano state proprie della dottrina sociale della Chiesa fin dalla fine dell’800. 48 In questo modo, la Chiesa cattolica finiva per prendere una posizione politica che, di fatto, la collocava a fianco di chi, dalla parte degli sfruttati, dei poveri, aveva sempre combattuto: a fianco, cioè, dei socialisti e dei comunisti; a fianco della sinistra politica. Questa nuova disposizione della Chiesa, più sensibile alle tematiche sociali di quanto non fosse in precedenza, ebbe immediati riflessi politici. Nel 1962, la Democrazia Cristiana dà vita ad un nuovo governo all’interno del quale non sono più presenti i liberali, ma i socialisti: un governo di coalizione formato da DC, PRI, PSDI e PSI. Nasce, così, il primo governo di centro-sinistra. I governi di centro-sinistra, che hanno caratterizzato tutti gli anni ’60, fino ai primi anni ’70, hanno cercato di porre in attuazione la Costituzione, soprattutto nelle norme della stessa relative all’economia. Così, uno dei primi provvedimenti fu la costituzione dell’ENEL, in applicazione dell’art.43 Cost. che prevede la possibilità per lo Stato di riservare a se stesso la produzione di servizi fondamentali per la collettività, anche attraverso l’espropriazione di imprese private: così, infatti, fu nel caso dell’ENEL. Insieme all’ENEL, si costituirono, in quegli anni, altri due enti pubblici economici: precisamente due holding pubbliche – l’ENI e l’EFIM – che andarono ad affiancare la già esistente IRI (si ricorderà, costituita nel ’33), con lo scopo di investire – tramite aziende pubbliche – nel meridione d’Italia, così da ridurre il gap nei livelli di sviluppo tra nord e sud del Paese. Il sistema che vedeva a capo – come holding in mano pubblica – l’IRI, l’ENI e l’EFIM ed il grandissimo numero di imprese che, nell’insieme, esse finirono per gestire, si definì sistema delle partecipazioni statali: un sistema che ha avuto una rilevanza enorme nell’economia italiana. Un ulteriore provvedimento di grande portata riguardò la riforma della scuola media – la cosiddetta scuola media unica – che eliminò quell’impianto fascista che prevedeva di distinguere i bambini, immediatamente dopo le elementari, tra coloro che erano destinati agli studi classici – e, dunque, a far parte della classe dirigente – per i quali era prevista, appunto, la scuola media; e coloro che erano destinati alle attività manuali, operaie, per i quali era previsto l’avviamento professionale. La riforma eliminò questa dicotomia ed istituì una scuola media unica, appunto: cioè tre anni di studio uguali per tutti, dopo il quinquennio delle elementari. Nel complesso, lo Stato governato dal centro-sinistra intervenne maggiormente nel sistema economico, cercando di ridurre le distanze tra le parti agiate della popolazione e quelle meno benestanti: assumendo su di sé, in qualche misura, una funzione di più accentuata redistribuzione del reddito. Si giunge, in questo modo, al 1968: fra lotte dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni di vita e tentativi del governo di conciliare i meccanismi propri del sistema capitalistico con migliori livelli di welfare. Il 1968 è una data importante nell’evoluzione delle società capitalistiche occidentali: tutte le società capitalistiche occidentali; anche, non solo quella italiana. E’ rimasto nella storia come l’anno della rivolta studentesca. Dagli Stati Uniti, in particolare dall’Università di Berkeley parte un movimento di rivolta giovanile radicale, mirato a mettere profondamente in discussione tutte le strutture fondamentali della società dell’epoca: dalla scuola, all’università, alla famiglia, alla cultura dominante, alla sessualità, al rapporto uomodonna. Un movimento che, da un punto di vista sociale, di classe, non poteva certo definirsi proletario: non erano certo i proletari a frequentare le università! … ancor meno, le università americane tipo 49 Berkeley! Piuttosto, si trattava di un movimento nato all’interno stesso delle classi dominanti: tra i nuovi rampolli della borghesia capitalistica ed, in generale, dei ceti agiati dell’occidente. Anche per questo, quel movimento non poteva nemmeno definirsi comunista! Piuttosto, portatore di una cultura libertaria, anarchica… come si vedrà, fondamentalmente antiautoritaria. In questo senso, anzi, spesso (non sempre) in contrasto – anche aspro – con le tradizionali organizzazioni della sinistra politica, più abituate a forme di lotta ed a logiche di pensiero strutturatesi nel tempo, nel corso di lunghi anni di battaglie. Un movimento con una chiara impronta generazionale; una rivolta dei giovani, prima di tutto: dei giovani studenti. Di qui, è facile comprendere, i bersagli principali – non gli unici – della rivolta: i vecchi e la scuola. Una scuola pensata e strutturata per tramandare un sapere funzionale ad un sistema sociale ormai obsoleto e, comunque, diventato, agli occhi dei giovani, inaccettabile. Una scuola organizzata gerarchicamente per produrre conformismo, per distruggere ogni forma di pensiero critico: una scuola repressiva di ogni tentativo di innovazione e di originalità; destinata a riprodurre una società ingiusta, iniqua, mortifera. Ed i depositari del potere disciplinare all’interno delle scuole e delle università, i funzionari passivi ed opportunisti di tale sistema sociale risultano essere i presidi, i rettori, i professori. Costoro, di fatto, devono essere considerati nemici del movimento: per la loro funzione lavorativa (sociale) e, spesso, anche per la loro cultura politica conservatrice o troppo moderata. Una scuola del conformismo e della conservazione che, per sua scelta, si affianca alla famiglia, nella sua funzione repressiva di ogni tentativo di liberazione. Una famiglia patriarcale, nella quale ad esercitare il potere sono i vecchi, i padri. Questi, nella loro pretesa di disciplinamento verso i figli, affiancano, di fatto, le scuole e le università. Il movimento del ’68 freudianamente uccide i padri: nel senso che sottopone a critica radicale la cultura delle vecchie generazioni, rivelandone il carattere conservatore dell’assetto sociale esistente. Nella critica alla famiglia, alla scuola ed all’università, il movimento del ’68 scopre la sua vera natura politica: quella di un movimento fondamentalmente antiautoritario, volto alla critica radicale delle autorità sedimentatesi nel tempo: quelle dei padri, dei presidi e dei rettori, dei professori. Tutte figure, queste, viste come sinergiche nella strategia della repressione sociale. E, tuttavia, dal movimento del ’68 scaturisce anche una nuova figura sociale, che negli anni successivi avrà un ruolo determinante nel rinnovamento profondo della