La Costituzione italiana: i principi fondamentali

9. La Costituzione italiana. I principi fondamentali
Fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 l’Italia vive il momento più drammatico della sua storia.
Il Paese è diviso in due: dal Sud monarchico, dove sono sbarcati, gli Alleati faticosamente muovono alla
volta delle regioni del Nord, dove si è costituita la Repubblica di Salò, guidata da Mussolini e fortemente
legata al regime nazista. Nell’Italia settentrionale una parte delle forze armate italiane affianca le truppe
naziste, mentre quanti non vogliono arruolarsi si nascondono sulle montagne e si uniscono a gruppi di
antifascisti, dando così vita alle prime bande partigiane, la cui attività è coordinata dal Comitato di
Liberazione Nazionale (Cln), in cui confluiscono tutti i partiti politici ricostituitisi dopo la temperie
mussoliniana e che è presieduto da Ivanoe Bonomi.
Il 25 aprile del 1945, grazie all’avanzata degli Alleati sul territorio della Penisola, il Cln proclama
l’insurrezione generale. L’azione della Resistenza, malgrado dal punto di vista militare non risulti decisiva,
ha un altissimo valore morale, poiché rappresenta la volontà di liberarsi dal fascismo e dal nazismo con
un’azione autonoma. I partiti che hanno guidato la lotta di Liberazione divengono quindi grandi protagonisti
di un dibattito politico in piena effervescenza. Essi occupano l’intero arco istituzionale e divengono ben
presto formazioni di massa, cui aderiscono migliaia di iscritti. Forze di sinistra sono il Partito comunista
italiano (Pci) e il Partito socialista di unità proletaria (Psiup) che rappresentano il proletariato industriale e
bracciantile del Centro-Nord e che mirano alla nazionalizzazione delle industrie, con l’istituzione di consigli
di fabbrica a base operaia, e alla risoluzione della questione agraria, con la frammentazione della grande
proprietà terriera. Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, tuttavia, rinuncia a introdurre in Italia il modello
politico ed economico sovietico, per realizzare invece una democrazia progressiva capace di promuovere
riforme sociali e di garantire il rispetto delle libertà democratiche. Favorevole a una stretta alleanza con i
comunisti è il segretario del Psiup, Pietro Nenni. Il terzo partito di massa è costituito dalla Democrazia
cristiana (Dc), nata nel 1942 che, pur rappresentando soprattutto i ceti medi, raccoglie consensi in tutti gli
strati della società italiana. La Dc si propone come forza moderata di centro in contrapposizione ai partiti di
sinistra e, ispirandosi alla dottrina sociale cattolica, può contare sul sostegno della Chiesa e della sua
capillare presenza sul territorio nazionale, costituita dalle parrocchie. Il leader della Dc, Alcide De Gasperi,
appare tuttavia deciso a difendere l’autonomia del partito dalle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche. Le
altre forze politiche sono rappresentate dal Partito liberale (Pli), erede del ceto politico che aveva governato
l’Italia prima del fascismo ed espressione dei gruppi imprenditoriali e dei possidenti conservatori, e il Partito
repubblicano (Pri), di ispirazione antimonarchica. Breve vita ha il Partito d’azione (Pd’A), grande
protagonista della lotta antifascista, che viene sciolto nel 1947.
I sei partiti formano un governo di coalizione che si insedia il 20 giugno 1945 sotto la presidenza di
Ferruccio Parri. Le divergenze fra i componenti e le forti ingerenze statunistensi provocano la caduta di
questo primo governo, sostituito nel dicembre 1945 da un nuovo governo di coalizione guidato da Alcide De
Gasperi.
Il 2 giugno del 1946 il popolo italiano viene chiamato alle urne per pronunciarsi sulla forma
istituzionale da dare allo Stato, monarchia o repubblica, e, contemporaneamente, per eleggere l’Assemblea
Costituente. Il referendum, a suffragio universale (per la prima volta votano anche le donne), ha un esito
favorevole alla repubblica che raccoglie il 54% dei consensi con 12.700.000 voti contro i 10.700.000
favorevoli alla monarchia. Umberto II di Savoia è costretto a rinunciare alla corona e va in esilio in
Portogallo mentre capo provvisorio dello Stato viene eletto Enrico De Nicola.
