9. La Costituzione italiana. I principi fondamentali Fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 l’Italia vive il momento più drammatico della sua storia. Il Paese è diviso in due: dal Sud monarchico, dove sono sbarcati, gli Alleati faticosamente muovono alla volta delle regioni del Nord, dove si è costituita la Repubblica di Salò, guidata da Mussolini e fortemente legata al regime nazista. Nell’Italia settentrionale una parte delle forze armate italiane affianca le truppe naziste, mentre quanti non vogliono arruolarsi si nascondono sulle montagne e si uniscono a gruppi di antifascisti, dando così vita alle prime bande partigiane, la cui attività è coordinata dal Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), in cui confluiscono tutti i partiti politici ricostituitisi dopo la temperie mussoliniana e che è presieduto da Ivanoe Bonomi. Il 25 aprile del 1945, grazie all’avanzata degli Alleati sul territorio della Penisola, il Cln proclama l’insurrezione generale. L’azione della Resistenza, malgrado dal punto di vista militare non risulti decisiva, ha un altissimo valore morale, poiché rappresenta la volontà di liberarsi dal fascismo e dal nazismo con un’azione autonoma. I partiti che hanno guidato la lotta di Liberazione divengono quindi grandi protagonisti di un dibattito politico in piena effervescenza. Essi occupano l’intero arco istituzionale e divengono ben presto formazioni di massa, cui aderiscono migliaia di iscritti. Forze di sinistra sono il Partito comunista italiano (Pci) e il Partito socialista di unità proletaria (Psiup) che rappresentano il proletariato industriale e bracciantile del Centro-Nord e che mirano alla nazionalizzazione delle industrie, con l’istituzione di consigli di fabbrica a base operaia, e alla risoluzione della questione agraria, con la frammentazione della grande proprietà terriera. Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, tuttavia, rinuncia a introdurre in Italia il modello politico ed economico sovietico, per realizzare invece una democrazia progressiva capace di promuovere riforme sociali e di garantire il rispetto delle libertà democratiche. Favorevole a una stretta alleanza con i comunisti è il segretario del Psiup, Pietro Nenni. Il terzo partito di massa è costituito dalla Democrazia cristiana (Dc), nata nel 1942 che, pur rappresentando soprattutto i ceti medi, raccoglie consensi in tutti gli strati della società italiana. La Dc si propone come forza moderata di centro in contrapposizione ai partiti di sinistra e, ispirandosi alla dottrina sociale cattolica, può contare sul sostegno della Chiesa e della sua capillare presenza sul territorio nazionale, costituita dalle parrocchie. Il leader della Dc, Alcide De Gasperi, appare tuttavia deciso a difendere l’autonomia del partito dalle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche. Le altre forze politiche sono rappresentate dal Partito liberale (Pli), erede del ceto politico che aveva governato l’Italia prima del fascismo ed espressione dei gruppi imprenditoriali e dei possidenti conservatori, e il Partito repubblicano (Pri), di ispirazione antimonarchica. Breve vita ha il Partito d’azione (Pd’A), grande protagonista della lotta antifascista, che viene sciolto nel 1947. I sei partiti formano un governo di coalizione che si insedia il 20 giugno 1945 sotto la presidenza di Ferruccio Parri. Le divergenze fra i componenti e le forti ingerenze statunistensi provocano la caduta di questo primo governo, sostituito nel dicembre 1945 da un nuovo governo di coalizione guidato da Alcide De Gasperi. Il 2 giugno del 1946 il popolo italiano viene chiamato alle urne per pronunciarsi sulla forma istituzionale da dare allo Stato, monarchia o repubblica, e, contemporaneamente, per eleggere l’Assemblea Costituente. Il referendum, a suffragio universale (per la prima volta votano anche le donne), ha un esito favorevole alla repubblica che raccoglie il 54% dei consensi con 12.700.000 voti contro i 10.700.000 favorevoli alla monarchia. Umberto II di Savoia è costretto a rinunciare alla corona e va in esilio in Portogallo mentre capo provvisorio dello Stato viene eletto Enrico De Nicola. All’indomani delle elezioni si insedia l’Assemblea Costituente, cui non spettano poteri di legislazione ordinaria, ma unicamente il compito di elaborare il documento costituzionale. Essa è formata dai rappresentanti della Dc, che godono della maggioranza relativa con il 35% dei voti, del Psiup con il 20,7% dei voti e del Pci con il 19% dei voti, insieme ad altri partiti minori. Il testo della Costituzione è steso da una commissione di 75 membri, incaricati di redigere un progetto sul quale articolare un’approfondita discussione. Nel corso di quasi tutto il 1947 ferve il dibattito sul testo