LAURA BEANI -- in: Infanzia e Memoria (a cura di M.Bresciani). Olschki, 2007: 135-147 CUCCIOLI: GIOCANDO S’IMPARA Che cos’è il gioco? Nessun concetto comportamentale si è rivelato peggio definito, più elusivo, più controverso e persino più antiquato. Sappiamo intuitivamente che il gioco è un insieme di attività piacevoli, di natura spesso ma non solo sociale, che imitano attività serie della vita senza raggiungere scopi seri. E.O.Wilson (1975) Sociobiology. The New Synthesis COS’È IL GIOCO: VERSO UNA DEFINIZIONE OPERATIVA A metà degli anni Settanta, quando lo scenario neo-darwinista sembrava capace di accogliere e spiegare tutti i fenomeni del vivente, la cautela del biologo evoluzionista Edward O. Wilson a definire in maniera univoca il gioco, rivela un’oggettiva difficoltà ad inserirlo tra le molte componenti del repertorio comportamentale di una specie. In una prospettiva darwiniana, il primo approccio al problema è quello funzionale: perché è evoluto il gioco? Quale è il suo valore adattativo? Giocare assicura dei vantaggi in termini di sopravvivenza e successo riproduttivo? Ma prima di tutto, cos’è il gioco? Per fare ipotesi ed esperimenti sul significato di un comportamento, occorre prima definirlo in termini qualitativi e quantitativi, catturarlo in un etogramma, e seguire come cambia durante lo sviluppo di un organismo, oppure confrontando specie diverse. I bambini certamente giocano, e anche altri primati, ma tutti i cuccioli giocano? L’imbarazzo di Wilson (che nel suo volume di oltre 600 pagine sulla sociobiologia dedica al gioco solo un paragrafo di 4 pagine, nel capitolo Sviluppo e modificazione del comportamento sociale) è senz’altro condiviso e condivisibile. Mark Bekoff ha condotto studi dettagliati sulle sequenze di gioco nei canidi, dal coyote al lupo alla volpe fino alle razze domestiche di cane; ha scomposto l’etogramma in singoli moduli, a volte minuscoli: la coda appena sollevata, le orecchie tese… Ma quando Bekoff deve sintetizzare la sua visione del problema, finisce per ricorrere ad una definizione al negativo: Mentre siamo tutti capaci di riconoscere un gioco, la difficoltà di definire questo comportamento si rivela nel fatto che molti etologi sono tentati di descrivere cosa non è - non è un atto aggressivo, predatorio o riproduttivo - piuttosto che cosa è. M. Bekoff & C. Allen (2002) The Evolution of Social Play: Interdisciplinary Analyses of Cognitive Processes Il secondo autore di questa prudente definizione, Colin Allen, è un filosofo alla ricerca di spiegazioni evoluzioniste dietro ai contenuti mentali, e non a caso questo contributo trova spazio nel volume interdisciplinare The Cognitive Animal. Se poi chi gioca lo faccia consapevolmente oppure no (Bekoff & Allen, 1998), è questione aperta, che richiederebbe “semmai un’applicazione limitata della teoria della mente in un dominio molto specifico” (Bekoff & Allen, 2002). Che sia intenzionale o meno, col gioco ci troviamo di fronte a un comportamento complesso, non scatenato da uno stimolo, solitario o sociale, specie-specifico, a volte sessualmente dimorfico, che cambia con l’età: il gioco tra adulti ha senz’altro modi e significati diversi del gioco tra cuccioli, su cui concentro questa analisi partendo da una “working definition” che è “necessariamente imperfetta” (Bekoff & Allen, 2002), perché soggetta a riformulazioni in corso d’opera. Il gioco è un insieme di moduli comportamentali (aggressivi, sessuali, di fuga, predazione, comunicazione, nutrizione, pulizia…), spesso eseguiti con tempi accelerati o rallentati, ripetuti e accentuati fino a diventare paradossali, ma sempre esibiti al di fuori del loro contesto usuale. Per riprendere le parole di Wilson, i giochi “imitano attività serie