All’indomani delle elezioni si insedia l’Assemblea Costituente, cui non spettano poteri di
legislazione ordinaria, ma unicamente il compito di elaborare il documento costituzionale. Essa è formata dai
rappresentanti della Dc, che godono della maggioranza relativa con il 35% dei voti, del Psiup con il 20,7%
dei voti e del Pci con il 19% dei voti, insieme ad altri partiti minori. Il testo della Costituzione è steso da una
commissione di 75 membri, incaricati di redigere un progetto sul quale articolare un’approfondita
discussione. Nel corso di quasi tutto il 1947 ferve il dibattito sul testo presentato dalla commissione: il
documento viene discusso, integrato, modificato, articolo per articolo, fino a venire approvato a larghissima
maggioranza il 22 dicembre di quello stesso anno, per entrare in vigore il 1° gennaio del 1948. La
Costituzione è ispirata dagli stessi valori che avevano mosso alla Resistenza e alla lotta contro il
nazifascismo – democrazia, libertà, giustizia e solidarietà – ed esprime una serie di sostanziali compromessi
tra le culture politiche del liberalismo, del cattolicesimo democratico e della sinistra socialcomunista. Non a
caso, due insigni costituzionalisti quali Norberto Bobbio e F Pierandrei ne hanno sottolineato il carattere
«composito».
Norberto Bobbio e Franco Pierandrei
Una costituzione composita
La nostra Costituzione appartiene ai tipi compositi. Mentre le Costituzioni pure sono generalmente
quelle che vengono imposte dopo una rivoluzione vittoriosa (si pensi alle Costituzioni che seguirono la
Rivoluzione americana, quella francese e quella russa), la Costituzione italiana, nata dopo il crollo del
fascismo e la sconfitta militare, fu opera delle forze politiche antifasciste, che erano concordi
nell’abbattimento della dittatura, ma divergevano profondamente intorno al modo di costruire lo Stato.
Essa, anziché essere il suggello di una trasformazione politica e sociale già avvenuta, è il disegno
composto di una società futura, ancora da attuare. Se si ricorda che i due gruppi politici più forti
all’Assemblea costituente furono quello comunista e quello socialista da un lato e quello democristiano
dall’altro, e che entrambi agivano in un contesto politico in cui le forze morali preminenti erano quelle
dell’antica tradizione liberale soffocata dalla dittatura e rinata nell’impulso liberatore della Resistenza
europea, non si tarderà a comprendere come la nostra Costituzione sia una composizione piuttosto
complessa: essa è il risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano-sociale con quella
liberale classica, o, in altre parole, è alla base una Costituzione liberale che ha ricevuto apporti vari, e non
sempre coerenti, dalla dottrina sociale dei socialisti e dei cattolici. Sinteticamente, la Costituzione italiaa è
una Costituzione ispirata a ideali liberali, integrati da ideali socialisti, corretti da ideali cristiano-sociali.
(da N. Bobbio - F. Pierandrei, Introduzione alla Costituzione, Roma-Bari, Laterza, 1963)
La Costituzione è divisa in grandi parti. I primi 12 articoli sanciscono i principi fondamentali sui
quali si erige lo Stato italiano. In primo luogo è riconosciuto il principio democratico, secondo il quale la
sovranità risiede nel popolo (art. 1), inteso non come comunità uniforme ma come insieme di persone e di
gruppi sociali, portatori di idee, programmi e interessi diversi, talvolta in contrasto fra loro. La democrazia è
il frutto della libera competizione fra questi soggetti sociali. Presupposto della democrazia è la libertà. Le
diverse libertà che la Costituzione riconosce ai cittadini consentono l’esercizio del pensiero, del culto
religioso, del contatto con gli altri uomini nel rispetto della libertà altrui (art. 2). Presupposto della libertà è
l’uguaglianza, intesa sia come rimozione delle disparità che impediscono ai cittadini meno favoriti lo
sviluppo che spetta loro delle proprie possibilità sia come divieto di discriminazione: le differenze culturali,
fisiche, religiose, politiche e così via, non possono giustificare trattamenti differenziati (art. 3).
In piena coerenza con tutto ciò, viene rispettato il principio dell’autonomia (art. 5), basata sul
decentramento, e viene garantito il rispetto delle comunità etnico-linguistiche di origine etnica diversa dalla
maggioranza, caratterizzati da una propria cultura e da una propria lingua (art. 6). Viene inoltre riconosciuto
il rispetto di ogni credo religioso (art. 8).
La Costituzione respinge il nazionalismo. In base all’art. 11, l’Italia si dichiara uno Stato sovrano
che, mentre riconosce e difende la propria identità rispetto agli altri Stati, ha nei loro confronti un
atteggiamento aperto, di collaborazione e di cooperazione. L’Italia inoltre ripudia la guerra come strumento
di risoluzione dei conflitti: non può entrare in guerra, a meno che non si tratti di difendersi da un’aggressione
che provenga da altri Stati.
Principi fondamentali
Art. 1.
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale.
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 5.
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono
dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione
alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
Art. 6.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Art. 7.
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non
richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8.
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto
non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Art. 9.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 10.
L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati
internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla
Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla
legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
Art. 11.
