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DICEMBRE 24, 2016 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE 5 COMMENTS
Capire la Fenomenologia: Chi ha
paura di Hegel?
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La Fenomenologia di Hegel
L’Io è questo sapere assoluto pervenuto
al dominio e alla certezza di sé
A proposito di Fenomenologia chi ha fatto il liceo ricorderà anche solo
vagamente quel gioco di parole insignificante che gli faceva il professore per
cui ascoltando Hegel stava lì a sentire tutto un “in-sé”, “per-sé”, “altro-da-sé”,
“fuori-da-sé”, “in-sé-e-per-sé”. Fermo restando che “chi fa da sé fa per tre” e
che lo Spirito in quanto sapere Assoluto i detti popolari li conosce tutti, è
chiaro che il movimento dialettico non può ridursi a queste filastrocche.
ATTENZIONE!
Qui trovate uno schema sul primo Hegel
Qui uno schema su tutto il resto
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Sai che fatica scrivere questo post? Sicuro di non volerlo condividere?
Un piccolo gesto per te che significa molto per me! �
Chi non ha letto la Fenomenologia dello Spirito e non l’ ha neanche capita può
a diritto risparmiarsi la fatica di leggere il mio post, visto che non ho cose più
interessanti da dire di quelle che ha detto Hegel. Chi non lo ha letto, ma dice di
averlo capito si guardi bene almeno dallo spiegarlo e se ha avuto la disgrazia
di essere anche un professore di filosofia lo salti direttamente. I pochi rimasti
che come me ai tempi lo lessero e non lo capirono possono se vogliono perdere
un po’ del loro tempo a leggere quanto ho scritto e magari anche a dirmi la loro.
Non avendoci capito nulla a suo tempo nemmeno io, ho provato a chiarire i
passaggi che allora mi erano più oscuri e che mi impedivano di comprendere a
fondo il suo pensiero.
Leggere la Fenomenologia dello Spirito, come ebbe a dire il mio non-maestro
Sandro Mancini, è una scalata; non fate mai l’errore di pensare: “se questo è
l’inizio, figuriamoci il resto”. Dopo la salita iniziale infatti si arriva in alto, l’aria è
più rarefatta e il passo ancora un po’ faticoso, ma riprendendo fiato si gode di
un meraviglioso panorama.
“In-sé”, “Fuori-da-sé”, “In-sé-e-per-sé”: lo
Spirito che fa da sé fa per tre
Hegel, con la sua Fenomenologia, è uno dei primi pensatori a concepire tanto
la ragione, quanto la natura, come risultato di un’evoluzione e a fornire per essa
una legge di sviluppo forse più credibile di quella che poi diede Darwin e più
che lui il cosiddetto darwinismo sociale. Si tratta del movimento dialettico di tesi,
antitesi e sintesi, conosciuto anche come movimento dell’in-sé, per-sé e in sée-per-sé. Capire questo movimento in astratto è molto complicato, mentre
diventa di gran lunga più semplice coglierlo con esempi concreti, visto che
descrive lo sviluppo di qualsiasi cosa; sviluppo che proprio perché segue una
legge ben precisa non è casuale, ma razionale. Le cose non evolvono a caso,
ma seguendo un criterio ben preciso, che chiamiamo: movimento dialettico.
La verità è l’identità di soggetto e oggetto.
Il Razionale è reale, il reale è razionale questo è l’assunto di base
e questo è quello che deve poter ottenere la coscienza nel suo
percorso. Che vuol dire?
Come fate a stabilire se una cosa è vera, se non stabilendo una corrispondenza
tra ciò che avete affermato (razionale) e la realtà dei fatti? Ma quali sono i criteri
di questa corrispondenza? Qual’è il metro che usate per capire se una cosa è
vera o meno? Questa è la domanda da cui parte la Fenomenologia e che ci
accompagna per tutto il testo.
Cos’è dunque la verità?
Questa è la semplice (si fa per dire) domanda che la coscienza narrante (il
per-noi) pone alla coscienza individuale. Questa è l’unica vera domanda
filosofica che è alla base di tutte le domande possibili e su cui l’uomo dalla
notte dei tempi si interroga.