della vita senza raggiungere scopi seri”. Ma il loro ”scopo serio” non potrebbe consistere proprio nel giocare? Perché e come il comportamento di gioco è evoluto e si è mantenuto in specie così diverse per selezione naturale, è una domanda attuale (cfr. Spinka et al., 2002) e più che sensata, dato che si tratta di un comportamento diffuso quanto costoso in termini di energia, tempo, rischio di predazione e anche possibili danni fisici per i suoi schemi motori atipici e improvvisati (“training for the unexpected”, cfr. Spinka et al., 2002). Come ha sottolineato Robert Fagen (1974, 1981) confrontando le ricerche sul gioco in molti gruppi animali, esistono due orientamenti divergenti: da una parte i funzionalisti, che inquadrano il gioco tra quei comportamenti che sviluppano e perfezionano in età precoce le future risposte adattative all’ambiente fisico e sociale della specie, dall’altra gli strutturalisti, alla ricerca di criteri generali fino a moduli e componenti minime, insomma di una sintassi del gioco comune a gruppi animali e contesti differenti. E’ rappresentativa di questo approccio la definizione di gioco della primatologa Caroline Loizos: Il gioco è qualunque attività che sia esagerata o bizzarra o divertente, con nuovi moduli motori e nuove combinazioni di tali moduli, e che appaia all’osservatore priva di qualunque funzione. C. Loizos (1967) Play in higher primates: a review Questa breve rassegna delle tre principali tipologie del gioco in età immatura gioco di movimento, gioco con oggetti, gioco sociale – è costruita ricorrendo a contributi funzionalisti e strutturalisti ed è centrata sul mondo animale, anche se il cortocircuito cuccioli-bambini è quasi inevitabile. La decisione improvvisa di mettersi a giocare, rientra infatti in quello spazio ambiguo dei comportamenti che supponiamo specifici della nostra specie, ma ritroviamo espressi a livelli inaspettatamente evoluti anche nel mondo animale. GIOCHI DI MOVIMENTO Se il gioco è sfuggente da definire ma facile da riconoscere, la categoria giochi di movimento, eseguiti da singoli individui, anche se a volte simultaneamente, è meno problematica, intanto perché non è implica l’interazione e la comunicazione tra soggetti. Si tratta di “forme esagerate e ripetitive di normali movimenti locomotorirotazionali, effettuati in assenza di prede, predatori, parassiti e anche di conspecifici” (Fagen, 1981). Un gattino che fa un salto senza essere orientato verso qualcosa o qualcuno, un puledro che scalcia “a vuoto”, un cagnolino che insegue la sua stessa coda, una piccola cocorita che si dondola nel vuoto, sono tutti esempi che appartengono all’esperienza di chi è abituato alla compagnia degli animali domestici. Quale è il valore adattativo del gioco dimovimento? Sviluppare l’apparato muscolare e cardio-polmonare; favorire i processi di maturazione degli organi di senso e del sistema nervoso centrale (soprattutto il cervelletto, deputato al coordinamento motorio); affinare la propriocezione – il senso del sé corporeo, la padronanza del proprio corpo e del mondo esterno movimento - (Martin & Caro, 1985). In questa prospettiva funzionale, il gioco assicura benefici immediati a chi lo pratica, anche senza aspettare l’età adulta. Facilita gli spostamenti nell’ambiente, il reperimento del cibo, la fuga dai predatori, le interazioni con i conspecifici. Il gioco di movimento farebbe insomma da mediatore tra fenotipo e habitat. Quando giovani ibex della Siberia (Capra ibex) in cattività scelgono con ostinazione come terreni di gioco i punti più scoscesi e impraticabili del recinto, non stanno “cercando guai”, ma si allenano per futuri percorsi di montagna (Byers, 1998). Sempre senza uscire dall’ambito funzionalista, secondo