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 12
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali
dimensioni.
La Costituzione condanna qualsiasi tipo di discriminazione sessuale. Tuttavia l’effettiva parità tra
uomo e donna, specificamente affermata negli artt. 3 e 37 della Costituzione, è ancora un obiettivo lontano
da raggiungere, malgrado da più di due secolo sia stato intrapreso il lungo cammino per giungere alla totale
emancipazione femminile. I primi passi in questa direzione vengono avanzati nel contesto illuministico e
rivoluzionario in Francia e nei suoi riverberi in Inghilterra. Si tratta di un momento cruciale per la storia
politica delle donne, in quanto si inaugura allora sia la lotta per l’accesso alla cittadinanza sia lo sforzo di
ridefinirne i termini. Testo estremamente significativo è la Dichiarazione dei diritti della donna e della
cittadina di Olympe de Gouges, pubblicata a Parigi nel 1791.
Olympe de Gouges
Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
Uomo, sei capace d’essere giusto ? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di
questo diritto. Dimmi? Chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo
ingegno? Osserva il creatore nella sua saggezza; scorri la natura in tutta la sua grandezza, di cui tu sembri
volerti raffrontare, e dammi, se hai il coraggio, l’esempio di questo tirannico potere. Risali agli animali,
consulta gli elementi, studia i vegetali, getta infine uno sguardo su tutte le modificazioni della materia
organizzata; e rendi a te l’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, indaga e distingui, se puoi, i sessi
nell’amministrazione della natura. Dappertutto tu li troverai confusi, dappertutto essi cooperano in un
insieme armonioso a questo capolavoro immortale.
Solo l’uomo s’è affastellato un principio di questa eccezione. Bizzarro, cieco, gonfio di scienza e
degenerato, in questo secolo illuminato e di sagacità, nell’ignoranza più stupida, vuole comandare da despota
su un sesso che ha ricevuto tutte le facoltà intellettuali; pretende di godere della rivoluzione, e reclama i suoi
diritti all’uguaglianza, per non dire niente di più.
Preambolo
Le madri, le figlie, le sorelle, rappresentanti della nazione, chiedono di potersi costituire in
Assemblea nazionale. Considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono le
cause delle disgrazie pubbliche e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre, in una Dichiarazione
solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri della donna, affinché questa dichiarazione, costantemente
presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi loro senza sosta i loro diritti e i loro doveri, affinché gli
atti del potere delle donne e quelli del potere degli uomini, potendo essere paragonati ad ogni istante con gli
scopi di ogni istituzione politica, siano più rispettati, affinché le proteste dei cittadini, fondate ormai su
principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre al mantenimento della Costituzione, dei buoni
costumi, e alla felicità di tutti. In conseguenza, il sesso superiore sia in bellezza che in coraggio, nelle
sofferenze della maternità, riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’essere supremo, i seguenti
Diritti della Donna e della Cittadina.
Articolo I
La Donna nasce libera ed ha gli stessi diritti dell’uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo
sull’utilità comune.
Articolo II
Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili della Donna e
dell’Uomo: questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e soprattutto la resistenza all’oppressione.
Articolo III
Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, che è la riunione della donna e dell’uomo:
nessun corpo, nessun individuo può esercitarne l’autorità che non ne sia espressamente derivata.
Articolo IV
La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l’esercizio dei
diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l’uomo le oppone; questi limiti devono
essere riformati dalle leggi della natura e della ragione.
Articolo V
Le leggi della natura e della ragione impediscono ogni azione nociva alla società: tutto ciò che non è proibito
da queste leggi, sagge e divine, non può essere impedito, e nessuno può essere obbligato a fare quello che
esse non ordinano di fare.
Articolo VI
La legge deve essere l’espressione della volontà generale; tutte le Cittadine e i Cittadini devono concorrere
personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione; esse deve essere la stessa per tutti:
Tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammissibili ad
ogni dignità, posto e impiego pubblici secondo le loro capacità, e senza altre distinzioni che quelle delle loro
virtù e dei loro talenti.
Articolo VII
Nessuna donna è esclusa; essa è accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla Legge. Le donne
obbediscono come gli uomini a questa legge rigorosa.
Articolo VIII
La Legge non deve stabilire che pene restrittive ed evidentemente necessarie, e nessuno può essere punito se
non grazie a una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata alle donne.
Articolo IX
Tutto il rigore è esercitato dalla legge per ogni donna dichiarata colpevole.
Articolo X
Nessuno deve essere perseguitato per le sue opinioni, anche fondamentali; la donna ha il diritto di salire sul
patibolo, deve avere ugualmente il diritto di salire sulla Tribuna; a condizione che le sue manifestazioni non
turbino l’ordine pubblico stabilito dalla legge.
