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IV. Il realismo politico del tardo Platone
La disavventura siracusana di Platone
Per comprendere la svolta che si realizzò nella concezione politica di Platone,
contemporaneamente alla tarda età del filosofo, dobbiamo fare di nuovo riferimento alle Lettere del
filosofo e riferirci alla sua biografia. Platone infatti in questi scritti documenta in modo
particolarmente analitico le disavventure che gli occorsero a Siracusa, in un maldestro tentativo di
convincere il tiranno locale ad abbracciare le sue teorie politiche.
Siracusa, la principale città della Sicilia, non aveva goduto per tutto il secolo di alcuna
stabilità politica, sino all’emergere della personalità di Dionigi il vecchio, uomo di umili origini
salito in maniera scandalosa ai vertici del potere. Egli riuscì a esercitare un’influenza sull’intera
Italia meridionale.
Nel 388 Platone giunse alla corte di Dionigi, introdottovi da Dione, parente del tiranno. Il
filosofo fu accolto con tutti gli onori, in quanto Dionigi credette, in questo modo, di potere
aumentare il proprio prestigio di politico. Platone tentò allora di guadagnarlo alla filosofia; ma alla
fine Dionigi ebbe sospetto della franchezza del filosofo. Sospetto che crebbe anche rispetto a Dione,
molto prossimo a Platone, che il tiranno credeva intenzionato a realizzare un colpo di stato.
Platone allora venne cacciato e portato a sua insaputa all’isola di Egina, a quell’epoca in
conflitto con Atene, dove ogni ateniese veniva sistematicamente ucciso. Platone, che provò di
essere sbarcato sull’isola contro la sua volontà e di esserne nativo, venne venduto come schiavo; fu
riconosciuto da un ricco cittadino di Cirene, che gli rese la libertà riscattandolo. I discepoli di
Platone radunarono il denaro necessario a risarcirlo, ma costui lo rifiutò; con quella somma venne
acquistato il terreno su cui sorse l’Accademia.
Nel 368 morì Dionigi il Vecchio, e il trono fu ereditato dal figlio, Dionigi il giovane, sotto
però la tutela di Dione. Egli invitò allora Platone a corte, sperando che acculturasse il giovane
principe. In un primo tempo Platone influì splendidamente sulla vita di corte, dove si diffuse la
passione per la filosofia, le lettere e le arti. Successivamente, invece, il tiranno cominciò a
preoccuparsi, quando Platone lo spinse a passare dai principi della teoria alla loro attuazione pratica.
Furono gli uomini di Stato che avevano sostenuto Dionigi il vecchio a tramare contro
Platone; uno scaltro politico, Filisto, accusò Dione di tradimento, per avere intercettato alcune sue
lettere a generali cartaginesi, finalizzate a organizzare un trattato di pace. Dione venne mandato in
esilio e, poco dopo, anche Platone subì la stessa sorte.
Sennonché Dionigi il giovane considerò un affronto per la sua persona gli onori resi a Dione
in Grecia; scongiurò allora Platone di tornare, promettendogli una completa riconciliazione con
Dione. Arrivato il filosofo in Sicilia, ci fu però il voltafaccia; Dionigi, preoccupato della stretta
amicizia fra il filosofo e Dione, prendeva tempo rispetto alla riconciliazione. Alla fine confiscò tutti
i beni di Dione e si oppose alla richiesta di Platone di tornare in Grecia.
L’intercessione di Archita liberò il filosofo. Dionigi si accanì contro Dione e questo,
appoggiato anche materialmente dall’Accademia, preparò una spedizione contro Siracusa. La lotta,
non breve, vide prevalere Dione. Ma egli venne assassinato da un indegno membro dell’Accademia
(Callippo) che si fece signore di Siracusa.
