METAFORE DELLA REDENZIONE
INTRODUZIONE
Ognuno ha della metafore, delle parole-chiave, che sono come delle spie, nel modo di pensare e di
vivere e di cui è bene che prenda coscienza (vedi allegato). Sarebbe bello poi che ognuno scrivesse,
cosa associa alle parole “metafora” e “redenzione”, ad ogni livello. È bene porsi queste domande
per prepararsi ad esplorare il paesaggio che stiamo per esplorare, affinchè lo si possa fare proprio; è
bene chiedersi cosa si vuole scoprire ed elevare, cosa si vuole unire della propria biografia al tema
del corso che sta per iniziare.
La metafora
Come mai si chiama Prodi “professore” o “parroco di campagna”? E come mai Berlusconi
“cavaliere” o “caimano”? Cosa sono queste parole: metafore, etichette, altro? E cosa dicono di loro
come persone e come incarico che ricoprono? Esse sottindono un “è come un” che è lo spiraglio di
un tranfert, che apre ad infinite interpretazioni. E che dire di don Fabrizio “Il gattopardo”? Come
leggere la sua figura di padre stranamente intellettuale, quando per Freud sono solitamente i figli
che lo sono? Come leggere questo attardato-aggiornato? Come inquadrare questo aristocratico che
parla e critica dal di dentro l’aristocrazia sconquassando le idee comuniste? Il gattopardo poi è un
felino elegante, ma come unirlo al suo carattere titubante? Va subito detto che una metafora non
sostituisce il soggetto, ma crea in esso una tensione ulteriore, aumentandone il campo di
interpretazione. E che dire di “Morte a Venezia”, altro romanzo voyeuristico, scritto da un
aristocratico, e che presenta anch’esso un’umanità decadente, ma che ha avuto molto successo forse
perché ricorda ad ognuno di noi che in fondo siamo tutti decadenti, che facciamo fatica a vivere.
“Achille è un leone”, quella copula “è” indica uno sfasamento di concetti. “Gesù è il leone di
Giuda”, cosa mi dice di Gesù questo appellattivo isaitico, come lo riqualifica? E che differenza c’è
tra l’essere leone di Achille e l’essere leone di Giuda? Notare che il linguaggio metaforico è
strettamente legato al linguaggio delle passioni umane, è infatti dall’ira, dalla libidine ecc. che nasce
il coraggio della metafora (cf Summa Theologiae I-II q.22-48). Gesù poi è presentato come agnello,
pecora da macello, pastore, porta, sposo, sacerdote, signore, servo, vittima ecc. Quali sono le
logiche dietro a queste metafore? Come costruire una cristologia a partire da esse? Cosa
evidenziano di noi uomini? Chi usa queste metafore e a quale pro? Normalmente poi un leone
sbrana l’agnello, il signore non è il servo ecc. cosa ci dicono esse della medesima persona?
Tutte le metafore seguono di sicuro un’altra logica rispetto a quella ontologico-dogmatica, il
“come” della metafora è infatti un processo e non una constatazione, è una dinamica semantica di
significazione e realizzazione della realtà, è un processo che si intenta alla logica dei concetti, uno
scassinarne le porte. Ogni metafora lascia infatti tanti spazi di manovra e se aiuta a leggere il
soggetto è a sua volta letta dal soggetto. Vediamo ora cosa opera il processo metaforico:
- Un transfert, un trasferimento di valore, ma anche una proiezione nel senso freudiano. Ogni
volta che si usa una metafora, bisogna però calcolare bene i costi che entrano in gioco,
perciò vanno usate con un minimo di sobrietà e di decoro, soprattutto in un contesto poetico.
In questo contesto il loro uso segue infatti delle regole quasi matematiche, anche perché più
precisa è una metafora, tanto più essa ci svincola e ci libera, mentre il pressapochismo è già
un segno di non libertà, di sciatteria, di indolenza.
- Un trasporto, sia in senso vecchio che nuovo, e quindi sia estatico-mistico-alchimistico che
uno spsostamento fisico. La metafora spesso e volentieri è infatti estranniante, alienante,
strasecolante (porta fuori del tempo), spaesante (porta fuori dallo spazio).
La metafora richiede dunque notevole prontezza intellettuale e prudenza, perché in questo campo
tutto è promettente e niente è innocente, perciò ci vuole capacità di interpretazione, cura linguistica
ed avvedutezza, senza prendere le metafore come cifre o come concetti.
Se usata bene, la metafora porta dunque un rinnovamento inaudito di modo che tra linguaggio,
visione del mondo ed interlocutori si instaura un rapporto molto creativo. La metafora è dunque
come il sacramento linguistico della novità, che ha come “materia” qualsiasi elemento reale.
Basta guardare come Gesù dia ad ogni simbolo un simbolo anche metaforico. Così la risurrezione di
Lazzaro è insieme simbolo e metafora: simobolo della forza divina e metafora della risurrezione.
Ma a ben vedere per Gesù ogni elemento della terra, che era già inteso in senso simbolico, diventa
materiale per la cucina alchimistica e metaforica del Regno dei Cieli. Le parabole sono metafore
allargate raccontate per trasformarci e giudicarci, ma allo stesso tempo vengono giudicate, perché
mettendole nella nostra vita, possiamo vedere se valgono la pena di essere tenute o rigettate.
La tesi di questo corso è mostrare come creazione, rivelazione e redenzione siano processi
profondamente metaforici tra verbo-linguaggio e realtà (e viceversa), tra vecchio e nuovo
significato (e viceversa). Tutti i misteri cristiani sono in fondo processi di passaggio, di cambio di
prospettiva. Così la croce senza la parola, sarebbe solo nuda e cruda realtà, senza significato
riscattante, ma allo stesso tempo la parola della croce senza la croce sarebbe un assegno scoperto,
pura ideologia. E chi copre questa operazione di trasferimento reale e linguistico? Arrivare al
baricentro-vortice della parola della croce è fondamentale. Proprio questo ultimo aspetto mostra
come nel linguaggio metaforico siano molto importanti aspetti economici, giuridici 1, animaleschi,
biologici, personali, cultico-drammatici ecc. e tutti questi sono solo campi di avvicinamento a
questo centro, perché prima di arrivarci ci vogliono molti preliminari.
Rapporto metafora-simbolo-concetto
Quale differenza tra metafora e simbolo? Per Salmann:
 Il simbolo è rinvio mimetico-rappresentativo ad un archè, ad un principio, ad un arcano,
rappresenta un retroterra in modo iconico-mimetico, presuppone una protologia e appartiene
più all’ontologia-gnoseologia dell’imagine con tutti i problemi che la mimesi porta con sé.
La metafora invece è più retorica, dischiude una dinamica escatologica, nuovi significati.
 Il simbolo poi è più estetico, la metafora invece è più sublime in senso kantiano e cioè
rinviante-rinnovante.
 Il simbolo è amministrato dai sacerdoti, la metafora dai profeti.
 Il simbolo è più per classici, la metafora più per gli utopici.
 Il simbolo è più legato alla verità, la metafora all’inveramento nel presente-avvenire.
 Il simbolo ha carattere di integralità, vuole essere pregnante ed epifanico di un retroterra
indicibile, la metafora invece è più critica e parziale rischiarando, e rischiando, di più.
Si può capire come in sacramentaria uno spostamento di accento dal simbolo alla metafora produca
effetti non indifferenti: es. il rapporto tra transustanziazione e transignificazione-transfinalizzazione.
Il concetto invece è la condensazione di un processo di concezione del rapporto tra simbolo e
metafora, è un coagularsi del rapporto tra i due. Legato al termine concetto c’è sia l’aspetto di
gestazione-maturazione che quello di prendere-afferrare e la concettualizzazione ha in effetti
entrambe gli aspetti e bisogna essere ben consci di come la prima richieda molto più tempo della
seconda. Comunque sia quando la concettualizzazione perde anche solo uno di questi aspetti è già
parola morta, che diventa scialba e materiale per le ideologie.
La metafora in sé è comunque difficilmente concettualizzabile, perché è un elemento polare. Vanno
dunque evitate una serie di enfatizzazioni perché:
 Non è buona una metafora senza retroterra simbolico, che diventa pura retorica isterica, ma
non è neanche buono un simbolo senza la metafora, che diventa così arcaico, pesante,
mimetico, ossessivo e si prende troppo sul serio.
 Un mondo senza simboli e metafore diventa semplicemente depressivo, perché non riesce
più a cogliere al realtà come traccia, rappresentazione e promessa.
 Un mondo con solo simboli e metafore, senza un minimo di organizzazione, diventa
selvaggio e quindi i concetti servono a dare un contenuto veritativo e fondativo. Proprio
questo fece ad esempio Calcedonia che dà una forma e fornisce un assetto concettuale e
ordinato al folto campo simbolico e metaforico.
1
Bei libri a tal proposito di un tal Satta sono “Il mistero del processo”, “Il giorno del giudizio” e altri suoi libri.
 Un mondo però con soli concetti e simboli, o soli concetti e metafore si fa ideologia. In
fondo i farisei avevano un mondo come il primo e i messianici come il secondo.
Cadere in una di queste enfatizzazioni porta nel regno del dia-bolico, che mina il regno sim-bolico.
Certo per essere capaci a metaforizzare e simboleggiare, bisogna avere a monte una forma mentale
capace di poter cogliere ogni cosa come segno. Insegnare d’altronde ha il significato di introdurre
l’allievo in un mondo di segni, nella significatività del mondo. D’altronde il segno è lo statuto del
definito, perché tutto è una traccia, un rinvio a qualcos’altro, ma ci vuole una mente che sappia
coglierlo. Oltre che una base formale, Salmann dice poi che questa capacità formalizzante è anche
ontologica, perché la pregnanza del finito è tale che è interpretabile come segno. Il nome di Dio è
infatti un nome arcaico, promettente, che rende possibile il prendere sul serio ogni cosa, e allo
stesso tempo la sua relativizzazione: l’invocazione-evocazione del nome di Dio rende possibile il
reale e la sua lettura come segno.
In questo corso sottolineeremo molto l’aspetto metaforico perché in fondo è stato parecchio
trascurato, negli ultimi secoli di teologia, come l’aspetto erotico a discapito di quello agapico, e poi
perché è più post-moderno. Il cristianesimo si è infatti troppo legato al concetto di morte,
trascurando ad esempio il carattere di nascita-rinascita, come anche a quello di redenzione piuttosto
che di creazione, ma il sopravvalutare l’uno rispetto all’altro, porta ad un cambio totale dell’ethos.
Si è assistito ad una lenta svolta linguistica simile alla vittoria di Platone sui sofisti, quando in fondo
Gesù stesso era un sofista nel senso nobile del termine, legato alla sophia. Ci inseriamo dunque
nella corrente dell’umanità di Gesù, quella perseguita dai vari umanisti (es. Erasmo) e che non ha
mai avuto abbastanza voce e nella quale ironia e consapevolezza linguistica si sposano. È infatti
sullo stile di vita cristiano che si decide la vita del credente. Proprio il tema dell’ironia, parte
integrante della metafora è molto importante, perché la sana ironia è benevolente, riscattante e
liberante e come non vedere nelle parabole di Gesù un tono fortemente ironico, che nessuna
concettualizzazione potrà mai sopire! Gesù aveva poi un’ironia fortemente irenica, perché l’ironia,
se non scade nel sarcasmo e nel cinismo, se viene accolta produce una sorta di pace interiore.
E ciò è importante non solo sul piano antropologico, ma anche sul livello teologico, tanto che per
Scoto Eriugena si deve imparare a vedere Dio come mistero del mondo e il mondo leggibile come
metafora di Dio. Quali tranfert operare tra Dio e mondo? Quando diciamo ad es. che Dio è Padre è
una metafora dirompente da leggere non tanto dal mondo a Dio, ma da Dio al mondo, che fa saltare
ogni codice genetico ecc. E così anche Dio come legislatore perché è Dio che alla fine rimetterà
tutto a posto, come lui solo saprà fare e diventa così critica di ciò che c’è in terra. Hanno, entrambe
questi termini, un forte potere trasformante.
La metafora del Regno dei Cieli
Entrando in questa metafora entriamo nel campo delle metafore spaziali che oggi sono cadute
purtroppo in disuso, soppiantate dalle metafore temporali, ma bisogna fare attenzione a questa
enfatizzazione, perché il tempo passa in fretta, è tiranno, mentre l’uomo è un essere che oltre ad
essere in cammino, cerca anche un habitat. La storia senza spazialità viene sovraccaricata di attese,
degenera in inferno, bolgia, tanto che il concetto di storia della salvezza ha permesso per i primi 1020 anni di respirare, ma poi è diventato una corrazza, un’ideologia, come tutto ciò che l’uomo crea.
Certo allo stesso tempo la spazialità senza temporalità … Il nostro parlare è poi intriso di spazialità,
ma noi abbiamo perso la grammatica di come attraversare, come entrare ed uscire da uno spazio
ecc. La liturgia post-conciliare poi è tutta un peccato contro gli spazi, perché gli spazi in cui si
celebra seguono una logica diversa da quella della liturgia conciliare, mentre il modo di celebrare è
strettamente collegato allo spazio in cui si celebra, c’è insomma un conflitto archetipale: per una
logica assembleare ci vuole un altro tipo di spazio. E si noti subito che la spazializzazione è cosa
ben diversa dalla localizzazione, che staticizza e blocca lo spazio. Ma veniamo al cielo e ai cieli …
Il cielo è il segno-simbolo-metafora più significativa e significante, è cosmologico, archetipo per
eccellenza, epifanico, trascendentale, promettente, crea un ordine, ci orienta, non lo si può
ingabbiare. Quando poi veniamo a sapere che Dio creò cielo e terra, capiamo che anche il cielo è
creato, tanto che anche lui passerà, ma ha uno speciale rapporto-relazione con Dio. E l’uomo è
posto con i piedi a terra e con di fronte il cielo. E si noti bene che le cattedrali gotiche e barocche,
fanno del cielo un elemento architettonico! Data poi la vastità di assonanze e consonanze
metaforico-simboliche, il cielo si presta molto alla preghiera, perché esso è: aperto e chiuso,
sottratto e prestantesi, tradito-svenduto-sciupato-sfiduciato-svuotato, illusione ed evento, invocato e
maledetto, aperto-squarciato-dischiuso e chiuso-sigillato, riservato ad angeli e passeri e allo stesso
tempo oggetto di speranza per gli uomini ecc. Ma analizziamo più nel dettaglio i vari significati:
1) È segno di differenza tra cielo e terra, ma anche tra cielo e Dio, sembra l’infinito, ma anche
lui passerà, è insomma un segno nato per marcare la differenza. Non per niente il Padre
nostro si inizia proprio dicendo «che sei nei cieli», creando una tensione tra Dio e cielo.
2) È un orizzonte, uno sfondo, una istanza trascendentale che ci permette di leggere tutto come
segno e come simbolo. Proprio questo suo carattere è il presupposto per la teoria culturale
del cristianesimo, perché leggendo tutto come provvisorio, si crea uno spazio per respirare, e
ci sono continui rinvii e capacità di rilettura. La sua presenza irraggiungibile promette e allo
stesso permette la lettura della fattualità, che si costituisce come segno possibile e come
simbolo epifanico. Il cielo esterno, richiama allo stesso tempo il mio cielo interno, tanto che
esiste un detto tedesco per cui i matrimoni si stipulano solo in cielo, tutto infatti inizia e si
conclude lì. Il dramma sacramentale del barocco vive proprio di questo, ecco perché le
chiese barocco sono perfette per ogni scena teatrale, compresa quella liturgica, perché tutto
ciò che avviene in esse trasfigura la nostra vita misera.