presentato dalla commissione: il documento viene discusso, integrato, modificato, articolo per articolo, fino a venire approvato a larghissima maggioranza il 22 dicembre di quello stesso anno, per entrare in vigore il 1° gennaio del 1948. La Costituzione è ispirata dagli stessi valori che avevano mosso alla Resistenza e alla lotta contro il nazifascismo – democrazia, libertà, giustizia e solidarietà – ed esprime una serie di sostanziali compromessi tra le culture politiche del liberalismo, del cattolicesimo democratico e della sinistra socialcomunista. Non a caso, due insigni costituzionalisti quali Norberto Bobbio e F Pierandrei ne hanno sottolineato il carattere «composito». Norberto Bobbio e Franco Pierandrei Una costituzione composita La nostra Costituzione appartiene ai tipi compositi. Mentre le Costituzioni pure sono generalmente quelle che vengono imposte dopo una rivoluzione vittoriosa (si pensi alle Costituzioni che seguirono la Rivoluzione americana, quella francese e quella russa), la Costituzione italiana, nata dopo il crollo del fascismo e la sconfitta militare, fu opera delle forze politiche antifasciste, che erano concordi nell’abbattimento della dittatura, ma divergevano profondamente intorno al modo di costruire lo Stato. Essa, anziché essere il suggello di una trasformazione politica e sociale già avvenuta, è il disegno composto di una società futura, ancora da attuare. Se si ricorda che i due gruppi politici più forti all’Assemblea costituente furono quello comunista e quello socialista da un lato e quello democristiano dall’altro, e che entrambi agivano in un contesto politico in cui le forze morali preminenti erano quelle dell’antica tradizione liberale soffocata dalla dittatura e rinata nell’impulso liberatore della Resistenza europea, non si tarderà a comprendere come la nostra Costituzione sia una composizione piuttosto complessa: essa è il risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano-sociale con quella liberale classica, o, in altre parole, è alla base una Costituzione liberale che ha ricevuto apporti vari, e non sempre coerenti, dalla dottrina sociale dei socialisti e dei cattolici. Sinteticamente, la Costituzione italiaa è una Costituzione ispirata a ideali liberali, integrati da ideali socialisti, corretti da ideali cristiano-sociali. (da N. Bobbio - F. Pierandrei, Introduzione alla Costituzione, Roma-Bari, Laterza, 1963) La Costituzione è divisa in grandi parti. I primi 12 articoli sanciscono i principi fondamentali sui quali si erige lo Stato italiano. In primo luogo è riconosciuto il principio democratico, secondo il quale la sovranità risiede nel popolo (art. 1), inteso non come comunità uniforme ma come insieme di persone e di gruppi sociali, portatori di idee, programmi e interessi diversi, talvolta in contrasto fra loro. La democrazia è il frutto della libera competizione fra questi soggetti sociali. Presupposto della democrazia è la libertà. Le diverse libertà che la Costituzione riconosce ai cittadini consentono l’esercizio del pensiero, del culto religioso, del contatto con gli altri uomini nel rispetto della libertà altrui (art. 2). Presupposto della libertà è l’uguaglianza, intesa sia come rimozione delle disparità che impediscono ai cittadini meno favoriti lo sviluppo che spetta loro delle proprie possibilità sia come divieto di discriminazione: le differenze culturali, fisiche, religiose, politiche e così via, non possono giustificare trattamenti differenziati (art. 3). In piena coerenza con tutto ciò, viene rispettato il principio dell’autonomia (art. 5), basata sul decentramento, e viene garantito il rispetto delle comunità etnico-linguistiche di origine etnica diversa dalla maggioranza, caratterizzati da una propria cultura e da una propria lingua (art. 6). Viene inoltre riconosciuto il rispetto di ogni credo religioso (art. 8). La Costituzione respinge il nazionalismo. In base all’art. 11, l’Italia si dichiara uno Stato sovrano che, mentre riconosce e difende la propria identità rispetto agli altri Stati, ha nei loro confronti un atteggiamento aperto, di collaborazione e di cooperazione. L’Italia inoltre ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti: non può entrare in guerra, a meno che non si tratti di difendersi da un’aggressione che provenga da altri Stati. Principi fondamentali Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Art. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. Art. 6. La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. Art. 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Art. 8. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Art. 9. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Art. 10. L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. Art. 11. L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Art. 12 La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. La Costituzione condanna qualsiasi tipo di discriminazione sessuale. Tuttavia l’effettiva parità tra uomo e donna, specificamente affermata negli artt. 3 e 37 della Costituzione, è ancora un obiettivo lontano da raggiungere, malgrado da più di due secolo sia stato intrapreso il lungo cammino per giungere alla totale emancipazione femminile. I primi passi in questa direzione vengono avanzati nel contesto illuministico e rivoluzionario in Francia e nei suoi riverberi in Inghilterra. Si tratta di un momento cruciale per la storia politica delle donne, in quanto si inaugura allora sia la lotta per l’accesso alla cittadinanza sia lo sforzo di ridefinirne i termini. Testo estremamente significativo è la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, pubblicata a Parigi nel 1791. Olympe de Gouges Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina Uomo, sei capace d’essere giusto ? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi? Chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo ingegno? Osserva il creatore nella sua saggezza; scorri la natura in tutta la sua grandezza, di cui tu sembri volerti raffrontare, e dammi, se hai il coraggio, l’esempio di questo tirannico potere. Risali agli animali, consulta gli elementi, studia i vegetali, getta infine uno sguardo su tutte le modificazioni della materia organizzata; e rendi a te l’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, indaga e distingui, se puoi, i sessi nell’amministrazione della natura. Dappertutto tu li troverai confusi, dappertutto essi cooperano in un insieme armonioso a questo capolavoro immortale. Solo l’uomo s’è affastellato un principio di questa eccezione. Bizzarro, cieco, gonfio di scienza e degenerato, in questo secolo illuminato e di sagacità, nell’ignoranza più stupida, vuole comandare da despota su un sesso che ha ricevuto tutte le facoltà intellettuali; pretende di godere della rivoluzione, e reclama i suoi diritti all’uguaglianza, per non dire niente di più. Preambolo Le madri, le figlie, le sorelle, rappresentanti della nazione, chiedono di potersi costituire in Assemblea nazionale. Considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono le cause delle disgrazie pubbliche e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre, in una Dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri della donna, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi loro senza sosta i loro diritti e i loro doveri, affinché gli atti del potere delle donne e quelli del potere degli uomini, potendo essere paragonati ad ogni istante con gli scopi di ogni istituzione politica, siano più rispettati, affinché le proteste dei cittadini, fondate ormai su principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre al mantenimento della Costituzione, dei buoni costumi, e alla felicità di tutti. In conseguenza, il sesso superiore sia in bellezza che in coraggio, nelle sofferenze della maternità, riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’essere supremo, i seguenti Diritti della Donna e della Cittadina. Articolo I La Donna nasce libera ed ha gli stessi diritti dell’uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune. Articolo II Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili della Donna e dell’Uomo: questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e soprattutto la resistenza all’oppressione. Articolo III Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, che è la riunione della donna e dell’uomo: nessun corpo, nessun individuo può esercitarne l’autorità che non ne sia espressamente derivata. Articolo IV La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l’uomo le oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione. Articolo V Le leggi della natura e della ragione impediscono ogni azione nociva alla società: tutto ciò che non è proibito da queste leggi, sagge e divine, non può essere impedito, e nessuno può essere obbligato a fare quello che esse non ordinano di fare. Articolo VI La legge deve essere l’espressione della volontà generale; tutte le Cittadine e i Cittadini devono concorrere personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione; esse deve essere la stessa per tutti: Tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammissibili ad ogni dignità, posto e impiego pubblici secondo le loro capacità, e senza altre distinzioni che quelle delle loro virtù e dei loro talenti. Articolo VII Nessuna donna è esclusa; essa è accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla Legge. Le donne obbediscono come gli uomini a questa legge rigorosa. Articolo VIII La Legge non deve stabilire che pene restrittive