INTERVISTA A MAURO TRENTADUE, RANCO 2 AGOSTO 2008. di Eva F. Franchino Eva - Mauro, mi piacerebbe porti una domanda, in questo periodo di pausa estiva dei tuoi seminari, in quanto filosofa, in quanto tua allieva, vorrei chiederti cosa pensi del ruolo che oggi ha la filosofia. Mauro - La filosofia, nella quotidianità, ha un ruolo duplice o, meglio, si configura con una duplicità inerziale: da una parte c’e la filosofia come l’abbiamo studiata, la filosofia fatta dall’Università, che io brevemente chiamo “Accademia”, con tutto il rispetto per quello che fanno, ma che a me appare costituzionalmente aristocratica, ha un modo di porsi molto elitario e si rivolge in maniera perentoria ad un pubblico abituato a conformarsi l’uno con l’altro e a non lasciare nessuno spazio per una riflessione eccedente rispetto alle attese. Non posso fare a meno di pensare - e questo l’ho scritto nel saggio breve “Il dito e la luna”1 - che i grandi pensatori del ‘900 in questa Accademia non ci si sono molto trovati. Penso agli appunti che la Arendt ci ha lasciato del suo momento di incontro con l’Università americana; in una lettera a Mary McCarthy scrive che non crede che quello che vede sia vero: persone pagate per farsi i fatti loro, per raccontarsi delle storie che non interessano a nessuno, se non a loro stessi, e soprattutto, la preoccupazione della Arendt era quella di vedere persone che non dimostrano nessuna attitudine alla comprensione della realtà politica e pubblica della filosofia. Questo modo di pensare, tipico della mentalità accademica, nuoce tantissimo all’idea che più in generale si ha della filosofia. Quello che in sostanza rimprovero all’Accademia non e di interrogarsi sul pensiero astratto: non c’e niente di male nell’occuparsi di questioni che riguardano la vita teoretica, di questioni che hanno a che fare con quello che facciamo quando pensiamo, sono questioni evidentemente molto importanti anche per la stessa conservazione della tradizione filosofica; il problema e che come ci si accorge della differenza 1 M. Trentadue (2008), Quaderni di Finis Terrae, vol. II, pp. 11 sussistente tra le mele le arance, cosi ci si dovrebbe accorgere della differenza sussistente fra la filosofia accademica e ciò che forse potremmo considerare semplicemente filosofia, anche se non siamo abituati a farlo. Noi aspettiamo che l’Accademia ci confermi nell’approcciò conoscitivo, aspettiamo che l’Accademia ci dia un alloro definitivo e poi la consideriamo una termine di riferimento assoluto. In realtà la storia della filosofia stessa dimostra e racconta una cosa molto importante: tutti i più grandi pensatori contemporanei non sono mai stati accademici. Questo e un dato di realtà sul quale si può ragionare. Se guardo a cosa la filosofia contemporanea ci ha dato, non posso non osservare che i grandi pensatori ai quali io faccio riferimento, che considero dei maestri per la mia vita, non sono transitati se non in rare occasioni e in momenti molto specifici, attraverso le porte dell’Accademia. Insisto: questo qualcosa vorrà dire, e a me dice una cosa molto importante. In realtà la filosofia accademica e insostituibile per la conservazione del sapere, e un’istituzione straordinariamente importante per i fini formativi ma pensare che essa possa assumere dei ruoli pubblici o che possa fungere da guida in momenti cupi come questi, ad esempio, io penso francamente che sia un grosso errore. E per questo io penso esista un altro modo di guardare alla filosofia che non e interessato unicamente alla storia del sapere filosofico cosi come si e concretamente e oggettivamente costruito nel suo snodarsi attraverso i secoli. Questa conoscenza di base della storia del pensiero e un punto di partenza, non un punto di arrivo. L’Accademia in realtà con il suo modo di impostare la formazione, crea anche una confusione rispetto a ciò che la filosofia è. Questo modo di pensare che il passato sovrasti il pensiero moderno, il pensiero nella sua effervescenza brulicante, nella sua activitas agostiniana, e un modo in fondo molto limitante rispetto all’attività del pensare. Infatti Nietzsche, che a questo aveva molto pensato, fa notare che lo studio