Articolo XI
La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna, poiché questa
libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni Cittadina può dunque dire liberamente, io sono la
madre di un figlio che vi appartiene, senza che un pregiudizio barbaro la obblighi a dissimulare la verità;
salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.
Articolo XII
La garanzia dei diritti della donna e della cittadina ha bisogno di un particolare sostegno; questa garanzia
deve essere istituita a vantaggio di tutti, e non per l’utilità particolare di quelle alle quali è affidata.
Articolo XIII
Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese dell’amministrazione, i contributi della donna e
dell’uomo sono uguali; essa partecipa a tutte le incombenze, a tutti i lavori faticosi; deve dunque avere la sua
parte nella distribuzione dei posti, degli impieghi, delle cariche delle dignità e dell’industria.
Articolo XIV
Le Cittadine e i Cittadini hanno il diritto di costatare personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, la
necessità dell’imposta pubblica. Le Cittadine non possono aderirvi che a condizione di essere ammesse ad
un’uguale divisione, non solo dei beni di fortuna, ma anche nell’amministrazione pubblica, e di determinare
la quota, la base imponibile, la riscossione e la durata dell’imposta.
Articolo XV
La massa delle donne, coalizzata nel pagamento delle imposte con quella degli uomini, ha il diritto di
chiedere conto, ad ogni pubblico ufficiale, della sua amministrazione.
Articolo XVI
Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non sia assicurata, né la separazione dei poteri sia determinata,
non ha alcuna costituzione; la costituzione è nulla, se la maggioranza degli individui che compongono la
Nazione, non ha cooperato alla sua redazione.
Articolo XVII
Le proprietà appartengono ai due sessi riuniti o separati; esse sono per ciascuno un diritto inviolabile e sacro;
nessuno ne può essere privato come vero patrimonio della natura, se non quando la necessità pubblica,
legalmente constatata, l’esiga in modo evidente, a condizione di una giusta e preliminare indennità.
(da F. Santucci, Donne protagoniste, Piombino, Il foglio, 2004)
Scrittrice, autrice teatrale oggi completamente dimenticata, sensibile alle ingiustizie da qualunque
parte provengano, sia contro le donne che contro gli uomini (si offre pure di difendere Luigi XVI quando
viene arrestato), Olympe de Gouges si batte per le cause più disparate, anche per la liberazione degli schiavi,
per il divorzio e per i diritti degli orfani e delle madri nubili. Nel 1784 compone anche un dramma nel quale
si pronuncia, con forti accenti, contro la schiavitù. Dapprima rivoluzionaria, poi realista, infine repubblicana,
convinta assertrice dell’uguaglianza delle donne rispetto agli uomini, nel 1791 fonda il Cercle social,
un’associazione che si prefigge la parità dei diritti delle donne, anticipando le rivendicazioni femministe e
auspicando una società senza patriarcato. La consapevolezza del mancato riconoscimento dei diritti delle
donne da parte del regime rivoluzionario spinge Olympe de Gouges a promuovere con voce sempre più
ferma discorsi che promuovono l’emancipazione della donna.
La sua, nella storia intellettuale della Francia, non è una voce isolata. Fin dal Medioevo in Francia si
discute dell’uguaglianza dei diritti civili e politici fra i sessi: l’istruzione della donna, la sua posizione
economica, le sue relazioni con il padre e con il marito sono spesso oggetto di riflessione. Tuttavia, le
condizioni materiali delle donne durante l’ancien régime rimangono invariate. Nubili o sposate, le donne
godono di diritti molto limitati: la loro testimonianza è ammessa nei processi civili e penali, ma non possono
agire legalmente (ad esempio, non possono fare testamento): solo in alcune zone, una donna non sposata può
agire in relazioni contrattuali. In linea di massima, fino al matrimonio la donna rimane sottoposta all’autorità
paterna, per poi passare con le nozze a dipendere dal marito. Da sposata, generalmente, non ha alcun
controllo sulla propria persona e sulla proprietà; solo la morte del marito può offrirle qualche possibilità di
essere indipendente. Neanche la condizione economica è invidiabile: le paghe delle donne sono bassissime,
sebbene costituiscano, nelle classi meno agiate, una fonte indispensabile alla sopravvivenza. Inoltre, le donne
sono escluse dalle corporazioni. Pertanto, sia le usanze che la legge confinano le donne al servizio
domestico, o a lavori più pesanti, e a produzioni ad alta intensità di lavoro e sottopagate.
