E se ricominciassimo dai fatti? Il costo di tre lavori pubblici realizzati a Milano negli anni immediatamente precedenti il 1992, a confronto con quello (espresso in lire) di opere analoghe realizzate in Europa nello stesso periodo: linea 3 della metropolitana di Milano: Ampliamento metropolitana di Amburgo: 192 miliardi di lire/Km. 45 miliardi di lire/Km. Passante ferroviario di Milano: Passante ferroviario di Zurigo: 100 miliardi di lire/Km. 12 anni di lavori 50 miliardi di lire/Km. 7 anni di lavori Terzo anello dello stadio di San Siro: Ampliamento dell’Olimpico di Barcellona: 180 miliardi 45 miliardi Sui conti segreti di Bettino Craxi in Svizzera c’erano -secondo le dichiarazioni di Maurizio Raggio (che, su sua richiesta, li aveva chiusi prima che i giudici di Mani pulite arrivassero a sequestrarli)- c’erano circa 50 miliardi. Per la maxitangente Enimont Raul Gardini costituì un fondo nero di 140 miliardi. Sui conti segreti di Duilio Poggiolini, tra Italia e Svizzera, c’era un centinaio di miliardi, e nascosti in casa 11 miliardi e 200 milioni in BOT, CCT e lingotti d’oro, oltre a oggetti di valore per complessivi 29 miliardi: lucrati con le tangenti sui farmaci e l’omessa vigilanza sul sangue destinato alle trasfusioni (con la conseguenza di oltre 2600 decessi per AIDS o epatite C, tra i politrasfusi, dal 1985 all’anno scorso). L’economista Mario Deaglio calcolò nel 1992 che il sistema delle tangenti costasse ai cittadini circa 10.000 miliardi all’anno, avesse generato un indebitamento di circa 200.000 miliardi di lire, con circa 20.000 miliardi di interessi annui sul debito. Sta di fatto che il rapporto debito pubblico/PIL passa dal 60% del 1980 al 118% del 1992. Sempre chi ha potere è tentato di abusarne, e chi maneggia beni altrui di appropriarsene; ma i pochi dati qui sopra ricordati tratteggiano davvero un’historia dolorum, un calvario infinito che ha segnato in profondità la stessa evoluzione della democrazia italiana; qualcosa per cui davvero si è imbarbarita la politica e si sono rovinate persone e distrutti partiti. Di questa malattia “Mani pulite” è stata medico, non virus! Ritengo probabile che i giudici di Mani pulite non abbiano raggiunto tutti i responsabili del massacro delle finanze pubbliche, e prima ancora della funzionalità e dell’onore delle istituzioni democratiche; più difficile è dire se ciò sia avvenuto per una loro scelta delittuosa o per reticenze, resistenze e intralci che non riuscirono a superare (tutti ricordiamo come Primo Greganti non coinvolse mai il PCI nei movimenti sospetti di denaro a lui imputati, mentre decine di socialisti e democristiani scaricavano sui rispettivi partiti anche tangenti palesemente finite nelle proprie tasche). Altrettanto chiaro è che in quegli anni l’ira popolare (ricordate le monetine gettate a Craxi davanti all’hotel romano in cui abitava?) fece di ogni erba un fascio; e tanti che oggi condannano come “giustizialista” la stagione di Mani pulite allora erano davvero non solo giustizialisti, ma forcaioli. Mi sembra invece sia stata insufficiente, in tutti questi anni e ancora oggi, la riflessione su come la corruzione amministrativa abbia potuto raggiungere simili livelli, e sulle contromisure più idonee per evitare che ciò si ripeta (o, peggio, continui). Semmai, dal 1993 si sono allentati vincoli già insufficienti (non c’è più nessun controllo preventivo di legittimità sugli atti degli Enti locali, la gran parte dei controlli sono interni e quindi esercitati da controllori più o meno dipendenti dai controllati, si sono inventate una quantità di forme gestionali sottratte alle procedure garantiste della contabilità pubblica...), mentre ha raggiunto livelli gravissimi l’intasamento della giustizia -anche per riforme ponderate male, oltre che per le periodiche leggi ad personam-, con la conseguenza di una diffusa impunità. Neppure si è posto rimedio ad una palese lacuna giuridica, quella per cui non è previsto che il parlamentare sia incensurato o almeno non condannato per reati di qualche rilievo; con il risultato che oggi siedono in Parlamento a scrivere leggi persone che non potrebbero essere assunte da un qualsiasi Comune per tagliare l’erba nei giardinetti. Certamente la tutela dell’etica della e nella politica non è ancora politica e in linea ordinaria non può essere usata da uno schieramento politico per distinguersi dagli altri: non però perché non debba avere rilievo, ma al contrario perché in un Paese normale è l’abc di tutte le posizioni politiche, come un ingegnere o un bancario devono saper fare ben altro, ma innanzitutto devono saper sommare due più due. E anche l’esistenza di una vasta fascia di elettorato rassegnata alla corruzione deve indurci non ad atteggiamenti rinunciatari, ma a riaffermare con forza -innanzitutto nella condotta personale e nella vita interna dei nostri gruppi di riferimento- che l’etica pubblica (e privata, soprattutto dove interferisca col pubblico), la correttezza amministrativa, la prevalenza del bene comune sugli interessi particolari sono in democrazia premesse indispensabili di qualsiasi azione politica; e che quindi devono essere tutelate efficacemente da tutti: dallo stesso mondo politico, ciascuno tenendo pulita innanzitutto casa propria; dall’elettore, che deve rifiutare le prassi non corrette e i personaggi compromessi o anche solo chiacchierati; dalla Magistratura, con tutte le garanzie che spettano a qualsiasi inquisito o imputato, e con la stessa rapidità a cui tutti avrebbero diritto (e che oggi nessuno può avere, anche perché la politica non attua una serie di riforme procedurali e di misure organizzative, da tempo indicate come necessarie da giudici e studiosi). Giustizialismo? Si sono dichiarati vittime del giustizialismo, o di giudici golpisti, il presidente degli USA Richard Nixon, il premier tedesco Helmut Kohl, il premier israeliano Olmert, i tanti politici che in tutte le democrazie del pianeta se inquisiti si difendono nei processi, non dai processi, per lo più dopo essersi dimessi? “Remota iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?” “Senza giustizia, cosa sono i governi se non grandi brigantaggi?” Non è Di Pietro, ma sant’Agostino (De civitate Dei, 4,4)