3) È simbolo epifanico ed archetipo di ciò che sarà il futuro compiersi dell’uomo, il paradiso. È
infatti il luogo da cui proveniamo e il luogo del nostro avvenire. In questo senso ad esso
sono associate molte altre immagini: città, banchetto ecc. ma quella più pregnante è quella di
giardino che è lo spazio tra il cielo e la terra, la natura e la cultura, la grazia e il lavoro ecc. è
insomma uno spazio pacificato, che garantisce a sua volta la pace, spazio abitabile che è a
sua volta promessa. Il giardino è dunque elemento cattolico per eccellenza! È curioso come
si sia persa proprio questa prospettiva paradisiaca nella predicazione cattolica e sia invece
ripresa da molti autori agnostici come ad esempio Cacciari che chiude due delle sue opere
con una visione paradisiaca segnata dall’ilarità e dalla serenità.
4) È utopia che ci dà un locus. Così il Salmo 19 (18) parla dei cieli e della luce e della lege che
porta in cielo ed è nuova luce. Bloch e Moltmann parlano in questo senso molto del rapporto
tra cieli e speranza, soprattutto Moltmann è un bambino escatologico che si diverte molto a
giocare con le metafore, proponendo un cristianesimo di ampio respiro, attraente, anche
perché da giovane non era cristiano e questo può far solo bene! E a ben vedere tutto nel NT
parla di questa prospettiva utopistica, non solo l’apocalittica. Basta vedere l’episodio della
Trasfigurazione, magari anche nella rappresentazione che ne ha fatto Raffaello, i cui cieli
limpidi e tersi sono promessa di leggerezza, di perdita della falsa pesantezza che
appesantisce l’uomo. Proprio la spigliatezza della Trasfigurazione ci fa vedere l’AT più
leggero di quello che di solito pensiamo, più fermento e levitazione. La grazia d’altronde è
proprio questo allegerire e non il rendere trasparenti, quella leggerezza graziosa di chi non
risolve l’enigma, ma lo trasforma in mistero, che è il luogo di coabitazione ideale della
Trinità e dell’Incarnazione-Vita-Morte-Resurrezione di Gesù: ciò che è diversissimo può
tranquillamente coabitare nel Regno dei Cieli, in cui tutto trova il suo posto, il suo luogo
ingenito e congenito e tutto si fa nascita tra me e te e tra me e Dio. Questa è la carica utopica
della novità dei cieli e le parabole di Gesù hanno proprio il compito di trasfigurare,
transignificare la logica della terra, la sua archeologia, in una dinamica promettente del
Regno appena descritto. Il cielo è così un segno, una cifra, è luogo di passaggio, di un
transfert tra protologico ed escatologico, spazio vissuto e spazio trinitario, tra promessa del
cielo e ordine ecc. È insomma la cifra di un orientamento nuovo, tanto che solo in cielo,
conoscendo il nome di Dio, conosceremo veramente anche il nostr nome. Certo la novità
non ha senso se non è ancorata e non nasce da un simbolo, ma la sapienza sta proprio nel
saper cogliere la logica metaforica dei simboli.
LA VITA E IL PENSARE COME SIMBOLI E PROCESSI METAFORICI
ESPRESSIVITÁ E ALTERAZIONE
Tutto ciò che esiste comunica e per esistere bisogna comunicare
Qualsiasi essere emette segnali, esistiamo in quanto operiamo creando intorno a noi una sfera
congenita e congeniale, in quanto siamo traduttori e traghettatori di noi stessi, perchè trasmettiamo
ininterrottamente dall’interno all’esterno e questo vale dalla piante fino a Dio, è un fatto ontologico
di ciò che è. Noi umani poi esprimendoci creiamo la nostra intimità riflessiva e si noti che esprimere
è cosa ben diversa dall’esternare, perché quest’ultimo processo non è riflesso. Oggi giorno l’ascesi è
dare un assetto alla logica della propria comunicazione, anche se in casi limite uno sfogo è più che
mai sacrosanto! Esprimersi simboleggiando è dunque atto fondamentale della vita, che è
conseguenza di una logica di comunicazione che spesso contiene anche del superfluo, del
lussurreggiante, che è in sé positivo: già il bambino infatti emette suoni sentendosi e gli uccelli
cinguettano ecc. In tutto questo c’è un che di esuberante, di grazioso a livello naturale, un invito ad
andare “oltre”, una traccia nella natura che richiama al soprannaturale.
Comunicazione come unione dell’aspetto passionale e quello etico
In tutta questa logica espressiva-simbolica-simboleggiante c’è un aspetto energetico, vitale,
emergente e linguistico-semantico e questi due aspetti vanno tenuti insieme, non si deve disgiungere
l’ethos dal pathos. Io mi esprimo perché c’è dentro di me una pressione-passione che porta alla
genialità, a vivere questa espressività come un atto di nascita e allo stesso tempo ingenuo.
L’espressività è dunque un processo di parto e di gestazione. Dall’unione di ethos e pathos nasce
infatti la cultura, è il connubbio di invenzione poetica e potenza-forza di immaginazione che porta
alla trasformazione della natura in cultura. Esse operano infatti un transfert sinestetico-sinergeticosensuale e sensato. Molti sono i filosofi e i teologi che insistono su questa metaforicità (vedere
bibliografia) e gran parte delle liturgie è proprio un cercare di dare forma al pathos della vita. È in
fondo il sinolo aristotelico, l’unione di materia e di forma, il legame tra ortoprassi e ortodossia, il
sapere cogliere il senso tramite i sensi e l’intelligenza.
Fessura simbolica originata dalla comunicazione che allo stesso tempo nasconde
In questa comunicazione congeniale, in questo gioco sorgivo, ognuno si rivela, si comunica
nascondendosi, emette segnali impegnandosi e investendosi (pathos attivo), ma così facendo allo
stesso tempo si vela, si nasconde (pathos passivo). Nessuno sa infatti esprimersi in maniera
congeniale, ma allo stesso tempo la nostra intimità si forma solo comunicandosi, solo
accompagnando ciò che faccio mi scopro. Nella comunicazione c’è sempre poi un sovrappiù di
espressività ed è per questo che un artista non si può spiegare, perché è l’atto comunicativo in
quanto tale che porta a scoprire qualcosa di nuovo in noi stessi che comunichiamo: c’è quindi una
sporgenza reciproca tra intimità ed espressività. Così, quando Dio si esterna in Gesù dice tutto e allo
stesso tempo allarga ancor più il paesaggio riguardo a Dio e poi un Dio che si fa uomo da un lato
esula da ogni idea di Dio e porta ad un doppio nascondimento, dall’altro lato il suo essere meta-tou
sa di alienazione esasperata. Esprimendosi dunque ogni persona in fondo si altera, tanto che ha
volte ci succede di dire “Qualcosa mi ha preso la mano”; ciò che io dico sono io che lo dico con la
mia voce, ma allo stesso tempo c’è anche un di più, ma allo stesso tempo ogni traduzione è anche a
rischio di tradimento. Questo “spazio” che si viene a formare nell’atto comunicativo è chiamato
fessura simbolica. Solo esprimendomi infatti divento io, ma rimane sempre una fessura tra pathos
attivo e pathos passivo. Così in fondo anche il gestio della fractio panis è visibilizzazione di questa
fessura e dice al contempo qualcosa di sacrificale e qualcosa che espone. Qualsiasi comunicazione
ha dunque qualcosa di pseudo-nimo e di anonimo, sfasa cioè la comunicazione stessa e mi cambia.
Qualsiasi rapporto è soggetto a questa legge per cui nel simboleggiarsi c’è anche un aspetto
diabolico che in sé è ancora neutrale e fa sì che ogni comunicazione sia in sé equivoca e
vulnerabile. Ciò potrebbe portare alla grande tentazione di non esprimersi, di mascherarsi nel
funzionale, ma è inutile perché qualsiasi cosa facciamo o non facciamo ci porta ad essere peccatori:
se non ci esponiamo manchiamo, se ci esponiamo sbagliamo…è il lato tragico della comunicazione!
Comunicazione come rapporto tra me e l’altro
Io mi trasformo esprimendo l’altro e questo processo di trasfigurazione può dunque anche essere di
sfigurazione. È già qui che si inserisce il dramma genitori-figli, marito-moglie ecc. Qualsiasi
comunicazione si fa dunque anche invocazione ed evocazione e comunicandomi ed esprimendomi,
faccio leva sull’altro, lo affronto e lo confronto, lo invito e lo provoco. La comunicazione è dunque
una presenza esponente ed efficace, è un atto sacramentale perché compie ciò che dice e così
facendo trasforma la materia di cui parliamo e i due interlocutori. È in questo linguaggio che nasce
la cultura, la lingua madre, il saper dare un nome alle cose. La madre infatti promette, come tale,
sempre qualcosa che poi magari non è in grado di mantenere ed ecco perché è utile la figura del
padre come istituzione del distacco, perché la madre non è Dio e il padre che è visto come
legislatore è in realtà una vicinanza che distacca e dà autonomia. Ecco quindi l’importanza di un
gesto come il Battesimo che è un gesto di nuova vita e segno di libertà, baricentro di un terremoto e
allo stesso tempo di uno stacco: la madre lascia il bimbo e lo riceve di nuovo e cambiato. Già lì nel
bambino si apre lo spazio del simbolico. Questo gesto è in sé un atto di religiosità naturale, di
simbolizzazione, un rito iniziatico. A tal proposito, oggi che la società non è più cattolica
bisognerebbe capire come distingure la religiosità archetipale dalla sacramentalità rituale,
personale-sociale-cristiano-ecclesiastico sono ormai quattro sfere talmente separate che molto
spesso la gente in chiesa mente semplicemente e di ciò bisogna tenerne conto. È il nostro futuro e se
non si prende come un’avventura, meglio andare tutti a casa! Nell’aspetto comunicativo è poi molto
importante il silenzio, perché il vero silenzio in fondo è un covare e la Parola di Dio ad esempio è
sempre preceduta e seguita da momenti di silenzio. Così certa voglia di rendere comprensibile tutto
nella liturgia, ha distrutto ogni comunicazione e ogni sacralità, perché abbiamo voluto rendere
comprensibile ciò che per natura sua non lo è ed abbiamo umanizzato i riti senza diventare umani.
A tal proposito sarebbe bello differenziare i vari modi di fare eucaristia: una più comunicativa, una
più silenziosa, una più adorativa ecc. e poi smetterla con questa cultura mono-eucaristica, esistono
anche molte altre liturgie. Se il Concilio è riuscito a funzionalizzare e desacralizzare il prete è
altrettanto vero che il prete non è mai stato così tanto il centro come lo è adesso! Bisogna cercar di
creare nuovi spazi per trasformare le varie situazioni umane in momenti in cui si intravede qualcosa.
Trinità come fondamento ontologico della simbolizzazione e della metafora
Il simbolo in sé non c’è, ma si costituisce nel processo simbolico che implica una vitalità ed un
processo sulla pertinenza. È in fondo la processione della seconda persona della Trinità vista come
Figlio (ambito familiare), Verbo (ambito dialogale) e Immagine (ambito estetico) è in fondo il
processo di autosimbolizzazione del Padre nella seconda ipostasi (Contra Gentiles 4,11). Così più
un essere è spirituale, più egli è espressivo, intimo e riflessivo.
Il dovere comunicativo è fondato sul e fonda il potere comunicativo
L’essere e tutto ciò che esiste, è la gioia e la sofferenza del potere e non del dovere: posso e quindi
devo. Devo mostrarmi e dirmi per non sopraffare e annientare l’altro; devo ascoltare per consentire; devo parlare perché l’altro possa parlare. Ecco quindi la reciprocità dei processi
trascendentali. Per cui dire è in sé stesso forza del dirsi, del darsi, del sentire e del consentire.
Occhio quindi a concezioni kenotiche esagerate che sono ontologicamente impossibile (vedi
Balthasaar): Dio infatti non è solo comunicazione, come l’uomo non è solo ricezione, entrambi sono
tutte e due gli aspetti e solo sui trascendentali si trova questo equilibrio.
RICETTIVITÁ E TRASFORMAZIONE
Percezione come incontro tra i dati e la mia immaginazione
Le foto percepiscono e riflettono l’indole del soggetto rendendolo allo stesso tempo artistico,
restituendogli la sua soggettività, la sua simbolicità, senza ridurre la persona a mero oggetto. Cosa
succede infatti quando percepisco? Avviene una azione passiva ed una trasposizione attiva che
trasforma l’oggetto in cifra e simbolo. Perciò percepire è in fondo riformulare, trasformare i dati
fisici tramite l’immaginazione e queste sono le famose species tomistiche. La parola è infatti già in
sé poliedrica, cifra e simbolo ed ogni sua rappresentazione oscilla tra interiorità ed esteriorità-
teatralità, tra oggetto e mia forza di immaginazione, tra maschera e verità, tra ruolo e persona, fino
alle rappresentazioni democratiche e vicarie, quando i genitori rappresentano il bambino e proprio a
ciò lo aiutano ad acquisire una propria fisionomia. Tra rappresentazione e species c’è quindi la
parola immaginazione che dà una forma a me e al mondo, perché a sua volta il mondo lascia una
traccia su di me, mi incide. L’immaginazione è dunque situata tra ricettività e spontaneità,
sensualità e concettualità, proiezione e realizzazione ecc. Data questa ambivalenza dell’immagine ci
vuole un giudizio su rappresentazione, specie e immagine, giudizio che sa di discernimento degli
spiriti. Si giudica dunque per distinguere tra realtà-specie-rappresentazione-immaginazione. Così il
giudizio incide e decide, ma per distinguere. Il foro è poi il luogo del sommo giudizio, promettente
al massimo, ma anche luogo incredibilmente diabolico, ecco perché la filosofia del diritto è un
campo minato e dare un assetto giuridico a qualsiasi cosa nella chiesa non è innocente da
conseguenze: bisogna trovare un sano equilibrio tra pastorale-simbolicità-giuridicità anche se non è
così semplice. Tutto questo sapendo che si deve rinviare tutto al giudizio ultimo!
PIT-STOP: PUNTO DELLA SITUAZIONE
L’uomo è un essere simboleggiantesi che deve oscillare: tra l’espressività e l’alterazione; tra
l’aspetto ontologico-veritativo a quello escatologico, di senso; tra una certa grazia naturale ed una
notevole carica di equivocità. Se già è difficile, se non impossibile, tenere insieme questi due aspetti
a ciò va aggiunto che egli è anche ricettività. Sul livello più teorico ciò significa che l’uomo è
insieme di realismo, nominalismo ed insignificanza e non deve assolutizzare nessuno dei tre perché
altrimenti diventerebbe ossessivo, isterico o depressivo. Già l’essere espressivo dell’uomo dunque è
una perfetta apertura al trascendente e la sintesi perfetta è in Gesù: il suo essere Verbo incarnato
infatti tiene insieme i primi due aspetti perché è in sé altamente espressivo e massimamente
alienante, inquadra la situazione uscendo da ogni schema e così facendo si carica allo stesso tempo
di tutte le distorsioni insite nel rapporto tra i due aspetti del reale; il suo essere Figlio di Dio e
dell’Uomo lo fa essere massima ricettività sia nei confronti dell’uomo che di Dio. La Redenzione è
dunque un processo profondamente simbolico e metaforico e proprio per questo avviene nella carne
e conduce alla croce per purificare dall’ossessione e dall’isterismo, diventando così parola della e
sulla croce, trasformandola in messaggio e passaggio. Questa densità della Redenzione ci fa capire
come ci vogliano molte metafore per parlarne ed approcciarsi ad essa.