cultura politica dell’occidente – Italia compresa – ed anche, specificamente, della nostra cultura politica. Si tratta delle donne e di quel particolare movimento – interno ed in rapporto dialettico col movimento del ’68 – al quale le donne diedero vita: il movimento femminista. Importantissimo il discorso aperto dalle donne del movimento femminista: inteso a porre in rilievo come – spesso, troppo spesso – persino i maschi leader del movimento, così tanto impegnati nella critica radicale ad ogni forma di autoritarismo, fossero poi particolarmente accondiscendenti rispetto alle connotazioni autoritarie, maschiliste del rapporto uomo-donna strutturatosi nel corso di secoli. Che, insomma – questo il discorso delle donne - non era accettabile che, nel momento in cui si metteva in discussione ogni tipo di autoritarismo consolidato nel tempo, non si facesse altrettanto con l’autoritarismo maschile nel rapporto tra i 50 generi (e che, addirittura, quel modello di rapporto venisse praticato persino dai leader del movimento). Di qui, da questo discorso, hanno nuovo inizio le lotte per l’emancipazione femminile – per la parità uomo-donna – e, con maggiore radicalità, il movimento di liberazione della donna. E la minigonna assume il valore simbolico di un oggetto di liberazione. Per la prima volta le donne – da sempre considerate carne a disposizione del maschio (del marito, del compagno, del fidanzato…) – decidono di gestire il proprio corpo in autonomia: senza dover rendere conto delle proprie scelte ai propri partner. E, così facendo, pongono al centro dell’attenzione e del dibattito anche il problema della propria soggettività sessuale: non più corpi passivamente a disposizione, ma soggetti sessuali dotati di una propria volontà, di propri diritti, di una propria autonomia perfettamente equiparabile a quella dei maschi. Anzi, nella necessità, pur esistente, di indicare una via di radicale rinnovamento della società, il sesso – la libertà sessuale – viene ad assumere un ruolo centrale: simbolo e strumento di liberazione; leva simbolicamente pregnante di contrasto alla repressione culturale e sociale. Il sesso, e tutto quanto come il sesso, consente di giungere ad una dimensione altra rispetto all’esistente: tutto ciò che forza i limiti della realtà, che allude a possibilità non già sperimentate… Dunque, sì: sesso, ma anche musica ed anche l’uso sociale delle sostanze stupefacenti (della cannabis, degli allucinogeni). Insomma, una vera e propria rivolta politica ma, prima di tutto, culturale. Una rivolta che, partita dagli Stati Uniti, si diffonde in tutti i Paesi dell’Europa occidentale: dalla Francia (in cui il movimento ebbe un enorme rilievo), alla Germania, ai Paesi del nord Europa… fino a sfiorare i Paesi dell’est europeo (si ricorderà la Cecoslovacchia ed il tentativo innovatore di Alexander Dubceck); e, ovviamente, all’Italia. Qui, in Italia, il movimento del ’68 ebbe più nette connotazioni politiche: un po’ per la tradizione politica italiana, più marcata e conflittuale rispetto a quella degli altri Paesi; un po’ – forse, soprattutto – per il fatto che il movimento del ’68 confluì – l’anno seguente, il ’69 – con l’autunno caldo dei lavoratori. Il ’69 fu un anno di grandi lotte dei lavoratori, qui, in Italia: scadevano un gran numero di contratti nazionali di lavoro e, come sempre, in questi casi, i lavoratori scendevano in lotta per il rinnovo dei contratti alle migliori condizioni possibili. Non poteva non esserci convergenza tra lavoratori e studenti! Ed, infatti, come gli studenti lottavano contro ogni precostituita autorità, così anche i lavoratori, in fondo, lottavano contro l’autoritarismo dell’imprenditore in fabbrica e la struttura gerarchica del suo potere. Non avrebbe avuto senso sottoporre a critica la scuola, l’università, la famiglia e non la fabbrica: perno centrale, quest’ultima, del funzionamento e della struttura dell’intera società e, dunque, anche della famiglia, della scuola e dell’università. Si crea, così, tra il 1968 ed il 1969, un ampio movimento di lotta – un movimento operai-studenti – che opera congiuntamente, cercando di innovare ogni ambito della vita collettiva: contro il sistema, con una visione di sistema. Il movimento è tanto ampio e tanto determinato, tanto culturalmente assennato e radicale, tanto forte ed originale che in tanti cominciano a temerlo. Tra questi, anche le organizzazioni tradizionali della sinistra: il PCI ed i sindacati, in particolare, visti come una forza culturalmente arretrata e non in grado di comprendere le nuove tematiche poste dal movimento. 51 Proprio in rapporto dialettico – a volte, polemico – con queste organizzazioni, si creano e crescono, alla sinistra del PCI, nuove realtà politiche e nuovi giornali: quella galassia di associazioni che è stata definita in vari modi… nuova sinistra … sinistra extraparlamentare … sinistra radicale … Nel complesso, una forza elettorale consistente, forte e determinata. Il quadro politico nazionale, sempre più spostato a sinistra, mise in allarme le forze – spesso occulte – della destra conservatrice e reazionaria. Il 12 dicembre 1969 scoppia una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Milano: il bilancio è di 17 morti e 88 feriti. E’ l’inizio di quella che, nella storia italiana, è rimasta tristemente nota come strategia della tensione. Per strategia della tensione si indica un progetto – ordito e realizzato da ambienti della destra eversiva e neo-fascista, in combutta con rami deviati dei servizi segreti – volto a far crescere la tensione sociale, i pericoli insiti nello scontro sociale, così da costringere le forze politiche – il Parlamento e, soprattutto, il governo – ad adottare misure repressive dell’antagonismo operaio; determinare nella società una svolta culturale antidemocratica; costringere PCI e sindacati a ridurre la spinta antagonista. Insomma, con la strategia della tensione, in sostanza, si voleva ridimensionare la spinta progressiva del movimento operaio e della sinistra, e ciò costringendo sindacati e PCI a ridurre il grado e l’intensità dell’opposizione sociale e politica; costringendoli ad accettare leggi limitative del diritto di sciopero e di manifestazione; e convincendo la popolazione che, insomma, andare in piazza a protestare fosse pericoloso che, dunque, tanto valeva restarsene a casa ed evitare di partecipare. La strategia della tensione si realizzò con una serie impressionante di bombe che scoppiarono nel corso di un lungo periodo di tempo, in vari luoghi e senza che ne fossero chiari i mandanti. Di questa serie, la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, il 12 dicembre 