l’ipotesi del surplus energetico (Burghardt, 1984), le immotivate e scatenate corse di tanti cuccioli, dagli ungulati ai nostri pulcini di razze domestiche, sarebbero direttamente influenzate da vincoli energetici: giocano molto cuccioli ben nutriti e protetti dalle cure parentali. Barber (1991) ha anzi proposto che il gioco possa servire a consumare riserve di grasso eccessive, un ostacolo alla mobilità di mammiferi di piccola taglia. Ma il ruolo del gioco come regolatore metabolico è ancora in discussione (Nunes et al., 2004), mentre c’è un generale consenso sul training fisico legato al giocare. Apparentemente in molti mammiferi (cfr. Caro, 1988) i maschi sono più coinvolti delle femmine nei giochi di movimento, solitari e di gruppo: dai gatti ai furetti, le marmotte, l’orice (Orix damah) o il bighorn (Ovis canadensis). Se questo serva per allenamento, per migliorare l’abilità a competere tra rivali, o per una combinazione dei due, è difficile dirlo: “information on the adaptive significance of locomotor activity is tentative at best”, conclude prudentemente la sua rassegna Tim Caro, studioso del gioco nei carnivori, dal gatto alghepardo. E se un approccio darwiniano-adattativo significa anche non fermarsi alla soglia di Homo sapiens, molti esempi di giochi di movimento sono offerti dai bambini, addirittura prima che comincino a camminare. “Il proprio corpo è il primo oggetto di cui il bambino dispone per non annoiarsi”, commenta Emma Baumgarten (2002), psicologa dell’età evolutiva. E riassume, in poche ma efficaci battute, quanto scrive Piaget su questa tipologia relativamente semplice di gioco: “Secondo Piaget, alle origini il gioco è puro esercizio di schemi sensori-motori, che non si rassegnano a sparire e vengono messi in atto per il piacere funzionale insito in questo esercizio.” Quello che Piaget individua nel cosiddetto “gioco di esercizio” (1945) praticato dai bambini, potrebbe essere esteso anche al mondo dei cuccioli: una ricombinazione degli schemi senso-motori progressivamente assimilati in un’infinità di varianti. Le stesse acrobazie di uno scimpanzè subadulto rappresentano la messa a punto di attività motorie sempre più complesse, che possono anche comportare piccoli o grandi rischi per chi le pratica la prima volta. Robert Fagen (2002) riporta un elenco aggiornato e abbastanza impressionante di ferite e morti accidentali, registrate quando giovani primati sono assorbiti nei loro giochi, e la lista si estende anche ai bambini in età pre-scolare: il gioco ha un costo anche nella nostra specie (Pellegrini et al., 1998). GIOCHI CON OGGETTI Giocare significa muovere il corpo e manipolare un oggetto noto, muoversi in un ambiente noto in una maniera nuova. Esplorare significa apprendere riguardo a un nuovo oggetto o un ambiente estraneo. L’esplorazione finisce, e il gioco comincia, quando il cucciolo o il bambino smette di chiedersi Cos’ è questo oggetto? Per domandarsi Cosa ci posso fare con questo oggetto? C. Hutt (1979) Exploration and Play Così Corinne Hutt, psicologa dell’età evolutiva di scuola strutturalista, riassume i suoi tradizionali studi sulla distinzione tra fase esplorativa (conoscenza dello stimolo e dell’ambiente) e comportamenti ludici con oggetti in età pre-scolare. Allargando la distinzione al mondo animale, quando un gattino rincorre ripetutamente il “suo” gomitolo senza manifestare la cosiddetta assuefazione allo stimolo, certamente sta giocando, mentre la prima volta che scopre nel cesto della lana lo strano oggetto, lo avvicina con cautela, lo sfiora, l’annusa e ne indaga le proprietà: è la fase esplorativa. Forse si potrebbero estendere a molti studi sulle reazioni di cuccioli a oggetti estranei al loro ambiente, le critiche già