L’esperienza oggettiva è unita a quella soggettiva nelle species tomistiche o la gestalt balthasariana.
Riguardo alla capacità simboleggiante dell’uomo bisogna rifarsi all’impostazione di Cassirer che ha
ripreso Cusano, Goethe e Kant. Ci sono vari tipi di rappresentazione: trascendentale e ontologica (e
già l’unione di queste due aiuta a dire “questo è COME quello”); teatrale (ognuno ha il suo ruolo) e
politica (nel senso di democraticità dei pareri2); escatologica e protologica; ciò che le sintetizza tutte
è quella sacramentale. Ogni fase della storia è portata a sottolineare un aspetto piuttosto che un altro
e ciò ci aiuta a capire come ogni epoca pecchi in ogni caso contro il mistero. Il dogma stesso ci
ricorda che siamo sempre incamminati verso un mistero che né la nostra predicazione né tantomeno
la nostra prassi, potranno mai raggiungere. Tutto ciò porta nelle redenzione alle idee di:
- Potere o pienezza, perché quanto emerge l’idea e la realtà della redenzione, del riscatto, di
un riassetto primordiale ecco che Gesù è presentato come uno che ha pieni potere, che
rappresenta e ha la potenza del Padre, ha la sua bontà ed il suo potere. Egli infatti insegna
con exousia, con potenza, rendendo così possibile la libertà altrui ed è per questo che
racconta parabole e compie segni rappresentativi del regno primordiale e teandrico finale.
Si noti che la democrazia stessa è possibile perché c’è una costituzione che la precede, mentre i partiti dovrebbero
rappresentare varie impostazioni nel relazionarsi della società con lo stato (vedasi Toqueville in “La democrazia in
America”, Anna Harent “Tra passato e futuro” e Cacciari “L’arcipelago”). L’uomo democratico odierno invece non sa
più distinguere tra stato e società, chiedendo allo stato che garantisca la sua indipendenza assoluta! Lo stesso vale per i
nostri monasteri e i nostri presbiteri, dove si chiede ai superiori di coordinare le nostre nevrosi. Sfruttiamo e chiediamo
di essere garantiti e tutelati, bisognosi di sicurezza e di libertà sfrenata senza nulla dovere. Non è dunque un caso che
Gesù sia finito sotto un processo statale, sociale e religioso!
2
-
Vicaria, perché nel nostro mondo solitamente chi è potente non ha potestà o viceversa ed è
quindi fondamentale che qualcuno ci prenda su di sé, ci supplisca, ci sostenga, ci rimpiazzi,
non per sostituirsi a noi, ma per tenerci il posto libero, perché possiamo trovare il nostro
posto. Ciò ci aiuta e ci invita ad aiutarci così, a compensare le nostre mancanze (es. supplet
ecclesia) per ricomporre ciò che in noi era ormai scomposto.
- Intercessione, che significa mettersi dentro, tra gli estremi del nostro essere comunicativo,
tra l’ontologia e la trascendentalità, tra la teatralità e la politica ecc. attirando su di sé le
frecce dell’equivocità. Proprio per questo, vista la precarietà della nostra condizione, questa
intercessione si fa preghiera in ogni suo aspetto: di lode (a ricordare la bellezza del rapporto
ontologico e per premettere e mettere in atto la benedizione di Dio), di lamento (che porta
davanti a Dio la scissione e la contraddizione della realtà ecc.
Questi tre aspetti danno già il quadro di una cristologia della redenzione, perché Figlio di Dio e
Verbo sono relativi al potere; Figlio dell’uomo è relativo alla vicario; Sommo Sacerdote
all’intercessione. Potere+Vicario=Pastore; Vicario+Intercessione=Agnello; Escatologia=Porta ecc.
Così Gesù è Colui che in sé ricostituisce l’unità tra parola e carne.
Molto importante è infine l’aspetto giudiziale, perché il giudizio è:
 Copula, qualsiasi frase umana celebra infatti il connubbio del patrimonio-matrimonio e il
giudizio diventa così la fucina ideale della redenzione.
 Separazione, perché fa cadere la mannaia e per questo “sa” sempre un po’ di inferno.
 Sentenza.
Ognuno di questo aspetto è in sé positivo, se non viene esasperato. Abbinato al giudizio c’è però
sempre la tentazione della tortura che cerca di scassinare l’altro, di metterne a nudo i segreti, i
giudizi che cela in sé, cosa pensi davvero. Tortura che è insita quindi nel rapporto tra genitori e
figli, tra coniugi, tra magistero e teologi ecc. Il giudizio infatti è un anticipo del processo
escatologico, ma senza la misericordia che caratterizzerà l’ultimo giudizio! Ad es. la domanda “Mi
ami davvero” non da spazio ad alcuna risposta! Siamo dunque perennemente esposti all’enigma
degli altri, questo è il purgatorio della nostra vita che dobbiamo sopportare, perché tutte le volte che
vogliamo il cielo qui, creiamo poi solo l’inferno. Tutta la storia anela dunque a questo giudizio
finale, escatologico che ricomponga la giustizia e la misericordia, nella luce mite di Dio.
Il processo di Gesù
A questo proposito non è un caso che Gesù capiti sotto il processo degli uomini che inscenano il
tutto per vedere se è veramente ciò che dice di essere. Processo che è:
 Religioso, perché si vuole capire se osserva veramente la legge o no, lo si vuole mettere al
muro per vedere se esce finalmente dal suo dialetticismo paradossale che li destabilizza.
 Politico, perché ha relativizzato tutto in funzione del Regno di Dio e si vuole dunque sapere
cosa ha in mente e quale sia il rapporto tra questo Regno e i regni.
Processi che sono in sé legittimi, ma altrettanto non si può dire sulle modalità di procedere.
Subendo il processo però Gesù, relativizzando tutto, intenta allo stesso tempo un processo ai
processatori, agli uomini, alla loro ottusità, al loro fare moraleggiante ecc. Ed è per questo che tutto
gli si ribalta contro, perché mette a nudo tutti, mentre guarisce solo i miseri, i già nudi.
In tutto ciò ecco il mistero del silenzio di Gesù durante il processo, il suo non spiegarsi, il suo
lasciarsi mettere sotto torchio, facendo saltare tutti i codici del nostro giudicare, prendendo su di sé
la condanna senza vendicarsi, anzi perdonando. Subisce la croce trasformandola in lamento,
preghiera, abbandono e passaggio, da cui emerge misteriosamente il Logos. Dà così un voce alla
sofferenza e contro i giudizi unilaterali, facendo leva sul giudizio escatologico del Padre e così su se
stesso. Così l’escaton è visto come potenza misericordiosa del Padre, Vicaria del Figlio e Giudizio
Escatologico e la soteriologia è insieme protologica ed escatologica.
Notare che il serpente fa leva proprio sull’equivocità comunicativa, perché il limitato della
creazione è segno della vera presenza amorosa di Dio o un’ingiustizia, dice lui?
FINE PIT STOP: SI RIPARTE!
Lo sfaldamento diabolico nel giudizio
L’uomo è in una strana situazione dunque perché non può non rappresentare, non può non
giudicare, deve giudicare, ma allo stesso tempo ogni suo giudizio è limitato, relativo e quando non
se ne ricorda diventa una macchina sputa sentenze inappellabili, effetto che è la più visibile
propagazione del p.o. Se va bene i nostri giudizi sono veri al 40%, ma per noi lo sono sempre al
100%! Il giudizio è insieme di elemento ontologico-copulativo (è), incisività-separatrice (non è),
sentenza e definizione. Questi quattro elementi vanno sempre tenuti insieme ed in una circolarità
assertiva che permetta una correzione vicendevole: l’unione dei primi due porta a delle sentenze
ponderate che sfociano in giudizi sensati, fondati, veri e aperti all’istanza escatologica. Se invece
cadiamo nell’assolutizzazione della:
- copula, perdiamo la nostra capacità discernente;
- incisività, diventiamo ipercritici e invece che vedere tutto come simbolo, vediamo tutto
come sintomo, come è successo dopo il ’68;
- sentenza, ci sentiamo superiori a tutti e a tutti;
- definizione, cadiamo nell’ideologia per cui le definizioni non sono il frutto di un cammno,
ma assoluti ed un conto è la correttezza, un conto è la verità!
Lo sfaldamento diabolico nella percezione
Per quanto riguarda la rappresentazione anche qui si dovrebbe cercare di tenere una circolarità tra le
vari componenti, anche se fragile. Kant con la sua distinzione tra critica del giudizio e della ragione
pura che trovavano una sintesi nella critica alla ragion pratica aveva fatto un buon lavoro, anche se
aveva distinguendo troppo aveva separato ed aveva perso l’unità simbolica delle tre. Lavoro che è
riuscito invece a Cassirer e Schaeffler. Vediamo ora quali sono i rischi delle unilateralizzazioni
delle varie componenti della rappresentazione:
 Potere. Una volta questo elemento era esagerato, ora rimangono solo il papa in campo
cattolico ed il presidente della repubblica in campo sociale-statale a reggere ancora un po’.
 Democratico-strutturale. Esageratamente alla moda quest’aspetto esso non considera più la
gerarchia delle cose, ma parla della interdipendenza dei vari mondi, che sono in fondo
monadi-isolate, e ciò a partire dall’interno di noi stessi che fatichiamo a trovare un
equilibrio, a trovare una sincronizzazione interiore ed esteriore. La democrazia poi tende a
consumare i valori per cui vive e così lo sfondo simbolico sul quale si fonda si sfalda!
Mancandole il retroterra essa va a fondarsi alla fine sul livello economico ed ecco da qui la
difficoltà di fare politica e lo scioglimento dei partiti in movimenti.
 Interiore-trascendentale. È ovvio che noi vediamo tutto “come” qualcosa, frutto della
costruzione del nostro co-intuito intellettivo che ci permette di significare-simboleggiarecifrare-metaforizzare-sintomatizzare tutto. Il rischio in questo processo è vivere poi
unicamente nei paesaggi da noi creati (sommo esponente è Pareison, Ontologia della libertà,
p.103ss e 139ss) oppure di sganciare la libertà dal simbolo e vedere così tutto come segno
che ognuno interpreta come vuole (cf Umberto Eco, Sugli specchi) entrando così nel giallo
della sintomatologia che in fondo altro non è che l’industria del divertimento di Kierkegaard
e Pascal (tanto che lo stesso Eco fa un mea culpa in Sulla letteratura a p. 168ss). Posizione
magistralmente equilibrata è quella di Ricoeur in Conflitto di interpretazioni, p. 305-325,
dove dicendo che dopo il p.o. si ha una sporgenza del tragico sull’etico, la religione ha
proprio la missione di custodire questa sporgenza della tragicità, della grazia!
 Sociale-teatrale
 Psicologica. L’uomo è il teatro di una continua gara tra l’io e il sé: l’io cerca di essere
sempre più sé, per poi essere in grado di vivere i vari io sociali. In tal senso si tenga conto
poi di come mentre la costruzione della vita per quanto difficile, sia promettente,
invecchiare è lavoro ancora più difficile perché si assiste alla decostruzione di tutto. Anche
questa componente tende poi a mangiarsi la premessa ontologica cercando di distruggere i
vari padri (familiare, divino, ecc.) ma così ognuno è sempre più sintomo di sé stesso. Ci si
trova così in balia delle onde della vita continuamente impegnati a cercare di costruirci
un’identità, un ruolo, cercando di giustificare a sé e a tutti le proprie scelte. Essendo poi
l’assegno della nostra vita scoperto, desideriamo tutto infinitamente, vogliamo essere tante
cose al massimo livello e nello stesso momento.
 Vicariale. Se salta la precedente anche questa rischia di assolutizzarsi, perché ci troviamo
poi addosso anche una responsabilità infinita, ma ciò non ci dà quiete perché non abbiamo
più una zona ontologica, di pace. Come alcuni che dicono che bisogna lasciarsi interpellare
da tutto: eh già, allora sarei già impazzito! Essendo così sovraccaricati di responsabilità ci
sentiamo sempre vittime del sistema e chiediamo risarcimento a tutto e a tutti, ma i diritti
sono legittimi solo se associati ai doveri e alla relatività della spettanza. Non essendo poi
all’altezza né della libidine che è in noi, né della responsabilità, siamo poi colpevoli senza
saperlo, ci svegliamo e siamo già incolpati e ciò porta spesso all’infantilismo, al voler
rimanere eternamente piccoli. In questa scia alcune parole possono essere dei boomerang:
formazione permanente, maturazione, valori, dialogo ecc. Senza simbolicità e metaforicità
sottostanti sono monete non coperte e senza rappresentazione. E poi un po’ di equilibrio:
prima la chiesa era trionfante, mentre ora è perseguitata: Cristo è sia vittorioso che vittima!
Lo sfaldamento diabolico nella mimesis
La mimesis è conseguenza della rappresentazione, ma è ben diversa. Essa ha stregato per lungo
tempo la filosofia occidentale da Platone ad Adorno, e per essa tutto è imitazione (cosa ben diversa
dallo scimmiottamento!) di un archetipo: Dio, una figura famigliare ecc. Imitazione che si attesta sia
sul versante linguistico che estatico. Questo concetto ha una lunga storia … Platone ne mostra i
limiti; Aristotele invece la vede in maniera più rilassante, come spazio neutrale ed in alcuni casi
positivi e terapeutici (come nel caso della tragedia teatrale). Ai nostri giorni per Adorno l’arte
riprende la vita mimeticamente per far vedere il suo plus escatologico, per prospettare la redenzione
possibile dei fenomeni e come tale la mimesis è segno aperto-trasfigurante-profetico; Girard invece
mostra la caratteristica micidiale della mimesis (per cui un padre frustrato e ucciso dal suo lavoro di
bottega, obbliga comunque il figlio a continuare il suo lavoro!) ed il suo aspetto libidinoso, per cui
siamo portati a volere come l’altro, non tanto ciò che lui ha voluto! Per noi cristiani la mimesis è poi
molto importante perché siamo chiamati ad imitare Cristo! Ma come è possibile imitarlo? Molto
interessante è l’approccio di Ricoeur che mette insieme la teoria dell’arte moderna, la teoria della
testimonianza, la teoria della libera interpretazione e la teoria della sequela3. L’arte moderna infatti
ha mostrato la libertà rispetto all’oggetto (che ancora gli impressionisti non avevano!) e già Hegel
lo postulò vedendo nell’incarnazione la massima forma di mimesis, perché unione armonica tra arte
e realtà, tra idealità e banalità ecc. tanto che l’arte dopo Cristo non è più salvifica, ma libera! E così
anche la musica il cui compito è creare spazi espressivi, dinamici e prospettici. L’arte moderna ha
così il compito di coinvolgere per far fare un’esperienza nell’esperienza di mimesis che si sta
facendo. In quest’ottica Cristo è così un caso unico di rappresentazione della volontà del Padre, che
ci invita a reinventare la nostra vita alla luce delle sue parole e delle sue parabole. La testimonianza
cristica unisce in sé la singolarità-comunicabile e la ricreazione poetica. Se poi la trasmissione del
male avviene in modo meccanico, quella della sequela del bene, presuppone la libertà! Il testimone
è così liberante e incisivo, perché libera l’altro, aiutandolo a trovare la sua incarnazione. Proprio
questo concetto di sequela fa saltare i meccanismi interni della mimesis!