Ella volta per volta risponderà con delle definizioni di verità, mentre il per-noi
volta per volta la inviterà a confrontare il dato con l’ottenuto. Ciò che aveva
posto come vero con ciò che è materialmente accaduto. E’ questo continuo
raffrontare la situazione di partenza con quanto successo dopo che spinge in
avanti la coscienza nel suo percorso all’interno della Fenomenologia.
Solo in questo senso:
“Il razionale è reale e il reale è razionale” (Was vernünftig ist,
das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig),
non certo nel senso ingenuo che Io sono l’oggetto che ho di fronte a me. Per
arrivare a sostenere una cosa del genere basta fumarsi roba buona, non certo
spararsi la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
La Parola “realtà” in tedesco è tradotta con
Realität o Wirklichkeit.
Wirklich è un avverbio che banalmente si traduce con “davvero”, ma sarebbe
più corretto rendere con “realmente” o “effettivamente”: “Questa cosa è
davvero bella/Das wirklich schön ist”. Wirklichkeit è dunque la
sostantivazione di wirklich che in tedesco si può sempre fare, in italiano quasi
mai. Di “sedia” la forma sostantivata sarebbe “sedietà” (e vi giuro che chi studia
Heidegger questa parola la usa!), di “davvero” potrebbe diventare “il davvero”,
ovvero la “davvereità”, che come capite tutti fa schifo come parola. Prima di
farci internare alla neuro, conviene dunque cambiare termine e rivolgerci al più
gestibile avverbio “realmente”.
La forma sostantivata diventa allora “Il reale” o “la realtà”;
la si confonde con Realität in italiano, perché di fatto la traduciamo allo stesso
modo, ma almeno l’accademia della Crusca non ci ride dietro, visto che non
siamo bambini e che di prenderci per il culo non ne ha voglia (“petaloso” per
inciso è una parola che fa schifo). C’è chi preferisce l’espressione “effettuale”
intendendo quindi un razionale che ha avuto un “effetto” o anche che si è reso
“effettivo”, ma l’espressione di primo acchito non risulta maneggevole, per cui
meglio conservare “reale” come traducente.
Fatto sta che per Hegel il razionale è ciò che viene anche “realizzato
effettivamente”, ovvero, reso reale dal movimento di sviluppo, che è in sé
proprio la legge (razionale) che si fa reale. Una cosa che non è razionale non
viene neanche realizzata, il che equivale a dire che tutto ciò che ha una realtà
effettiva ha una sua razionalità. Pensando allo sviluppo evolutivo delle varie
forme di vita, alla magia del DNA (4 lettere per 4 basi azotate) e alla complessità
dell’esistente è facile pensare che la realtà sia razionale, che si esprima vale a
dire secondo un linguaggio che noi possiamo comprendere, proprio perché
fatto della stessa natura nei nostri pensieri.
Realität è allora la realtà data, colta come su una foto potremmo
dire, la Wirklichkeit è quella stessa realtà vista come un risultato,
un prodotto, un divenuto.
Siamo dei Sapiens sapiens e questo è un fatto, potremmo dire, questa è realtà
(Realität), siamo però anche l’evoluzione dell’uomo di Neanderthal che a sua
volta discende dal l’Homo herectus e così via. Noi abbiamo realizzato l’uomo di
Neanderthal, lo abbiamo reso effettuale, facendolo scomparire (che culo!). Lui
però a sua volta aveva reso lo stesso servizio a quello di prima per cui siamo
pari.
Siamo però anche l’unica cosa che potevamo diventare, perché siamo in
quanto scaturiti da una legge di sviluppo universale, di un esito che per quanto
non saputo in anticipo, né predeterminabile, si dà con la stessa necessità con
la quale si da la legge dell’identità A=A e della differenza A≠non-A. Posto l’uno,
vale a dire, è posta immediatamente e secondo necessità, sia l’identità dell’uno
con se stesso (tesi), che l’opposizione al suo contrario (antitesi), come
condizione della sua stessa identità. Sulla sintesi o riconciliazione ci ritorniamo
dopo.