mosse a certa metodologia sperimentale della Hutt: “la scienza del comportamento insolito di bambini posti in situazioni insolite con adulti sconosciuti per il più breve tempo possibile” (cfr. Baumgartner, 2002). Specie che presentano nel repertorio comportamentale naturale una manipolazione fine degli oggetti, ad esempio perché si nutrono di alimenti protetti da un guscio (molti primati, ma anche la volpe dei granchi, Cerdocyon thous, il procione, la lontra, oppure corvidi, rapaci e pappagalli, se si pensa al becco come ad un arto aggiuntivo), fin da cuccioli sono predisposti a giocare con oggetti. Le artificiali abilità degli animali da circo, come gli innaturali comportamenti sviluppati attraverso la tecnica skinneriana del condizionamento operante (i famosi piccioni che “giocano a ping-pong” tenendo minuscole racchette col becco), forzano la diffusa attitudine ad esplorare / giocare / manipolare che si manifesta molto presto, quando il comportamento è più flessibile: sono in fondo corollari della pseudo-scienza del “comportamento insolito”. Eppure le osservazioni in natura di cuccioli intenti a giocare con oggetti che trovano nell’ambiente non sono meno straordinarie, e offrono supporto all’approccio funzionalista, sostenuto anche da Wilson (1975): “nell’uomo e in altri primati il gioco con oggetti ha condotto all’invenzione di nuovi metodi di sfruttamento dell’ambiente.” Grandi inventori di tecniche che si diffondono poi nella popolazione come una moda, e spesso proprio dai subadulti agli adulti, sono senz’altro gli scimpanzè del Gombe Stream Reserve, osservati per tanti anni da Jane Goodall: E’ facile osservare giovani scimpanzè che punzecchiano il terreno con un bastoncino per gioco, finchè per caso non catturano un insetto. Questo rappresenta un rinforzo a perfezionare la tecnica. La famosa pesca delle termiti potrebbe essere nata un giorno per gioco. Jane van Lawick-Goodall (1968) The behaviour of free-living chimpanzees in the Gombe Stream Reserve Ma anche gli uccelli hanno una parte da protagonisti sia nei giochi con oggetti che nei giochi di movimento (Ortega & Bekoff, 1987), nonostante diventino adulti prima dei mammiferi e quindi abbiano meno tempo da dedicare al gioco e all’apprendimento in genere. E’ stato Robert Fagen, nella sua dettagliata monografia sul gioco negli animali, a sottolineare le loro abilità manipolative. Poiché gli uccelli, a differenza dei mammiferi, hanno la vista molto sviluppata e conducono vita aerea, il gioco con oggetti e le acrobazie aeree sono comuni, mentre è più raro il gioco sociale. (…) Rapaci, corvidi e certi pappagalli, i campioni di gioco tra gli uccelli, giocano come i primati e i carnivori. Eppure in una Storia Naturale del gioco occupano un posto secondario: il gioco riguarda gli adulti e si confonde con minaccia, corteggiamento, ricerca del cibo… R. Fagen (1981) Animal Play Behaviour Nelle specie sociali il gioco con gli oggetti si complica: una pigna con dentro qualcosa che fa rumore, un sasso che rotola o un semplice bastone, possono diventare un elemento aggregante, e orientare e sincronizzare i movimenti dei cuccioli, ad esempio un gruppo di scimpanzè subadulti. Durante un inseguimento o una lotta per finta, un giovane scimpanzé trascinava un ramoscello ricco di foglie o frutti, e il fratello più piccolo cercava di sottrargli il giocattolo. Ogni volta che il piccolo stava per afferrare la fronda, l’altro, voltandosi appena, abilmente gliela sottraeva. Un giocattolo era un frutto rotondo dal guscio duro, e i compagni di gioco cercavano di portarselo via. J. van Lawick Goodall (1968) The behaviour of free-living chimpanzees in the Gombe Stream Reserve Se la primatologa Jane Goodall insiste sul termine giocattolo, è