La speranza delusa
Questi eventi che coinvolsero Platone hanno una grande importanza per comprendere il
visibile mutamento che investì la sua concezione politica. In Sicilia infatti vennero deluse tutte le
speranze precedentemente coltivate; il sogno utopico, la giustizia ideale fondata sull’idea del Bene
andarono in frantumi a contatto con la realtà in sé intrinsecamente malvagia; la natura umana, che si
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pensava di poter guadagnare alla giustizia per eliminare i conflitti, apparve completamente perduta.
L’opera di acculturazione realizzata nei confronti del tiranno non riuscì a mutarne l’animo.
Ecco allora che con questi eventi crolla un capisaldo della costruzione politica platonica; la
fiducia di potere, attraverso un’oculata educazione, allontanare dall’anima dell’uomo la tendenza a
commettere il male. Si rivela così l’infondatezza dell’intellettualismo socratico: conoscere il bene
non implica che lo si segua necessariamente.
Le opere politiche tarde di Platone
Dopo La Repubblica, Platone scrisse altri due dialoghi dedicati specificatamente al tema
dello Stato: Il politico e Le leggi. Entrambe le opere devono essere intese proprio alla luce della
delusione subita in Sicilia.
Nei due dialoghi Platone intende avvicinarsi al tema politico con un approccio realista; non
si tratterà più dunque di descrivere lo Stato ideale, bensì le misure concrete da adottare per rendere
più giusta la comunità in cui quotidianamente viviamo.
Platone modifica così sensibilmente le proprie categorie politiche, anticipando la riflessione
di Aristotele; quest’ultimo, la cui sensibilità politica sembra molto più vicina a quella di noi
moderni, in realtà mutua i principali concetti proprio da questi dialoghi di Platone.
La realizzabilità dello Stato ideale
Platone era veramente convinto che lo Stato ideale fosse realizzabile? oppure intendeva
proporre un modello generale che poi, nella realizzazione, avrebbe dovuto sviluppare gli opportuni
accomodamenti?
Alcuni studiosi, affermano che Platone intendeva descrivere esclusivamente un ideale di
armonia interiore, una perfezione ideale che, piuttosto che nella materialità esterna, andava
realizzata entro di sé; abbiamo visto infatti come lo Stato dovesse fondare la propria armonia in
maniera simile all’anima, nell’equilibrio delle sue varie parti.
Una persona, che interiormente ha raggiunto la propria pace, potrebbe collaborare
positivamente al benessere sociale e indurlo progressivamente a realizzare la giustizia.
Leggiamo questi passi tratti da La Repubblica:
Ibid. 591 c - 592 b
“SOCR. Pertanto chi abbia senno passerà la sua vita indirizzando ogni sua attività a questo
scopo, innanzitutto onorando quelle conoscenze che renderanno virtuosa la sua anima e
disprezzando le altre. ... Oltre a ciò, quanto allo stato e al nutrimento del corpo, non li abbandonerà
al piacere bestiale e irrazionale e quindi non vivrà in quella direzione, ma neanche guarderà alla
salute, né darà gran peso all’essere forte, sano e bello, se da queste cose non sarà reso anche saggio,
ma si mostrerà sempre preoccupato di curare l’armonia del corpo per accordarla alla musica
dell’anima. ... Ma tenendo l’occhio a quella città che ha in se stesso e badando bene che
sovrabbondanza o scarsezza di averi non siano per lui causa di turbamento alcuno... si metterà, e
molto anzi, nella città che è veramente sua propria ... in quella città che abbiamo fondato e
ideato , quella che non esiste che nei nostri discorsi; poiché sulla terra io non credo si trovi in
alcun luogo.”
Le tre forme storiche di governo
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La tesi cui ci siamo appena sopra riferiti appare convincente; certo è però che Platone, in
modo significativo, ripete spesso che lo Stato ideale sia l’unico in assoluto giusto; inoltre, quando
discute le forme di governo storicamente costituitesi, lo fa solo per criticarle. Quando egli parla
degli Stati corrotti, indica la timocrazia, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide. Non c’è nessun
particolare assetto costituzionale che, sia pur precario, riceva un giudizio positivo. Positivo e giusto
è solo lo Stato ideale.