ed evidentemente necessarie, e nessuno può essere punito se non grazie a una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata alle donne. Articolo IX Tutto il rigore è esercitato dalla legge per ogni donna dichiarata colpevole. Articolo X Nessuno deve essere perseguitato per le sue opinioni, anche fondamentali; la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere ugualmente il diritto di salire sulla Tribuna; a condizione che le sue manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla legge. Articolo XI La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna, poiché questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni Cittadina può dunque dire liberamente, io sono la madre di un figlio che vi appartiene, senza che un pregiudizio barbaro la obblighi a dissimulare la verità; salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge. Articolo XII La garanzia dei diritti della donna e della cittadina ha bisogno di un particolare sostegno; questa garanzia deve essere istituita a vantaggio di tutti, e non per l’utilità particolare di quelle alle quali è affidata. Articolo XIII Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese dell’amministrazione, i contributi della donna e dell’uomo sono uguali; essa partecipa a tutte le incombenze, a tutti i lavori faticosi; deve dunque avere la sua parte nella distribuzione dei posti, degli impieghi, delle cariche delle dignità e dell’industria. Articolo XIV Le Cittadine e i Cittadini hanno il diritto di costatare personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, la necessità dell’imposta pubblica. Le Cittadine non possono aderirvi che a condizione di essere ammesse ad un’uguale divisione, non solo dei beni di fortuna, ma anche nell’amministrazione pubblica, e di determinare la quota, la base imponibile, la riscossione e la durata dell’imposta. Articolo XV La massa delle donne, coalizzata nel pagamento delle imposte con quella degli uomini, ha il diritto di chiedere conto, ad ogni pubblico ufficiale, della sua amministrazione. Articolo XVI Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non sia assicurata, né la separazione dei poteri sia determinata, non ha alcuna costituzione; la costituzione è nulla, se la maggioranza degli individui che compongono la Nazione, non ha cooperato alla sua redazione. Articolo XVII Le proprietà appartengono ai due sessi riuniti o separati; esse sono per ciascuno un diritto inviolabile e sacro; nessuno ne può essere privato come vero patrimonio della natura, se non quando la necessità pubblica, legalmente constatata, l’esiga in modo evidente, a condizione di una giusta e preliminare indennità. (da F. Santucci, Donne protagoniste, Piombino, Il foglio, 2004) Scrittrice, autrice teatrale oggi completamente dimenticata, sensibile alle ingiustizie da qualunque parte provengano, sia contro le donne che contro gli uomini (si offre pure di difendere Luigi XVI quando viene arrestato), Olympe de Gouges si batte per le cause più disparate, anche per la liberazione degli schiavi, per il divorzio e per i diritti degli orfani e delle madri nubili. Nel 1784 compone anche un dramma nel quale si pronuncia, con forti accenti, contro la schiavitù. Dapprima rivoluzionaria, poi realista, infine repubblicana, convinta assertrice dell’uguaglianza delle donne rispetto agli uomini, nel 1791 fonda il Cercle social, un’associazione che si prefigge la parità dei diritti delle donne, anticipando le rivendicazioni femministe e auspicando una società senza patriarcato. La consapevolezza del mancato riconoscimento dei diritti delle donne da parte del regime rivoluzionario spinge Olympe de Gouges a promuovere con voce sempre più ferma discorsi che promuovono l’emancipazione della donna. La sua, nella storia intellettuale della Francia, non è una voce isolata. Fin dal Medioevo in Francia si discute dell’uguaglianza dei diritti civili e politici fra i sessi: l’istruzione della donna, la sua posizione economica, le sue relazioni con il padre e con il marito sono spesso oggetto di riflessione. Tuttavia, le condizioni materiali delle donne durante l’ancien régime rimangono invariate. Nubili o sposate, le donne godono di diritti molto limitati: la loro testimonianza è ammessa nei processi civili e penali, ma non possono agire legalmente (ad esempio, non possono fare testamento): solo in alcune zone, una donna non sposata può agire in relazioni contrattuali. In linea di massima, fino al matrimonio la donna rimane sottoposta all’autorità paterna, per poi passare con le nozze a dipendere dal marito. Da sposata, generalmente, non ha alcun controllo sulla propria persona e sulla proprietà; solo la morte del marito può offrirle qualche possibilità di essere indipendente. Neanche la condizione economica