perché la scena si ripete identica quando i bambini si aggregano intorno a un aquilone, un’automobilina, una bambola o qualcosa comunque da cullare. Irenäus Eibl-Eibesfedt, il fondatore dell’etologia umana, osserva come presso i boscimani !Ko il melone tsama sostituisca le bambole e sia un elemento chiave del gioco con oggetti, solitario e in gruppo, ma tipicamente femminile (1993). Questo tratto sessualmente dimorfico nella scelta dei giocattoli si ritrova anche in piccoli di macaca rhesus (Alexander & Hines, 2002). Con gli oggetti-simbolo di nuovo entriamo nell’ambiguo spazio della cognizione animale: il gattino è consapevole di stare inseguendo una falsa preda, quando lo attiriamo dietro a un gomitolo? Probabilmente no. Ma questa coscienza dell’oggetto-simbolo quando entra davvero nei giochi dei bambini? Le nostre regole del gioco sono poi così diverse? Nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che dalle cose: un pezzo di legno comincia ad essere una bambola e un bastone diventa un cavallo. L. VygotsKij (1966) Play and its role in the mental development of the child. GIOCO SOCIALE: REGOLE E FANTASIE CONDIVISE Per Piaget il gioco con regole convenzionali e prestabilite (in inglese si dice game, diverso dal generico play) è di natura competitiva, compare in età scolare ed è molto evoluto, mentre il gioco di fantasia, le infinite varianti del “facciamo finta che…”, rinvia ad un codice e a ruoli più flessibili. Ma tra cuccioli che giocano insieme, esistono regole? La corsa coordinata dei giovani cervi descritta analiticamente da Fraser Darling non sembra frutto del caso, ma rinvia ad uno spazio tradizionale di gioco e ad una semplice regola, occupare la sommità di una collina: Il gioco del King-of-the-Castle comincia quando un cerbiatto scala la collinetta e si solleva sugli arti posteriori. Questo sembra servire da invito, perchè subito altri giovani cervi si staccano dalla madre e si mettono a correre verso la collinetta, che era logorata dalle impronte di molti piccoli piedi: era diventata un tradizionale luogo di gioco. Quando dico tradizionale, intendo che l’associazione della collinetta al precedente divertimento possa influenzare il comportamento degli animali verso una ripetizione dell’esperienza quando passano vicino a quel luogo. Ma ho visto cerbiatti arrivare da una distanza di oltre 50 m alla loro collinetta per cominciare a giocare! F. Darling (1937) A herd of red deer Giochi sociali con regole simili – Segui il capo, King-of-the-castle -, sono descritti tra i giovani gorilla da George Schaller (1965) e Dian Fossey (1972) e tra cuccioli di scimpanzè dalla Goodall (1968). Un’altra forma di gioco sociale è la finta lotta, in cui i contendenti non riportano danni, i ruoli sono alterni, invertiti (il più forte perde) se le forze in gioco sono asimmetriche. Nell’okapi, un giraffide africano, adulti e subadulti di sesso maschile, in genere padre e figlio, si sfidano in lunghe gare di forza, descritte in dettaglio da Fritz Walther dell’Università del Missouri. Ecco come Danilo Mainardi, uno dei primi etologi italiani e inimitabile divulgatore scientifico, commenta in termini adattativi una gara dall’esito scontato. La scena inizia con un reciproco sollecitarsi a un gioco aggressivo, e l’invito consiste nell’uso esagerato, e un poco rallentato, delle posture di minaccia. Padre e figlio scherzosamente si provocano, ma è soprattutto il figlio, più piccolo e decisamente immaturo, che insiste: stuzzica con il naso una parte del corpo del padre, oppure stira il collo verso l’alto, levando il muso al cielo. Sono inviti alla lotta, segnali di dominanza. Il padre accetta il gioco e sapete che fa? Assume il ruolo del più debole. Scrive Walther nel suo rendiconto: si auto-handicappa. L’azione si movimenta includendo brevi fughe del padre inseguito dal cucciolo, e ogni fuga termina con la tipica lotta di spinte, collo contro collo dei giraffidi. Una lotta di spinte dove la forza, la mole contano. Ma sapete chi vince sempre? Il giovane! D. Mainardi (1988) L’etologia caso per caso E’ chiaro che la lotta appena descritta è tutta “per finta”. Infatti è seguita da un comportamento coesivo, la reciproca toelettatura. Anche il self-handicapping del gioco sociale, il forte che si fa debole, è un modulo ricorrente nello scambio dei ruoli (Bekoff & Allen, 1998). Qualcosa modifica il significato della sequenza, fatta di comportamenti non più aggressivi ma appunto ludici: è la metacomunicazione, la comunicazione sulla comunicazione (Bateson, 1955), un segnale che qualifica diversamente un altro segnale. In questo caso è l’invito al gioco, la sfida asimmetrica del giovane. La spiegazione più parsimoniosa è che si tratti di una forma di addestramento, un modo di imparare segnali di dominanza e sottomissione che saranno critici nella stagione degli amori, quando il gruppo sociale si organizza gerarchicamente. “Giocando s’impara”, commenta Mainardi. Di metacomunicazione già si era occupato Charles Darwin, anche senza usare questo termine, in cui il prefisso meta- rinvia ad un cambiamento (in questo caso a cambiare è il significato stesso del comportamento): Il mio cane, quando per gioco mi afferra la mano con i denti ringhiando, se morde e io gli dico Piano, piano! continua a mordermi, ma scodinzolando e accucciandosi sulle zampe anteriori sembra dirmi Non preoccuparti, è tutto un gioco! C. Darwin (1872) The expression of the emotions in men and animals Il metasegnale che nei canidi di tutte l’età precede l’avvicinamento e il gioco si chiama “play-bow” (Bekoff 1972), letteralmente “gioco-arco”, quella postura con zampe anteriori allungate in avanti, schiena inarcata e zampe posteriori tese, con cui i cani invitano a giocare. Ma è un metasegnale anche “l’esibizione rilassata a bocca aperta” di Macaca fascicularis, che per il primatologo Van Hooff svolge lo stesso ruolo di un sorriso. Anzi, esisterebbe una filogenesi del sorriso, che ci porta a condividere con tanti altri primati questo segnale ludico e di nuovo ripropone per il gioco il problema dell’intenzionalità. VERSO UN APPROCCIO SPERIMENTALE AL GIOCO Valutare le molte ipotesi sulla funzione del gioco nei cuccioli – perfezionare le abilità motorie, regolare il bilancio energetico, oppure addestrare a future interazioni con l’ambiente fisico e sociale – richiede un disegno sperimentale complesso. Non si può certo impoverire l’ambiente dove vive il cucciolo, restringere il suo spazio per impedirne gli esercizi motori, isolarlo dai conspecifici, senza alterare profondamente il suo sviluppo: si andrebbe a verificare non l’effetto di una carenza di gioco, ma di moltissimi altri stimoli in condizione di stress. L’approccio alla ‘Kaspar-Hauser’, allevare i gattini in isolamento e con stimoli visivi alterati, ha avuto comunque esiti inaspettati: anche senza esperienza di gioco, a 11 settimane i gattini esibivano il normale “gioco del gatto col topo”. Questo non vuol certo dire che il gioco è ininfluente, ma piuttosto che certi schemi motori sono molto robusti (cfr. Martin & Caro, 1985; Caro, 1988). La nuova etologia cognitiva è orientata a valutare, in situazioni semi-naturali, l’influenza del gioco sullo sviluppo dei cuccioli e sulla loro life-history. Si tratta di studi correlazionali, con una limitata manipolazione sperimentale delle prime esperienze di gioco. I citelli di Belding (Spermophilus beldingi) sono piccoli roditori delle praterie americane che vivono in colonie come le nostre