La timocrazia si fonda sul culto dell’onore (valore militare) che dà diritto alla gestione del
potere; ma questo non garantisce il bene del cittadino, perché porta a combattere i nemici esterni e
non i nemici interni (le passioni individuali).
L’oligarchia è criticata perché assegna il potere sulla base della ricchezza, un valore che
non ha alcuna evidenza morale. Se il denaro è il valore supremo, la lotta fra ricchi e poveri
diventerà endemica e distruggerà l’unità dello Stato.
La democrazia è invece il culto delle incompetenze, che riducono il valore dell’educazione
e conducono alla lascivia morale. Non è un caso che la democrazia sfoci nella tirannide
(apparentemente il suo opposto).
La nuova impostazione del Politico e delle Leggi
Nel Politico e nelle Leggi, invece, Platone esamina in maniera meno critica le diverse forme
storiche di Stato costituzionale, spinto dall’esigenza di adeguarsi alla realtà.
Possiamo a questo punto eliminare ogni sospetto di totalitarismo nelle intenzioni politiche di
Platone; quando si accorge che l’umanità non è in grado di interiorizzare quella verità che lui
intende diffondere, egli rinuncia, propone dei compromessi, senza però rinnegare se stesso.
Il pessimismo antropologico e la legge
L’assunto fondamentale di queste opere è ciò che abbiamo chiamato pessimismo
antropologico: inizialmente fedele all’intellettualismo socratico, Platone era fiducioso che la
trasmissione di verità attraverso l’attività pedagogica era sufficiente per garantire la fedeltà
dell’uomo all’ordinamento politico giusto (ricordate come nello Stato platonico non c’era alcuna
costrizione, ma un consenso spontaneo dei cittadini).
Questo ottimismo si rendeva evidente nella mancanza di leggi, dal momento che, una volta
trasmessa la sapienza attraverso l’educazione, non esisteva alcun motivo per pensare a
un’insubordinazione o a un’infrazione delle regole comunitarie.
Nel nuovo pensiero politico di Platone si inserisce invece il concetto di legge, a indicare
l’insufficienza dell’attività pedagogica. La legge prevede una regola, ma anche una sanzione per chi
non la rispetta. La sanzione presuppone, evidentemente, che anche coloro in possesso della verità
possono non volerla applicare.
La metafora della tessitura
Non è possibile in questa sede sintetizzare in maniera articolata le due opere (una delle quali
- Le Leggi- è particolarmente lunga); intendiamo invece evidenziare i principali concetti che
testimoniano l’impostazione realistica di Platone e ci permettono di stabilire relazioni con la fase
precedente del suo pensiero.
A questo proposito mi interessa approfondire due concetti fondamentali: la metafora della
tessitura e la funzione della legislazione.
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La metafora della tessitura parte dal presupposto che gli uomini non sono facilmente
plasmabili e possiedono un indole e delle tendenze diverse, dalle quali frequentemente nascono dei
conflitti. Bisogna allora tessere fra loro questa serie di interessi divergenti, in maniera da renderli il
più possibile omogenei.
da Platone, Politico 311 b-c:
“Questo, difatti, è il fine della tela dell’azione politica: la buona tessitura dell’indole dei
valorosi e dei temperanti, quando con vincoli di concordia e di amore l’arte regia ne fa comune la
vita, portando a fine la più stupenda e nobile delle tele, e avvolgendovi tutti gli uomini negli stati,
liberi e servi insieme, li tiene uniti in questa orditura, e, per quanto è dato a una città di essere
felice, la governa e amministra in guisa da non omettere proprio nulla che possa contribuire allo
scopo.”
La tessitura necessità di una giusta misurazione, di un’equivalenza fra le varie parti che si
vogliono unire; ecco dunque che è necessario, per realizzarla, un compromesso, tale da conciliare
esigenze differenti.
