Capitolo VI

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Capitolo VI
I fatti giuridici
1. Fatto e fattispecie
L’ordinamento giuridico prende in considerazione determinati interessi ritenuti meritevoli di tutela e li protegge
attribuendo al soggetto che ne è portatore, diritti soggettivi e, più in generale, situazioni giuridiche soggettive attive.
Fatto ed effetto sono legati da un nesso di causalità giuridica: posto un dato fatto, si determina un dato effetto.
L’effetto altro non è che il risvolto dinamico del fatto, e fatto altro non è che un accadimento temporale che, idoneo
a modificare la realtà materiale, può essere o non essere giuridicamente rilevante a seconda della previsione che ne
abbia fatto il legislatore. Non vi è coincidenza tra fatto materiale e fatto giuridico, così come non vi è coincidenza tra
interesse giuridicamente e socialmente rilevante.
Se i fatti dal punto di vista materiale hanno una propria chiara e netta autonomia, possono collegarsi e ridursi ad
unità una volta presi in considerazione dal legislatore. Vi può non essere coincidenza tra singolo fatto e fattispecie.
La fattispecie può essere:
- semplice: cioè articolata nella previsione di un unico fatto produttivo dell’effetto;
- complessa: cioè articolata nella previsione di una molteplicità di fatti.
Si consideri ad esempio l’ipotesi di usucapione abbreviata prevista dall’art 1159. Detta norma subordina l’acquisto
a titolo originario della proprietà di un bene immobile alla ricorrenza di una pluralità di fatti e più in generale di
situazioni caratterizzate in modo del tutto peculiare sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista
oggettivo. In termini oggettivi è necessario che sussista un titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che detto
titolo sia stato trascritto; in termini soggettivi è necessario che chi trasferisce il bene non ne sia proprietario e che
chi riceve il bene stesso sia in buona fede. Inoltre è necessario che il bene appartenga ad una data categoria
giuridico-formale (beni immobili) ed infine è necessario che il possesso del bene si sia protratto per un decennio.
Vi sono dunque fatti materiali che rilevano a date condizioni soggettive ed oggettive e determinano un effetto ben
preciso e cioè l’acquisto della proprietà a titolo originario.
La diversità esistente tra fattispecie semplice e complessa non è solo di natura quantitativa ma anche di natura
qualitativa. La fattispecie semplice coincidendo con il singolo fatto materiale determina, la nascita di effetti in
coincidenza con l’avverarsi dell’evento. Ma quando gli eventi previsti dalla norma sono molteplici e dunque la
fattispecie è complessa, gli effetti non si producono se non quando tutti gli eventi si sono prodotti.
Altre volte la fattispecie, più che complessa è a formazione progressiva; fatti che si devono succedere nel tempo, nel
senso che uno di essi non può che seguire l’altro. In tal caso anche l’accadimento di un solo fatto può essere
produttivo di effetti, ma non finali, quanto piuttosto prodromici e strumentali.
2. Fatto e atto
I fatti giuridici sono classificati secondo diversi criteri; il più importante è quello che contrappone il fatto all’atto.
Tradizionalmente il criterio distintivo è ravvisato nella partecipazione dell’uomo alla causazione dell’evento: se
l’uomo ne è causa, si tratterebbe di un atto giuridico, se l’uomo ne è estraneo si tratterebbe di un fatto giuridico in
senso stretto. In realtà questo criterio non è valido in assoluto, perché più che l’origine dell’evento, va sottolineata
la rilevanza o la irrilevanza della volontà del soggetto nella causazione del fatto.
Tutti gli eventi naturali sono anche fatti giuridici in senso stretto, che l’ordinamento giuridico considera rilevanti di
per sé a prescindere da qualsiasi ulteriore accertamento. Non è detto però che i fatti causati dall’uomo non possano
essere considerati dall’ordinamento alla stregua di fatti giuridici in senso stretto, come se fossero eventi naturali.
Il discrimine tra fatto e atto passa attraverso la rilevanza o non rilevanza della volontà dell’uomo per l’ordinamento.
Se detta volontà è presa in considerazione ai fini della produzione di effetti, si tratterà di un atto giuridico, se invece
essa rimane irrilevante si tratterà comunque di fatti giuridici in senso stretto. Esempio: la morte è in ogni caso un
fatto giuridico nonostante che essa possa dipendere dalla volontà consapevole dell’uomo.