della storia e quindi anche della storia della filosofia, ha un effetto limitante rispetto all’emergere del nuovo perché lo fa precipitare in un’aura, in un alone retrospettivo, nel quale tutto quello che viene configurandosi come pensiero nuovo o atto nuovo, sembra portarsi dietro un’ombra di già visto, già detto, già pensato e, che rischia di far perdere l’entusiasmo per quanto di nuovo gli uomini possono portare sotto il sole. In realtà, si può guardare alla filosofia con un interesse diverso, soprattutto se si parte da un punto di vista diverso. Il punto di vista diverso secondo me, dovrebbe essere quello di trattare il pensiero come una forma viva. Il pensare non ha bisogno di essere museificato. Il pensiero non ha bisogno di essere autocelebrato e in quanto tale essere acquisito come termine artificiale, perché il pensiero pensato, subisce in questo modo, una specie di trasformazione in artefatto. Se ci pensi, secondo me esiste un modo diverso di pensare alla filosofia: partire da quello che hanno detto questi grandi pensatori significa prepararsi a levare le ancore; partire significa farsi uno scafo e poi andare in mare aperto, altrimenti si continua a stare sulla soglia e non si naviga mai. Penso che la filosofia debba fronteggiare delle sfide importantissime, io credo che la contemporaneità ponga dei problemi enormi alla filosofia, che apparentemente, se considerata solo come meramente accademica, non e in grado di fronteggiare, in quanto pone se stessa come luogo del sapere acquisito. EVA - L’Accademia non pensa? MAURO - Non so se non pensi, ma sembra muoversi dalla posizione del sapere acquisito, pertanto nel reale non si specchia, il reale la preoccupa. Da qui il divorzio tra filosofia e politica, tra filosofia e realtà che ha caratterizzato tanta parte del ‘900. A me piace pensare che l’Accademia da una parte si possa smuovere cioè sentire l’appello che parte dal presente. Esaminiamo delle questioni molto urgenti, come quelle della bioetica: sono molto deluso dal fatto che l’Accademia non sappia elaborare, non si pronunci rispetto a questioni importantissime che sono questioni che interrogano la filosofia. Dal reale partono degli appelli verso la filosofia ma, da questa partono alcune voci in ordine sparso e in questo modo si cade nell’equivoco opposto: non e che qualsiasi gracidio di rana nel pantano possa essere considerato filosofia. Di fronte a certe questioni che vengono poste dall’effervescenza del quotidiano, la filosofia corre il rischio di essere tagliata fuori. Io raccomando di ascoltare le domande che partono dalla realtà perché se la filosofia pensa di essere un sapere professionale legato a contenuti acquisiti una volta per tutte, diventa una sorta di tecnica, come fosse una storia della letteratura che si può solo spiegare come uno scioglilingua. L’insegnamento della filosofia e importante, perché altrimenti non emergono nuove generazioni di pensatori, si arena tutto, ma l’equivoco dal quale vorrei che ci guardassimo e considerare che la filosofia sia solo questo. Se tu guardi la scena della filosofia contemporanea, in particolare in Italia, siamo davanti ad uno scenario di una povertà agghiacciante. La mia preoccupazione e che l’appello che parte dalla realtà in questo momento debba essere ascoltato. Per questo dico che e necessario pensare ad una filosofia di nuova specie. Lo penso veramente. La filosofia di nuova specie deve partire dal passato per costruire il presente. Per questo e necessario confrontarsi con pensieri non cosi acquisiti, non cosi cesellati, consegnati alla tradizione. Perché il dramma della tradizione e che arriva dopo, quindi sistematizza il già pensato. E questo e un passo indietro. Come giustamente dice Hegel, la filosofia finisce per essere come la famosa nottola di Minerva perché si leva solo sul far del tramonto: però attenzione, perché poi questo tramonto arriva veramente. Ne “Il dito e la luna” auspico una nuova generazione di pensatori che sappiano guardare alla realtà mai unicamente per prenderne le distanze, ma per potervisi tuffare. Scrivo anche che auspico ci siano nuovi pensatori che nonostante la loro collocazione professionale, magari