Modelli di ricomposizione degli elementi sfaldati della percezione
Sono principalmente quattro:
 Dialogico-veritativo che cerca di andare oltre ad Habermas, Buber & co.
 Dello sguardo e del volto, che cerca di andare oltre a Levinas & co.
 Del dono-obbligo, che cerca di andare oltre a Derida & co.
 Della testimonianza, che cerca di andare oltre a Ricoeur, von Balthasaar, Rahner & co.
Va subito detto che nessuna categoria rivolve i problemi, sono tutte categorie promettenti, ma la
redenzione è altra cosa, tanto che le categorie principali del cristianesimo sono altre! Sono categorie
3
Paul Ricoeur, La critica delle convinzioni, p. 252ss
importanti, ma non integrali, promesse di redenzione, ma non simboli risolutori, anche perché
Cristo per redimere il mondo ha dato la vita, non ha fatto teorie!
PIT-STOP
Nel cammino dalla metafora alle metafore della redenzione siamo nella fase finale della dischiusura
della metafora, del processo “grazioso” simbolico-metaforico. Alla fine di questa arriveremo alla
“cerniera” che è costituita dalla metafora per eccellenza e la più insidiosa che è quella della purezza
e il cui contraltare, l’altra faccia della medaglia è il diavolo, dopodiché finale su metafore redentive.
Il finale della dischiusura della metafora comporta ancora i seguenti passi:
1) L’uomo è fatto per incarnarsi e trasfigurarsi nel dialogo volto-anima
2) L’uomo è fatto per intendersi e parlarsi e comprendere il mondo: prassi dialogica
3) L’uomo è fatto per dare e per ricevere: prassi del dono
4) L’uomo è fatto per rappresentare qualcosa più grande di lui: prassi testimoniale
FINE PIT-STOP
IL PROCESSO SIMBOLICO DELLA DISCHIUSURA DELLA METAFORA
L’uomo è fatto per incarnarsi e trasfigurarsi
L’uomo è fatto per incarnare la sua verità, cioè la sua forza di rispondere alle istanze altrui e di sé
stesso, e la sua libertà, cioè il poter iniziare qualcosa con sé stesso e con il mondo. Questa
incarnazione significa il poter trovare una forma, il concentrarsi-focalizzarsi per superarsi ed è un
salto di vita l’inizio al quale egli si deve iniziare continuamente, perché nell’inizio c’è la meraviglia
del poter esordire, è intriso di incantevolezza, ma allo stesso tempo è tremendamente pesante,
perché iniziare espone al proprio giudizio e a quello degli altri. L’esigenza di incarnazione della
verità e della libertà ci dice che esse esistono solo in un divenire continuo, è un avventura.
In tutto questo processo c’è anche il corpo che è fatto per essere trasparente e diafanico, per
esprimere la mito-biografia di ognuno di noi ed in modo particolare il volto esprime bene
l’avventura dell’incarnarsi: per imparare a cogliere l’anima di un uomo bisogna imparare a
coglierne il volto, anche se normalmente siamo senza faccia e con maschere nude e inespressive
allo stesso tempo, siamo sfacciati e mascherati. Prima di arrivare al volto c’è però un bel cammino
graduale: inizialmente siamo grugno da prendere a schiaffi, oggetto da osservare e prendere →
muso imbronciato, smorfia della pesantezza della vita → poi maschera, per ingannare sé stessi e gli
altri, ma anche per funzionare in merito agli altri, in fondo anche la sincerità è una maschera →
sembianza, cioè gioco tra apparizione, apparenza e fattezze → viso, ciò che si vede di me grazie
però al visto, al permesso che do agli altri, e in questo senso è già un elemento sacramentale →
faccia, che è il manifesto della nostra esistenza → volto, per rivelarsi ed essere colti, ma che per
essere vero deve richiedere una rivoluzione, una conversione, un rivolgersi a ed è proprio questa la
sua forza e la sua vulnerabilità. Ciò che è vale per il volto vale anche per l’anima, di cui il volto ne è
appunto la sembianza, il “sacramento corporeo”, visto che è epifania efficace, in lui tutto si dà ed è
capace di incidere sugli altri. Così anche nell’occhio, nella voce, nella mano emerge l’istanza,
l’impulso, la molla e il fermento del poter iniziare e rispondere, del poter meravigliarsi, ricordare,
ringraziare, perdonare, progettare e promettersi. Questo è il respiro di una vita che è individuale,
inconfondibile e che allo stesso tempo si comunica veramente. Ci comunichiamo infatti nell’anima
e in qualsiasi rapporto qualificato, quell’anima che è enigma e splendore della nostra magnificenza.
Certo dobbiamo incarnarci, ma proprio questa esigenza ricorda la presenza in noi di una sporgenza,
l’anima appunto, che non troverà mai pace e che in fondo è il ritmo, la melodia di fondo della vita.
Ognuno vive così in un tempo ed in una prospettiva incomunicabile che spesso emerge e
comunicabilità ed incomunicabilità sono difficilmente conciliabili come tutte le polarità della vita,
abbiamo bisogno di entrambe e siamo chiamati a scavare in entrambe le direzioni, ma quando andrà
bene al massimo si saluteranno o si busseranno a vicenda: non esiste una meta-teoria che possa
soddisfarle entrambe ed è in fondo questa la delicatezza di Calcedonia.
In questo senso la gestualità di Gesù è emblematica e la sua presenza era sacramentale perché per
guarire bastava toccarlo, essere toccati, sentirne una parola o anche solo la voce! Il suo corpo
signorile poi, infranto e in comunione, sempre animato e allo stesso tempo inespressivo, Molto bella
in tal senso la teologia di Ireneo centrata sul corpo del Figlio, incarnato, vivo, trasfigurato,
flagellato, morto, risorto, asceso, eucaristico, scritturistico, tradito ecc. Il corpo di Gesù è così la
catena aurea, la melodia di questa teologia della storia della salvezza. Ricordarsi poi sempre che
ogni lingua manifesta ed offusca il mistero, la lingua non è mai innocente!
L’uomo è fatto per intendersi e parlarsi e comprendere il mondo
TERZO
6
1c
1a
TU
2
IO
3
6
1b
TU
IO
4
5
6
2
MONDO
OGGETTO
L’uomo (IO) è fatto per (1a) cogliere l’altro (TU) e questo a partire dal primo momento, quando il
bambino cerca di cogliere le mammelle e il sorriso della mamma. Allo stesso tempo però io mi
specchio nello specchiarsi dell’altro in me (2), come quando vedendo la mamma che vedendomi
sorride, anch’io sorrido. C’è sempre però l’azione di un terzo (1c) che è l’avvocato della libertà sia
della madre che del figlio, perché li libera da questo circuito che rischia di diventare vizioso.
L’intervento di Dio in fondo rompe sempre tutti i nostri circuiti idolatrici, le nostre proiezioni sugli
altri: basta guardare Gesù che combatte la legge e le false attese della gente su di lui. Il rapporto con
il mondo poi (1b) e lo specchiarci nel suo specchiarci in noi (2), è possibile solo se io ho un
rapporto con me stesso, se mi vedo come tu (3) ed il mio mondo che si viene a creare deve rendere
giustizia all’altro che mi misura e mi giudica (dialettica già accennata di resa e resistenza),
ricordandomi però che anche l’altro è in rapporto a sé stesso (4) non è solo un oggetto “altro”
rispetto a me. A questo punto la comunicazione tra i due apre uno spazio comunicativo (5) che mi
permette di comprendere me, l’altro, il mondo ed essere compreso. Allo stesso tempo tutte queste
dinamiche si sottraggono a questo tentativo di comprensione totale, sono soggette ad un rimando
escatologico (6). Bisogna fare attenzione poi,m perché l’uomo cerca sempre di assolutizzare uno dei
sei ambiti di questa dinamica: il mondo antico l’oggettività, quello moderno la soggettività, quello
contemporaneo la dialogicità e l’onnicomprensività. Ogni unilateralazzazione è però diabolica. Solo
cercando di tenere tutte e 6 insieme si ottiene qualcosa di decente. Attenzione, perché tutte le volte
che si pensa di aver instaurato il Regno di Dio, si è realizzato l’inferno!
Se si guarda alla prassi dialogica di Gesù vedremo che è sanante e scontrosa. E allo stesso tempo di
lui abbiamo tante parabole, qualche discorso e pezzettini di dialogo. Sono solo schegge e flash che
fanno da sfondo al momento epifanico della redenzione.
Per questo il sacramento è rito, perché non vuole soddisfare questo rapporto orizzontale. Da un latro
riprende ogni aspettativa, ma dall’altro la interrompe; da un lato è compimento delle attese,
dall’altro le deve anche lasciare un po’ insoddisfatte, anche perché la fede è più di un sentimento, è
anche affidamento e certa “freddezza” aiuta proprio ad aprire alla grazia.
Così la teologia cristiana è sempre stata polare perché da un lato promettente, elevazione e
compimento di tutte le attese umane, dall’altra parte è brusca interruzione di esse, perché c’è la
croce e in essa l’impatto è forte! Sono le due polarità sacerdotale e profetica, analogica e dialettica,
inglobante e dirompente ecc. E, come è già stato detto prima, non esiste teoria che riesca a metterli
insieme e pure a noi dobbiamo essere a volte più uno e a volte più l’altro, dobbiamo oscillare tra
questi due poli. Sull’insignificanza poi dei nostri misteri oggi, si deve pensare che la religione in
generale è sempre stata basata sulla povertà, sulla mancanza ed oggi che l’uomo ha tutto, che
l’orizzonte terreno ha ingoiato l’infinito, che tutto è possibile, l’istanza fondante della religione è
assorbita e dobbiamo ritrovare le coordinate. La quotidianità è infatti così strutturata e accelerata
che non si riesce più a capire l’importanza della singolarità e così noi cristiani siamo tuttologhi
irretiti, perché non capiamo più come immettere l’universale nel particolare.
Noi occidentali abbiamo poi anche il peso di una Tradizione che da un lato abbiamo perso nella
graziosità e nelle capacità realizzative, ma dall’altra parte ne manteniamo le forme e la usiamo
sempre come fonte di citazioni estrapolate. Dovremmo invece guardare di più ai santi, alle
devozioni, alle teologie, alle arti che la cultura cristiana ha elaborato nel passato e prenderne spunto,
per seguirne la pista ed essere così nel solco della tradizione, ma con la spigliatezza nel seguire le
spinte dell’oggi. Bisogna seguire una pista, tenendo l’altra istanza sempre presente.
Nota sull’esame
L’elaborato scritto è un piccolo strumento per imparare a mettere giù il proprio stile: è infatti
importante trovare il proprio stile che è connessione tra necessità e libertà, tra prassi ed affettolibertà intellettiva, tradizione e singolarità ecc. E questo oggi più che mai, tanto che proprio da ciò
dipenderà la sopravvivenza feconda o almeno decorosa dei cristiani, perché siamo più soli anche
come singoli, tanto più noi preti, e dobbiamo far sì che sia una solitudine irrorata. A tal proposito è
molto importante la storia delle devozioni, delle pietà e degli stili di vita dei cristiani del passato (es.
Giuseppe De Luca). È importante quindi chiedersi cosa e chi si vorrà essere, presentare e
rappresentare; quale tipo si vorrebbe e potrebbe essere. In tutto ciò un minimo di cultura è
importante per stare distanti ed essere sempre in grado di criticare. Oggi poi nel clero c’è la monocultura dell’estroverso e chi è introverso è visto di malocchio e per lui non c’è posto. Tutti sono
manageriali, affaccendati ed il celibato infatti non serve neanche più, anche perché la sua natura è
rinuncia sacrale. Tanto per fare un esempio come teniamo la casa? Come gestiamo le serate? Come
gestiamo lo stare soli? Come gestiamo le domeniche pomeriggio? Quale stile creare nelle
celebrazioni? E quale nelle sacrestie? Oggi più che mai è su queste cose concrete che si decide tutto,
perché non è tanto nel dogma e nella morale che si deciderà il futuro, ma nello stile che implica
tradizionalità, un recupero vivo della tradizione di stili di vita vitali e comunicativi.
L’uomo è fatto per dare e ricevere: la prassi del dono
Oggi che viviamo nell’età del sospetto, la parola dono è guardata più che mai con sospetto e solo i
vecchi preti e i vecchi umanisti parlano ancora del donarsi. Il dono è infatti categoria scivolosa,
tanto che un dono troppo grande o troppo piccolo può inondare o mettere in imbarazzo chi lo
riceve; il dono è infatti messo in discussione da chi lo riceve. Tutto ciò in ambito rituale è ancora
più delicato (vedasi ad es. i regali di Natale). Se poi il donatore dà la possibilità al ricevente di ridonare la cosa si fa ancora più delicata, ma noi di tutto questo non ce ne curiamo, tanto che
parlando di Dio diciamo che ci fa dei doni perché noi glieli ridoniamo: ma nooooo! Un po’ di semipelagianesimo in materia non fa male, perché salvaguarda l’onore del singolo. Il dono non è una
simbologia innocua e per continuare a viverlo intelligentemente bisogna attraversarne tutte le
contro-indicazioni. Così anche per quanto riguarda il dire grazie … per favore, è meglio parlare di
Messa, perché l’Eucaristia è solo un aspetto della liturgia, essa non è tutta rendimento di grazie, è
solo una parte. Anche in questo ci vuole un minimo di circospezione e di pudore. E poi come
rispondere al dono, in modo che tutto non finisca nel contraccambio, che sa di rivincita e di
vendetta? Il sociologo Maus negli anni ’30 ha molto riflettuto su ciò, mentre Derridà ha
esageratamente insistito sul dovere essere gratuito del dono, ed va di moda tra i filosofi mettere
delle aggiunte sul darsi-donarsi. Tutto questo ben ricordandosi che Gesù ha dato la sua vita per noi e
si è dato alla morte, perciò la cautela è quanto mai d’obbligo e ogni sintomatologia soprattutto in
questo campo non dovrebbe fare mai e meno di simboli e metafore. Fatta questa premessa cautelare,
si deve partire dal primato della positività del dono, nonostante tutte le insidie e controindicazioni.
Il regalare si deve alla magnanimità e alla generosità dell’allargare, del creare un campo di
compiacimento della gioia altrui, perché è una magnanimità condivisa, un compiacimento reciproco
che allarga il campo e nel ricevere ci vuole signorilità. Il dono si iscrive dunque in un processo di
riconoscimento reciproco, presupposto, corrisposto, rinnovato e promesso.
Il dono è innanzitutto simbolo di una comprensione previa e metafora aperta per un comprensione
ulteriore e si realizza nel dare e ricevere asimettrico, congeniale eppure arrischiato. Il dono si
costituisce così in oggettività, graziosità e richiede arte ed ascesi, sia da parte di chi dona che di chi
riceve, perché per entrambe implica un astrarre da sé stessi. Come la grazia preveniente mira a
preparare lo spazio per l’altro, a prevenire perché l’altro possa respirare e quindi non solo un fare la
corte, ma lasciare anche la corte, così anche il dono: e così già in nuce anticipa anche il concetto
della sostituzione vicaria. Gesù dà così la parola agli apostoli anche se non hanno ancora capito
niente, ma nonostante questo li invia e si lega alle loro parole! Nel dare e nel ricevere c’è già tutta la
dinamica umana della grazia, tanto che in questa visione asimettrica che porta dalla logica del
possesso-difesa a quella del dono reciproco c’è già l’evento dello spirito per Buber.