è invidiabile: le paghe delle donne sono bassissime, sebbene costituiscano, nelle classi meno agiate, una fonte indispensabile alla sopravvivenza. Inoltre, le donne sono escluse dalle corporazioni. Pertanto, sia le usanze che la legge confinano le donne al servizio domestico, o a lavori più pesanti, e a produzioni ad alta intensità di lavoro e sottopagate. Ciononostante, le donne in Francia godono di alcuni diritti politici: è loro concessa la reggenza e, da quanto risulta dalle relazioni del re agli Stati generali, le donne rappresentanti di ordini religiosi nonché alcune nobili possono mandarvi i loro rappresentanti. Anche alcune donne del Terzo Stato, in genere vedove, possono partecipare alle assemblee primarie. È questa la condizione di subordinazione sulla quale gli intellettuali del diciottesimo secolo iniziano a discutere. Le grandi figure dell’Illuminismo – Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Condorcet, Diderot e gli altri enciclopedisti – contribuiscono al dibattito, ma non ne sono le principali voci, che auspicano un miglioramento della condizione femminile in tutti i campi. Nel 1789, le opinioni tradizionali di tutti i tipi e l’immagine stessa dell’«angelo del focolare» cominciano a vacillare. Quanti sostengono l’uguaglianza fra i sessi non si accontentano più di avanzare vaghe richieste, ma formulano delle proposte specifiche riguardanti l’istruzione, l’economia, i diritti civili e politici. Un’ampia serie di pamphlets, che iniziano ad apparire nel 1787, avanza molteplici suggerimenti. L’argomento fondamentale è la considerazione che gli esseri umani sono naturalmente uguali, e quindi la discriminazione sessuale è innaturale; l’uomo e la donna devono essere soci, con uguali diritti, all’interno del matrimonio; alle donne deve essere consentito l’accesso all’istruzione superiore e ai lavori meglio pagati. Insieme alle rivendicazioni di uguaglianza nel matrimonio e in campo economico, le protofemministe chiedono il diritto di voto. Pareri simili conducono Olympe de Gouge, sul patibolo, dove viene ghigliottinata il 3 novembre del 1793 «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica». La scrittrice diviene così vittima di un sistema politico incapace di tollerare che una voce, in grado di trovare ascolto in un momento di effervescenza politica, possa farsi veicolo di idee che trovano un certo assenso, vista l’energia spesa nella loro repressione come si evince dal seguente saggio di Joan Wallach Scott. Joan Wallach Scott Le femministe francesi e i diritti dell’«uomo»: le Dichiarazioni di Olympe de Gouges L’eredità della Rivoluzione francese fu per le donne contraddittoria: un individuo astratto e universale, dotato di diritti, su cui si basava la sovranità nazionale, ma fisicamente rappresentato da un uomo. L’astrazione di un soggetto politico privo di connotazioni sessuali rese possibile alle donne rivendicare i loro diritti politici in qualità di cittadine attive e, quando si accorsero che nella pratica tali diritti venivano loro negati, protestare contro questa esclusione ingiusta in quanto violazione dei principi su cui era fondata la repubblica. L’attribuzione della cittadinanza – riservata solo ai soggetti maschi (bianchi) – avvenne su principi altrettanto astratti, e ciò rese ancor più complicata la rivendicazione di un’uguaglianza di diritti per le donne, perché questi principi suggerivano implicitamente che i diritti stessi, o perlomeno i modi e i luoghi in cui essi venivano esercitati, dipendevano dalle caratteristiche fisiche dei corpi umani. Nei dibattiti politici della Rivoluzione francese, non c’è mai negazione della corporalità, ossia dei caratteri fisici legati al sesso e al colore della pelle. Sia nelle contrastanti posizioni espresse durante la stesura della Costituzione, nelle perorazioni dei diritti degli schiavi, dei mulatti e delle donne formulate da Barnave, Brissot, Condorcet o Robespierre, sia nelle riflessioni opposte di Edmund Burke e Mary Wollstonecraft, oppure ancora nei verbali delle riunioni delle sezioni di Parigi, troviamo numerose interpretazioni secondo le quali sia i corpi che i diritti devono essere considerati «naturali» e che è proprio questa «naturalità» a creare fra di essi un legame. I diritti vengono spesso concepiti come elementi appartenenti al corpo stesso, suoi attributi inalienabili, impressi in modo indelebile nella mente o nel cuore degli uomini. Ma questa connessione fra i corpi «naturali» e i diritti «naturali» non era né trasparente né lineare. Il significato stesso dei concetti di natura, diritti e corpo umano, così come le relazioni tra di essi, venivano posti in discussione nei dibattiti rivoluzionari e queste dispute sul significato erano dispute sul potere. Furono numerose le dispute