Parmenide: l’Essere è ciò che dice di
essere, dice la verità ma non la riconosce
(tesi)
Chiunque di voi avrà almeno una volta aperto un libro di filosofia si sarà
certamente imbattuto nel pensiero di Parmenide e forse si sarà stupito di come
egli andasse fiero nell’affermare che
“l’essere è non può non essere”
e “il non essere non-è e non può essere”,
un’affermazione di una banalità quasi disarmante: “E sti cazzi, no?” verrebbe
da rispondergli. Poi però pensi che “cazzo” è una brutta parola per cui
continui ad ascoltare o leggere fingendo una faccia stupita per quella
meravigliosa affermazione.
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A proposito, nel dubbio non è che vuoi mettere sto benedetto mi piace?
Non credi me lo sia già guadagnato? Se condividessi sul tuo diario
poi…. Urka che giornata sarebbe la mia! 😛
Orbene, quello fu piuttosto il momento storico nel quale l’essere raggiunse
piena consapevole di sé e pronuncio per la prima volta il suo nome: proprio
come io dico di essere Alessio, quando mi presento l’Essere allora per bocca
di Parmenide disse di sé e disse l’unica cosa che poteva dire: che è e che non
può non essere (cosa quest’ultima già bell’impegnativa, visto che io al contrario
di lui sono, ma avrei anche potuto benissimo non essere).
Affinché ci sia unità, infatti, è necessario non solo che questa venga posta, ma
anche che essa si sappia come tale, che essa vale a dire sia “in-sé”, ovvero
presa per sé stessa, ma anche “per-sé”, ovvero abbia consapevolezza di ciò
che è (sì lo so, sto recitando anche io la solita filastrocca, ma se siete giunti a
leggere sin qui, ve lo posso anche dire). Si da allora il caso che l’essere umano
sia l’unico punto in cui l’essere, nella sua evoluzione, possa non soltanto porsi
come identico, ma che nel farlo si sappia come tale. L’uomo è l’unico ente, dirà
più tardi Heidegger (si lo stesso della “sedietà”) che può porsi la domanda su
cosa sia l’essere:
Orbene io ti dirò -incalzava Parmenide – e tu ascolta
accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca
che sole sono da pensare: l’una che “è” e che non è
possibile che non sia, e questo è il sentiero della
Persuasione (infatti segue la Verità).
Questo è il momento dell’identità immediata posta come tale, il momento dello
Spirito appena nato, nel quale esso vive senza frammentazioni o differenze
interne, senza lesioni o fratture. È l’infanzia dello Spirito, l’istante zero del tempo
dell’uomo, quel momento di grazia nel quale tutto è come appare, tutto è
irriflesso, vero, buono e bello in un medesimo tempo. Finché tuttavia l’essere o
l’uno o l’identità che è lo stesso se ne stava inerte come energia, come materia,
come vita non cosciente, la sua identità non poteva essere posta e a ben
guardare di essa non si poteva nemmeno dire nulla. Un cane può al massimo
interrogarsi su cosa mangerà per cena, ma non sulla sua esistenza (beato lui).
Prima di Parmenide l’essere quindi se ne
stava nella sua forma pura, nell’identità con
sé stesso e la sua esistenza non era nota,
né tanto meno pensata. Insomma capite
bene che la frase di Parmenide stupida,
stupida proprio non era.
Proprio per la sua necessità di tenere separati gli opposti, egli si limitò a porre
da un lato l’essere e dall’altro il non-essere. Se l’essere è e non può non essere,
non può nemmeno divenire, non possono essere poste differenze al suo
interno. L’essere parmenideo è dunque immobile, eterno, immutevole,
imperituro, statico. E il divenire? È la via dell’inganno. L’essere non diviene, non
muta, non si trasforma, non nasce e non muore: “Nulla si crea e nulla si
distrugge” dirà secoli più avanti Lavoisier:
L’altra [via di ricerca] è che “non è” e che è necessario
che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del
tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione
di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti
esprimerlo.