ambigua, incerta, provocatoria, sappiano cogliere la novità che c’e e cerchino di costruire spazi nuovi. Inutile pensare di trovare una stanza in una casa che già c’e: si può costruire una casa nuova. E la casa nuova che io penso, e anche fatta con materiali nuovi, con pensieri nuovi. Per questo mi sento attratto da pensatori, pensatrici che non hanno mai avuto una collocazione tradizionale acquisita. Magari oggi ce l’hanno, ma quando hanno scritto e pensato, raramente si sono trovati nella casa della filosofia. EVA - Mi verrebbe da dire che la filosofia che ora noi abbiamo non sia veramente un pensare, e forse un acquisire conoscenza della storia della filosofia, cosa sicuramente importante e necessaria, e la nostra ricchezza. Ma c’e poi il pensiero? Si riflette sui filosofi? In modo non solo storico? Non credo che la filosofia venga applicata alla vita, all’esistenza. MAURO - Di ottimi storici della filosofia non possiamo fare a meno, però ne siamo pieni. C’e un equivoco molto importante riguardo alla filosofia. Eva - Ma scusa, in realtà questa nuova filosofia che tu auspichi e forse la filosofia esattamente come e nata. E’ un ritornare a quello che era veramente la filosofia, cosa che forse si e un po’ persa o, meglio, e stata un po’ abbandonata. MAURO - Si questo e paradossale. La filosofia e nata come un porsi delle domande rispetto a tutto ciò che ci circonda. Sono domande che ciascuno continua a farsi, ma spesso trova anche dei modi distorti per non farsi più, per disfarsene. Tornando a “Il dito e la luna”, Platone dice che la filosofia nasce come uno stupore - θαῦμα - Platone usa il verbo θαυμαζω, “mi stupisco”. Questo stupore e per Platone, il padre per del sapere filosofico. C’e sicuramente una parte del pensiero che nasce dallo stupore di fronte alle cose, stupore rispetto allo stacco che si ha dinnanzi ad una cosa sorprendente: il mondo. Oppure si puo pensare come ho scritto ne “Il dito e la luna”, che la filosofia sia espressione di una irrequietezza molto umana. La filosofia, qualsiasi cosa sia, bisognerebbe che tenesse vivo il suo legame con l’umana irrequietezza che e una dimensione molto vitalmente importante, oserei dire che e, dal mio punto di vista, insieme alla coscienza - forse perché parte della coscienza - la dimensione più interessante dell’essere umano. Perché l’irrequietezza e quella incapacità di aderire al dato che fa si che ci si stacchi rispetto a ciò che si ha davanti e si ricerchi qualcosa di nuovo. L’irrequietezza non e solo una dimensione di inappagamento, e anche una dimensione legata al desiderio: si può desiderare solo ciò che non si ha evidentemente o ciò che non si e, perché altrimenti lo si ha o lo si e non lo si desidera più, come molto bene ha spiegato Hegel. Per avvicinarsi alla dimensione dell’irrequietezza in realtà io scelgo però un’altra strada, quella percorsa da un outsider della filosofia: Bruce Chatwin. Molto più noto per i suoi viaggi che per i suoi pensieri. Chatwin si e interessato tutta la vita all’ alternativa nomade; nomade e colui che non ha fatto una scelta stanziale, che non si e legato agli oggetti, rappresentando un’ alternativa radicale di pensiero e di esistenza rispetto al mondo. Un’ alternativa senza compromesso: da una parte c’e l’agricoltura che obbliga al possesso, all’obbligatorietà del rimanere e dall’altra c’e il nomade che viaggia felice con i suoi animali. Chatwin rilegge la storia di Caino e Abele: Caino e l’agricoltore e Abele e il nomade. La storia di Caino e Abele diventa per Chatwin un ottimo modo per spiegare come la storia della civiltà sia sorta da un assassinio: l’assassinio di Abele, il quale non aveva bisogno di essere cattivo, insoddisfatto e infelice perché poteva sempre prendere ed andare da un’altra parte, non essendo legato a niente. Questo fatto di non avere un legame con le cose tanto vincolante da trasformarsi in un obbligo costrittivo per la vita e per la sorgività del nuovo, dunque la possibilità di considerare diversamente il possesso, rende possibile pensare ad una alternativa sussistente: una vita molto più frugale, molto più pensata, molto più cerebrale, molto meno legata alla