riguardanti il corpo e i diritti nel corso della Rivoluzione, ma poche di esse arrivarono effettivamente a una soluzione. In base alla prima Costituzione, veniva fatta una distinzione fra cittadini passivi e cittadini attivi sulla base della proprietà e del reddito; questa distinzione venne abolita ancora sotto la monarchia, ma riapparve con parole diverse nella fase del Direttorio. Gli «uomini di colore» furono dapprima esclusi e successivamente inclusi nella categoria dei cittadini. Agli schiavi furono dapprima negati e poi garantiti i diritti degli uomini liberi, che essi persero nuovamente con l’avvento di Napoleone. Le donne furono sistematicamente escluse dai diritti politici formali: fu però loro concesso il diritto di chiedere il divorzio e di esercitare un certo controllo sulle proprietà nell’ambito del matrimonio nel 1792, ma questi diritti vennero limitati con il Codice napoleonico e definitivamente aboliti con la Restaurazione. ognuna di queste risoluzioni fu accompagnata da diversi tipi di argomentazioni e ognuna ha una sua complessa spiegazione legata al contesto: l’abolizione della schiavitù, ad esempio, fu attuata nel momento in cui la Francia cercava di ostacolare la conquista di Santo Domingo da parte degli Inglesi arruolando nell’esercito tutti gli abitanti dell’isola di sesso maschile. Ciò che tutte queste risoluzioni hanno in comune, comunque, è la questione che sempre si ripresenta delle relazioni fra alcuni gruppi umani con caratteri specifici definiti e il modo in cui è fisicamente rappresentato l’universale: come si potevano raffigurare i diritti dei poveri, dei mulatti, dei negri e delle donne come diritti dell’Uomo? La risposta, in genere, è: con difficoltà. Non era facile né espandere il concetto di Uomo in modo da comprendervi tutti i suoi Altri, né eliminare del tutto la corporeità dell’individuo astratto in modo che letteralmente chiunque potesse rappresentarlo. Le discussioni specifiche riguardanti i diritti dei gruppi sclusi non risolsero questo paradosso, anzi lo resero più evidente; i termini del dibattito e le strategie adottate dalle parti in conflitto mostrarono che l’ideale di uguaglianza era molto più sfuggente sia nella definizione che nella realizzazione di quanto fosse mai stato riconosciuto dai più visionari artefici della Rivoluzione o, da questo punto di vista, da molti storici di essa. Le donne ne sono un esempio emblematico. I Fin dagli esordi della Rivoluzione, vi furono episodi sparsi di rivendicazione dei diritti delle donne, che furono per lo più ignorati dalla legislazione rivoluzionaria fino al 1793 (alcuni giorni dopo l’esecuzione di Maria Antonietta), quando la questione del ruolo politico delle donne fu direttamente affrontata. Cogliendo l’occasione di un tumulto di piazza scoppiato fra donne che lavoravano ai mercati e donne appartenenti alla Società delle Rivoluzionarie Repubblicane, la Convenzione Nazionale dichiarò fuori legge tutte le associazioni femminili e le società popolari, richiamandosi a Rousseau per negare alle donne l’esercizio dei diritti politici e per porre fine, si sperava definitivamente, alle insistenti agitazioni femminili. «Le donne dovrebbero esercitare diritti politici e immischiarsi negli affari di governo?» chiedeva André Amar, il rappresentante del Comitato di Salute Pubblica. «In generale, possiamo rispondere, no». Egli proseguì il suo intervento prendendo in considerazione la possibilità che le donne si riunissero in associazioni politiche, e ancora una volta rispose negativamente: Poiché esse sarebbero obbligate a sacrificare i compiti più importanti a cui la natura le chiama. Le funzioni familiari a cui la loro stessa natura le ha destinate sono connesse con l’ordine generale della società; questo ordine sociale è il risultato delle differenze fra l’uomo e la donna. Ciascun sesso è chiamato a svolgere le funzioni per le quali risulta più adatto; le sue azioni devono rientrare in questo ambito, che non deve essere oltrepassato, poiché la natura che ha imposto all’uomo questi limiti lo comanda imperiosamente e non accetta che le vengano imposte leggi. Una definizione ancor più esplicita di questi cosiddetti caratteri naturali fu quella di Pierre-Gaspard Chaumette. un hébertista radicale, membro della Comune di Parigi. In nome della Comune egli response energicamente la richiesta di appoggio da parte delle donne che avevano firmato una petizione contro il decreto della Convenzione: Da quando è lecito abbandonare il proprio sesso? Da quando è tollerabile vedere che le donne abbandonano le soavi cure delle loro famiglie, le culle dei loro bambini, per arringare le folle nei teatri o alla tribuna delle assemblee? La natura ha forse affidato agli uomini le cure domestiche? Ha forse dato a