1969, fu la prima. Ad essa seguirono: 22 luglio 1970: strage di Gioia Tauro; 31 maggio 1972: strage di Peteano; 17 maggio 1973: strage alla questura di Milano; 28 maggio 1974: strage a Piazza della Loggia a Brescia; 4 agosto 1974: strage del treno Italicus; 2 agosto 1980: strage alla stazione di Bologna; 23 dicembre 1984: strage di San Benedetto val di Sambro. Quelli su riportati sono solo i fatti più eclatanti: non tutti quelli che hanno tragicamente punteggiato gli anni della strategia della tensione. Si calcola che solo nel periodo 1969-1975 ci furono 4584 attentati, riconducibili alla destra neofascista, con 113 morti e 351 feriti. Ovviamente, in seguito ad ogni strage partono le indagini giudiziarie. L’intento, politicamente orientato, è quello di far ricadere la responsabilità delle bombe sulla sinistra antagonista. In questo senso, per esempio, va l’indagine sulla bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nell’ambito della quale viene immediatamente arrestato Pietro Valpreda, un anarchico milanese, indicato dai giudici e dai mezzi di informazione come il mostro di Milano. Pietro Valpreda è incarcerato prima ancora del processo ed è costretto a subire 4 anni di carcerazione preventiva, al termine dei quali viene scarcerato, del tutto 52 scagionato da ogni accusa e l’indagine inverte la propria direzione e si orienta verso gli ambienti neofascisti e dei servizi segreti. Di molte di queste stragi non sono ancora – a distanza di decenni – stati accertati definitivamente gli autori ed i mandanti. Però, alcune condanne definitive vi sono state ed alcune cose sono state, ormai, definitivamente accertate: che le bombe provenissero dagli ambienti neofascisti e dei servizi segreti, di cui si è detto; che molti alti vertici delle forze dell’ordine (carabinieri, polizia, guardia di finanza) operarono non perché si scoprisse la verità sulle stragi ma, al contrario, per inquinare le prove e convogliare le indagini su ipotesi investigative infondate. Per effetto della strategia della tensione si diffuse nella società una sempre più ampia ed intensa voglia di sicurezza, di rassicurazione: si alzò la richiesta di ritorno all’ordine, alla pace sociale. Le forze politiche della sinistra tradizionale risposero riducendo l’ampiezza e l’intensità dell’opposizione sociale e politica. I sindacati elaborarono l’idea delle “compatibilità”: l’idea, cioè, che le rivendicazioni operaie dovessero stare entro le compatibilità del sistema capitalistico, senza muoversi nella prospettiva di un cambio di sistema; il PCI finì, addirittura, per astenersi in Parlamento sulla fiducia ai governi ancora guidati dalla Democrazia Cristiana e poi a fornire il suo voto favorevole agli stessi (furono i cosiddetti governi di solidarietà nazionale). Nell’ambito della nuova sinistra, l’avvio della strategia della tensione comportò l’approfondimento di un’analisi che immediatamente rese consapevoli dell’origine politica di quelle bombe: il quotidiano Lotta Continua, proprio nei giorni in cui Valpreda veniva indicato come il mostro, usciva con il titolo La strage è di Stato, a dimostrazione di una grande capacità di analisi e di intuizione politica. Tuttavia, una parte di quel movimento, elaborò l’idea che non fosse ormai più possibile alimentare le lotte con gli ordinari strumenti, pacifici, della tradizione operaia: che fosse necessario difendere il movimento di lotta con gli stessi strumenti della violenza neofascista. Nacquero, così, le formazioni terroristiche, la più rilevante delle quali furono le Brigate Rosse. Queste risposero alla violenza neofascista con una serie lunghissima di attentati contro coloro che venivano individuati come i simboli del potere: contro dirigenti d’azienda, contro politici (il più clamoroso: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana), contro magistrati, contro professori universitari ed intellettuali collaterali al governo; persino contro sindacalisti (si veda l’uccisione di Guido Rossa, operaio e sindacalista della CGIL a Genova). In questo clima drammatico di si entra e poi, soprattutto, ci si inoltra, negli anni ’70. GLI ANNI DELLA REPUBBLICA: GLI ANNI ‘70 Sappiamo già quale fu l’esito: la drastica riduzione della capacità di lotta e di conquista del movimento operaio; ma gli inizi furono esaltanti. La grande capacità della sinistra di mettere in campo analisi culturali e politiche originali e strategie di lotta, consentì, in un primo momento – per alcuni anni – di raggiungere risultati insperati fino a qualche tempo prima. L’anno 1970 fu un anno particolarmente significativo da questo punto di vista: per il numero e la rilevanza delle conquiste sociali e politiche che, proprio in quei dodici mesi, si realizzarono. In quel solo anno si riuscì a: 53 approvare la legge di attuazione del referendum abrogrativo, in applicazione dell’art. 75 Cost., e così da poter, finalmente, utilizzare uno dei pochi strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione italiana; approvare la legge 300, il cosiddetto Statuto dei Lavoratori, che, finalmente, introduceva anche nelle fabbriche i principi di libertà e di partecipazione democratica interni alla Costituzione italiana; approvare la legge sul divorzio (contro il parere della Chiesa cattolica), importantissima per l’attuazione dei principi di laicità dello Stato contenuti nella Costituzione; tenere le prime elezioni per i Consigli Regionali, essenziali per avviare quel processo di decentramento dei poteri che la Costituzione prevedeva. Come si vede, in un solo anno, così tante conquiste, e così importanti, che non si erano viste in tale misura in molti e molti anni precedenti. Frutto delle lotte del ’68, del movimento operai-studenti di quegli anni, del suo grande livello di consapevolezza e di capacità di organizzazione. Un periodo di lotte che iniziò negli anni ’60, che ebbe il suo culmine alla fine di quel decennio, ma che si protrasse lungo buona parte degli anni ’70 riuscendo a produrre ulteriori, grandi conquiste giuridiche e di civiltà. Per esempio, la riforma del sistema tributario del 1973, in applicazione dell’art. 53 Cost. e del principio di progressività in esso contenuto; i decreti delegati della scuola del 1974, che per la prima volta introdussero il diritto di assemblea degli studenti ed il loro diritto a partecipare alle decisioni degli organi collegiali; la riforma del diritto di famiglia del 1975, con il riconoscimento della parità giuridica uomodonna nel rapporto coniugale ed all’interno della famiglia nel rapporto tra genitori e figli. E poi, ancora, negli anni successivi, la riforma sanitaria che ha garantito a tutti un eguale diritto