Parmenide fu comunque costretto a dire insieme all’essere anche il non-essere
e di esso disse l’unica cosa che si poteva dire, ovvero, che non può essere né
conosciuto, né espresso, né pensato. Egli dunque pone un limite invalicabile
che segna il confine tra essere e non-essere. Questo è il problema! (lui non ve
lo cito per mia decenza) Come quando tracciamo una linea su un foglio bianco
e abbiamo immediatamente, tracciato un confine tra un’al di là e un al di qua
della linea, tuttavia, posto il confine si pone anche la condizione affinché esso
possa essere superato.
Avete mai provato a pensare la fine dell’universo? Immaginando una linea che
ne tracci il confine ultimo, non potete pensare sempre ad un oltre la linea?
Questo è il nostro concetto di infinito, di limite che è anche illimitato. E’ la siepe
di cui parlava quel allegrone di Leopardi, l’ostacolo che nel porsi ci permette
almeno di immaginare oltre esso, via che Parmenide ci sconsiglia di
percorrere.
Noi però ce ne freghiamo e armandoci di cappello e macete, stile Indiana
Jones, ci avventuriamo lo stesso oltre… l’universo direte voi? No la
siepe! (sai che ci vuole).
Eraclito: Il non-essere è ciò che dice di
non-essere, mente sempre! (antitesi)
Della relazione tra gli opposti si accorse
invece Eraclito, il filosofo del divenire. Qui gli abbiamo dedicato uno spillo.
Tutto scorre)!
Gli opposti non se ne stanno separati
dal limite, ma si tendono la mano
passano l’uno nell’altro….
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Dici che ti sto stressando? E metti sto “mi piace” va! 😛
L’essere diviene ciò che non era, il non-essere è ciò che sarà. Posta l’identità
verrà dunque anche pensata la differenza: questa la proprietà fondamentale
del concetto. Se costruisco l’insieme delle cose buone, se cioè mentalmente
costruisco uno spazio per metterci dentro tutto ciò che è buono, ho
immediatamente creato fuori da esso un “mondo” di cose che sono non-buone
e il movimento può avvenire soltanto in questo spazio appena delimitato.
La contraddizione è nel tempo!
È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo,
appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il
medesimo riguardo (Aristotele, Metafisica).
Nessuna affermazione può essere vera e falsa contemporaneamente o riferita
alla stessa cosa. Un’affermazione può valere per un bambino, ma non per un
ragazzo (non ha il medesimo riguardo) o essere vera quando ero bambino e
falsa adesso che sono adulto (in tempi diversi). La contraddizione è infatti una
legge di sviluppo, il divenire stesso è una identità di essere e non-essere (si
diviene ciò che non si era) che è però possibile solo perché sussiste in tempi
diversi. Si è (presente) ciò che non si-era (passato) e si diverrà (futuro) ciò che
non si è ancora (presente). L’identità è una foto, la contraddizione un racconto
e precisamente la storia del divenire della coscienza (anche del genere umano
e dello Spirito, ma queste sono cose che noi non vi posso spiegare adesso).
L’essere dunque si pone, nel porsi nega sé stesso, esce fuori di sé e nel negarsi
una seconda volta torna in sé. Si dice che in questo passaggio ha guadagnato
consapevolezza di sé e quindi che torna in-sé-e-per-sé, ma su questo punto
ritorneremo dopo. Il primo momento è quello dell’identità (in-sé), il secondo
dell’estraneazione (fuori-si-sé), il terzo della riconciliazione (in-sé-e-persé). Posto A si pone anche non-A, posto un non-A si pone non-(non-A) e così
via. Questo è il movimento della contraddizione, della negazione determinata,
quello che Hegel definì con il noto aufheben, tradotto dall’insuperato Giovanni
Gentile con togliere e conservare.
La negazione non è mai vuota, ma determinata, ovvero sempre
negazione di qualcosa, che toglie in quanto nega, ma conserva
proprio perché nega questo qualcosa determinato e non altro.