Ciononostante, le donne in Francia godono di alcuni diritti politici: è loro concessa la reggenza e, da
quanto risulta dalle relazioni del re agli Stati generali, le donne rappresentanti di ordini religiosi nonché
alcune nobili possono mandarvi i loro rappresentanti. Anche alcune donne del Terzo Stato, in genere vedove,
possono partecipare alle assemblee primarie. È questa la condizione di subordinazione sulla quale gli
intellettuali del diciottesimo secolo iniziano a discutere. Le grandi figure dell’Illuminismo – Montesquieu,
Voltaire, Rousseau, Condorcet, Diderot e gli altri enciclopedisti – contribuiscono al dibattito, ma non ne sono
le principali voci, che auspicano un miglioramento della condizione femminile in tutti i campi.
Nel 1789, le opinioni tradizionali di tutti i tipi e l’immagine stessa dell’«angelo del focolare»
cominciano a vacillare. Quanti sostengono l’uguaglianza fra i sessi non si accontentano più di avanzare
vaghe richieste, ma formulano delle proposte specifiche riguardanti l’istruzione, l’economia, i diritti civili e
politici. Un’ampia serie di pamphlets, che iniziano ad apparire nel 1787, avanza molteplici suggerimenti.
L’argomento fondamentale è la considerazione che gli esseri umani sono naturalmente uguali, e quindi la
discriminazione sessuale è innaturale; l’uomo e la donna devono essere soci, con uguali diritti, all’interno del
matrimonio; alle donne deve essere consentito l’accesso all’istruzione superiore e ai lavori meglio pagati.
Insieme alle rivendicazioni di uguaglianza nel matrimonio e in campo economico, le protofemministe
chiedono il diritto di voto. Pareri simili conducono Olympe de Gouge, sul patibolo, dove viene ghigliottinata
il 3 novembre del 1793 «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata
nelle cose della Repubblica». La scrittrice diviene così vittima di un sistema politico incapace di tollerare che
una voce, in grado di trovare ascolto in un momento di effervescenza politica, possa farsi veicolo di idee che
trovano un certo assenso, vista l’energia spesa nella loro repressione come si evince dal seguente saggio di
Joan Wallach Scott.
Joan Wallach Scott
Le femministe francesi e i diritti dell’«uomo»: le Dichiarazioni di Olympe de Gouges
L’eredità della Rivoluzione francese fu per le donne contraddittoria: un individuo astratto e
universale, dotato di diritti, su cui si basava la sovranità nazionale, ma fisicamente rappresentato da un uomo.
L’astrazione di un soggetto politico privo di connotazioni sessuali rese possibile alle donne rivendicare i loro
diritti politici in qualità di cittadine attive e, quando si accorsero che nella pratica tali diritti venivano loro
negati, protestare contro questa esclusione ingiusta in quanto violazione dei principi su cui era fondata la
repubblica. L’attribuzione della cittadinanza – riservata solo ai soggetti maschi (bianchi) – avvenne su
principi altrettanto astratti, e ciò rese ancor più complicata la rivendicazione di un’uguaglianza di diritti per
le donne, perché questi principi suggerivano implicitamente che i diritti stessi, o perlomeno i modi e i luoghi
in cui essi venivano esercitati, dipendevano dalle caratteristiche fisiche dei corpi umani.
Nei dibattiti politici della Rivoluzione francese, non c’è mai negazione della corporalità, ossia dei
caratteri fisici legati al sesso e al colore della pelle. Sia nelle contrastanti posizioni espresse durante la stesura
della Costituzione, nelle perorazioni dei diritti degli schiavi, dei mulatti e delle donne formulate da Barnave,
Brissot, Condorcet o Robespierre, sia nelle riflessioni opposte di Edmund Burke e Mary Wollstonecraft,
oppure ancora nei verbali delle riunioni delle sezioni di Parigi, troviamo numerose interpretazioni secondo le
quali sia i corpi che i diritti devono essere considerati «naturali» e che è proprio questa «naturalità» a creare
fra di essi un legame. I diritti vengono spesso concepiti come elementi appartenenti al corpo stesso, suoi
attributi inalienabili, impressi in modo indelebile nella mente o nel cuore degli uomini. Ma questa
connessione fra i corpi «naturali» e i diritti «naturali» non era né trasparente né lineare. Il significato stesso
dei concetti di natura, diritti e corpo umano, così come le relazioni tra di essi, venivano posti in discussione
nei dibattiti rivoluzionari e queste dispute sul significato erano dispute sul potere.