alla salute, così come previsto dalla Costituzione e la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, così che la malattia mentale fosse riconosciuta, appunto, malattia e non invece stigma sociale e ragione di emarginazione per chi ne fosse vittima. E’ da ricordare, inoltre, importantissimo, il 1974, anno in cui, per la prima volta si tenne in Italia un referendum abrogativo (grazie alla legge approvata 4 anni prima). Fu quello voluto dalla DC e dalla Chiesa cattolica contro la legge sul divorzio. Referendum che gli stessi promotori persero: cosa fondamentale per comprendere quanto il movimento del ’68-69 incise non solo sotto il profilo politico e giuridico nella storia di quegli anni, ma anche sotto il profilo culturale, cambiando opinioni precedentemente assai diffuse, costumi e pratiche precedentemente molto condizionate dalla presenza in Italia del Vaticano. Il referendum del ’74, con la sconfitta della DC e della Chiesa, disse che l’Italia si era, ormai, laicizzata. Come si vede, gli anni ’70 furono anni di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste: un periodo così fecondo nella crescita civile della società e nell’evoluzione democratica dell’ordinamento giuridico, da non trovare riscontri in alcun altro periodo della nostra storia. E, tuttavia, l’abbiamo detto, nel corso degli anni – prese nella tenaglia delle stragi di Stato e del terrorismo brigatista – l’intensità e la capacità di innovazione politica della lotta venne affievolendosi, fino quasi a sparire del tutto: per le ragioni che abbiamo indicato, e per il particolare contesto internazionale in cui gli anni ’70 si aprono. Ci riferiamo, nello specifico, a quanto accaduto nel 1973 in Cile. Lì, il governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende, venne rovesciato attraverso un colpo di Stato ordito dalla CIA (l’agenzia di spionaggio del governo degli Stati Uniti). Al posto del legittimo governo di Allende fu posto un governo fascista con a capo il generale Augusto Pinochet. Salvador Allende morì, 54 imbracciando un mitra, rinchiuso nel palazzo della Moneda, sede della presidenza della Repubblica, per contrastare l’arrivo dei militari che erano lì giunti per arrestarlo. Il colpo di Stato in Cile, contro un governo democraticamente eletto e di sinistra moderata (insomma, non un governo comunista), suscitò grande scalpore in occidente ed, in particolare, in Italia. Il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, ne dedusse che, in un Paese sottoposto del blocco occidentale, sottoposto al dominio degli Stati Uniti – come era, appunto, il Cile, ma come anche era l’Italia – non sarebbe mai stato possibile realizzare un governo di cambiamento senza l’accordo degli USA; e che, dunque, se il PCI voleva andare al governo – dopo decenni di opposizione – non poteva che farlo in accordo con il partito che, in Italia, faceva da garante degli Stati Uniti: in accordo con la Democrazia Cristiana. Di qui, la strategia del compromesso storico: l’idea, cioè, di un grande accordo tra socialisti, comunisti e cattolici che, sull’esempio della lotta di Resistenza, riuscissero a sconfiggere il terrorismo, far cessare le bombe ed apportare i necessari cambiamenti nella legislazione e nell’economia italiana, soprattutto a tutela delle fasce di popolazione più povera. Nell’ottica del compromesso storico e nella speranza di rispondere alla sempre più pressante richiesta collettiva di ritorno all’ordine ed alla sociale, la sinistra tradizionale – PCI e sindacati – rinunciarono all’idea di cambiamenti profondi, strutturali del sistema economico, e si acconciarono a rivendicazioni di ridotto significato politico, tutte interne alle compatibilità del sistema. E, dunque, se gli anni ’70 iniziarono con l’entusiasmo dei grandi cambiamenti in corso o attesi, finirono, invece, con la consapevolezza della fine imminente di una fase di grandi speranze e di un riflusso verso arretrate posizioni politiche, culturali, civili. Simbolo del riflusso politico e civile in corso, fu il governo di Margaret Thatcher, in Inghilterra. Thatcher governò l’Inghilterra dal 1979 al 1990, aprendo una guerra senza esclusione di colpi contro i sindacati dei lavoratori, e riuscendo, in definitiva a sconfiggerli pesantemente: da quella sconfitta storica, i sindacati inglesi, precedentemente fortissimi, non sono ancora riusciti a riprendersi del tutto. I governi Thatcher operarono per un drastico ritorno alle politiche liberiste (questo ritorno venne definito neoliberismo), con una conseguente estesissima privatizzazione di beni precedentemente in mano pubblica e con l’eliminazione di buona parte delle norme che, fino ad allora, regolavano l’attività economica privata (la cosiddetta deregulation). GLI ANNI DELLA REPUBBLICA: GLI ANNI ‘80 Gli anni ’80 si aprono, dunque, su questo scenario: una fortissima ondata di riflusso su posizioni moderate ed apertamente di destra … il Cile, da una parte; Margaret Thatcher, in Inghilterra; compromesso storico, governi di solidarietà nazionale … ma anche ristrutturazione della FIAT, con il licenziamento di decine di migliaia di lavoratori, in Italia. Un’ondata neoliberista radicale e generalizzata: una guerra aperta dei ricchi contro i poveri, per il ripristino integrale dei loro privilegi intaccati dalla forza delle lotte operaie e per il ritorno ad un rapporto di classe fondato sulla mera subordinazione dei lavoratori rispetto agli imprenditori. Un’onda lunga – nella quale ancora oggi stiamo e della quale ancora oggi paghiamo le conseguenze che non poteva non avere gli Stati Uniti come soggetto protagonista. Ed infatti, nel 1981, viene eletto presidente della Repubblica Ronald Reagan. Questi riuscirà a tenere quella carica fino al 1989: per due mandati consecutivi. 