L’atto giuridico se presuppone la volontarietà dell’atto, presuppone anche la consapevolezza del comportamento
tenuto, indispensabile al fine di poter imputare al soggetto le conseguenza dell’atto stesso. La consapevolezza è
esclusa nel caso in cui il soggetto non sia in grado di intendere e volere.
Le caratteristiche di consapevolezza e volontarietà sono comuni a tutti gli atti giuridici, siano essi leciti o illeciti.
- Per gli atti illeciti il legislatore ha adottato un’espressione impropria, parlando all’art. 2043 di fatto illecito.
Dalla concreta disciplina si evince che è necessario che l’autore dell’illecito sia capace di intendere e di volere
(art. 2046), mentre con il richiamo alla colpa e al dolo operato dall’art 2043 si pone l’accento sulla necessità che
il soggetto abbia tenuto per negligenza o imperizia il comportamento da cui è scaturito il danno, per senza averlo
voluto cagionare o che il soggetto abbia voluto tenere quel dato comportamento al fine di provocare un danno.
- Per gli atti leciti da un lato si pretende la capacità di intendere e di volere la capacità di agire per gli atti
negoziali, dall’altro, la rilevanza della volontà è sempre diretta, pur se deve distinguersi tra atti negoziali e non
negoziali, detti anche atti giuridici in senso stretto.
Nell’ atto giuridico in senso stretto l’ordinamento limita la rilevanza della consapevolezza e volontarietà al mero
comportamento tenuto, irrilevante restando invece la consapevolezza e volontarietà degli effetti prodotti, che sono
sempre fissati dalla legge. Gli atti giuridici in senso stretto sono tutti detti tipici, cioè tutti previsti dalla legge.
Gli atti negoziali sono caratterizzati da ciò che la volontarietà e consapevolezza non sono limitate a comportamenti
ma si estendono agli effetti, che sono, pertanto, anch’essi presi in considerazione dall’ordinamento giuridico in
quanto voluti dal soggetto. Il negozio giuridico è di conseguenza l’atto mediante il quale il soggetto è in grado di
perseguire al massimo i propri interessi.
3. Atto e negozio
Nel negozio giuridico il soggetto crea egli stesso la regola che disciplina gli interessi perseguiti, cosicché gli effetti
che ne conseguono non potranno non corrispondere all’intento.
Nel caso di atti non negoziali l’autonomia privata si esplica, al fine di perseguire dati interessi, non nella creazione
della disciplina, ma nella scelta del mezzo offerto dall’ordinamento giuridico. Il soggetto non partecipa
al’elaborazione della regola ma utilizza solo gli strumenti di regolamentazione che sono frutto non di autonomia ma
di eteronomia, intendendosi per regola eteronoma quella dettata da poteri diversi ed esterni all’autonomia del
privato, quindi, dal potere legislativo.
Nel caso di atto negoziale non può dirsi che la volontà privata sia priva di controlli. Anzi l’insieme delle regole
dettate della varie leggi dimostrano il contrario. Il punto è allora quello di stabilire il rapporto esistente, nel caso di
negozio giuridico, tra potere autonomo e potere eteronomo (tra volontà del privato e volontà della legge).
Con il termine negozio si fa riferimento sia al procedimento strutturale posto in essere dai privati, sia alla regola
che con tale attività viene ad esistenza. La struttura è quel complesso di elementi richiesti dall’ordinamento per la
configurabilità dello schema negoziale a livello di fattispecie; essa inoltre presuppone il procedimento attraverso il
quale si dà vita all’accordo. La struttura non manifesta ancora alcun potere di autonomia perché i privati possono
solo dar vita ad una fattispecie concreta che corrisponde a quella astratta prevista dal legislatore. I privati possono
“inventare” schemi nuovi rispetto a quelli normativamente fissati e quindi dar vita a negozi e a contratti atipici, cioè
non previsti dalla legge, ma questi schemi, dal punto di vista della struttura, debbono rispettare le regole generale
in materia di accordo e di forma, cosicché è la regola in verità ad essere “inventata” dai privati.