ripetitività del rituale, alla ripetitività del gesto e cosi, probabilmente, una vita più felice. Devo interrogare un outsider del pensiero, che mi mostri la dimensione positiva dell’irrequietezza, per riuscire ad avere una risposta interessante rispetto ad una questione che e sotto agli occhi di tutti oggi. Posso interrogare Kant, Hegel e trovarli storicamente importanti, ma di fronte al problema della felicità dell’uomo nel mondo, devo ritornare a Epicuro, o posso parlare dell’Esistenzialismo che e uno degli altri miei pilastri filosofici irrinunciabili. Ma sono tuttavia avvilito di fronte all’incapacità che l’Accademia ha di pensare alle cose che le persone sentono come un loro problema: come posso essere felice qui ed ora? Perché non si può pensare ex novo a questa dimensione? Se non si riesce a farlo perché allora non appoggiarsi a chi l’ha fatto? L’Accademia non riesce a farlo. Paradossalmente devo assistere ad una filosofia che si arrocca quando li davanti agli occhi - basterebbe aprirli - ha un sacco di persone che sarebbero interessate alle cose che potrebbe dire, solo se scendesse dal piedistallo sul quale si e abituata a vedere le cose. E’ orribilmente avvilente vedere che la filosofia ha perso la dimensione più importante per la sua sopravvivenza. Noi guardiamo solo alla storia della tradizione, come se da li dovessero arrivare tutte le risposte. Rispetto alla vita quotidiana le risposte alle domande che sorgono, solo in parte si trovano nel pensiero già pensato. Perché non si può assumere un punto di vista che attinga direttamente al pensiero? Invece, quando sento parlare Singer, ad esempio, mi trovo davanti ad un pensatore che certe cose le pensa, ha il coraggio di dirle e di portarle alle logiche conseguenze. E’ brutto che la filosofia viva in una sorta di lascito testamentario auto-indotto soprattutto se lo scopo e quello di preservare il proprio pensiero perché e l’unica cosa che rimarrà, per come la vedo io in una logica laica e antitrascendente, dato non credo ci sia una vita dopo la morte. E’ quindi molto importante quello che si fa qui e ora, anzi ha un’ importanza decisiva. La filosofia dovrebbe uscire da questa idea auto-indotta di essere una sorta di esecutrice testamentaria, come se non ci fosse nulla di nuovo sotto al sole. Mi e capitato di recente di rileggere l’ultimo scritto di Maria Zambrano che e datato 1990, da una donna di più di ottanta anni: “Peligros de la paz” , di fronte alla Guerra del Golfo Persico. Maria Zambrano, straordinariamente, parla di questa necessita di vivere nella pace e dice cose che potrebbero essere scritte oggi, per il nostro presente, testimoniando un’incredibile vocazione all’interrogazione del presente. Una donna prossima alla morte che ha vissuto una vita pazzesca, caratterizzata da catastrofi epocali, non ha perso l’interesse per il reale. Le ultime parole di Maria Zambrano sono state orientate ad un presente che la terrorizzava e alla speranza di un futuro aperto. La pace e in pericolo, e in pericolo non solo il Golfo Persico, e in pericolo un modo di pensare la vita. E dove erano, mi chiedo, tutti gli altri grandi filosofi nel 1990? Dormivano? Facevano lezione all’Università? E l’una cosa impedisce l’altra? Qualcuno mi dovrebbe rispondere a questo. Eva - Mi sovviene una riflessione ascoltando le tue parole: il filosofo dovrebbe diventare in un certo senso nomade, abbandonare quello che e il suo possesso, il suo sapere, quello che ha studiato, metterlo da parte, forse non abbandonarlo del tutto. Mauro - Metterlo nello zaino. Eva - E poi diventare nomade nel pensiero, nel ricercare, nel vivere. Mauro - Infatti ho voluto essere un po’ saccente quando ho dato questo titolo : “Il dito e la luna”. Ci sono delle persone che si soffermano a guardare il dito della mano invece della luna. In realtà non riesco ad essere benevolo verso le persone che non sanno essere nomadi. Nomadi col pensiero prima che con le cose, perché si fa presto ad essere nomadi con le cose, si adotta un punto di vista essenziale, minimale rispetto alle proprie condotte esistenziali e ci si dedica alle cose importanti, ma, rispetto al pensiero, si fa più fatica, ma e