55 Reagan era un così convinto assertore delle dottrine economiche neoliberiste che, queste ultime, spesso, sono state definite reaganomics cioè, insomma, le dottrine di politica economica del governo Reagan. In Italia, la ventata neoliberista fu interpretata da un socialista – Bettino Craxi – che guidò i governi dal 1983 al 1989: non ci si meravigli del fatto che un socialista sia stato portabandiera di politiche economiche di destra! Questo, purtroppo, è capitato spesso nella storia, tanto da poter legittimare lo slogan che “le politiche di destra le fanno meglio quelli di sinistra”. Ed, infatti, Craxi riuscì a sferrare colpi durissimi ai sindacati dei lavoratori, togliendo la scala mobile (che garantiva automaticamente l’adeguamento dei salari e delle pensioni al costo della vita, limitando drasticamente l’esercizio del diritto di sciopero, mettendo in discussione lo Statuto dei lavoratori … e le conseguenze ultime le abbiamo avute in questi anni, con l’eliminazione dell’art. 18). Tanto sono stati progressivi gli anni ’70, quanto regressivo il decennio ’80. Ciò malgrado – malgrado la drastica riduzione dell’intervento pubblico in economia e la semplificazione, sotto ogni profilo, dell’iniziativa economica privata – gli anni ’80 sono stati, in Italia, gli anni dell’esplosione del debito pubblico: gli anni in cui il debito pubblico ha superato il 100% del PIL, diventando praticamente ingestibile. Come mai, visti i tagli alle pensioni ed ai salari… visti i ticket sanitari… visto il blocco del turn over negli enti pubblici… la dismissione dei beni e delle imprese pubbliche… come mai, malgrado tutto questo, il debito pubblico aumenta? E’ su questa domanda che finisce il decennio ’80 e si aprono gli anni ’90. GLI ANNI DELLA REPUBBLICA: GLI ANNI ‘90 Il 17 febbraio 1992 venne arrestato a Milano Mario Chiesa, un dirigente del Partito Socialista di quella città. Venne arrestato in flagranza di reato, nel momento in cui, in qualità di presidente di una casa di riposo, il Pio Albergo Trivulzio, intascava una tangente da un imprenditore. A seguito dell’arresto di Mario Chiesa, la procura di Milano, guidata da Francesco Saverio Borrelli – un anziano magistrato di cultura liberale – avviò le indagini per scoprire i vari aspetti della vicenda e per accertare se vi fossero altri casi di corruzione simili a quello che aveva coinvolto Mario Chiesa. Il pool di magistrati che si occupò delle indagini, sotto la guida di Borrelli, comprendeva gente come Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco … insomma, non proprio un gruppo di comunisti!, piuttosto un gruppo di bravi magistrati, politicamente eterogeneo (ma piuttosto su posizioni di destra liberale). Il filone di indagini che venne avviato fu denominato mani pulite e, di qui, la denominazione del pool: pool di mani pulite. Le indagini di mani pulite portarono a scoprire un sistema corruttivo che aveva coinvolto, ormai, tutti i partiti che avevano governato lo Stato, le Regioni e le città in Italia: un sistema così diffuso e così ormai usuale, che per ogni appalto affidato da un ente pubblico ad un’impresa privata era previsto un tabellario che stabiliva, a seconda del valore economico dell’appalto, la percentuale che l’imprenditore avrebbe dovuto pagare al partito (o ai partiti al governo dell’ente), al singolo (o ai singoli) personaggi politici che si erano occupati dell’affidamento dell’appalto. Denaro – un’enorme quantità di denaro – che i corrotti utilizzavano per finanziare l’attività del proprio partito (finanziamento illecito ai partiti) o per arricchimento personale (corruzione o concussione). 56 Un’enorme quantità di denaro intascato illecitamente da soggetti privati (dirigenti politici e partiti politici) e proveniente dalle casse pubbliche: denaro dei cittadini, versato nelle casse pubbliche attraverso le imposte. Infatti, gli imprenditori che si dichiaravano disponibili a pagare le tangenti ai politici, pretendevano, tuttavia, di aumentare il prezzo dell’appalto, così che, in definitiva, pur pagando la tangente, il proprio margine di guadagno sarebbe rimasto inalterato. E, dunque, qualunque opera pubblica, in Italia, veniva ad avere prezzi enormemente più elevati che negli altri Paesi europei: un chilometro di autostrada o di ferrovia, un ospedale, una scuola, la gestione delle mense negli asili nido, la manutenzione del sistema fognario o dell’illuminazione pubblica … tutto costava enormemente di più. Tutto questo sistema venne denominato tangentopoli: poli, cioè una polis… una città… uno Stato fondato sulle tangenti… Non un fatto corruttivo singolo, non un ladro, non una truffa … non uno… un intero sistema: l’intero sistema fondato sulle tangenti… Dunque, il debito pubblico, giunto a livelli enormi, superiori allo stesso Prodotto Interno Lordo, non era tanto dovuto al peso delle pensioni, degli stipendi pubblici, della cassa integrazione, delle spese per la sanità e dell’istruzione, etc., come volevano farci credere. Era, invece, dovuto alle malversazioni nella gestione della cosa pubblica: all’uso privato ed illecito del denaro pubblico allo scopo di finanziare i partiti o per arricchimento personale. L’indagine di mani pulite portò in galera quelli che fino a qualche tempo prima erano stati ai vertici dello Stato, delle più grandi imprese pubbliche e private, delle Regioni e dei Comuni. Fu una decimazione di potenti: di un’intera classe dirigente e, con essa, dei partiti che questa classe dirigente aveva diretto. Alcuni non ressero all’umiliazione del carcere e si suicidarono. Altri, proprio per sfuggire all’arresto, scapparono all’estero: Craxi, in Tunisia e lì morì. Altri ancora scomparvero dalla vita politica, essendo diventati bersaglio facile dell’ira dell’opinione pubblica. I partiti di governo – DC, PSI, PRI, PSDI, PLI – scomparvero improvvisamente dalla scena politica. Anche il PCI scomparve – come tale – dalla scena politica ma, in questo caso, non per corruzione, ma per il cambiamento del nome – da PCI a PDS, Partito Democratico della Sinistra – che quel partito decise a seguito del crollo del muro di Berlino e del modello comunista sovietico. Ci si è chiesto come mai le indagini di mani pulite abbiano colpito tutti i partiti, tranne che il Partito Comunista. Si è detto che mani pulite è stato un complotto delle toghe rosse: dei giudici comunisti. Si tratta di sciocchezze. L’abbiamo detto: il pool di mani pulite era tutto, tranne che comunista! Il PCI è rimasto fuori dalle conseguenze delle indagini di mani pulite per varie ragioni, ma prima di tutto per una assai semplice: e, cioè, che non è chi sta all’opposizione che affida gli appalti; dunque, non è chi sta all’opposizione che può pretendere tangenti in cambio dell’affidamento di appalti. Se il PCI fosse stato al governo, forse avrebbe fatto le stesse cose che hanno fatto gli altri… ma non sono state queste le circostanze e, dunque, non è possibile dirlo. Parallelamente alle indagini di mani pulite, si sviluppa in Italia il dibattito intorno all’anomalia italiana. Si cerca di comprendere come mai un simile sistema corruttivo sia nato e si sia strutturato proprio in Italia, solo in Italia, senza nulla di corrispondente negli altri Paesi europei. In questi sì, certo, ci sono stati e ci sono esempi di politici corrotti, di furti perpetrati ai danni dei cittadini… ma non un sistema, non un’intera organizzazione finalizzata al furto di denaro pubblico! Un dibattito importante, perché se si comprendono le ragioni di questa singolarità, forse si riesce a trovare