Il concreto esercizio del potere di autoregolamentazione sta nella fissazione della regola, che ha una propria
autonoma rilevanza di fronte alla norma di legge. Ciò significa che anche a legge talvolta impone ai privati alcune
regole, anche se da essi non volute.
Volontà negoziale del privato e volontà della legge sono in costante rapporto dialettico. La legge delinea la fattispecie
astratta ed in ogni caso detta le norme che sovraintendono alla creazione della struttura negoziale, cosicché
l’attività dei privati, da questo punto di vista, si limita a dar vita ad un fatto, a riprodurre uno schema legale o ad
osservare le regole poste dal legislatore. La disciplina concreta invece, è frutto in ogni caso della volontà lecita delle
parti e in alcuni casi anche della volontà della legge.
Eguale dialettica non si ravvisa nel caso di atto in senso stretto, perché l’intento del soggetto non penetra all’interno
della disciplina dell’atto, non la condiziona.
Il negozio è in ogni caso un atto dispositivo, avendo la funzione di disporre degli interessi, regolamentandoli; l’atto
non negoziale viene in considerazione per quel che esso è, irrilevante restando per l’ordinamento giuridico ogni
profilo dispositivo.
Spesso è difficile inquadrare un atto nell’ambito della categoria negoziale o di quella degli atti in senso stretto; anzi
uno stesso atto a seconda del diverso contesto in cui si inserisce può assumere veste negoziale o non negoziale.
Si può con certezza parlare di negozialità solo in presenza di un accordo, mentre per l’atto unilaterale può
sussistere il dubbio, salvo che esso sia atipico, perché allora il carattere negoziale sarebbe indiscutibile.
Anche la disciplina dell’atto non negoziale è discutibile, dal momento che non esiste una disciplina generale quale è
possibile ravvisare e il contratto e più in generale per il negozio unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale né
appare corretto operare un’astensione automatica della disciplina negoziale. Può peraltro procedersi per analogia.
Per quanto riguarda il caso di vizi della volontà, alcuni ammettono l’estensione analogica della disciplina negoziale,
altri procedono caso per caso.
4. La classificazione dei negozi giuridici
Il negozio giuridico è una categoria non positiva ma dogmatica. Essa è infatti frutto dell’elaborazione dottrinaria.
Esistono diversi criteri di distinzione:
- 1° criterio: oppone i negozi inter vivos ai negozi mortis causa: i primi sono destinati ad avere effetto durante la
vita del soggetto, i secondi sono destinati a regolamentare la vicenda successoria, o a disporre per il tempo
successivo alla morte del soggetto, dei beni, degli interessi famigliari o quelli più strettamente collegati alla
personalità e ai diritti ad essa relativi.
Si discute però se il testamento è atto negoziale o non negoziale. In ogni caso senza dubbio la disciplina dell’atto
testamentario è del tutto peculiare ed è per tanto con grande cautela che può pensarsi ad un’estensione delle
regole del negozio inter vivos a quello mortis causa, in particolare per quanto attiene alla rilevanza della volontà.
- 2° criterio: oppone i negozi a titolo gratuito ai negozi a titolo oneroso. Sono a titolo gratuito sia il testamento sia, ad
esempio, la donazione che è, più precisamente, atto liberale. Non a caso il legislatore ha dettato per i due atti una
disciplina per molti versi analoga e talvolta perfino identica.
- 3° criterio: distingue i negozi unilaterali dai negozi bilaterali, tra i quali spicca il contratto, che è l’accordo tra due
o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (1321). La
patrimonialità è ciò che caratterizza il contratto rispetto ad altri atti bilaterali, quale, in specie, il matrimonio.
5. Il contratto
Distinzione importante è tra:
- contratti consensuali e contratti reali dal punto di vista della conclusione;
- contratti ad effetti reali e contratti ad effetti obbligatori dal punto di vista degli effetti prodotti.
Dal punto di vista della conclusione, la contrapposizione tra le due categorie si basa sul fatto che, di regola, il
contratto si conclude con il semplice accordo tra le parti, espresso con la forma eventualmente pretesa
dall’ordinamento giuridico, cosicché si parla del contratto in termini di consensualità. Talvolta, però, la legge
pretende anche la dazione della cosa dedotta in contratto, cosicché in difetto di consegna non potrà dirsi che il
contratto è giuridicamente vincolante. Casi tipici di contratti reali sono: il mutuo (artt. 1813 ss.), e il deposito (artt.