esattamente quello che dico, quindi tu hai colto molto bene il senso delle cose che stavo dicendo. Io ho dei maestri che mi hanno illuminato la strada. Ricordo ancora la prima volta che ho letto delle riflessioni di Simone de Beauvoir; io sono arrivato all’Esistenzialismo più attraverso Simone de Beauvoir che attraverso Sartre: può sembrare paradossale però l’Esistenzialismo di Simone de Beauvoir mi ha veramente aperto gli occhi. Ero molto giovane, avevo poco più di vent’anni quando ho letto di questa donna che ha capito che la vita terrena era tutto quello che c’era, visto che “il vuoto del cielo disarma la collera”, la cito testualmente. E’ incommentabile. Se credessi in Dio potrei finire per prendermela con lui, invece siccome sono troppo appassionato all’esistenza, come spiega Simone de Beauvoir, non mi sfiora neanche il problema. Da una parte continuo a pensare che siamo estremamente complessi come esseri biologici, come esseri organici e questa complessità allude ad una causalità. Qui c’e il piccolo scolastico che vive in ciascuno di noi; però poi mi fermo e mi ricordo che questo e il migliore esempio di un ragionamento antropico; siamo il frutto di un’evoluzione plurimillenaria, diamo il tempo al tempo, non vediamo mai tutti i sentieri interrotti. Peraltro, se anche la prospettiva teologica fosse interessante - non lo e per me, ma se anche lo fosse - proviamo ad ammettere che esista Dio: non riesco a pensare un Dio onnipotente. Se io penso al fatto che tutto ciò che e sulla terra e effimero, allora, mi dico, la paghiamo cara l’esistenza: per splendere qui qualche anno, dobbiamo assumere la nostra mortalità pesantemente. Il confronto con la caducità dell’esistenza e un confronto importante nel momento in cui io mi rapporto con una prospettiva teologica. Ed e chiaro che nel medioevo credevano molto di più: se tu hai una vita media di vent’anni, non puoi che sperare in quella che verrà perché quella che c’e qua, non ti accorgi neanche di averla. Oggi, in una dimensione leggermente diversa, ci confrontiamo con la mortalità in modo differente, probabilmente dovremmo trarre delle conseguenze che non traiamo, ma per quanto mi riguarda la scoperta della giovane Simone de Beauvoir che riusciva a mettere le radici nel mondo nonostante non credesse in Dio, mi ha aperto un mondo; mi sono detto: non sono solo. I filosofi non parlano mai di loro stessi, ti propongono i loro pensieri come già pensati, come fossero usciti dalla testa di Atena. La prima cosa che fa Simone de Beauvoir e parlare di se, questo te l’avvicina moltissimo e questo che dico, che ci sarebbe bisogno di pensare ad un modo nuovo di pensare alla filosofia. Lo fa anche Sartre però lui e sostato nella prossimità del mondo della filosofia. Lui non e stato assolutamente accademico e ha risolto la sua filosofia nell’azione pratica. Infatti e bello vederlo già anzianotto che con un microfono parla sulle barricate del ’68 di Parigi. Dalla realtà vengono fuori degli stimoli, la filosofia, i filosofi, che come tutti gli esseri umani hanno bisogni materiali, non sono delle teste che gironzolano senza corpo, sono come tutti gli altri e vivendo come tutti gli altri possono fare delle cose come le fanno tutti gli altri, dovrebbero confrontarsi con dei problemi terreni e trovare li delle risposte. Per questo io continuo a pensare che sia un grosso peccato che la filosofia non riesca a fare questo passo verso l’essere umano. Non so se ho risposto alla tua domanda, ho parlato di Chatwin , come non riesco a non parlare di tutti i pensatori che mi hanno dato e detto qualcosa, faccio fatica solo a costruire un ordine di priorità, perché li ho incontrati in momenti diversi; sono pensatori, uomini e donne che non hanno messo al centro dei loro interessi solo le pure esperienze di pensiero, perché alla fine questo, lo trovo anche irritante. Per questo motivo non riesco più ad appassionarmi per un filosofo che dice solo cose da filosofo. Mentre mi appassiono quando si parla di questioni che riguardano problemi immanenti: come posso essere felice, cosa devo fare per essere felice, cosa non devo fare per essere felice, quali sono le cose concrete che devo fare