anche la terapia da mettere in atto affinchè queste cose non accadano più: per normalizzare il sistema italiano, per renderlo simile a quello degli altri Paesi europei. Nel dibattito, tutte le forze politiche, pur da punti di vista tecnicamente diversi, tutte le forze politiche concordano che l’anomalia italiana, ciò che fondamentalmente distingue l’Itala dagli altri Paesi 57 occidentali, sta in questi due elementi: la mancanza di stabilità politica e la mancanza di alternanza al governo. In Italia, a differenza degli altri Paesi, non c’è stabilità politica, né c’è alternanza di governo. Non c’è stabilità politica, nel senso che i governi, che dovrebbero per Costituzione durare 5 anni, durano invece, mediamente, un solo anno: dopo di che, una crisi di governo provvede a far cadere quel governo ed a richiedere la formazione di uno successivo. E siccome la formazione di un governo necessita della fiducia del Parlamento – e questa non è detto che venga data: cioè che in Parlamento si formi una maggioranza che sostenga con la sua fiducia il governo – il rischio – spesso verificatosi nella storia italiana – è che il Presidente della Repubblica debba sciogliere il Parlamento ed indire elezioni anticipate. Per effetto dell’instabilità, in Italia si sono succeduti l’uno all’altro infiniti governi … ma, tutti, pressochè identici: tutti, dal 1948 in poi, retti sostanzialmente sulla Democrazia Cristiana ed i suoi storici alleati (PRI, PSDI; con la sola variante dell’alternativa tra PSI o PLI o, come negli anni ’70, della compresenza di entrambi). Un’infinita serie di governi tutti politicamente uguali: sempre la DC al governo; sempre, all’opposizione, il Partito Comunista. In Italia, fino al 1993, non era mai capitato che la DC andasse all’opposizione ed il PCI al governo. In Inghilterra, storicamente, un periodo di governi laburisti segue ad un periodo di governi conservatori, e così di seguito; negli Stati Uniti ad un periodo di governi repubblicani, seguono, prima o poi, governi democratici; in Francia, ai governi liberali seguono quelli socialisti; in Germania ai governi socialdemocratici, seguono quelli cristianodemocratici… Insomma, in tutti i Paesi occidentali vi è alternanza di governo, meno che in Italia. Questo è il ragionamento che fanno le forze politiche a quell’epoca (non è molto diverso da quello che, ancora, fanno oggi). Bisogna fare in modo che anche in Italia vi sia, come negli altri Paesi, stabilità ed alternanza. Anche perché se non vi è alternanza si riduce il livello di controllo sulla gestione del denaro pubblico: se un partito sa che dopo il suo governo potrebbe giungere il governo degli attuali oppositori, sta più attento a fare un uso corretto del denaro pubblico, perché, altrimenti, il prossimo governo potrebbe denunciare all’opinione pubblica ed alla magistratura le malversazioni compiute. E, d’altra parte, se un governo (ed un Parlamento) non sono stabili – nel senso della durata della legislatura – non possono nemmeno essere efficienti: i procedimenti legislativi ed amministrativi sono lunghi … e se un governo non dura almeno una legislatura, non ha nemmeno il tempo di vedere approvati le proprie deliberazioni… Ecco, questo il ragionamento che si fece a quell’epoca e queste le connessioni tra assetto politico e gestione del denaro pubblico. Ma come fare a garantire all’Italia stabilità ed alternanza? Un’operazione di questo tipo avrebbe richiesto una revisione della Costituzione – qualcuno proponeva la trasformazione dell’Italia in uno Stato simile agli Stati Uniti o alla Francia; qualcun altro proponeva l’eliminazione del Senato e la trasformazione del Parlamento italiano in un Parlamento monocamerale; altri ancora proponeva di rafforzare i poteri del governo… - ma, farlo, non era semplice, né veloce. Modifiche della Costituzione, infatti, avrebbero richiesto l’approvazione di una legge costituzionale, visto che la Costituzione italiana è rigida e, dunque, secondo l’art. 138, modificabile solo tramite legge costituzionale: con tutte le difficoltà del caso (tempi lunghissimi, maggioranze altissime e difficilmente raggiungibili, probabilità del referendum confermativo…). La situazione politica degli inizi degli anni ’90 – con la corruzione dilagante resa evidente dalle indagini di mani pulite, la conseguente fine di un’intera classe politica di governo, il debito pubblico giunto a livelli assolutamente insostenibili – non consentivano di aspettare i tempi lunghi della riforma costituzionale. Sotto questo profilo, la discussione continuò, certamente; ma, sul piano operativo, si decise di procedere all’unica riforma che non richiedesse una modifica costituzionale: la modifica della legge elettorale. 58 La legge elettorale è la legge che stabilisce il sistema elettorale adottato in un determinato Paese, per l’elezione di un determinato organo rappresentativo (in questo caso, il Parlamento). Dalla caduta del fascismo in poi, il sistema elettorale italiano era sempre stato proporzionale, in contrapposizione, dunque, con la scelta maggioritaria del fascismo nel ’23. Bene, con la riforma elettorale del 1993 si tornò ad un sistema elettorale maggioritario (sebbene, ovviamente, diverso rispetto a quello ideato dal regime fascista). Con questo nuovo sistema elettorale, ci si preparò alle elezioni politiche previste nel 1994. Il ragionamento alla base della riforma elettorale era questo: con il maggioritario si riduce il numero dei partiti; fondamentalmente, alle elezioni si presentano due soli partiti: i più grossi, quelli che possono aspirare a vincere. Dunque, con questo sistema è probabile che un partito riesca ad ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento ed a formare un suo governo: si formeranno, perciò, governi monocolore (formati da un solo partito). Il partito che non esce vincitore alle elezioni, in Parlamento starà all’opposizione del governo. Un governo monocolore è più stabile di un governo di coalizione: avremo raggiunto, perciò, la stabilità politica. Allo stesso tempo, si potrà raggiungere anche l’alternanza di governo: perché, se le cose vanno male, se il Paese è governato male, non sarà possibile per il partito al governo scaricare su altri la responsabilità (come, invece, capita nei governi di coalizione). Agli elettori sarà, perciò, chiaro che, se le cose vanno bene il merito è del partito al governo e, dunque, alle prossime elezioni gli confermeranno il voto; se le cose vanno male, le colpe sono del partito al governo e, alle prossime elezioni, voteranno per il partito che è stato all’opposizione. In questo modo, si innescherà un meccanismo analogo a quello dei Paesi