Furono numerose le dispute riguardanti il corpo e i diritti nel corso della Rivoluzione, ma poche di
esse arrivarono effettivamente a una soluzione. In base alla prima Costituzione, veniva fatta una distinzione
fra cittadini passivi e cittadini attivi sulla base della proprietà e del reddito; questa distinzione venne abolita
ancora sotto la monarchia, ma riapparve con parole diverse nella fase del Direttorio. Gli «uomini di colore»
furono dapprima esclusi e successivamente inclusi nella categoria dei cittadini. Agli schiavi furono dapprima
negati e poi garantiti i diritti degli uomini liberi, che essi persero nuovamente con l’avvento di Napoleone. Le
donne furono sistematicamente escluse dai diritti politici formali: fu però loro concesso il diritto di chiedere
il divorzio e di esercitare un certo controllo sulle proprietà nell’ambito del matrimonio nel 1792, ma questi
diritti vennero limitati con il Codice napoleonico e definitivamente aboliti con la Restaurazione. ognuna di
queste risoluzioni fu accompagnata da diversi tipi di argomentazioni e ognuna ha una sua complessa
spiegazione legata al contesto: l’abolizione della schiavitù, ad esempio, fu attuata nel momento in cui la
Francia cercava di ostacolare la conquista di Santo Domingo da parte degli Inglesi arruolando nell’esercito
tutti gli abitanti dell’isola di sesso maschile. Ciò che tutte queste risoluzioni hanno in comune, comunque, è
la questione che sempre si ripresenta delle relazioni fra alcuni gruppi umani con caratteri specifici definiti e il
modo in cui è fisicamente rappresentato l’universale: come si potevano raffigurare i diritti dei poveri, dei
mulatti, dei negri e delle donne come diritti dell’Uomo?
La risposta, in genere, è: con difficoltà. Non era facile né espandere il concetto di Uomo in modo da
comprendervi tutti i suoi Altri, né eliminare del tutto la corporeità dell’individuo astratto in modo che
letteralmente chiunque potesse rappresentarlo. Le discussioni specifiche riguardanti i diritti dei gruppi sclusi
non risolsero questo paradosso, anzi lo resero più evidente; i termini del dibattito e le strategie adottate dalle
parti in conflitto mostrarono che l’ideale di uguaglianza era molto più sfuggente sia nella definizione che
nella realizzazione di quanto fosse mai stato riconosciuto dai più visionari artefici della Rivoluzione o, da
questo punto di vista, da molti storici di essa. Le donne ne sono un esempio emblematico.
I
Fin dagli esordi della Rivoluzione, vi furono episodi sparsi di rivendicazione dei diritti delle donne,
che furono per lo più ignorati dalla legislazione rivoluzionaria fino al 1793 (alcuni giorni dopo l’esecuzione
di Maria Antonietta), quando la questione del ruolo politico delle donne fu direttamente affrontata.
Cogliendo l’occasione di un tumulto di piazza scoppiato fra donne che lavoravano ai mercati e donne
appartenenti alla Società delle Rivoluzionarie Repubblicane, la Convenzione Nazionale dichiarò fuori legge
tutte le associazioni femminili e le società popolari, richiamandosi a Rousseau per negare alle donne
l’esercizio dei diritti politici e per porre fine, si sperava definitivamente, alle insistenti agitazioni femminili.
«Le donne dovrebbero esercitare diritti politici e immischiarsi negli affari di governo?» chiedeva André
Amar, il rappresentante del Comitato di Salute Pubblica. «In generale, possiamo rispondere, no». Egli
proseguì il suo intervento prendendo in considerazione la possibilità che le donne si riunissero in
associazioni politiche, e ancora una volta rispose negativamente:
Poiché esse sarebbero obbligate a sacrificare i compiti più importanti a cui la natura le chiama. Le funzioni
familiari a cui la loro stessa natura le ha destinate sono connesse con l’ordine generale della società; questo ordine
sociale è il risultato delle differenze fra l’uomo e la donna. Ciascun sesso è chiamato a svolgere le funzioni per le quali
risulta più adatto; le sue azioni devono rientrare in questo ambito, che non deve essere oltrepassato, poiché la natura che
ha imposto all’uomo questi limiti lo comanda imperiosamente e non accetta che le vengano imposte leggi.
Una definizione ancor più esplicita di questi cosiddetti caratteri naturali fu quella di Pierre-Gaspard
Chaumette. un hébertista radicale, membro della Comune di Parigi. In nome della Comune egli response
energicamente la richiesta di appoggio da parte delle donne che avevano firmato una petizione contro il
decreto della Convenzione:
Da quando è lecito abbandonare il proprio sesso? Da quando è tollerabile vedere che le donne abbandonano le
soavi cure delle loro famiglie, le culle dei loro bambini, per arringare le folle nei teatri o alla tribuna delle assemblee?
La natura ha forse affidato agli uomini le cure domestiche? Ha forse dato a noi i seni per allattare i nostri bambini?