Che vuol dire? Intanto guardiamo al verbo. Se volessimo dire che abbiamo
preso un libro dalle cianfrusaglie buttate sul tavolo e lo abbiamo riposto in
libreria in tedesco useremmo il participio passato del verbo: aufgehobt. Cosa
abbiamo fatto? Abbiamo tolto il libro dal tavolo e lo abbiamo conservato in
libreria. L’elaborazione del lutto, per esempio, è un togliere e conservare:
abbiamo bisogno di togliere il defunto dalla nostra presenza e tuttavia di
conservarlo nella memoria, che è il senso della degna sepoltura: non a caso
l’uomo è l’unico animale che seppellisce i propri morti. Negazione dopo
negazione, nella Fenomenologia dell Spirito, il movimento crea.
La luce crea la materia, la materia si differenzia nelle sostanze chimiche, le
sostanze chimiche si ricompongono in materia organizzata, la materia
organizza in vita e gli esseri viventi di differenziano fino al punto in cui nasce
l’uomo che inizia a pensare sé stesso e ad un tempo il movimento dell’essere
e di sé stesso come parte di questo stesso movimento.
Il concetto di per-sé (ve l’ho detto che ci sarei arrivato) posto in astratto è molto
complicato da maneggiare,
mentre anche in questo caso concretamente è molto più semplice da capire di
quello che sembra (questa è la ragione per la quale i primi passaggi della
Fenomenologia sono anche i più complicati). Io posso essere intelligente e
dotato, ma non essere consapevole di queste mie capacità. In-sé, allora, sarò
intelligente, per-me sarò uno stupido, per-altri (chi crede nelle mie capacità)
sarò di nuovo intelligente. Mentre però una pietra è in sé dura, ma non saprà
mai di esserlo (sarà dura solo per me che la maneggio), se io sono duro di
comprendonio come una pietra prima o poi si spera che me ne accorga (non è
detto però!).
L’uomo, vale a dire, è l’unico ente che può essere per-sé ciò che è in-sé, ovvero,
come detto poco prima che può guadagnare consapevolezza di sé. Perché
questo passaggio richiede l’estraneazione? Bisogna guardarsi dal di fuori per
capire cosa si è, o no? Nel guardare a tanta gente stupida, tornando
all’esempio, verrà prima o poi un momento in cui mi accorgerò di non essere
come loro: guardandomi dal di fuori (estraneazione), mi accorgerò di ciò che
ero sempre stato. Sarò allora intelligente in-me e per-me, diverrò consapevole
di ciò che sono.
Il per-noi, l’unico che conosce la verità, ma
non la dice (fuochino!)
La Fenomenologia dello Spirito è dunque la storia del divenire della coscienza
individuale (io e tu estenuato lettore) che muove da ciò che essa crede di
essere, fino al punto in cui scopre di essere ciò che è: Spirito Assoluto.
Un po’ come succede nella Storia Infinita il
lettore è anche il protagonista del racconto e il
racconto è in sé un percorso pedagogico ed
emancipativo.
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Mmm… vediamo, che altri argomenti posso utilizzare… Sicuro che non ti
ha convinto, cane di La Storia infinita? :p
Ma cosa dovrebbe spingerci a camminare? Perché mai dovremmo muoverci
dalla nostra posizione in direzione della verità? Chi ce lo fa fare di raggiungere
il punto di vista dell’Assoluto? Beh intanto l’Assoluto stesso, visto che lo Spirito
dopo essersi negato nella Natura, ci terrebbe a ritornare in-sé e può farlo solo
se noi gli accordiamo il permesso. Noi parte della Natura permettiamo allo
Spirito (leggi Dio), di ritornare dalla materia alla soggettività. In secondo
luogo ci costringe a farlo l’obsoleto programma del Liceo e per i più masochisti
e particolarmente sfortunati qualche materia universitaria. Quanto a voi che
siete arrivati si qui, sul serio non capisco cosa vi abbia spinto, ma visto che ci
siete arrivati, vi faccio la cortesia di risolvervi l’enigma. La coscienza individuale
è interrogata da un’altra coscienza.
Come succedeva alle origini della filosofia con Socrate, la verità
resta un dialogo, un discorso a due. Una coscienza domanda e
l’altra risponde.
La domanda della coscienza interrogante è quella del filosofo, allora Socrate,
adesso Hegel, che semplicemente si limita a chiedere “cos’è la verità”. Lui lo
sa già, ma siccome è bastardo dentro, vi rifila nella sua Fenomenologia prima
di dirvelo un pippotto di 800 pagine scritte in tedesco, che restano in tedesco
anche dopo averle tradotte (io sono più buono e ve l’ho spiegato in 4 pagine).