anglosassoni, l’alternanza, appunto: per un periodo governa un partito; poi, dopo alcuni anni, toccherà governare all’altro partito. Ma, la logica di questo ragionamento cozza radicalmente con la complessità della società civile e politica italiana. Non è per il fatto che due sistemi elettorali sono identici (o, come nel caso in questione, simili), che due società diventano identiche (e nemmeno simili). Dunque, malgrado la riforma elettorale, l’Italia non diventa un Paese come l’Inghilterra: non si trasforma in un Paese bipartitico come, invece, da sempre, è l’Inghilterra. L’Italia rimane un Paese multipartitico: come è stata sempre nel corso della propria storia. Ed è così che alle elezioni del 1994 si presentano sì, in due… ma non due partiti … ma due poli: due coalizioni, una di centro-destra (formata da Forza Italia, Lega nord ed Alleanza Nazionale) – denominata Casa delle libertà; l’altra di centro-sinistra (formata dal PDS, Rifondazione Comunista e Verdi) – denominata l’Ulivo. Per effetto della legge elettorale, il sistema dei partiti italiano, anzichè diventare bipartitico, è diventato bipolare. Qualche parola va spesa sulla composizione delle due coalizioni. Per quanto riguarda la casa delle libertà, la novità fondamentale è Forza Italia. Un partito creato ex novo da Silvio Berlusconi, sceso in politica nel 1993, per impedire quella che, all’epoca sembrava dovesse essere una vittoria scontata dei comunisti (o degli eredi dei comunisti: il PDS). Per costruire questo nuovo partito, Berlusconi mobilita Publitalia, la società del gruppo Fininvest incaricata di raccogliere la pubblicità sui canali televisivi del gruppo e, dunque, vera cassaforte del gruppo stesso. Publitalia viene incaricata da Berlusconi di adoperare tutte le proprie energie per garantire la buona riuscita di un nuovo marchio, questa volta non commerciale, ma politico: il simbolo del suo nuovo partito e, col simbolo, il partito stesso alle prossime elezioni politiche. La Lega nord è l’espressione politica di quel movimento secessionista, vagamente (o propriamente) razzista, che si diffonde e si radica nel settentrione d’Italia negli anni ’80. Ed Alleanza Nazionale è il partito (precedentemente denominato Movimento Sociale Italiano) che raccoglie l’eredità dei nostalgici del regime fascista. 59 L’Ulivo, invece, capeggiato da Romano Prodi, sembrava realizzare un antico sogno della sinistra: quello dell’unità tra le sue tante, distinte anime. Il PDS era nato dalla rinuncia del PCI al riferimento al comunismo, a seguito della caduta del muro di Berlino nell’89. Rifondazione Comunista, raggruppava, invece, coloro che mantenevano vive le istanze della rivoluzione sociale e del superamento della società capitalistica. I Verdi rappresentavano quella parte della sinistra più attenta alle nuove tematiche ecologiste e della salvaguardia dell’ambiente contro un modello economico iperproduttivista e dissipatorio delle risorse naturali scarse del pianeta. Due… sì… ma due coalizioni. Tra le due, in modo del tutto inaspettato, alle elezioni del 1994 vince la Casa delle libertà e Presidente del Consiglio diventa Silvio Berlusconi. Il Governo Berlusconi dura due anni. Dopo due anni, la Lega esce dalla coalizione e va all’opposizione, accusando Forza Italia e Berlusconi di essere mafiosi ed Alleanza Nazionale di essere fascista. Il Governo, dunque, perde la maggioranza in Parlamento. Si va a nuove elezioni dopo appena due anni dall’inizio della legislatura. Alle elezioni del 1996 si ripresentano le stesse coalizioni: il Polo delle Libertà (ex Casa delle Libertà) e l’Ulivo. Questa volta, a vincere è l’Ulivo: e Prodi diventa Presidente del Consiglio. Il Governo Prodi dura due anni: sarà Rifondazione Comunista a determinarne le caduta, in dissenso sulla politica pensionistica del governo. Non si va, però, alle elezioni anticipate, perché, nell’ambito del centro-sinistra, si riesce a riformare un accordo per sostenere un nuovo governo. Durante quella stessa legislatura si susseguiranno – dopo il governo Prodi – quello D’Alema e quello Amato. Si va alle elezioni nel 2001: di nuovo le stesse coalizioni. Vince Berlusconi. Etc. etc. etc. … fino ai giorni nostri. Insomma: nel 1994 vince il centro-destra; nel 1996 vince il centro-sinistra; nel 2001 vince il centrodestra; nel 2006 vince il centro-sinistra; nel 2008 vince il centro-destra; nel 2013 vince il centro-sinistra… e siamo ai giorni nostri. Un merito (se tale è) la riforma elettorale l’ha avuto: quello di aver affermato l’alternanza al governo. Ciò che non pare proprio essersi affermato è la stabilità politica. Malgrado la riforma, nessun governo è riuscito a durare – come dovrebbe – l’intera legislatura ed, anzi, a volte, si è dovuto ricorrere alle elezioni anticipate. D’altronde, le indagini della magistratura hanno messo in rilievo come non pare proprio che alle malversazioni ed alla corruzione nell’uso del denaro pubblico sia stato posto alcun argine. Anzi, al contrario, quelle indagini hanno spesso rilevato come, per effetto dell’istituzione delle Regioni e del decentramento amministrativo, i centri di uso illecito del denaro pubblico siano stati moltiplicati: non più soltanto governo, enti e società dell’amministrazione centrale dello Stato; ma anche gli enti pubblici territoriali, gli enti e le società alle quali essi partecipano. Una grande festa, ad ogni livello, fatta a spese e col denaro dei cittadini. Tale è la situazione che, ancora oggi si continua a parlare di riforma elettorale (solo da pochissimo tempo è stata approvata una nuova legge elettorale che va sotto il nome di Italicum) e siamo in attesa che venga convocata la data di un referendum costituzionale convocato per confermare una riforma costituzionale approvata dal Parlamento a strettissima maggioranza ed osteggiata da una vasta parte delle forze politiche, dell’opinione pubblica, dei magistrati e degli studiosi del diritto. 