Nel passo sono un po’ citate tutte le condizioni: l’arte regia (quindi di comando, non più
praticata dai filosofi), le persone virtuose (temperanti e valorosi), la pluralità dei ceti minori,
indispensabili per ricondurre a una dimensione unitaria la comunità.
Platone esprime quest’idea del compromesso con un concetto (il giusto mezzo) che sarà poi
fondamentale dell’etica aristotelica (ma che Aristotele riprende tutto da Platone, pur dando alla sua
etica un’impronta originale).
La funzione della legge
Fuor di metafora, qual è lo strumento adatto a realizzare questa tessitura? a collegare
insieme differenti aspirazioni? E’ proprio la legislazione che, grazie alla sua autorità, permette che i
diversi comportamenti si rapportino a una regola che è comune.
“Perché, dunque, la legislazione è indispensabile? Perché è impossibile, per il reggitore, che
è un uomo con tutti i limiti propri dell’uomo, dare direttive singole in ognuno degli infiniti casi che
devono essere considerati. Egli deve ridursi a dare direttive generali che si adattino all’uomo medio
e alla situazione media.”
(da A.E.Taylor, Platone l’uomo e l’opera, Firenze 1968, p.624)
Le leggi sono una imitazione approssimativa dei principi in base ai quali agirebbe il re
ideale.
(Ibid., p.626)
Nell’impossibilità di dare origine allo Stato ideale la legge, nella sua caratteristica di
universalità, è ciò che meglio si avvicina all’etica pura.
Questa valutazione di Platone sul valore delle leggi ha una straordinaria importanza e una
possibilità di applicazione anche in contesti contemporanei: Platone sembra quasi anticipare i
principi alla base dello Stato di diritto: l’universalità della legge è garanzia e della libertà
individuale e della stabilità dello Stato.
La possibilità di cambiare le leggi
Non a caso Platone afferma che, se a capo ci fosse un individuo assolutamente eccezionale,
egli potrebbe anche forzare le leggi. Che cosa vuol dire?
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Poiché le leggi sono un approssimazione dello Stato ideale, esse costituiscono sempre un
prodotto storico: io devo darmi queste leggi perché non sono in grado di realizzare la perfezione e,
allora, in questo determinato momento storico stipulò queste particolari regole.
La legge è quindi una prodotto della cultura umana in evoluzione, in quanto sempre
passibile di miglioramenti. E’ evidente che, a noi contemporanei, alcune leggi di civiltà del passato
appaiano barbare; le leggi attualmente in vigore, più civili, sono state il prodotto di una evoluzione
della civiltà stessa. D’altra parte, però, la civiltà non avrebbe potuto svilupparsi se non attraverso le
leggi, tese comunque a regolare la convivenza.
Mano a mano che questa evoluzione prosegue, è evidente che le leggi tenderanno sempre
più ad avvicinarsi alla norma ideale. Ecco perché l’uomo di governo deve sì obbedire alle leggi, ma
può anche contribuire a mutarle quando sono in contrasto con la coscienza etica.
La funzione dello Stato ideale
Platone dunque anche in questi dialoghi non dimentica lo Stato ideale, ovvero la perfezione
etica cui ogni comunità dovrebbe aspirare.
Questa considerazione dell’idealità avviene attraverso la consueta tematizzazione del
momento educativo; anche nel Politico la pedagogia ha un ruolo insostituibile per la vita dello
Stato.
Anzi, come si evince dal passo seguente, il più importante tessitore è proprio il pedagogo,
che deve indicare ai futuri cittadini le opinioni più giuste:
“Lo statista...considererà fili adatti per il suo ordito quei temperamenti in cui le qualità
originarie tendono all’azione e all’avventura, fili per la sua trama i caratteri più miti e più quieti. La
vera e propria tessitura dei due tipi di filo si attua attraverso un duplice processo; quel che è eterno
nelle anime dei cittadini verrà fissato con un legame divino, il puramente animale con un legame
umano. Il legame divino è costituito da credenze vere e sicure sul buono e il giusto, il male e
l’errore. Lo statista affiderà all’educatore il compito di installare negli animi queste credenze.