È poi molto importante anche il ricevere perché, per quanto il rapporto tra i due sia comunque
asimettrico e non sia mai identico allo scambio economico, ma va contro e oltre ad esso, un minimo
di dote c’è in ogni dono, un minimo di contraccambio, di do ut des fa parte della logica del gioco,
anche se non la deve esaurire e non deve essere la mens principale. Dio stesso vuole trovare un
interlocutore, è una bugia la generosità al 100%, perché neanche Dio lo è.
Il rapporto dare-ricevere poi non è immediato, perché il ricevere è sempre posticipato ed è per
questo che ci vuole anche la magnanimità, che aiuta ad andare oltre al logica del debito-credito, al
solo rapporto di giustizia, non disprezzando queste categorie intermedie, ma purificandole. Ogni
dono implica infatti un’asimmetria che mette a rischio il donatore ed il ricevente.
Il dono poi è anche sacrificio, anche se solo questo lo trasforma più in abbandono che in dono, ed è
anche un rituale, perché un dono senza verbo e senza gestualità è un dono vacuo.
Il dono è anche materia e senso, è fenomenologico, pieno di significati, dice qualcosa
dell’indicibile: solo l’unione di verbum, signum et res dice qualcosa.
Il dono è ritualità, magnanimità, economicità, debito, credito, arrischio, ma non solo questo, sono
elementi importanti, ma non assoluti. Il processo del donare è giusto, ma è di più; è misericordia
asimettrica, ma di più; è più di convenienza; è più di sacrificio; è sorpresa non esagerata che non si
fa invadenza. Il donare vorrebbe testimoniare la libertà e la vivibilità della vita, che è spazio di
originalità e di solitudine. Seneca in materia è assolutamente geniale.
Tutto questo va inserito tenendo conto della situazione di peccaminosità che viviamo ed il dono ci
apre ad una situazione di libertà: presuppone libertà e vuole essere liberante, pur nel vincolo che il
dono stringe. Questo è lo schema anselmiano del Cur Deus Homo, perché IL Dono per eccellenza
deve soddisfare la libertà e la ragione altrui, ma ciò presuppone il mettere la mia vita nelle sue mani
per lasciar ricreare tutto ed è così che si rende la libertà, la gloria a Dio. Dare la vita non significa
darsi la morte, anche se implica un morire.
Questo processo del dono ha però bisogno anche dell’agape, che ci ricorda che siamo tutti dei
riceventi e ci apre alla testimonianza. Già il Verbo infatti sa di testimonianza, perché dando parola
agli affetti testimonio la amabilità, la vivibilità e la reciprocità della vita. La testimonianza è dunque
condensazione comprensiva dell’atto di dare e ricevere, che interpreta l’atto, si espone per esso e lo
qualifica. La testimonianza è così molto soggettiva, ma allo stesso tempo trascende il testimone,
perché rimanda a qualcosa di più grande, dice tutto ciò che è presupposto, sperato e promesso
nell’atto di donare. Il testimone infatti non tende ad informare, ma a rappresenta personalmente ciò
che ha ricevuto; allo stesso tempo si rende trasparenza per Colui che è in mezzo a noi e cede il
passo perché l’altro trovi il suo stile, la sua individualità. Ecco perché Gesù è martire, è testimone,
perché si dona nelle condizioni della improponibilità, è Signore e si espone quando non c’è più la
logica del dono, ma solo quella di giustizia, legge e contraccambio. Contro di esse la logica del
dono è inerme ed il testimone può anche fallire senza più rivendicare una risposta: è la figura
dell’idiota di Dostovieskjii. Uno dei modi oggi per donare più incisivamente è donare il tempo,
affinché l’altro possa respirare. In questo senso i vangeli sono catene auree di gesti con cui Gesù
dona e concede tempo nei suoi confronti, ha condiviso il tempo dandolo agli altri, accompagna
lasciandosi misconoscere, dà e dona tempo perché l’altro arrivi alla sua personale altezza e modo di
seguirlo ecc. In questo senso si deve recuperare la cura d’anime che dà il tempo e tralasciare sempre
più certa pastorale che invece mangia solo il tempo proprio e degli altri.
La testimonianza non è dunque solo spifferare segreti, dire la propria esperienza, donare o
dialogare, ma è soprattutto l’in-formare in modo pronto ed acuto una situazione di oppressione e di
contestazione: il testimone è dunque uno che si dona e che si rivela a volto scoperto e con faccia
tosta, con grinta ed incisività soprattutto nelle situazioni contrarie e precarie, ma che possono essere
cairologiche. Ciò richiede coraggio, sincerità e rischio perché ci si espone al giudizio altrui: la
testimonianza ha dunque un carattere sempre giuridico. Essa si compie spesso davanti a tribunali o a
istituzioni ostili e quindi richiede una forte capacità di exousia e semeia, che permettono di
rappresentare la verità e contestare così i contestatori! La testimonianza è così il connubio tra
soggettività-singolarità (mi porta a mettermi come pegno di libertà e verità maggiori di me) ed
oggettività (devo dire che la vita, la libertà e la verità sono vivibili). Le situazioni in cui siamo
chiamati a testimoniare ci chiamano in causa, a rispondere a qualcosa e qualcuno maggiore di me e
mi richiedono e mi rendono trasparente, comunicabile, e per far ciò devo far leva sul senso di libertà
e verità altrui. Per far ciò occorre però un transfert della causa che ci anima e per questo è una
categoria individualizzante, comunicativa, drammatica, proclamativa, giuridica e veritativa che
contesta la svalutazione, la menzogna ed i falsi compromessi e così ha valore soteriologico perché
scioglie i compromessi. La testimonianza è dunque il manifestarsi della forza della vita.
Gesù stesso viene messo sotto torchio, contestato nel suo essere rivelatore del futuro umano e della
presenza divina e il processo è giuridicamente giusto, perché vuole verificare ciò, e lui lo contesta
con il suo silenzio. E così si va oltre, anche se non senza, la morale, l’estetica e la tragedia: c’è un
vero e proprio impatto. E così il giudizio di Gesù vede un tribunale umano, ma anche uno divino,
che è la croce, che giudica la ristrettezza della mentalità umana e proprio per questo diventa in
generale un processo di giustificazione ed una rivelazione dell’exousia e della semeia di Dio, che
ristabilisce il campo dialogico del dono. Soprattutto il vangelo di Giovanni combina così la logica
giuridica e mistica, perché, sottolineando molto la testimonianza, essa le implica entrambe!
Lo sfaldamento diabolico del campo simbolico
Esso avviene quando un elemento del dialogo diventa unilaterale e perciò insopportabile,
instaurando spesso un sistema di falso rispetto e di falsa corrispondenza che viene a creare un metalinguaggio fondato sul corto-circuito dell’aspettativa, che crea l’inferno dell’insignificanza portando
ad un’opprimente e falsa chiusura in una dualità che esclude sia un terzo (che richiami qualcuno o
qualcosa, una trascendenza) che un quarto (qualcuno che giudichi il tutto)! Non accade forse così
tutte le volte che noi diciamo che l’altro vuol sentirsi dire? Spesso la nostra vita è un dramma
dialogico-duale a porte chiuse (vedi Sartre), nel quale l’ordinarietà di certe voci, di certi
atteggiamenti rischia di mandare tutto in frantumi. Ma è proprio nel come vivo quell’ordinarietà che
si decide della mia vita, che per questo è molto spesso sofferente, senza colpa diretta di nessuno.
Questo sfaldamento avviene però perché l’uomo non sopporta l’ordine del simbolico, perché non gli
permette di agguantare la verità, di farla sua, egli non è tendenzialmente calcedonense: o è confuso
o è separato, perché il diavolo in noi cerca sempre la confusione o l’aut aut, a condurci alla
depressione o all’essere schizzati. E questo ritmo calcedonico-simbolico è dunque quasi impossibile
su tutti i piani, ma l’inferno è proprio la falsa confusione e la falsa separazione.
La dissoluzione del simbolo è dunque tesa tra falsa razionalità e falsa irrazionalità, tra illuminismo e
romanticismo, tra ideologia e idolatria. Tutti estremi legati al voler bypassare il simbolo. Un es.
scritturistico è il roveto ardente che va venerato, lasciandosi interpellare, ma che non si può
afferrare e comprendere, ma che ci rinvia sul cammino. E la stessa Eucaristia è coincidenza di
parola e res, ma allo stesso tempo il simbolo rimane, si conserva e anzi, si ricostituisce! Tutto però,
in noi, grida di afferrare il simbolo, di “spegnere” il fuoco del roveto per vedere Dio, tutto in noi
grida contro l’eleganza della bellezza simbolica, ma meno male che non vediamo tutto così com’è!
Voler saltare e far saltare la coincidenza simbolica è ciò che sta sotto la tortura e lo stupro, che
vogliono unire parola e realtà. Noi pretendiamo spesso la verità, la verifica sincera, ma non
funziona quasi mai. Rispettare il velo della simbolicità è sapienza umana e cristiana, non
sopportandola l’uomo non rispetta né la riserva protologica che esso porta, né la riserva
escatologica a cui esso rimanda! Questo non sopportare il simbolo è legato al fatto che siamo
chiamati a giudicare, ma che non lo possiamo fare. Ad es. quando diciamo “pane al pane e vino al
vino”, va bene, ma quel pane e quel vino, sono dati, sono dono e vanno implorati: nemmeno pane e
vino si intendono da sé, tanto che il primo lo richiediamo anche nella preghiera. Tenersi in questa
tensione non ci è dato, perché l’uomo mal sopporta la procrastinazione e l’indugio, la tentabilità
dell’uomo è fisiologica. Certo bisogna anche ricordarsi che un simbolo che non abbia attraversato la
concettualizzazione o l’etica, diventa a sua volta micidiale. Ancor più micidiale del razionalismo,
dell’irrazionalismo o del simbolo senza razionalità ed etica è la razionalizzazione dell’irrazionale
che ha tentato gran parte della psicanalisi e tutti i totalitarismi. Essi infatti lavorano con gli archetipi
e con la loro forza dirompente, che inseriscono in un sistema razionale di tecnica: ma questi sono i
regni diabolici! Essi traducono infatti la simbologia in ingegneria sociale e in funzionalità
strategica, che razionalizza-industrializza l’irrazionale. Già nell’AT si vede tutto il lento processo
per evitare ciò con la regalità, nella dialettica profeta-re-popolo.
Guardando alla storia si può vedere un realismo che cerca di fagocitare il simbolo (vedasi nelle
dispute eucaristiche Berengario), tendendo ad una realtà uni-dimensionale. Sempre nella storia, e
soprattutto delle religioni, è facile vedere anche il simbolo che fagocita la realtà e questo porta
all’Apocalisse che può essere di due modi:
- “calda” (vedasi Goethe) quando il simbolo divora letteralmente la realtà e porta l’uomo a
perdersi in un mondo virtuale, di immagini che non significano più niente (quando ci si
perde nei vari paradisi artificiali). Il regno del diabolico è qui, con Kierkegaard, quello
dell’isterismo, per cui tutto è simbolo, tutto significa altro, tutto è metafora aperta e oggi
siamo in questo caso. Siccome ciò non è però vivibile, scivoliamo nella depressione per cui
niente significa più qualcosa e riduciamo tutto a sintomo o di una protologia nefasta o di un
orizzonte senza speranza, in ritualismo-dogmatico o nevrosi coatta. Inglobando il mondo
simbolico la realtà, nel confronto con il reale, spesso ci salviamo con la schizoidia, distanti
da tutto e creatori di nostri mondi simbolici.
- “fredda” (vedasi Kafka) quando simbolo e realtà si confondono e la possibilità della grazia
salta, perché si vede tutto, ma non c’è più possibilità di giustificazione, perché tutto è
immagine e realtà allo stesso tempo e così si è venuto a creare un mondo senza più via
d’uscita, ma in fondo sempre in fuga. C’è, in quest’ultima apocalisse fredda, una lucidità
esagerata, per cui tutto è fissato ed inafferrabile, tutto è coincidenza onirica e reale, non c’è
più distanza tra enigma e parabola, tra simbolo e vita ed il racconto del reale è così chiuso in
sé fissando ed allo stesso tempo attanagliando il lettore inerme.
LA PUREZZA
L’uomo agogna la coincidenza tra parola e realtà, simbolo e metafora; sogna l’univocità immediata
e liberante di una comunione libera e sciolta: in poche parole l’uomo agogna alla purezza, alla
trasparenza, a cui è per altro legata anche la castità. Essa è la metafora-simbolo più promettente ed
allo stesso tempo più rischiosa, è un assegno in bianco che copre tutte le nostre spese a cui nessuno
e nessun settore può rinunciare. Ecco allora la tensione, a: la ragione pura; l’atto puro; l’essenza
pura; la metafisica pura; la coscienza pura; la trasparenza di sé stesso, degli altri e dei processi
sociali; l’anima pura senza corpo; la passione pura; la natura pura, autentica e genuina; l’essere
scevri da tutto, liberi da sé (cf Eckart); una religione libera dalla sporcizia dei simboli; lo stolto
puro; la razza pura; la comprensione pura-ideale del mondo; la sterilità in medicina; il bucato
bianco; tutti i problemi che diventano chiari. E si noti che questa tensione paradisiaca è giusta, è
profondamente connaturata in noi, ma se non rimane tale e vuole diventare tentativo di
attualizzazione tende all’epurazione e crea l’inferno. Abbiamo bisogno di chiarezza, ma proprio
questa purezza è il simbolo limite, la spia e lo schema trascendentale-puro è alla base del pathos
fascinans et tremendum della simbologia della religione cattolica, bastino tre elementi soli a
vederlo: la madonna immacolata, tutta bianca; il papa, vestito di bianco; l’ostia pura, santa e
immacolata. Essi richiamano la perfetta coincidenza di realtà e simbolo: Maria il Verbo, il papa la
dottrina e l’ostia la vita. Non possiamo rinunciarvi, ma sono solo simboli, guai a volerli far
diventare realtà! Chi imposta bene la questione della purezza sul piano spirituale è san Francesco di
Sales, che essendo agli inizi del barocco era molto frizzante e organizzato, e Fenelon, situato alla
fine del Barocco e all’inizio dell’illuminismo e segnato da questo perché egli era infatti ormai un
sensibile che non sentiva più Dio e che oscillava tra le vette della mistica barocca e l’illuminismo,
tanto che D’Alembert lo vede come iniziatore in germe di questo movimento (Sequeri, in “L’estro
di Dio” inquadra bene Fenelon). Egli sente in fondo l’arrivare dell’illuminismo e da una parte lo
svuota dal di dentro con la questione dell’amor puro, dall’altra ne prepara le vie per gli aspetti
positivi. Lo scontro che ebbe poi con Bossuet fu l’ultima grande vertenza tra vescovi della Chiesa
Cattolica che ebbe risonanza un tutto il mondo della cultura ed il suo libro “Le avventure di
Telemaco” è il libro più letto del ‘700. La questione della purezza rimarrà anche nell’illuminismo
con la ragion pura di Kant e anche con l’impostazione di Freud e Husserl. La modernità vede quindi
l’oscillare tra l’amore puro e il soggettivismo. Ma come non esiste la soggettività pura, così non
esiste la purezza “pura”, questa seconda è un mito che contrasta l’egomania insita nella prima: sono
due miti che si combattono in noi e che si braccano fino alla fine, ma irraggiungibili entrambe.