60 Vedremo come andrà a finire. L’Italia sembra essere condannata a permanere inesorabilmente nel limbo di trasformazioni sempre annunciate, sempre apparentemente imminenti e mai effettivamente realizzate. IL CONTESTO INTERNAZIONALE: L’U.E. Le vicende politiche e costituzionali italiane avvengono in un contesto internazionale per lungo tempo segnato dalle vicende della guerra fredda e della corsa agli armamenti: insomma, segnato dal dominio delle due grandi superpotenze – Stati Uniti ed Unione Sovietica – uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale. Un dominio al quale l’Europa ha cercato, in qualche misura, di rispondere per non restarne schiacciata, soprattutto da un punto di vista economico. E’ proprio in ragione di questa preoccupazione che si spiega la nascita, nel 1951, della CECA: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio . A questa associazione aderirono sei Paesi europei e, tra questi, l’Italia, con l’intento di praticare delle politiche comuni in specifici settori – quelli, appunto, del carbone e dell’acciaio – all’epoca fondamentali per la crescita e per il funzionamento dell’intero sistema economico. Si ricordi, infatti, che l’acciaio, all’epoca, risultava essere la materia prima fondamentale in quasi tutti i settori (in seguito la plastica finì per prendere il suo posto) ed il carbone risultava essere la fonte di energia principale per la produzione in generale e per quella dell’acciaio nello specifico. Attraverso la CECA, dunque, i Paesi aderenti pensavano, coalizzandosi, di poter resistere alla fortissima concorrenza delle due grandi superpotenze e, per questa via, evitare la dipendenza economica dalle stesse. Evidentemente, l’esperimento avviato nel 1951 con la CECA funzionò – o sembrò funzionare – se, nel 1957, col Trattato di Roma, gli stessi sei Paesi diedero vita alla CEE - Comunità Economica Europea – con l’intento di allargare la collaborazione economica ed il libero scambio a tutti i settori economici. Progressivamente, nel tempo, ai primi sei Paesi aderenti andarono a sommarsi altri Stati: la Comunità si allargò sul piano territoriale e si allargò anche da un punto di vista politico, dei poteri attribuiti all’organizzazione comune, piuttosto che ai singoli Stati. Ed infatti, l’istituzione di un’area di libero scambio in ogni settore – libero scambio delle merci, dei servizi, del capitale e delle persone – non era immaginabile se non omologando ad una stessa normativa tutti i settori della vita civile e sociale dei Paesi aderenti. Insomma, se, ad esempio, i prodotti agricoli dovevano circolare liberamente in tutti i Paesi aderenti, dovunque fossero stati prodotti, be’, allora, dovevano essere prodotti dappertutto rispettando le stesse regole: ad esempio, evitando, in ogni caso, di utilizzare determinati pesticidi chimici ritenuti dannosi per la salute… E così anche per i prodotti industriali: per esempio le automobili, dovunque prodotte, dovevano comunque rispettare determinati standard comuni di sicurezza e di rispetto dell’ambiente… Dovevano esserci, dunque, delle normative comuni a regolari le produzioni industriali e quelle agricole. Ma un discorso analogo valeva per le persone. La libera circolazione delle persone implicava un sistema comune di controllo amministrativo sulle stesse che consentisse, per esempio, la cattura di un determinato soggetto che fosse fuggito da un Paese per rifugiarsi in un altro allo scopo di sfuggire ad una pena irrogatagli nel Paese di appartenenza. E così per quanto riguarda la circolazione delle persone allo 61 scopo di cercare lavoro. Se un italiano può decidere di andare a fare il commercialista in Germania, allora il titolo di commercialista in Italia e quello in Germania devono essere equipollenti, cioè, sostanzialmente equivalenti: e questo implica l’equipollenza dei percorsi di studio per diventare commercialista. Allora occorre l’omologazione delle normative sulla scuola e sull’università in tutti i Paesi aderenti alla Comunità. E questo vale per i commercialisti, ma anche per i ragionieri, per gli avvocati, per i medici, etc. etc. etc.. E vale anche per le aziende di servizio: per esempio, per le banche, per le assicurazioni, per gli alberghi… Se ad un italiano deve essere liberamente consentito di aprire un ristorante in Germania, allora la normativa relativa all’apertura di queste attività in Italia deve essere simile (o identica) a quella vigente in Germania, e viceversa. Insomma, ci si accorse che l’integrazione economica ed il libero scambio richiedevano un’integrazione più generale delle normative dei Paesi aderenti: da quella fiscale e di bilancio, a quella sulla salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza alimentare, a quella sulle scuole e sulle università, a quella sul lavoro, etc.. E che, dunque, la comunità dei Paesi aderenti non potesse più essere una semplicemente una Comunità Economica, ma che dovesse diventare una Comunità economica e politica. Nel 1993, col Trattato di Maastricht, la Comunità Economica Europea divenne Unione Europea (UE), abbandonando, anche nella denominazione, ogni riferimento specifico alla materia economica. Il processo di allargamento dell’Unione si è spinto fino al punto che oggi aderiscono alla stessa 27 Paesi europei: 28 fino a qualche mese fa, cioè fino all’uscita dall’Unione della Gran Bretagna. Per effetto del processo storico che ha portato alla sua nascita e per la sua attuale conformazione giuridica, possiamo definire l’Unione Europea come un’organizzazione sovranazionale deputata alla realizzazione del libero scambio delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone, attraverso un processo generalizzato di integrazione tra tutti i Paesi ad essa aderenti. Tanto estesa è stato il processo di integrazione che, a partire dal 2001 (e dal 2002 per l’effettiva circolazione) si è istituita la moneta unica – l’euro – in sostituzione delle monete che precedentemente circolavano nei singoli Stati. L’insieme dei Paesi che hanno accettato di adottare l’euro come propria moneta e, per farlo, si sono assoggettati al rispetto di determinati criteri esplicitamente previsti dal trattato (i cosiddetti parametri di Maastricht) formano quella che si chiama zona euro, o eurozona: attualmente essa conta 19 Paesi aderenti tra i quali, ovviamente, l’Italia. Integrare i sistemi economici, industriali ed agricoli, i settori dei servizi, la scuola e l’università, i sistemi fiscali … significa emanare norme giuridiche valevoli in tutti i Paesi aderenti all’Unione, e ciò comporta il problema di darsi una struttura democraticamente legittimata a stabilirle quelle norme giuridiche, secondo procedure determinate precedentemente ed accettate da tutti gli Stati aderenti. Insomma, l’Unione ha dovuto dotarsi di una struttura organizzativa analoga a quella di uno Stato e composta da organi legislativi, esecutivi e giurisdizionali. Per questo è bene dire che l’Unione Europea è un’organizzazione sovranazionale: cioè, un’organizzazione dotata di sovranità, di potere impositivo. E come sempre in questi casi, la determinazione degli organi e delle procedure è rimessa all’emanazione di una Costituzione. Una sorta di (complessa) Costituzione europea è contenuta nel Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009. Essa prevede che l’Unione Europea funzioni attraverso la seguente struttura, sinteticamente indicata: 62