noi i seni per allattare i nostri bambini? Meno brillanti di Rousseau, ma non meno espliciti, i politici giacobini avevano stabilito i termini del nuovo ordine sociale. Il loro invocare la natura come base sia della libertà che della differenza sessuale traeva origine da alcune concezioni dominanti (anche se più volte contestate) sia nella teoria politica che nella medicina. Secondo queste teorie, natura e corpo erano sinonimi: dal corpo si potevano trarre le verità su cui si doveva fondare l’organizzazione politica e sociale. Constantin Volney, rappresentante del Terzo Stato di Anjou alle riunioni degli Stati generali del 1788-89, sostenne fermamente, nel suo catechismo del 1793, che la virtù e il vizio «sono, in ultima analisi, sempre connessi con la distruzione o la conservazione del corpo». Per Volney, le questioni riguardanti la salute erano questioni di Stato: «la responsabilità civile (è) un comportamento che tende a preservare la salute». La malattia dell’individuo era considerata segno di disgregazione sociale: il rifiuto di una madre di allattare un figlio al seno veniva interpretato come un rifiuto della funzione che la natura aveva attribuito al corpo, e di conseguenza come un atto profondamente antisociale. Un cattivo trattamento del corpo comportava non solo costi individuali, ma anche conseguenze sociali, poiché il corpo politico era, per Volney, non una metafora, ma una definizione da prendersi alla lettera. Il corpo in questi autori non veniva naturalmente considerato un’entità singola: le differenze sessuali erano considerate un principio fondativo dell’ordine naturale, e di conseguenza dell’ordine sociale e politico. Tom Laqueur ha dimostrato che le idee relative alla differenza sessuale non sono fisse: la loro storia lunga e mutevole dimostra che i significati sessuali non sono connessi in modo evidente ai corpi sessuati. Laqueur sostiene che nel diciottesimo secolo emerse una nuova biologia che sostituì alla precedente «metafisica della gerarchia» la «anatomia e fisiologia dell’incommensurabile». Per di più, le differenze dei caratteri genitali rappresentavano integralmente la differenza: mascolinità e femminilità erano fatte coincidere direttamente con il «maschio» e la «femmina» biologicamente intesi. Una delle differenze fra uomo e donna veniva infatti individuata nella totalità con cui il sesso definiva il loro essere. Un certo dottor Moreau proponeva come sua la spiegazione data da Rousseau dell’idea comunemente diffusa che le donne fossero (secondo l’espressione di Denise Riley) «interamente saturate dal loro sesso». Egli sosteneva che la posizione degli organi sessuali – interna al corpo delle donne, esterna in quello degli uomini – determinava la loro area di influenza: «l’influenza interna richiama costantemente le donne al loro sesso: il maschio è maschio solo in certi momenti, mentre la femmina è femmina in tutti i momenti della sua vita». Nei discorsi incrociati della biologia e della politica, le teorie della complementarietà risolsero il problema degli effetti potenzialmente distruttivi della differenza sessuale. Sia la riproduzione della specie che l’ordine sociale venivano considerati dipendenti dall’unione di due elementi opposti, quello maschile e quello femminile, in una divisione funzionale del lavoro che consentiva alla natura di fare il suo corso. Anche se dal punto di vista logico era possibile presentare la complementarità come una dottrina ugualitaria, in pratica essa servì nella concezione politica dominante di quel periodo a giustificare un rapporto asimmetrico tra uomini e donne. Gli obiettivi della Rivoluzione erano, dopo tutto, la libertà, la sovranità, la libertà di scelta morale determinata dalla ragione e un attivo coinvolgimento nella creazione di leggi giuste. Ebbene, tutte queste facoltà vennero nettamente definite come caratteristiche maschili, definite in base alla contrapposizione rispetto a corrispondenti caratteristiche femminili. Questi erano gli elementi contrapposti: attivo passivo libertà dovere sovranità individuale dipendenza pubblico privato politico domestico ragione pudore parola silenzio istruzione cure materne universale particolare maschio femmina La seconda lista serviva non solo a definire la prima, ma ne rendeva possibile la stessa esistenza. La «naturale» differenza sessuale permetteva di risolvere alcuni dei più resistenti ed intricati problemi relativi alle disuguaglianze di potere nella realtà politica, assegnando la libertà individuale ai soggetti maschi e invece la coesione sociale alle femmine. Le cure materne risvegliavano ed ispiravano l’umana compassione (pietà) e l’amore per la virtù, qualità che temperavano l’egoismo individualista; il pudore da un lato consentiva alle donne di svolgere