1766 ss.).
Dal punto di vista degli effetti, viene in questione innanzi tutto il contratto ad effetti reali, che ha per oggetto il
trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale o di altro
diritto.
La terminologia usata dal legislatore (contratto ad effetti reali) non deve indurre in errore facendo ritenere che
oggetto di questi contratti possa essere solo la costituzione o il trasferimento di diritti reali. Anche la cessione di un
diritto di credito o di un diritto personale di godimento rientra in questa categoria. Da esse resta fuori solo quella
del contratto che da vita ad un rapporto obbligatorio (contratto ad effetti obbligatori), creando, e non trasferendo,
diritti relativi.
I criteri del perfezionamento e quello dell’efficacia s’intersecano, perché sono ipotizzabili contratti consensuali sia
ad effetti reali (es. compravendita, permuta) che ad effetti obbligatori (es. contratto preliminare, contratto di lavoro),
così come i contratti reali possono essere ad effetti reali o ad effetti obbligatori.
Il legislatore detta una disciplina generale molto analitica comune ad ogni contratto, ed una disciplina specifica per
ogni singolo contratto tipico. È previsto quindi il modo con il quale l’accordo si raggiunge, quando la causa è lecita e
l’oggetto è ammissibile, quale forma è richiesta quando il contratto non produce effetti perché è invalido o perché
risolto o rescisso, come esso vada interpretato, quale sia la disciplina della condizione, che i contraenti possono
apporre liberamente, facendo così dipendere l’efficacia o l’inefficacia del contratto dall’avverarsi di un avvenimento
futuro ed incerto (art. 1353).
6. Il negozio unilaterale
L’art. 1324 estende ai negozi giuridici unilaterali la disciplina del contratto, entro i limiti della compatibilità. Per
esempio, non potrà applicarsi l’insieme delle norme sul contratto che disciplinano la conclusione o hanno riguardo
necessariamente alla struttura bilaterale. Tale criterio pone problemi interpretativi non facili.
Il dubbio di fondo riguarda la possibilità d’ipotizzare negozi unilaterali atipici. I privati infatti possono dar vita a
contratti atipici (art.1322); questo potere riconosciuto ai privati in materia contrattuale pretende l’accordo tra le
parti, cosicché gli effetti che si produrranno nella sfera giuridico-patrimonale degli interessati saranno il frutto di
una volontaria e consapevole manifestazione di volontà.
Nel caso di negozio giuridico unilaterale, invece, gli effetti si producono in via diretta o indiretta anche nella sfera di
terzi che sono però rimasti estranei al perfezionamento del negozio. L’ordinamento si preoccupa dunque di tutelare
questi terzi. La dottrina più moderna ammette la possibilità di negozi unilaterali atipici.
Più in generale gli effetti che si producono nella sfera dei terzi debbono necessariamente essere incrementativi del
patrimonio e in ogni caso possono essere rifiutati. Il negozio unilaterale soggetto a rifiuto costituisce secondo
alcuni, una categoria generale quando da esso derivano effetti obbligatori. Per gli effetti reali, invece, si discute.
Secondo alcuni questi effetti potrebbero infatti prodursi solo a seguito di un accordo, cioè di un contratto ad effetti
reali, per il principio del consenso traslativo o perché gli effetti reali, quando consistono nel trasferimento della
proprietà o della costituzione di un diritto reale di godimento, non sarebbero incrementativi.
Si distinguono dunque tra:
- negozi unilaterali recettizi: devono essere portati a conoscenza del destinatario (oblato) e solo quando quest’onere
sia adempiuto, il negozio produrrà gli effetti nella sfera del terzo; per esempio l’accettazione dell’eredità.
- negozi unilaterali non recettizi: producono effetti immediatamente, cosicché perfezionamento ed efficacia vengono
a coincidere temporalmente; ad esempio la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa.
Nel negozio unilaterale spesso si assiste ad una scissione temporale tra momento perfezionativo (emissione della
dichiarazione da parte del soggetto) e momento in cui il negozio, già perfetto, è in grado di produrre gli effetti.