... Sommamente necessario è far in modo, attraverso una retta educazione, che sia l’una che l’altra
indole si formi le stesse convinzioni sul bene e sul male...”.
(da A.E.Taylor, op. cit., pag. 629)
Se dunque nella realtà storica lo Stato deve praticare sempre una forma di compromesso,
nell’educazione ai valori bisogna tendere a un ideale assoluto, sperando un giorno che la
realtà riuscirà a conformarvisi.
Anche però l’attività pratica politica quotidiana deve sempre avere presente il modello
ideale; la politica deve insomma sempre sottomettersi alla moralità altrimenti rischia di
degenerare nella pratica utilitaristica, come era accaduto nel periodo della sofistica.
Le Leggi
Concetti analoghi si trovano nell’ultima opera di Platone, le Leggi. Vi propongo un passo in
cui è palese la concezione pessimista riguardo la natura umana, con la naturale conseguenza
dell’introduzione della legge a regolamentare i comportamenti dei cittadini.
da Platone, Leggi IX, 875 c-d:
“Che se per divina sorte nascerà un giorno un uomo capace per sue natura di conoscere ciò
che è utile alla convivenza politica degli uomini ... non avrà punto bisogno di leggi che esercitino
l’imperio su di lui. Né la legge, infatti, né alcun ordinamento vale più della scienza; né
risponde all’ordine delle cose che l’intelligenza sia schiava o soggetta ad alcuno, ma che
comandi su tutto, posto che poggi sul vero e sia effettivamente libera, conformemente alla sua
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natura. Ma oggi tale in verità non è affatto, se non in ben piccola misura; e perciò bisogna
adottare il secondo partito, quello, cioè di ricorrere all’ordine e alla legge, i quali vedono e
contemplano ciò che per lo più suole avvenire, ma non possono vedere e contemplare tutto.”
Qual è il fine che le leggi devono perseguire? Platone prende le distanze dai modelli sino a
quel momento realizzatisi in Grecia e in particolare da quello spartano. A Sparta -l’abbiamo già
accennato- vengono sconfitti i nemici esterni ma non quelli interni (numerosi erano le dicerie sulla
condotta immorale dei cittadini spartani). Platone invece precisa che il fine dello Stato deve essere
la pace e non la guerra, per cui le principali virtù che deve diffondere sono quelle relative alla
conquista della pace interiore.
Notate come ritorna comunque il dualismo fra pace esteriore e interiore, a confermare la
coincidenza fra etica individuale ed etica politica. Platone non rinnega mai dunque quanto affermato
ne La Repubblica.
“Tutte le istituzioni di Sparta e Creta sono dirette a produrre l’unica grande virtù,
l’efficienza bellica, il valore. L’Ateniese dissente totalmente da quest’etica guerriera. La vittoria
suprema per qualsiasi comunità o qualsiasi uomo non è la vittoria sul nemico di fuori, ma la vittoria
su se stessa, cioè la sconfitta degli elementi peggiori, nella comunità o nell’anima individuale, da
parte dei migliori. E questa vittoria non è ancora completa quando gli elementi migliori reprimono o
espellono i peggiori; è completa soltanto allorché la sottomissione è seguita da riconciliazione e
armonia. La pace, non la guerra fra i singoli componenti della comunità o dell’anima
individuale, è lo stato migliore.”
(A.E.Taylor, op. cit., p.722)
L’equilibrio dei poteri
Nelle Leggi Platone fornisce anche interessanti valutazioni riguardo le possibili forme di
governo e, a confermare l’intenzione non autoritaria del suo progetto politico, egli preferisce quei
sistemi che favoriscono la divisione dei poteri. Insisto su questo concetto: lo Stato ideale platonico
non si poteva considerare autoritario in quanto il filosofo lo concepiva (ingenuamente, forse!)
come fondato sul consenso di tutti i suoi membri, frutto di una positiva opera educativa. La
concezione autocratica del potere concepita ne La Repubblica aveva senso solo laddove era
possibile realizzare il bene, ossia garantire la felicità di tutti.