per essere buono, giusto. In questo credo fermamente: nell’insuperabilità della questione socratica, che poi e anche una questione molto arendtiana, dello stare bene con se stessi. Si può essere felici quando si sta bene con se stessi, quando si e in armonia con se stessi, quando, io dico sempre, riesco a guardarmi allo specchio e riesco a riconoscermi fino in fondo; questa e poi la questione socratica per eccellenza, cioè il famoso daimon: l’altro se, e il te che tu devi in qualche modo riconoscere. Non riesci a stare bene, se non riesci a riconoscerti e non riesci a riconoscerti, quindi a stare bene, se non riesci a comportarti conseguentemente rispetto a delle questioni importantissime, vitali, come non compiere il male. Non puoi stare bene sapendo che il tuo benessere si fonda sul malessere altrui, e impensabile. Dal mio punto di vista, ad esempio, la solitudine esistenziale del capo d’industria e una condizione ovvia, una logica conseguenza del ruolo che si e scelto. Se il tuo benessere economico si realizza a partire dalla sottrazione di ciò che spetterebbe ad altri e evidente che non puoi essere felice, se non per cose materiali. Riuscirai ad essere felice solo nel momento in cui riuscirai ad essere funzionale rispetto ai tuoi bisogni ipertrofici. Tu baratti la felicità con il possesso. Eva - E qui posso collegare la domanda che volevo farti riguardo a Chatwin: Chatwin lascia perdere ciò che e materiale, in questo modo forse trova se stesso, quindi in realtà ha qualcosa, cioè ha se stesso. Posso essere felice se invece di avere cose, avere situazioni, se lasciò da parte i ruoli, in fondo anche i ruoli sono cose, no? Mauro - Il ruolo e quasi come una cosa, e la fatticità agognata ma impossibile. La coscienza mi impedisce di fare tutt’uno con me stesso al modo delle cose. Eva - Se riesco a mettere da parte tutto questo o almeno un po’, e divento in un certo senso nomade, io trovo me, me stessa e questo e forse quello che dicevi tu parlando di Socrate. Trovando me stessa, trovo la felicità o anche solo la serenità che poi a volte vale anche più della felicità, secondo me. Mauro - Sono assolutamente d’accordo. Certo trovi te stesso. Certo. Nello zaino di Bruce Chatwin evidentemente ci sono tantissime riflessioni, lui di queste riflessioni ha sicuramente lasciato traccia nei suoi libri: sull’autosufficienza del possesso Chatwin secondo me ha detto delle cose definitive che non possono essere ignorate, tralasciate. Sull’autosufficienza del possesso, che ovviamente non c’e, non esiste, e quindi sulla relazione che sussiste tra il possesso e il benessere. L’ultimo libro di Chatwin “Utz”. E’ un libro che consiglio a tutti di leggere, e un libro fulminante perché racconta proprio l’impossibilita di questo protagonista, tutto legato alla sfera del possesso, di essere felice. Lo racconto brevemente: Utz e un collezionista di porcellane Meissen. Chatwin l’ha scritto quando ormai era molto malato, dunque perfettamente consapevole che sarebbe stato l’ultimo libro, questo lo dico perché secondo me, le ultime cose che scrivi hanno molta importanza, per uno che ha fatto di professione lo scrittore. “Utz” e un libro molto breve, una storia bellissima con una morale evidente, secondo me, un libro da leggere e rileggere diverse volte. Lo leggi per la storia, per il suo contenuto, perché e scritto in perfetto stile Chatwin: la forma e lessicamente essenziale, ma stupefacente. Infatti oggi, paradossalmente, Chatwin e molto studiato nelle Università americane per lo stile, per il suo lessico minimale e al contempo perfetto. Utz e un collezionista di porcellane Meissen, abita nella repubblica Cecoslovacca, e di famiglia nobile, e ricco; con l’avvento del regime comunista perde i titoli nobiliari e si ritrova a vivere a Praga in un bilocale con la sua fida domestica e in compagnia delle sue amate porcellane, che per lui sono rappresentazioni di vita. Lui ama il colore delle porcellane, ama le loro posizioni, ama la loro eternità. Ama il fatto che mentre la vita si corrompe le porcellane rimangono. Mentre l’uomo invecchia, la donna invecchia, la porcellana rimane nella sua fattezza perfetta. Ciò qualifica Utz