7. La parte plurisoggettiva
L’unilateralità va riferita non ai soggetti ma alla parte, potendo questa essere espressione di una pluralità di volontà
concorrenti. La parte in senso giuridico, infatti, può anche essere plurisoggettiva dal momento che una pluralità di
identici interessi possono anche confluire nella stessa direzione, cosicché tutti i portatori degli interessi
costituiscono un unico centro di riferimento. Si distinguono diverse ipotesi:
 Atto collettivo: è l'atto posto in essere da una pluralità di soggetti, ciascuno per l'intero (proposta di vendita di
un bene in comunione); il consenso di ciascuno è necessario, se uno dei proprietari non lo esprime l'atto non è
perfetto e non produce effetti. Gli atti collettivi appaiono quindi soggettivamente inscindibili.
 Atto complesso: è l'atto posto in essere da un pluralità di soggetti, ciascuno pro parte (vendita congiunta delle
quote di proprietà di un bene comune); qui la dichiarazione di ciascuno produce effetti con riguardo alla quota
del dichiarante, in caso di mancanza del consenso di uno dei venditori non ci sarà l'imperfezione e l'inefficacia
del contratto. Gli atti complessi appaiono soggettivamente scindibili. L'unità dell'atto complesso è estrinseca
poiché lo stesso risultato potrebbe conseguirsi con una pluralità di contratti autonomi.
 ineguale è l’atto che esprime una pluralità di volontà che sono riferite ad un unico interesse e quindi si
fondono in un unico atto (es. att. 394 –minore emancipato- e 424 –inabilitato-).
 Uguale i soggetti sono sullo stesso piano di parità (es. amministrazione congiunta della società semplice.
 Atto collegiale: è l'atto posto in essere da una pluralità di soggetti, la cui efficacia dipende dal consenso della
maggioranza. La pluralità di soggetti è considerata dal diritto come unicum collegiale, il quale esprime una
dichiarazione imputabile al collegio e non ai singoli.
Sul piano disciplinare la più evidente diversità può ravvisarsi in ciò che nel caso di atto collettivo e complesso il vizio
che colpisce una dichiarazione nega la validità dell’atto stesso mentre nel caso di atto collegiale il vizio si estende
solo se la dichiarazione viziata era indispensabile a raggiungere la maggioranza (prova di resistenza).
8. Dichiarazione e comportamento
La forma di esteriorizzazione della volontà può essere diretta o indiretta a seconda che si manifesti per:
- Simboli, si avrà la dichiarazione
- Segnali si avrà il comportamento concludente
La dichiarazione è il mezzo rappresentativo (immediato) del fatto interiore mentre il comportamento concludente si
risolve in un contegno oggettivamente orientato in altra direzione programmatica, da cui però è dato inferire (in via
non immediata ma critica) l’intimo stato d’animo del soggetto.
I simboli del linguaggio possono consistere non solo in parole ma anche in gesti e comunque in segni convenzionali
atti a rappresentare la volontà per accordo tra le parti.
Viceversa il comportamento concludente può consistere anche in una dichiarazione, quando da essa sia desumibile
una volontà diversa e ulteriore rispetto a quella immediatamente rappresentata.
La distinzione tra le due forme di manifestazione di volontà non è dunque quella tra parole e fatti.
La dichiarazione espressa con il linguaggio resta la forma primaria e principale per la sua concludenza ed
intelligibilità immediata, salvo i profili interpretativi. Non a caso è la stessa legge che spesso pretende questa forma,
ad esempio la surrogazione per volontà del creditore, la delegazione cumulativa, la rinuncia all’ipoteca.
9. La dichiarazione
Non sempre un soggetto intende manifestare all’esterno una propria volontà, collegata ad un dato interesse.
Così avviene in caso di dichiarazione di scienza, quale ad esempio la quietanza con cui si dichiara avvenuto il
pagamento e quindi estinto il debito. In tal caso il soggetto dichiarante non dispone, per il futuro, di un proprie
interesse ma da atto di una data situazione già verificata, con effetti essenzialmente sul piano probatorio. Le
dichiarazioni di scienza non rilevano autonomamente perché presuppongono una preesistente situazione giuridica
rilevante. Quando ciò non avviene la dichiarazione è del tutto priva di significato giuridico vale solamente come
espressione di desiderio. Si è dunque nel settore del meramente lecito e quindi del giuridicamente irrilevante.