Nella scia di Fenelon troveremo nel ‘900 Simon Weil ed Edith Stein (non a caso discepola di
Husserl). E in fondo anche oggi dovremmo fare come Simon Weil, seguendo l’evo moderno nella
sua dialettica con un misto di profonda empatia e di umorismo. Oggi invece viviamo di ideali sterili,
della neutralità pura della scienza, della medicina e dell’economia, come se ciò fosse possibile, ma
ciò ha provocato un mondo nevrotico, ossessionato e schizofrenico. L’idea della purezza rischia di
diventare dunque demoniaca e basta guardare molti preti finiti in manicomio ed assillati dalla
purezza sacrale che gli e ci si è rivoltata contro, anche perché spesso nasconde un falso ideale di
purezza sessuale che porta a doppie vite o ad assillare/assillarsi. Allo stesso tempo la purezza è però
l’idea centrale della redenzione, perché mette le cose a posto risolvendo lo sfaldamento simbolico e
compattandolo. Tra le varie metafore della redenzione, la purezza è LA metafora.
La purezza in Gesù
Gesù ci fa passare da un’idea monastica e limpida che crea solo dualismi, ad un triadismo aperto,
Egli infatti è puro non in senso monistico, né perché scomunica. Centrale qui è la Summa III, q.46
a.6 (ma anche q.47 e 48) anche se essa parla il linguaggio ontologico e non fenomenologicopsicologico odierno, ma la sostanza del ragionamento è lì. Gesù è infatti puro, perché è integro,
perché in lui non c’è ambivalenza, Egli è sensibile per tutti, senza schermo e dunque anche senza
scherma, non ha un diaframma di protezione, vede tutto chiaro e limpido, mentre in noi tutto è
smorzato, alterato e razionalizzato, ma forse è un bene così! Lui invece è presenza, intelligenza e
sensibilità e coglie così lo scarto tra il peccato e Dio, tra gli uomini e la santità e si cimenta con
questo scarto, con questo iato, prendendolo su di sé, lui è puro perché si pone a e si espone
all’impuro e lo accoglie. La sua purezza è dunque la forza dell’accoglienza che va di pari passo con
la sua “impossibilità” di mettersi al riparo. Ed il suo dolore non è così auto-referenziale, ma di
empatia, che gli viene dal di dentro. Simon Weil si mette nell’ottica tomistica vedendo Cristo
esposto alla disgrazia, alla sventura e da lì la sua mistica eucaristica di condivisione con i peccatori,
dell’adorazione in partibus infidelibus, tra i senza Dio. Ed è per questo che ella dice che non
soltanto di Dio non si può pensare nulla di maggiore, ma anche che di lui non si può pensare nulla
di minore, perché la grandezza di Dio è saper accogliere anche il minimo, perciò: «non lasciarsi
sconfiggere dai superlativi e lasciarsi contenere dal minimo». E tornando a Tommaso la sua grande
intuizione è che egli esce dal meccanismo della giustizia, dicendo che tutto ciò avviene per amore.
Sarebbe bello per questo mettere a confronto i due cavalieri dello spirito che sono Tommaso e
Simon Weil. Ma come avviene tutto ciò? Come avviene la redenzione?
Con la triade aperta di Gesù: Egli infatti rappresenta l’inclinazione pura di Dio-Padre ai peccatori, al
mondo e come tale è vicario di Dio; Egli però si fa carico anche dell’abisso del peccato e come tale
è vicario dell’uomo; infine è intercessore per entrambi, facendosi breccia, mediatore, framezzo e
tramezzino, vicario del meta-tou, che permette la logica della metamorfosi, della purezza come
soddisfazione di amore. Tutto ciò è ben visibile in molte scene evangeliche, tra le tante:
 In Lc 15 egli racconta le tre parabole per i suoi contestatori che hanno un’idea di morale e di
legge pura ed in esse Egli si mette nei panni del Padre, ma anche del Figlio (“era morto ed
ora è vivo” dice il Padre …) e rivolgendosi al figlio maggiore, ai maniaci della purezza, gli
fa saltare la sua logica. Così anche con la parabola degli operai della prima ora e con quella
dell’amministratore infedele.
 Ciò vale anche per Maria il cui momento più delicato, ma che mostra anche la sua purezza, è
il momento di titubanza “Come è possibile?”. E questa domanda non è insidiosa come
quella del serpente che la fece per farci pensare che Dio ci priva della vita (domanda che per
altro, eliminando il linguaggio simbolico-metaforico, struttura la prima teologia e questo per
emancipare l’uomo!). Con questa domanda infatti, Maria si apre all’incarnazione e alla
logica simbolica e così diventa essa stessa ciò che è già: simbolo dell’incarnazione e
metafora promettente dell’incarnazione. La domanda è dunque posta in maniera criticadiscernente ed accogliente. È straordinario il suo fremito, l’indugio che si verbalizza nella
domanda che dischiude a possibilità maggiori, rendendo possibile all’Io di diventare
simbolo di una presenza indicibile. Ecco perché le tipologie Eva-Maria e Serpente-Maria
sono sempre valide, perché in fondo sono due scene madri.
 Nella scena della donna adultera Gesù si piega, si innalza ed esce con una domanda che
smantella il mito della purezza e lo fa quasi come con un sorriso accorato e rattristato, anche
perché altrimenti quella domanda non avrebbe avuto alcun effetto. E poi com’è bello che
non guardi in modo trionfante, ma si chini di nuovo a scrivere e poi esce con quella frase
“Donna …” che in fondo è già preludio del mistero pasquale, perché egli prende su di sé il
peccato della donna adultera e dei farisei e lo solleva dal basso, salvando così entrambe.
Purezza e soddisfazione vicaria
Ricoeur insiste molto sull’operatività dei simboli più che sulla loro semanticità, perché i simboli
sono più orientati al fare che non al capire, sono più che altro energetici che iconici-ermeneutici,
altrimenti si riduce il simbolo a puro segno. L’operatività del simbolo però è particolare, perché è
volta non tanto a produrre oggetti, quando a trasformare soggetti, oggetti e linguaggi. Per questo
Gesù è il simbolo e la metafora assoluta, perché rappresentando la sfera divina, trasforma la prassi
umana ed il linguaggio umano, accogliendo la logica del dissesto diabolico, la falsa idea della
purezza con il conseguente dualismo che crea e lo fa attraversandola, lasciandosi colpire da essa,
ristabilendo così l’ordine simbolico, ma come avviene ciò? Su quattro dimensioni e tre stadi:
o Prima dimensione: Come? Rappresentando simbolicamente e metaforicamente, Attraverso il
suo fare, l’agire in favore di moralisti e peccatori, abbandonandosi così alla possibilità di
una giustificazione da parte di Dio: si consegna poi alle loro mani e si abbandona alla
giustizia divina, caricandosi così lo iato tra sfera divina ed abisso della non comunicazione.
o Seconda dimensione: Dove sta? In quale prospettiva si mette? Lui sta dunque in vece, al
posto di, al posto dell’uomo proiettante che non sa proiettare, del moralista e del peccatore.
Allo stesso tempo fa le veci del Dio misconosciuto, divenuto anonimo e pseudonimo.
o Terza dimensione: Come vive questa situazione? Invocando. Tra Dio e l’uomo egli si pone
come intercessore nella preghiera, facendosi voce di Dio e dando voce all’uomo, invocando
il nome di Dio e provocando ed evocando gli uomini a nome di Dio, ma anche invocandoli
ad uscire (“Esci Lazzaro”, venite fuori dai vostri sepolcri!). La vocazione di Gesù è dunque
l’invocazione e proprio nella preghiera si apre lo spiraglio nelle situazioni impossibili.
o Quarta dimensione: Chi è come rappresentante? L’invocante, Da Dio e per Dio, dagli
uomini e per gli uomini, da Dio per gli uomini e dagli uomini per Dio. Lui dunque trasmette,
il suo essere invocante lo rende transfert, metafora assoluta, l’incarnazione del
riconoscimento incarnato e riconoscente di Dio e degli uomini.
o I tre stadi sono quelli della vita di Gesù: Vita umana → Passione → Risurrezione. E in tutti
questi tre stadi si vedono le quattro dimensioni, non solo in uno, anche se in percentuali
diverse. Perciò tra questi tre c’è continuità, anche se pure uno iato ed il nodo che lo risolve e
che riassume tutti i tre stadi e le quattro dimensioni è l’ultima cena. Essa è come la “fuga”
della sinfonia che è la vita di Gesù, è gesto simbolico e metafora viva di Dio e della passione
umana, simboleggia e transignifica la Sua vita e la Sua morte. Ecco perché l’Eucaristia è al
centro della vita della Chiesa.
Sistematizzazione
1
Padre ↔ Figlio
Spirito Santo
Dio
La protologia fonda il
simbolo, nell’abbandono (I).
2
Verità e
Libertà
4
Carne
3
Incarnazione
Trasfigurazione, sacrificio
(I) e Ultima Cena
5
Mistica
7
Rito
Croce
Escatologia che apre alla metafora,
grazie a sacrificio (II) e abbandono (II)
Vita in Cristo
Padre ↔ Figlio
Spirito Santo
6
Dio
1. Dio in sé è processo espressivo, impressionabile e metaforico, perché si esprime, nel Verbo
che è suo Figlio e sua Immagine e che come tale è intellettualità, vitalità e rappresentatività.
Lo Spirito Santo è Colui che trasforma tutto in possibili simboli e metafore di Dio. Ora Dio
si manifesta in maniera personale e naturale e la protologia fonda la simbolicità-metaforicità
del reale, grazie all’abbandono del Figlio che sarà massimo nell’incarnazione.
2. La vita è verità e libertà, tentativo di rispondere all’istanza di sé stessi, degli altri e di Dio.
3. Allo stesso tempo la vita è carne, fattività.
4. La verità e la libertà sono fatte per simboleggiarsi nella carne e a loro volta la carne è fatta
per essere metaforizzata. Ora questo avviene raramente, e l’Incarnazione è il momento in cui
questa dinamica funziona perfettamente, in cui si sancisce il connubio tra carne e veritàlibertà. Nella vita umana invece questo connubio avviene:
5. Nella mistica, in momenti interiori, quando questi due poli coincidono, anche nei linguaggi,
ed io sono trasparenza di Dio e sono veritiero.
6. Nei vari riti della vita, in momenti esteriori.
7. Ora però entrambe i momenti sono veri se il rito viene continuamente interiorizzato, per non
essere vuoto ritualismo, e se la mistica si rappresenta nei riti della vita, perché altrimenti
degenera in spiritualismo. La croce è il punto massimo di entrambi i poli e così si ha anche il
punto massimo dell’abbandono, agli uomini e a Dio. Lì si ha infatti la massima esposizioneesteriorizzazione in cui Dio si altera e si dà nelle mani della ritualità, diventando puro
oggetto. Sempre lì si ha il massimo della trasformazione mistica, perché l’annullamento
apparente di ogni simbolismo ed apertura metaforica unito alla coincidenza di verbum et res
porta ad un silenzio generale da cui scaturisce la preghiera di Gesù in croce, il grido
escatologico. Ecco allora che la croce è il massimo punto di esteriorità e di interiorità ed è
per questo che fa saltare simboli, metafore e concetti per poi restituirceli rinnovati. La croce
così, se diventa luogo di preghiera, abbandono e verità-libertà, diventa un luogo di estremo
soggettivismo e fonte di ogni logica simbolico-metaforico-concettuale.
Ora ogni teologia non riesce a tener conto di tutto. Ci sono quelle (teologie liberali) che si fermano
più al momento dell’incarnazione, sulla festa della verità e della libertà nella carne, del venire di
Dio nella gestualità umana e nella promettenza della protologia. Ce ne sono altre però (teologie
dialettiche) che contestano questo Dio che risponde perfettamente ad ogni attesa della vita e che
mettono in luce come l’uomo non si apra alla “festa protologica”, perché c’è in lui un tarlo ghiotto
di morte. Spesso alcune persone passano dall’una all’altra teologia, anche perché ogni stagione
della vita ha in fondo la sua teologia e poi ognuno di noi ha la sua mito-biografia. Certo oggi è un
po’ difficile partire dalla teologia dialettica, essa spesso è più che altro usata come “sale nella
minestra”, come correttivo, è difficile predicarla allo stato puro. Certo i grandi (Rahner e von
Balthasaar) sono rimasti centrati su uno dei due momenti non scordandosi dell’altro, perché la
teologia non è mai un sistema, ma deve sempre cercare di rendere conto della polarità del
cristianesimo. Polarità che si vede bene nello schema e che però indica la continua apertura al terzo.
La grandezza del cristianesimo è infatti far almeno incontrare polarità che solitamente non si
guardano o non si parlano, senza separazione e senza confusione e sempre aperte ad un terzo. Il
terzo infatti è orizzonte, medio o meta-tou ed estraneo. Se questa dualità non si apre al terzo,
diventa però dualismo, manicheismo. E questa struttura triadica è quella della redenzione del
mondo. Struttura che si vede anche nel rapporto: Dio → Uomo → Mondo. Questi due ritmi e questi
due poli, sono strutturali del cristianesimo e di ogni sua realtà.
ZOOM SUL MOMENTO DELL’INCARNAZIONE
Qui siamo nello charme dell’esordio, del bambino (Mt, Lc e Gv 3), che è un aspetto della filosofia e
della teologia cristiana che spesso è stato trascurato, ma che nella Bibbia è molto presente
soprattutto nella tematica sapienziale: ad es. la Sapienza dice di sé che durante la creazione ella per
Dio era: «la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul
globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo» (Pro 8,30-31). Va subito precisato però
che soprattutto dell’inizio e della fine non si può parlare che in maniera simbolico-metaforica (vedi
Pareison p.104ss). Vediamo 4 stralci letterari su questo tema:
 Sapienza 7 che parla di Salomone e da cui si vede come la preghiera nasca come
collegamento all’evento della nascita, momento carnale su cui fondarsi.
 G. Bufalino “Calende Greche”, parla della nascita dal punto di vista del figlio.
 J. Rooth “La cripta dei cappuccini”, parla della nascita dal punto di vista del padre.
 G. Moretto “La stella dei filosofi”, fa un trattato filosofico sulla nascita.
Nel cristianesimo si trovano meditazioni su questo tema a partire da Leone Magno che sarà poi
ripreso dai francescani, in cui la povertà non era pauperismo, ma innocenza che sa di dimenticanza,
ma anche da Tommaso nella Summa III q.27-59. Dopo un periodo di stasi sarà il cardinal Beroulle
che riflette proprio sulla scoperta dello splendore dell’umiltà e del fanciullesco, del Logos che si fa
senza voce ed infante e poi rimane nella vita nascosta di Nazareth. Dopo di lui San Sulpice, la
devozione del Sacro Cuore, Teresina di Lisieux, il filone eucaristico tra i non credenti (De
Foucauld) e Rahner. Il bambino è infatti simbolo di recettività, di un’esistenza pura, esposta,
vulnerabile ed incantevole, ma se non bisogna rimanere bambini, bisogna ridiventarle. Questo ci
preserva dalla religione degli adulti e ci apre al paradosso estremo. Pezzi teologico-natalizi:

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“Festa di Natale” di Shleiermacher, inizia con una disputa dialettica sul mistero del Natale, poi
a queste voci “basse” subentrano lentamente le “alte” delle donne che preparano la festa.