come il perfetto collezionista. Apro e chiudo una parentesi: Chatwin ha lavorato da Sotheby’s in gioventù, quindi sapeva benissimo cosa significa collezionare, chi e il collezionista e quindi ha messo in scena nel suo ultimo atto, nel suo ultimo libro, una cosa che conosceva benissimo: la patologia dell’avere. Collezionare significa non solo possedere, ma possedere una serie di cose simili che si chiama collezione. Porcellane, quelle di Utz, che hanno una loro finezza, ma anche un loro colore, eternate nelle loro movenze, nelle loro fattezze specifiche, delle loro peculiarità, imitano la vita ma sono perfette, cosa che la vita non potrà mai essere. Sono sottratte all’essere effimero che e caratteristica tipica dell’essere umano. Utz però non e contento ne felice. Perché lui, in questa contemplazione delle porcellane, ne desidera sempre di nuove. Ha una parte della collezione nascosta nei sotterranei di una banca in Svizzera e più volte nell’anno vi si reca. Quando e a Praga sente la nostalgia dei pezzi che sono al chiuso delle banche elvetiche, quando e in Svizzera a contemplare i suoi pezzi nascosti - la sua seconda collezione - gli mancano i pezzi di Praga. Per cui evidentemente vive scisso tra questi due amori che non potranno mai essere messi insieme, quindi e il collezionista, ha il pathos di un avere certamente non frugale, anzi; ma non e felice. Della vita privata di Utz il romanzo ne parla pochissimo, salvo che poi si scopre che Kaspar Utz ha sposato la domestica per avere la possibilità di mantenere il suo bilocale; altrimenti, essendo scapolo, il regime socialista lo avrebbe obbligato a transitare in un appartamento più piccolo, cosa drammatica e insostenibile per lui, perché avrebbe dovuto trovare una collocazione diversa per le sue porcellane. Perché racconto tutto questo? Perché nel momento in cui Utz si avvicina alla propria fine, dal momento in cui lo Stato, gli ha permesso di possedere la sua collezione dietro alla rassicurazione certificata, messa per iscritto, che dopo la sua morte le porcellane sarebbero passate nelle mani dello stato cecoslovacco, vive una grande ansia e distrugge tutte le statuette. Ho raccontato la trama perché credo sia illuminante ed autosufficiente ma un commento che vorrei fare e questo: credo che sia l’ultima parola rispetto all’autosufficienza del possesso. Utz non e mai felice: non e felice nel collezionare perché non possiede mai a sufficienza, tanto che vuole arricchire la sua collezione sempre, e questa, e in estrema sintesi il cuore, dell’essenza del possesso: voler avere sempre di più. Il testo di Chatwin contemporaneamente e la condanna di chi si lega esageratamente alle istanze dell’avere, e un viatico - filosoficamente parlando - per chiunque voglia pensare a che cosa significhi possedere, avere e, rappresenta un pilastro secondo me, di uno stile di pensiero: non e necessario scrivere un trattato, per parlare di una precisa visione del mondo, basta scrivere un romanzo. Chatwin si e sempre molto attenuto ad una diffidenza strutturale nei confronti del possesso. Ha posseduto pochissime cose nella sua vita, avendo lavorato da Sotheby’s avrebbe potuto accatastare, possedere una grandissima quantità di oggetti, cosa che invece non ha fatto, le sue cose essenziali erano poche. Quindi, paradossalmente, chi e vissuto nell’ambiente del collezionismo, ha scritto il suo ultimo romanzo sull’ insufficienza del possesso, sul legame impossibile tra possesso e felicità. Chatwin avrebbe potuto ammonticchiare cose, ma non l’ha fatto, ha sempre vissuto in posti precari, molto piccoli, quando e riuscito ad avere un appartamentino suo nel centro di Londra, era essenziale. Lo stile di Chatwin e considerato in architettura e in storia del design, uno stile minimale. Il suo zaino era la ricerca; quindi rispondendo alla tua domanda, nello zaino e importante mettere poche cose, quelle giuste, e sapere che lo arricchirai strada facendo. Non partire con lo zaino già pieno perché ti appesantisce e sai che strada facendo potrai trovare nuove cose da portare con te. Eva - Grazie Mauro, non mi resta che aspettare, sperò ancora per poco, di leggere il tuo libro su Chatwin.