Invece, dove il modello politico non può manifestarsi nella sua più positiva espressione e
deve tenere conto della natura corrotta dell’uomo, è meglio che i poteri si controllano, affinché
nessuna autorità particolare possa avere il sopravvento; lo scopo è proprio quello di impedire
l’oppressione, il dominio ingiusto di un uomo sull’altro uomo.
Secondo Platone, che in questo caso condivide pienamente lo posizione critica di Socrate nei
confronti della sofistica, è più pericoloso un relativismo dei valori, dove apparentemente si lascia
libertà di pensiero a tutti: la vera tirannide -come Platone aveva già mostrato nella Repubblicaparadossalmente deriva dalla democrazia degenerata, in cui non si hanno più valori certi e ognuno
può, demagogicamente, raggiungere una posizione di vantaggio personale.
L’impersonalità delle leggi
Sulla base di queste convinzioni, Platone giunge ad affermare un’opinione di grande
rilevanza, dimostrandosi, piuttosto che l’anticipatore di tendenze totalitarie, come un precursore di
alcuni fondamentali principi della democrazia moderna. La legge, dal momento che ha senso solo
in uno stato imperfetto, deve avere i caratteri della impersonalità, non deve cioè essere
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adeguata a nessun interesse personale o particolare. Non a caso Platone, per evitare la
degenerazione del potere in una tirannia personale, auspica, come forma migliore di governo, una
unione di monarchia e democrazia. Il valore impersonale della legge è uno dei cardini della
democrazia, proprio perché garantisce da un uso arbitrario della giurisprudenza.
Abbiamo sopra detto che la legge rappresenta il tentativo più riuscito di uno Stato di
conformarsi quanto è più possibile a un modello ideale. La legge quanto più sarà contraddistinta
dall’impersonalità, tanto più si avvicinerà al modello ideale. Non è un caso che Platone, anche
in quest’opera, non perda di vista quel modello, quando afferma di sperare che, attraverso l’uso
imparziale della legge, il saggio capo di stato possa educare alla virtù e al bene e fare in modo che
lo Stato possa finalmente reggersi da sé. La stessa legge ha una finalità educativa, in quanto
deve far in modo che i cittadini obbediscano per convinzione interiore ai suoi precetti.
“Il legislatore prudente non si prefiggerà, comunque, di incutere terrore nei sudditi, sì che
essi obbediscano in forza delle minacce. Egli preferirà conquistare il più possibile alla legge i
sentimenti dei sudditi, limitando la pura coercizione alla peggior specie dei cittadini”.
“Quella che andiamo descrivendo ora è una società che vuole avvicinarsi il più possibile a
questa società ideale, un ideale possibile forse solo ad esseri sovrumani”.
(A.E.Taylor, op. cit., pag. 734 e 739)
A questo proposito, è interessante notare come ritorni nelle Leggi anche la metafora della
trama e dell’ordito, a proposito delle funzioni giudiziarie:
“I magistrati sono, per così dire, l’ordito, il rimanente dei cittadini la trama della stoffa che
dobbiamo tessere. L’ordito deve essere di costituzione più dura e forte, deve essere composta di
quegli elementi della popolazione che sono dotati di maggior forza di carattere e sono meno
pieghevoli”.
(A.E.Taylor, op.cit., pag.738)
Non è un caso che nelle Leggi abbia un’importanza fondamentale pure il tema pedagogico,
momento fondamentale per costruire una buona classe politica. Platone assegna un ruolo prioritario
al ministero dell’educazione, che deve provvedere -il filosofo non si smentisce neanche in questo
caso- anche alle donne.
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