La coscienza interrogante indica la strada verso la verità, che conosce per il
semplice fatto di averla già percorsa e di essersi portata già al punto di vista
che l’universale ha raggiunto in quel momento.
Essa è definita da Hegel come per-noi, ad indicare il senso collettivo della
verità, il suo emergere come coscienza di un popolo, spirito dominante del
tempo. Tutta la Fenomenologia è un dialogo tra il per-sé della coscienza e il
per-noi del narratore, punti di vista la cui distanza verrà via via colmata nel corso
della narrazione, sinché alla fine per-sé e per-noi vengono a coincidere.
Raccontarvi come finisce la storia sarebbe come rovinarvi il finale di un bel film
e quindi non ve lo dico (su serio pensavate che in 4 pagine potessi riassumerne
800?!?), ma è un finale di quelli a sorpresa, di questo statene certi.
La sintesi? Siamo spiacenti lavori in corso!
STIAMO PER
CONCLUDERE FORZA METTI UN
BEL LIKE!
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E che ve lo dico a fare? 😛
L’uomo vive in comunità, egli è l’uno e la comunità sono i molti, egli ha un’idea
di sé e la comunità un’idea di lui: esiste un per-sé ed un per-noi, quello che
abbiamo definito lo spirito di un’epoca, la sensibilità storica di un periodo o fate
voi. Nel suo insieme lo Spirito si muove, come magma ribolle, dal basso verso
l’alto e poi di nuovo giù per ritornar su. Si muove in parti, non tutto assieme e
mentre da un lato lo spirito avanza, dall’altro indietreggia, mentre una parte tira,
un’altra gli si oppone, esattamente come succede a noi nella nostra crescita
interiore. La realizzazione dello Spirito Assoluto nella Fenomenologia dovrebbe
coincidere con la fase in cui quest’ultimo si ricompone, non in parti o momenti
singoli, ma tutto intero.
È per Hegel un ritorno all’epoca classica dei Greci, a quel momento dell’identità
immediata, del tempo in cui guardando un quadro potevamo sospirare e non
interrogarci perplessi su cosa sia. Per dirla con Karl Marx è il momento nel
quale “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri
bisogni”, il paradiso in terra per intenderci.
La riconciliazione è dunque un momento storico nel quale lo Spirito
prende consapevolezza della sua identità,
l’Io si riconcilia con la comunità, il maschile con il femminile, il buono, con il
giusto e il vero e non servono più gli avvocati, insomma, è proprio il paradiso
che si realizza sulla terra (tranne che per gli avvocati si capisce). E’ il momento
nel quale tutte le differenze vengono tolte. Tutte, tutte? Si proprio tutte! La
realizzazione dell’universale è allora anche il momento in cui scompare
l’individuo, il negativo, il dissonante, che è poi la ragione per cui taluni se la
prenderanno tanto con Hegel e il suo concetto di Spirito Assoluto.
La riconciliazione dello Spirito non è però un movimento di pensiero, come
vogliono i critici dell’idealismo, perché Hegel non è così stupido da pensare che
facendosi le pippe mentali si cambi la storia (anche se di pippe mentali se ne
fece proprio tante); è piuttosto la possibilità di un futuro che Hegel immaginava
come prossimo, forse anche una promessa per le nuove generazioni. Oggi
sappiamo che la sintesi non c’è stata, il comunismo non s’è realizzato e l’uomo
vive una profonda lacerazione con la sua comunità. Viviamo nell’epoca
dell’estrema individualità, nella quale il privato ha la meglio sul pubblico,
l’individuo sulla comunità, l’economia sulla politica. Un’epoca nella quale è
possibile pensare che in nome del debito e della stabilità dei mercati si possa
affamare un popolo, schiavizzarlo e privarlo della sua dignità:
“La sintesi? Siamo spiacenti, lavori in
corso”
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scriverebbe oggi Hegel alla fine della sua Fenomenologia.
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chiara la dialettica servo signore
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