Meno brillanti di Rousseau, ma non meno espliciti, i politici giacobini avevano stabilito i termini del
nuovo ordine sociale. Il loro invocare la natura come base sia della libertà che della differenza sessuale
traeva origine da alcune concezioni dominanti (anche se più volte contestate) sia nella teoria politica che
nella medicina. Secondo queste teorie, natura e corpo erano sinonimi: dal corpo si potevano trarre le verità su
cui si doveva fondare l’organizzazione politica e sociale. Constantin Volney, rappresentante del Terzo Stato
di Anjou alle riunioni degli Stati generali del 1788-89, sostenne fermamente, nel suo catechismo del 1793,
che la virtù e il vizio «sono, in ultima analisi, sempre connessi con la distruzione o la conservazione del
corpo». Per Volney, le questioni riguardanti la salute erano questioni di Stato: «la responsabilità civile (è) un
comportamento che tende a preservare la salute». La malattia dell’individuo era considerata segno di
disgregazione sociale: il rifiuto di una madre di allattare un figlio al seno veniva interpretato come un rifiuto
della funzione che la natura aveva attribuito al corpo, e di conseguenza come un atto profondamente
antisociale. Un cattivo trattamento del corpo comportava non solo costi individuali, ma anche conseguenze
sociali, poiché il corpo politico era, per Volney, non una metafora, ma una definizione da prendersi alla
lettera.
Il corpo in questi autori non veniva naturalmente considerato un’entità singola: le differenze sessuali
erano considerate un principio fondativo dell’ordine naturale, e di conseguenza dell’ordine sociale e politico.
Tom Laqueur ha dimostrato che le idee relative alla differenza sessuale non sono fisse: la loro storia lunga e
mutevole dimostra che i significati sessuali non sono connessi in modo evidente ai corpi sessuati. Laqueur
sostiene che nel diciottesimo secolo emerse una nuova biologia che sostituì alla precedente «metafisica della
gerarchia» la «anatomia e fisiologia dell’incommensurabile». Per di più, le differenze dei caratteri genitali
rappresentavano integralmente la differenza: mascolinità e femminilità erano fatte coincidere direttamente
con il «maschio» e la «femmina» biologicamente intesi. Una delle differenze fra uomo e donna veniva infatti
individuata nella totalità con cui il sesso definiva il loro essere. Un certo dottor Moreau proponeva come sua
la spiegazione data da Rousseau dell’idea comunemente diffusa che le donne fossero (secondo l’espressione
di Denise Riley) «interamente saturate dal loro sesso». Egli sosteneva che la posizione degli organi sessuali –
interna al corpo delle donne, esterna in quello degli uomini – determinava la loro area di influenza:
«l’influenza interna richiama costantemente le donne al loro sesso: il maschio è maschio solo in certi
momenti, mentre la femmina è femmina in tutti i momenti della sua vita».
Nei discorsi incrociati della biologia e della politica, le teorie della complementarietà risolsero il
problema degli effetti potenzialmente distruttivi della differenza sessuale. Sia la riproduzione della specie
che l’ordine sociale venivano considerati dipendenti dall’unione di due elementi opposti, quello maschile e
quello femminile, in una divisione funzionale del lavoro che consentiva alla natura di fare il suo corso.
Anche se dal punto di vista logico era possibile presentare la complementarità come una dottrina ugualitaria,
in pratica essa servì nella concezione politica dominante di quel periodo a giustificare un rapporto
asimmetrico tra uomini e donne. Gli obiettivi della Rivoluzione erano, dopo tutto, la libertà, la sovranità, la
libertà di scelta morale determinata dalla ragione e un attivo coinvolgimento nella creazione di leggi giuste.
Ebbene, tutte queste facoltà vennero nettamente definite come caratteristiche maschili, definite in
base alla contrapposizione rispetto a corrispondenti caratteristiche femminili. Questi erano gli elementi
contrapposti:
attivo
passivo
libertà
dovere
sovranità individuale
dipendenza
pubblico
privato
politico
domestico
ragione
pudore
parola
silenzio
istruzione
cure materne
universale
particolare
maschio
femmina
La seconda lista serviva non solo a definire la prima, ma ne rendeva possibile la stessa esistenza. La
«naturale» differenza sessuale permetteva di risolvere alcuni dei più resistenti ed intricati problemi relativi
alle disuguaglianze di potere nella realtà politica, assegnando la libertà individuale ai soggetti maschi e
invece la coesione sociale alle femmine. Le cure materne risvegliavano ed ispiravano l’umana compassione
(pietà) e l’amore per la virtù, qualità che temperavano l’egoismo individualista; il pudore da un lato
consentiva alle donne di svolgere il proprio ruolo, e forniva dall’altro un correttivo alla loro innata incapacità
di moderare i desideri (sessuali). Il pudore femminile era anche una condizione necessaria per permettere la
vittoria maschile sulla sfrenatezza del desiderio. La dipendenza della sfera domestica rappresentava per gli
uomini uno stimolo al compimento del loro dovere sociale, concetto quest’ultimo che non indicava gli
obblighi delle donne, ma il loro essere oggetto degli obblighi maschili. La distinzione attivo-passivo, infatti,
poiché di basava sulle contraddittorie teorie dei diritti naturali, riassumeva in sé tutte le differenze: coloro
che godevano di diritti attivi agivano come individui, facendo scelte morali. esercitando la libertà, agendo (e
parlando) per se stessi. Essi erano, per definizione, soggetti politici. Al contrario, coloro che godevano di
diritti passivi, avevano il «diritto di farsi dare o concedere qualcosa da qualcun altro». La loro condizione di
soggetti politici era ambigua o addirittura dubbia.