il proprio ruolo, e forniva dall’altro un correttivo alla loro innata incapacità di moderare i desideri (sessuali). Il pudore femminile era anche una condizione necessaria per permettere la vittoria maschile sulla sfrenatezza del desiderio. La dipendenza della sfera domestica rappresentava per gli uomini uno stimolo al compimento del loro dovere sociale, concetto quest’ultimo che non indicava gli obblighi delle donne, ma il loro essere oggetto degli obblighi maschili. La distinzione attivo-passivo, infatti, poiché di basava sulle contraddittorie teorie dei diritti naturali, riassumeva in sé tutte le differenze: coloro che godevano di diritti attivi agivano come individui, facendo scelte morali. esercitando la libertà, agendo (e parlando) per se stessi. Essi erano, per definizione, soggetti politici. Al contrario, coloro che godevano di diritti passivi, avevano il «diritto di farsi dare o concedere qualcosa da qualcun altro». La loro condizione di soggetti politici era ambigua o addirittura dubbia. (da Il primo femminismo (1791-1834), a cura di A. Rossi Doria, Milano, Unicopli, 1993, pp. 93-117) Rivendicazioni simili a quelle avanzate da Olympe de Gouges vengono espresse nella seconda metà del Settecento negli Stati Uniti, il Paese dove sono assenti le rigide strutture sociali europee, dove più elevata è la mobilità sociale, dove più diffusa è l’istruzione popolare e nelle famiglie, soprattutto in quelle di agricoltori, i rapporti sono più paritetici. Qui le donne appartenenti alla popolazione bianca sono le prime a godere di relative condizioni di autonomia e di indipendenza. Fin dal 1848 viene posto il problema del voto alle donne, concesso per la prima volta nel 1869 nello stato del Wyoming. In Europa il Codice civile napoleonico del 1804 e le leggi della Restaurazione sanciscono giuridicamente l’inferiorità femminile. Nell’Inghilterra liberale del primo Novecento emergono con grande forza le rivendicazioni delle suffragette, decise a porre fine all’inferiorità politica femminile. Il movimento si espande anche in altri Paesi europei. A iniziare in Europa a guardare con favore al voto politico delle donne sono non solo i socialisti, pur con qualche resistenza interna, ma anche i conservatori liberali e cattolici, i quali si aspettano dalle donne, in generale più degli uomini viste come sensibili all’influenza della religione, un voto conservatore che faccia da contrappeso al voto socialista. Un peso di incalcolabile portata per il cambiamento della condizione femminile ha la Prima guerra mondiale. Per l’esigenza di colmare i vuoti lasciati dagli uomini, le donne vengono impiegate a migliaia nelle fabbriche e nei servizi ausiliari dell’esercito. In Germania e in Gran Bretagna nel 1918 la percentuale delle donne impiegate nell’industria è del 35 per cento, in Italia supera il 20 per cento, in Francia oltrepassa il 40 per cento. La Seconda guerra mondiale riproduce il fenomeno su scala ancora maggiore. Le due guerre mondiali rendono impossibile continuare a negare alle donne il voto, concesso in Nuova Zelanda alla fine dell’Ottocento e in Australia nel 1902. Fra il 1915 e il 1948 tutte le maggiori nazioni europee, Italia compresa, nel 1946, concedono loro il voto. La prima nazione a varare una legislazione che stabilisce la piena parità fra uomo e donna è la Russia sovietica. I bolscevichi introducono provvedimenti che contemplano la totale uguaglianza fra i coniugi, il matrimonio civile, il divorzio – ridotto a pura formalità burocratica –, il diritto all’aborto, l’equiparazione dei figli nati entro e fuori dal matrimonio, la parità salariale. Tuttavia, anche nell’Unione sovietica stalinista, come nell’Italia fascista e nella Germania nazista, il movimento di emancipazione si trova di fronte a gravi battute d’arresto. Il regime staliniano prende misure contro le conseguenze sociali ed economiche della legislazione varata subito dopo la conclusione della rivoluzione – disgregazione delle famiglie, divorzio facile, abbandono minorile, danni alla produzione per lo scioglimento dei matrimoni e il trasferimento degli ex coniugi, forte ricorso all’aborto con effetto negativo sulla crescita demografica – rendendo più difficile il divorzio e proibendo l’aborto. Fascismo e nazismo esaltano il ruolo della donna come procreatrice, anima del focolare domestico e sostegno del marito. Aperta sostenitrice del ruolo subalterno della donna è la Chiesa cattolica, al fine di salvaguardare la famiglia nella sua accezione tradizionale. Le trasformazioni sociali del dopoguerra e la riproposizione di molte delle rivendicazioni già avanzata fra fine Ottocento e primi del Novecento si saldano per connotare nel secondo dopoguerra la cosiddetta «questione femminile», ancora oggi di grande attualità.