marmotte, e giocano moltissimo tra fratelli e tra nidiate diverse. Scott Nunes e i suoi collaboratori (2004) hanno marcato, pesato e seguito la storia di quasi 300 cuccioli, sottoponendoli anche ad un semplice test di abilità motoria: ponendo gli scoiattolini in equilibrio su un’asta, davano un punteggio diverso se cadevano subito, oppure se restavano appesi, si bilanciavano o erano in grado di spostarsi lungo il legnetto. La prateria diventa allora un laboratorio a cielo aperto, un incrocio di micro-storie, da cui emerge un effetto del gioco abbastanza unitario. Chi era più coinvolto in giochi sociali, era più abile nelle acrobazie sull’asta, ma era anche più grasso, a conferma del costo energetico del gioco: in situazione di stress - nutrizionale o sociale – il gioco si spegne. Alla fine della sua breve “infanzia” (gioca tra le 4 e le 7 settimane d’età) lo scoiattolino, se maschio, si disperdeva più lontano dalla tana natale a cercare le femmine; se femmina, aveva più probabilità di difendere un buon territorio e di portare avanti con successo già la sua prima cucciolata. Insomma, non si gioca tanto per consumare il surplus energetico, ma semmai giocando si affinano le capacità motorie e - a lungo termine - si finisce per potenziare il proprio successo riproduttivo. “Comunque i nostri dati sono correlazionali e non stabiliscono una relazione causale tra il gioco, lo sviluppo motorio e i comportamenti da adulti”, concludono prudentemente gli autori (Nunes et al., 2004). Ma anche i dati comparativi rinforzano l’ipotesi funzionale, che vede il gioco svolgere un ruolo critico nello sviluppo dei cuccioli. Robert Fagen ha recentemente (2002) fatto il punto sul gioco nei giovani primati. In natura gli animali che giocano sembrano compiere un atto poco o nulla vantaggioso: sacrificano tempo, energia e sicurezza per giocare! Eppure l’inutile gioco 1. esercita la flessibilità comportamentale; 2.accelera lo sviluppo e le differenze tra sessi; 3.stimola le connessioni neurali; 4.rappresenta una forma di recupero dagli effetti negativi della malnutrizione e della deprivazione sociale; 5.esercita le capacità motorie e cognitive; 6.facilita i legami parentali e sociali; 7. infine, è essenziale nell’interazione gene-cultura. Robert Fagen (2002) Primate juveniles and primate play Se il gioco risponde a tutte queste pressioni selettive, dovrebbero giocare molto le specie con una prolungata fase subadulta, cure parentali, lunghe fasi di apprendimento, interazioni sociali e anche abitudini alimentari particolari, che pongono problemi di interazione con le altre specie (se predatori) o comunque di ricerca e conservazione del cibo (dispense, nascondigli, frutti con guscio etc). Il gioco è praticamente ubiquitario in tutti gli ordini dei mammiferi, e questo suggerisce un’unità filogenetica e funzionale nel gruppo. Ma certo il gioco può essere anche evoluto più volte indipendentemente, ad esempio in certi ordini di uccelli. Non è stato documentato invece alcun caso di gioco negli insetti sociali, e il fenomeno deve essere assente in tutto il resto degli invertebrati. Non ci sono esempi chiari in pesci, anfibi e rettili, con l’unica - ma improbabile - eccezione del varano di Komodo. E.O.Wilson (1975) Sociobiology Se il gioco è insomma una sorta di “dialogo sperimentale con l’ambiente fisico e sociale“, come suggerisce Eibl-Eibesfeldt per il gioco nella nostra specie (1993), sono i carnivori e i primati ad essere i cuccioli più giocosi: appunto, i cagnolini, i micini e i bambini delle nostre case! BIBLIOGRAFIA G.M. Alexander & M. Hines (2002) Young rhesus monkeys prefer children’s toysalong stereotypic lines. Evol. Human Behav. 23: 467-479. N. 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