Interviene poi la figlia Sofia, che suona e chiede dei regali. Infine arriva uno sconosciuto,
Giuseppe, che chiede di essere ospitato e viene accolto. Grande metafora questa del discorso
teologico che si deve aprire accogliendo le donne, la musica, il bambino, il dono e lo straniero.
Teresina di Lisieux racconta nella sua biografia, del natale del 1886, quando in seguito ad una
parola sbagliata del padre, avviene il crollo di tutta la mitologia natalizia a cui lei reagisce in
un primo momento scappando e piangendo. Avviene in lei però qualcosa, che la fa ritornare e
la fa porre di fronte alla vita così com’è, facendole perdere la nevrosi dovuta alla morte della
madre e diventando così veramente adulta, senza perdere la fede e la mitologia natalizia.
Herman Hesse invece racconta di un Natale del 1890 quando, tredicenne, si scopra a guardare
il fratellino tutto estasiato dai regali con un misto di nausea e ammirazione: insomma nascono
le varie antinomie (Narciso-Boccadoro, Realtà-Sogno, Innocenza-Maturità) che segneranno la
sua storia e le sue opere. Da segnalare per altro che molto probabilmente esse sono state
acutizzate per altro dal suicidio del fratellino. È curioso dunque mettere a confronto queste
due esperienze biografiche natalizie, per notare come per una avviene la composizione di una
realtà infranta e per l’altro il contrario. Una recupera la propria infanzia da adulta, crescendo
di sapienza, l’altro avrà sempre scissi in sé il bambino e l’adulto.
H. Rahner in “Homo Ludens” dice che il gioco vive della consapevolezza della contingenza,
di un inizio ed una fine, ma ciò non toglie nulla all’intensità con cui un bambino giochi, al suo
giocare in modo serio autodimenticandosi, ma sempre pronto a lasciar tutto, quando la voce di
casa lo chiama dicendogli che “È l’ora, è sera!” … e così è la vita.
ZOOM SUL MOMENTO DELLA CROCE
Qui la violenza è al massimo. Violenza che è già presente nel momento promettente della nascita,
perché è un’esperienza di shock per la mamma e per il bambino, senza contare che fino a poco
tempo fa la maggior parte dei neonati, e anche alcune mamme, moriva proprio nel parto. Il
Battesimo, come ogni rito di iniziazione, in quanto passaggio di morte e di rinascita, è la mimesis
della nascita. La nascita non è poi un evento momentaneo, ma comporta l’educazione, e che ciò sia
altrettanto “violento” lo dimostrano le numerose uccisioni dei figli, da parte dei genitori: crescere
un figlio è una cosa pesante, sotto ogni aspetto. E ciò si vede anche nel Natale di Gesù a cui si
associa da subito la strage degli innocenti. Venendo al nostro schema, per arrivare alla mistica
libertà-verità e carne non possono non provare violenza e così anche nei confronti del rito. La vita
spessa, per essere tale, deve dunque lasciarsi contestare, perché ella vive della non vita, della morte
altrui, già solo a partire dal mangiare: noi viventi siamo creditori e debitori di vita, di Dio e dei
genitori. Nell’incrocio di vita e contingenza si crea così, su ogni relazione, l’ombra della
colpevolezza, della mancanza di proporzionalità e relazione, anche senza la malvagità. La legge di
Calcedonia che sarebbe la salvezza (non confuse e non separate) è la cosa più difficile sia verso di
noi, che verso gli altri, ecco allora l’importanza di uno che stabilisca ciò per tutti! Ed è Gesù a
stabilirlo, ma tramite il sacrificio (II) e l’abbandono (II), che andiamo ora a vedere.
Il sacrificio
Questa è la cosa più naturale dell’uomo, che per noi è parola plumbea, perché sa di negazione, di
donare sofferto, ma nel senso antico è una realtà molto più ampia, tanto che il giorno del sacrificio è
giorno di festa (certo un po’ meno per il sacrificato), un gesto generoso 4. Nel sacrificio c’è dunque
uno scambio lieto e la civiltà comincia sempre con il sacrificio di qualcuno, gli stessi misteri del
cristianesimo presuppongono un visione molto sacrificale e predicandoli in maniera edulcorata
veniamo smentiti dalla realtà stessa di ciò che predichiamo. Dare vita e morte sono fenomeni attigui
e in Gesù interagiscono. Donare non è infatti solo un elargire, è un abbandonare, un perdersi a
Curioso, come alcuni dicano che l’uccisione degli animali con il metodo ebraico-musulmano non fa emettere grida
alle vittime, mentre nel metodo occidentale sì.
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favore di qualcuno. La vita è dunque: dare e ricevere, annichilare e distruggere, essere debitori e
creditori, scambio lieto, essere colpevoli, sostituzione vicaria, gesto significativo e sofferto. Già
nelle culture antiche si ha così spesso l’identificazione tra sacerdote e vittima. Il sacrificio è dunque
la cosa più naturale e allo stesso tempo innaturale della nostra vita, la vita è movimento continuo tra
il sacrificare e l’essere sacrificato. Curioso a tal proposito come Calasso faccia notare che la stessa
Europa sia nata da un bacio e da un ratto e che sia da subito nata in antagonismo all’Asia. La vita
dei greci e anche dell’AT è poi tutta segnata dalla logica del sacrificio, dall’antagonismo e
l’abissalità tra varie città e autori, tutto è agonale e antagonistico (cf Eraclito e Anassimandro).
Per alcuni autori Cristo avrebbe traforato, fatto saltare il meccanismo della violenza, prendendola su
di sé, caricandosi la violenza subita e trasformandola in gesto di somma libertà. Nel nodo più
stretto, dell’abisso più infimo della non relazione tra gli uomini e tra gli uomini e Dio, egli
ristabilisce tutto. Egli prende realmente e simbolicamente l’intrigo ed il cappio della morte,
dell’invidia, della logica di potere e lo mina, lo scalza, lo supera, prendendolo su di sé senza
vendicarsi, prendendo su di sé la realtà come è, nella sua sofferenza e nella sua interezza,
trasformandola anche in un ricordo simbolico (che richiama gli inizi) e in un promessa
metaforica/escatologica. Tutto ciò Egli lo fa tramite l’abbandono, il perdono ed il dono:
- L’abbandono. Egli viene consegnato alla crudezza del sacrificio, viene tradito, diventa
vittima che fa i conti con la realtà della violenza, nella zona tra l’anonimato e la colpa
personale. La “rete” o ragnatela dell’abbandono è infatti più grande della colpa dei singoli.
In tutto questo contesto Gesù SI consegna, abbandonandosi attivamente. È LUI che si
consegna, non dipende dall’abbandono, dalla consegna altrui! Si consegna/abbandona,
innanzitutto nelle mani di Dio, tramite la preghiera, che è il primo atto a sfondare e strappare
le maglie della ragnatela, delle camere chiuse create dalle nostre ideologie. Si
consegna/abbandona poi anche agli uomini, accettando di essere consegnato/abbandonato
anche da Dio. Così è condotto all’evento crudo, nudo, cosificante, oggettivante della
violenza che diventa un processo di simbolicità protologica (cf abbandono I). La soluzione
finale è infatti ricordo della nascita, tanto che si invera nella risurrezione, nella rinascita.
- Il perdono. Nella signorilità con cui Gesù affronta il tutto entra anche questo aspetto, che è
un ripagare, un restituire. Siamo infatti vittime condizionate dal processo che intentiamo agli
altri e dal quale raramente usciamo, siamo inseriti in un balletto di potenti che in realtà sono
impotenti. Come la preghiera sfonda la ragnatela e attiva l’abbandono, così il perdono
sfonda la logica dell’intrigo, portando alla logica della libertà, perché fa vedere l’altro sotto
un'altra luce e lo mette sotto un’altra luce, perché scommette sulla rigenerabilità altrui e
propria. Perdonare è così ridonare all’altro il suo volto, scommettere sulla sua libertà, in
mezzo a tanti condizionamenti e proiezioni che vengono dai nostri risentimenti. Come infatti
gli adolescenti si tappezzano le stanze di foto, così noi pseudo-adulti tappezziamo le stanze
del nostro io con immagini varie che condizionano la nostra vita. Il perdono fa piazza pulita
di tutto ciò, restituendo all’altro la capacità di promettere e di essere promettenti, la sua
fenomenalità, lo splendore del suo volto.
- Il dono, perché tutto ciò viene compiuto restituendosi come dono affidato, come feudo che
mi è stato consegnato. Il dono non è quindi constatazione di un fatto, ma continua riscoperta.
Ora i “polmoni” di coloro che sono dei “signori” sono alimentati di continuo dallo schema che
abbiamo visto e vi sono inseriti dentro, esposti alle dinamiche viste.
Bader basandosi sul concetto di pondus, aggiunge che Gesù nella Passione, subisce il peso, perde il
suo carattere simbolico-metaforico così ben visibile nei miracoli e nelle parabole, ed è ridotto ad
oggettività nuda e cruda. Prende su di sì la logica della violenza che riduce l’altro a fatto, moneta ed
oggetto; si carica dell’aspetto plumbeo della colpa e proprio in ciò sta l’infimo della sua riduzione,
nell’assistere al proprio annichilamento, alla propria sepoltura (non per niente il primo millennio
evitava la croce, per evitare una falsa idolatria, una falsa oggettivazione, come accade anche nella
fotografia che fissa un momento). Proprio da questo punto morto in cui la rivelazione è annientata,
rinasce la possibilità di parlare sulla/della croce nella preghiera, nella teologia e nell’eucaristia.
Tutto ciò che abbiamo visto si muove tra teologia liberale e dialettica, perché come per la prima è
improponibile il sacrificio, che viene visto solo come un accidente dovuto alla colpevolezza
dell’uomo, così per la seconda c’è la necessità del sacrificio. Bisogna cercare di ascoltare tutte e due
e mettere insieme redenzione-liberazione-sacrificio. Sacrificio inteso ovviamente nel suo essere
festa e signorilità e al contempo annichilazione, ricordando che sacrificio vuol dire innanzitutto
sacrum-facere, fare sacro, rivestire le cose di un sovrappiù e quindi è un atto di cui essere fieri, di
cui si deve andare orgogliosi! È per questo che non c’è scelta grande e virile senza che questa
comporti un sacrificio, perché è proprio questo a dare un peso alle cose, a dar loro sapore. È qui che
sta insita la signorilità del celibato e del matrimonio, perché è un lasciar tutto ciò che è
sproporzionatamente contro Dio e contro la nostra libertà. Poi certo il sacrificio ha anche un aspetto
ascetico e magari schiacciante, ma non è anzitutto questo! Certo bisogna fare molta attenzione ai
falsi sacrifici. Sacrificio e redenzione così da un latro si contraddicono, perché la seconda libera dal
primo, ma allo stesso tempo senza sacrificio non c’è vita, redenzione e simbolicità.
Maestro insuperato di questa impostazione è Anselmo, sistematizzato poi da Tommaso, perché il
sacrificio, va ragionato, pensato, capito, visto che corrisponde alla grandezza e all’abisso dell’uomo.
La ragione trova nel gesto dell’abbandono e nel pensare il sacrificio il suo culmine. La vita è fatta
infatti per darsi, per dimenticarsi, per sacrificarsi e così il sacrificio è un gesto congeniale alla
ragione, anche se oltrepassa la ragione e quando ciò non avviene, si istituzionalizza la violenza.
Polarità delle immagini che descrivono la redenzione
In materia la Dogmatica Poetica di A. Stock (edita solo in tedesco), è eccezionale. Poi Simone Weil,
La Grecia e le intuizioni pre-cristiane; F. Alberoni, Stato nascente; M. Zambiano, L’uomo e il
divino. La nostra cultura occidentale si basa su due guerre (la conquista di Troia e la conquista di
Canaan, due conquiste, che hanno avviato due guerre con l’Oriente, ancora oggi in corso) e due
processi legali, semilegittimi ed ingiusti, quello a Socrate e quello a Gesù. Per il primo si legga
Eutifone, Critone, Apologia e Fedone, più il mito della caverna con il giusto ammazzato. Questi due
processi sono semi-legittimi, perché in fondo entrambi i condannati hanno minato e scalzato la
vecchia forma di religiosità, ma d’altronde è normale, perché, come dice la Zambiano: «Niente
intimorisce la vecchia pietà, come la pietà nuova … su questo crimine del sacro si fonda il sacrificio
… i profeti vanno ammazzati … si paga perché si è figli e semplicemente uomini». Detto questo,
perché Socrate non un redentore e Gesù sì? Vediamo di delineare una prospettiva feconda per
rispondere, usando 1 Pt 1,18ss; 2,24 e Rom 3,21-6 (2 Cor 5,21; Gal 3,13; 1 Cor 6-8; Fil 2
stabiliscono già di più un rapporto con l’etica), e presentando la polarità, contraddittorietà ed
apertura, che circonda l’evento della redenzione. Stock elenca 8 categorie, delle quali però non
presenta il compare, ma che noi aggiungiamo:
- Insegnante (= che costituisce tutto come segno), didaskalos, Logos e Nomos, ma anche
bambino, pais. Questo ammaestrare con lo spirito di un fanciullo è ciò che emerge in
maniera signorile nel suo essere inerme, non passivo, nella passione. Socrate invece in punto
di morte fa tanti discorsi, anche se a dire il vero, pure il Gesù di Giovanni!
- Redentore, Colui che guarisce, illumina, esorcizza e salva, ma anche Servo sofferente.
- Buona pastore, ma anche Agnello, pecora da macello.
- Giudice, ma anche giudicato come delinquente e giustiziato come tale.
- Re, ma anche schiavo
- Agnello, ma anche Leone, pesce e porta
- Crocifisso, ma anche circondato da un alone di luce (cf tela di M. Grunewald)
- Presentato con immagini naturali, ma anche con immagini personali
- Il suo gesto è legato a del denaro, ma anche a del sangue.
Non c’è quindi solo una categoria o una logica soteriologia, ma molte: economica, personale,
drammatica, terapeutica, pedagogica, cultuale, giuridica, politica ecc. E tra di loro non combaciano,
spesso fanno attrito ed ognuna ha una sua logica perfetta in sé. Ciò fa però già parte del processo
redentore, perché l’uomo tende ad enfatizzare una o due categorie, isolandole e tendendo così ad
una lettura depressiva od inflazionante del simbolo. Devo dunque chiedermi prima di fare teologia,
e di accostarmi in questo caso al nucleo della redenzione, cosa mi è caro, cosa vorrei far emergere
nel mio stile di approccio, per esteriorizzarlo.