(da Il primo femminismo (1791-1834), a cura di A. Rossi Doria, Milano, Unicopli, 1993, pp. 93-117)
Rivendicazioni simili a quelle avanzate da Olympe de Gouges vengono espresse nella seconda metà
del Settecento negli Stati Uniti, il Paese dove sono assenti le rigide strutture sociali europee, dove più elevata
è la mobilità sociale, dove più diffusa è l’istruzione popolare e nelle famiglie, soprattutto in quelle di
agricoltori, i rapporti sono più paritetici. Qui le donne appartenenti alla popolazione bianca sono le prime a
godere di relative condizioni di autonomia e di indipendenza. Fin dal 1848 viene posto il problema del voto
alle donne, concesso per la prima volta nel 1869 nello stato del Wyoming.
In Europa il Codice civile napoleonico del 1804 e le leggi della Restaurazione sanciscono
giuridicamente l’inferiorità femminile. Nell’Inghilterra liberale del primo Novecento emergono con grande
forza le rivendicazioni delle suffragette, decise a porre fine all’inferiorità politica femminile. Il movimento si
espande anche in altri Paesi europei. A iniziare in Europa a guardare con favore al voto politico delle donne
sono non solo i socialisti, pur con qualche resistenza interna, ma anche i conservatori liberali e cattolici, i
quali si aspettano dalle donne, in generale più degli uomini viste come sensibili all’influenza della religione,
un voto conservatore che faccia da contrappeso al voto socialista.
Un peso di incalcolabile portata per il cambiamento della condizione femminile ha la Prima guerra
mondiale. Per l’esigenza di colmare i vuoti lasciati dagli uomini, le donne vengono impiegate a migliaia
nelle fabbriche e nei servizi ausiliari dell’esercito. In Germania e in Gran Bretagna nel 1918 la percentuale
delle donne impiegate nell’industria è del 35 per cento, in Italia supera il 20 per cento, in Francia oltrepassa il
40 per cento. La Seconda guerra mondiale riproduce il fenomeno su scala ancora maggiore.
Le due guerre mondiali rendono impossibile continuare a negare alle donne il voto, concesso in
Nuova Zelanda alla fine dell’Ottocento e in Australia nel 1902. Fra il 1915 e il 1948 tutte le maggiori nazioni
europee, Italia compresa, nel 1946, concedono loro il voto.
La prima nazione a varare una legislazione che stabilisce la piena parità fra uomo e donna è la Russia
sovietica. I bolscevichi introducono provvedimenti che contemplano la totale uguaglianza fra i coniugi, il
matrimonio civile, il divorzio – ridotto a pura formalità burocratica –, il diritto all’aborto, l’equiparazione dei
figli nati entro e fuori dal matrimonio, la parità salariale.
Tuttavia, anche nell’Unione sovietica stalinista, come nell’Italia fascista e nella Germania nazista, il
movimento di emancipazione si trova di fronte a gravi battute d’arresto. Il regime staliniano prende misure
contro le conseguenze sociali ed economiche della legislazione varata subito dopo la conclusione della
rivoluzione – disgregazione delle famiglie, divorzio facile, abbandono minorile, danni alla produzione per lo
scioglimento dei matrimoni e il trasferimento degli ex coniugi, forte ricorso all’aborto con effetto negativo
sulla crescita demografica – rendendo più difficile il divorzio e proibendo l’aborto. Fascismo e nazismo
esaltano il ruolo della donna come procreatrice, anima del focolare domestico e sostegno del marito. Aperta
sostenitrice del ruolo subalterno della donna è la Chiesa cattolica, al fine di salvaguardare la famiglia nella
sua accezione tradizionale. Le trasformazioni sociali del dopoguerra e la riproposizione di molte delle
rivendicazioni già avanzata fra fine Ottocento e primi del Novecento si saldano per connotare nel secondo
dopoguerra la cosiddetta «questione femminile», ancora oggi di grande attualità.