Si ricomprende nell’ambito delle dichiarazioni di scienza non solo la testimonianza, il rendiconto, le fatture, ma
anche la confessione e il riconoscimento di figlio naturale.
Nell’ambito delle dichiarazioni di volontà, viceversa, vanno ricompresi tutti gli atti da cui deriva per il dichiarante
un impegno in ordine ad un dato assetto di interessi. La dichiarazione di volontà potrà dunque essere negoziale o
non negoziale.
Nell’ambito delle dichiarazioni negoziali la dottrina distingue tra:
- dichiarazione espressa: ogni manifestazione di volontà esternata attraverso modalità atte a rappresentare
in via diretta ed immediata l’intento del soggetto; ma anche il silenzio accompagnato da atti o fatti può
valere come dichiarazione espressa di consenso.
- dichiarazione tacita
10. Il comportamento concludente
Il comportamento concludente può consistere in un contegno o in una dichiarazione.
Si parla di dichiarazione tacita quando da un comportamento o da una dichiarazione espressa si desume di
necessità la presenza di un’altra dichiarazione non espressa.
Nell’ambito del negozio giuridico, particolare valore assume il comportamento attuativo. La categoria del negozio di
attuazione è discussa sul piano della stessa configurabilità giuridica. Chi ne afferma l’esistenza ravvisa la
fattispecie quando vi è coincidenza tra formulazione e attuazione del regolamento di interessi. La difficoltà di
configurare la categoria è nel fatto che non vi sarebbe spazio, né tempo giuridico per quella programmazione che
caratterizza il negozio. L’obiezione è superata avuto riguardo agli effetti prodotti che sarebbero non bisognosi di
esecuzione. In senso contrario si ribadisce però la necessaria esistenza del programma da realizzare, mentre la
forma attuativa si giustifica con il fatto che questi negozi seguono i modi obbligati dall’esercizio di diritti assoluti o
potestativi e quindi il programma si realizza da sé, senza necessità di collaborazione, né possibilità di ostacolo da
parte di terzi.
Per quanto riguarda l’errore sul contegno, se è ben concepibile che all’atto esteriore, pur volontario, possa non
corrispondere l’intento che ci si ricollega, non si può però parlare di errore in senso stretto, perché il
comportamento in sé è voluto. Quel che manca (o piuttosto è falso) è l’indizio, il segnale da cui criticamente
desumere la volontà, ma tale falsità non può di certo evitare l’impegnatività di fronte ai terzi. Spetterà dunque
all’agente far valere il difetto di volontà.
Se è così può facilmente risolversi il problema della protestatio. L’agente può all’occorrenza manifestare una volontà
contraria, in tal modo privando il segnale della sua concludenza. La protestatio consiste in una dichiarazione
emessa dall’agente per annunciare che il comportamento che terrà non vuole avere quel dato significato: così ad
esempio che può impugnare un contratto annullabile può dichiarare che l’esecuzione che egli sta per intraprendere
non vale convalida.
Il principio protestatio contra factum non valet è applicabile solo per contegni con valore non negoziale. La
protestatio deve essere inequivoca e precedente o contemporanea al comportamento e non successiva, non
potendosi ammettere uno ius poenitendi una volta che l’effetto si sia prodotto.
La volontà del’agente è tutelata anche sotto il profilo della consapevolezza. Egli più tenere volontariamente un dato
comportamento ma senza ricollegarvi quell’ulteriore rilievo.
Nell’ambito degli atti giuridici in senso stretto, il comportamento rileva in via diretta ed immediata. Si parla al
riguardo di atti reali o di operazioni, quali, ad esempio, l’impossessamento, la coltivazione della terra. La linea di
confine tra questi atti e la categoria negoziale è assai sfumata e dipende dal ruolo che si intende attribuire anche in
questi casi al potere di autonomia.
I comportamenti legalmente tipizzati possono distinguersi in tre diverse ipotesi:
 Valore di negozio
 Valore di atto in senso stretto
 Valore di fatto giuridico
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