Nel Cristianesimo abbiamo così una polarità, una verità che è sempre maggiore e che apre
all’ulteriorità, permettendo ai simboli di essere luoghi del rivelarsi divino/umano e rendendoli
metafore promettenti, nascenti dal conflitto dei simboli. Tutto ciò ci apre ad una verità che è
sempre maggiore di noi e alla libertà e la Rivelazione mostra la pregnanza, ma allo stesso tempo la
mancanza, di ogni simbologia/metafora. Per Ricoeur (in Dire Dio) Cristo stesso è però, in fondo, il
simbolo fondamentale dell’amore sacrificale, più forte dell’amore, aggiungendo a Dio il potere di
incarnare tutte le simbologie in un’unica, quella del Cristo. Mediante il redentore reale, il valore dei
simboli e delle metafore non viene dunque superato o falsato, ma accresciuto e aiutano ad entrare
nella possibilità del suo non essere (morte), da cui scaturisce un nuovo essere (resurrezione). La
metaforicità, fa così parte dell’evento redentore, il Logos della croce è così anzitutto principio
metaforico, infatti non esistono dogmi sulla soteriologia, come sui passaggi fondamentali della
storia (creazione e incarnazione). L’unico caso, che ci crea ancora molti problemi oggi, è quello
della transustanziazione. Con il metodo metaforico, il cristianesimo abbraccia così: un’estrema
razionalità/ragionevolezza (è sempre il Verbo, il Logos, il protagonista!) ed allo stesso tempo
l’irrazionalità e la mitologia; la soggettività e l’oggettività; la bellezza e la bruttezza.
A questo punto possiamo passare ad analizzare le varie metafore e attenzione, perché se è già arduo
tradurre i simboli in concetti, è ancor più pericoloso/idolatrico tradurle in immagini! Le metafore
non si lasciano infatti mai tradurre, risolvere, né in concetto teorico, né in etica, come sostengono
invece Moingt, Kung e tutti i liberali. Certo hanno una portata etica, ma l’uomo non è solo essere
etico, per questo il compito della teologia è anche quello di ricordare continuamente i motivi
classici, anche se non riusciamo più a capirli, o a crederci!
Le metafore animali
Su questo tema vanno letti gli inni di san Tommaso (Lauda Sion, Adoro Te Devote, Victime
Paschali ) e Summa III 73, 6. Sono possibili queste metafore, perché come dice Guardini (in Il
Signore): «La religione è più che umana e per questo sa abbracciare anche ciò che è sotto
l’umano», proprio per questo può e deve, ricorrere al creato come ambiente del mistero. Certo il
cristianesimo è antropocentrico, ma non ci sono solo Dio e l’uomo! A ben vedere poi negli animali
c’è una forza elementare, una potenza, una indicibilità che è impossibile tradurre in teoria, una
presenza di immediatezza, di assenza di riflessione, pura, esposta e signorile, tanto che il cavallo è
sempre più elegante del cavaliere. E poi loro vivono sempre tranquilli, mentre noi viviamo per
l’80% agitati da false attese e false proiezioni. Per non parlare poi dei vegetali, basta guardare gli
alberi, che intossicati verdeggiano più che mai: sono un autentico miracolo morale! Colpisce
dunque la pazienza “metafisica” degli animali, la loro presenza pura, selvaggia ed esposta al
sacrificio. Hanno qualcosa di trasparente, ecco perché nel Lauda Sion, ostia ed agnello si fondono.
Ciò che dunque noi non vogliamo riconoscere l’animale lo vive. Gli animali sono spesso poi
elementi di trasporto e per questo fanno lavori espiatori, ma sono anche elementi di gioia. È poi
curioso che siano un elemento chiave dell’araldica, che quando l’uomo debba rappresentarsi nella
sua signorilità e nel suo ufficio, usi gli animali!
Una delle metafore animali cristologiche più pregnanti, è quella dell’agnello, soprattutto nell’opera
giovannea. Noi siamo detti da Pietro pecorelle smarrite, redente attraverso il sangue dell’agnello.
Nell’agnello c’è infatti forza e passività si configurano. Nel suo ammutolirsi poi c’è una signorilità
enigmatica, di chi sa di non essere nulla e viene sacrificato. C’è dunque in lui una purezza di
presenza, una signorilità e una pazienza, ma allo stesso è cibo per noi.
Gesù è però anche pio pellicano, che si batte il petto per i piccoli. E poi è leone di Giuda. È pesce,
che emerge come simbolo eucaristico nel penultimo capitolo di Giovanni.
Le immagini giocano dunque tra di loro, si equilibrano. Forse l’uomo si proietta negli animali, per
purificarsi dalla proiezione.
Immagini personali
Gesù è però anche Buon Pastore e così la logica sacrificale diventa logica personale, e porta al
riconoscersi perché riconosciuti. Non a caso sono molti gli idilli pastorali (da Virgilio alla sesta
sinfonia di Beethoven), a ricordare la reciprocità tra natura e cultura, tra giardino e gregge, perché
c’è una reciprocità viscerale tra sacrificio e riconoscimento. Ma l’immagine del buon Pastore è
strettamente legata alla porta, soglia che terrorizza l’uomo e che, identificata ad una persona, perde
il suo carattere magico, perché è Gesù che con la sua vita ed il suo sacrificio, permette il traffico.
Immagini economiche
A tal proposito vedasi Rimmel, Filosofia del denaro e Dio e denaro. La moneta innanzitutto. Nel
nostro mondo di ricatti permanenti, dove ognuno deve essere liquidità, il denaro è simbolo
permanente della transustanziazione di tutto. È il denaro infatti la vera economia salutis per il
mondo! Ma chi copre questo denaro? Chi copre i nostri debiti? La simbologia del denaro, sa di
prostituzione, perché chi paga può tutto, liquida ogni valore, costituendolo. Il denaro porta poi
sempre l’immagine del potere, di Cesare, perché è questo a definirne il valore. Oggi che poi
viviamo in un mondo si speculazione, sia in borsa che in teologia, non c’è più copertura di niente e
aumentano coloro che vanno sacrificati per coprire! Per cosa uso poi il denaro? Il regno simbolico
qui è molto cangiante nell’opera “L’anello dei Nibelunghi” di Wagner, se ne coglie tutta
l’abissalità. E nel Vangelo? Chi è che paga ad esempio la tassa dei tributi per il tempio? Ecco che
un pesce deve morire e da esso si estrae una moneta, chiara allusione a Gesù che si adegua alle
regole, ma facendole saltare, perché Egli si fa pesce e moneta. E anche noi dobbiamo diventare dei
mercanti di perle che vendono tutto per un fantomatico tesoro! Il vero prezzo da pagare è dunque il
sangue, cosa sono disposto ad investire, a dare? [Come negli Intoccabili: «Cosa sei disposto a
pagare?»]. Un che di sangue deve sempre scorrere per coprire ciò che dico, altrimenti è flatus voci.
In che senso siamo redenti?
Per questa parte R. Ottone “Il tragico come domanda”, M. Cacciari e R. Habachi “Il momento
dell’uomo”. Su quale piano dimensionale si muove dunque la redenzione? Su quale livello? Reale,
linguistico, informativo? Essa infatti non è la soluzione, risolve poco, anzi più che altro esaspera i
toni, scava nelle domande e quindi non è risposta dogmatica, metafisica e morale. Essa più che
rispondere, corrisponde, tanto alla grandezza quanto alla miseria dell’uomo, alla nascita e alla
morte. Redenzione così corrisponde ad ambedue queste realtà e le corregge. La redenzione è così
una nuova chiamata all’azione, alla passione, alla simbolizzazione e alla trasformazione delle nostre
esperienze, è l’orizzonte assoluto che fa leva sulla nostra libertà, sul tragico e sulla meraviglia.
Mette in scacco la nostra libertà, ma allo stesso tempo la mette in movimento. La libertà esiste
infatti solo nell’attuarla, nell’arrischiarsi, nell’iniziare nell’abbandono allo slancio iniziale in noi e
nella situazione in cui siamo. Vivere è così in fondo, trasformare le nostre contraddizioni in polarità
promettenti, per prendere in mano il proprio destino. Nelle esperienze del tragico, del
contraddittorio, il singolo è chiamato ad attraversare una situazione lacerante, tramite un atto di
libertà, non per risolvere, ma per risolversi. Così il tragico non diventa negazione della libertà, ma
sua possibilità. In tutto questo Cristo è la piattaforma, l’ambiente e l’evento, dove l’appello delle
varie contraddizioni viene accolto in modo liberto, sciolto e veritiero, in Cristo l’uomo intero è
assunto nella persona del Verbo, già la creazione infatti non era esternazione di Dio, ma sua
assunzione e accoglienza, vena questa della teologia francescana visibile in liturgia Natale.
Redenzione come svolta trascendentale e storica
Ci sono personaggi che sono più che persone, che rappresentano una svolta trascendentale in cui si
cambia la visione e la realizzazione del mondo, che scoprono, valorizzano e percorrono sul proprio
corpo nuovi mondi, essendo loro stessi dunque laboratorio di questa svolta. Non basta infatti essere
insegnanti di questa nuova visione, ma subirne e gestirne il cambiamento proposto, attraversare con
la propria biografia una nuova ottica di vedere e vivere il mondo e sé stessi. Queste svolte intraprese
incidono poi su tutti quelli che vengono dopo di loro, sia nel bene che nel male.
Gesù fa parte di questa etnia di persone, è un personaggio-cerniera di questo tipo, scoprendo un
altro rapporto tra l’uomo e: il male e Dio, la legge e la grazia, la creazione e l’escatologia, la
vicinanza e la lontananza di Dio, il peccato e la santità ecc. E così facendo rivoluziona la religione
che è una delle realtà più intrinseche (mistica) ed allo stesso tempo estrinseche (rito) dell’uomo.
Egli ha attraversato infatti l’improponibilità di questi rapporti, aprendo nuovi orizzonti,
simboleggiandone la polarità e metaforizzando sia la grandezza che la miseria dell’uomo,
trasformando cioè le contraddizioni in un campo ellittico, perché in Lui non si scomunicano più, ma
sono simboli della grazia primaria e metafore della grazia escatologica e l’impatto tra le due, che
Egli vive sulla sua pelle, viene trasformato in libertà, come ben mostra la teoria dell’accettazione un
po’ dimenticata di Bonaventura, Scoto e Rahner.
Gesù è così una persona storica, ma anche istanza, modello, gestualità da reiterare, icona di
contemplazione, simbolo di inclinazione inaudita di Dio e di libertà dell’uomo, metafora inedita
della congiunzione delle due e del loro naufragio (vedasi le sette parole di Gesù in croce). Così
l’idea della redenzione allarga la sfera simbolico-metaforica, fino all’estrema soggettivizzazione ed
oggettivazione ed è per questo che il cristianesimo può reggere all’irrazionalità e alla
razionalizzazione, alla passione e alla ragionevolezza dell’uomo. Il cristianesimo da infatti ragione a
questi estremi e al tragico, all’impatto tra i due, trasformandolo in un gesto di consegna della
libertà. Ciò si vede nella metafisica polare di Gesù.
In ciò sta la rappresentazione vicaria di Gesù che tiene il posto libero per noi, nel vortice della
contraddizione, grazie alla preghiera, alla consegna, alla misericordia e alla promessa. Anche questo
meccanismo è archetipale nella storia dello spirito, perché tante storie, romanzi, film, opere si
risolvono con la soddisfazione vicaria, con l’offerta-di-se-per di figure pure che si caricano
dell’impurità. Figure che fanno leva sulla libertà, perché la redenzione non è un meccanismo
automatico, ma sviluppa, stimola ed investe la libertà.
Redenzione come liberazione dalle meta-teorie
L’evento cristico potrebbe così di suo liberare dagli idoli, dalle potenze, dalle mitologie, dal
superio, dal fato, dalle potestà ecc. solo se però noi stessimo al gioco. La novità del cristianesimo
sta proprio nella liberazione da tutte queste proiezioni di angoscia e dalla ideologia simbolizzatrice,
per liberare l’uomo alla realtà contingente. Proprio per questo Cristo rivaluta i bambini, le donne, il
corpo, il lavoro, gli sconfitti, le vittime, ecc. perché è proprio tutto ciò che l’uomo/maschio scansa o
sottovaluta nelle sue ideologie. Tra Gesù e i suoi “preferiti” c’è molta affinità elettiva e la
risurrezione è anche processo di riconoscimento, da parte di Dio, della libertà umana, è conferma
simbolica dello sfondamento del tetto della superbia tracotante che genera angoscia operato da Gesù
e metafora felice dell’incontro tra il divino e l’umano.
L’escaton è così il salvagente del nostro corpo, volto, nome e diventa paesaggio della nostra vita e
della nostra libertà comunicativa con noi stessi e con gli altri. Non è facile crederci oggi, perché un
conto è vivere in tensione escatologica per 40 anni (età media di una volta), un conto è per 80! Così
questo porta molti di noi a vivere in una realtà virtuale che non è la realtà. Così la metafora in questi
casi diventa anche solo fantasia allettante e promettente, per allargare la visuale, aprire il varco e
questo soprattutto nella pastorale e nelle azioni liturgiche (soprattutto funerali e matrimoni), dove
ognuno non sa più il nostro linguaggio. Ciò aiuta a far emergere un Dio poliedrico, che tiene in sé
l’altezza e la bassezza, che è passaggio, reciprocità, spazio accogliente di libertà comunicativa,
lontano, istanza/distanza, accogliente/elevante, signorile/servile, giustizia/misericordia. Dobbiamo
entrare in quest’ottica per recuperare un po’ di fantasia speculativa e di tatto umano.
Posto dello Spirito Santo nella Redenzione
Tutto ciò avviene nello Spirito Santo. Gesù è infatti un’istanza, perché attraversato dallo Spirito, da
Colui che è comunanza selvaggia e personale, principio della solitudine e della comunione, di
interiorità e di comunicazione, di signorilità e di vulnerabilità, di ordine e di carisma, di concretezza
e di trasformazione/risurrezione. Gesù è così attraversato dallo Spirito ed è suo Servo e per questo
ne è anche Signore e può donarlo alla Chiesa piena dello Spirito, ma allo stesso trascesa da Lui.
Anche per questo che le simbologie a lui relative sono molto ricche e comprendono categorie
elementari/naturali, giuridiche, personalizzanti e comunionali. Anche lo Spirito Santo poi non è
meccanismo, e ci ispira, aspiriamo a Lui e cospiriamo con Lui, ma vuole animarci.
Cristianesimo e logica della Redenzione
Il cristianesimo è così orizzonte e fermento della realtà, non è solo da vivere o un’ideologia, una
strategia, ma metafora della realtà, aggiunta determinante, tocco trasformante, condimento della
minestra. Non ha senso dunque che esso insista su di sé, ma per aggiungersi alla nostra realtà, alla
nostra grandezza e alla nostra miseria ed è un’aggiunta sollevante. Esso si lega così ad ogni
congiuntura, ma ricordando il non detto e l’interdetto è anche pungolo, è condimento e critica,
apertura, garanzia, sollievo, costituente una metafisica aperta e relativizzando i doni che abbiamo.
L’80% di noi pensa ad una coincidenza tra i propri ideali e Gesù, ma non è vero, perché Lui è
sempre di più. Appena fissa questa coincidenza il cristianesimo inizia a fissarsi su di sé e diventa
moralista, fissato sull’ortodossia ecc. e non è più voce, sale ecc. che conforma ogni nostra informità
e la eleva e la contrasta. Così il cristianesimo ci libera anche dall’ideologia della redenzione che è
anch’essa passaggio. Noi non siamo infatti una religione orfica o un culto di mitra, siamo anche
questo, ma non solo! Perciò la metaforicità della redenzione ci aiuta ad essere redenti dal rischio di
assolutizzare la redenzione stessa!