1 Modulo 30: La banca centrale e la politica monetaria 30. 1. La banca centrale europea e la Banca d’Italia Come è ben noto alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, hanno stabilito di dar vita ad un’unione monetaria. In sostanza hanno deciso di sostituire le proprie monete nazionali con una moneta comune, l’euro, che dal 1° gennaio del 2002 ha iniziato a circolare. Un’altra decisione contestuale, è stata quella di far confluire le proprie banche centrali nazionali in un’unica banca centrale europea (BCE). È a quest’ultima perciò che spetta attualmente il compito di emettere la moneta e di regolarne la quantità in circolazione. Questo esperimento da parte dei governi europei, ha cambiato in modo profondo le funzioni della politica monetaria, visto che oggi esse vengono svolte avendo come riferimento non più l’economia di un singolo Stato, me appunto quella di un complesso di Stati. Inoltre le norme che regolano la BCE sono diverse, in genere, da quelle che hanno disciplinato, fino a qualche anno fa, le singole banche centrali nazionali, come la nostra Banca d’Italia. Tuttavia, quello che tratteremo in questo ultimo modulo, prescinde, in larga misura, dalle caratteristiche istituzionali delle singole banche centrali. La trattazione contenuta in queste pagine deve considerarsi perciò riferita alla “generica” banca centrale del “generico” sistema economico. È chiaro d’altra parte, che le caratteristiche istituzionali rivestono comunque un ruolo importante. Pertanto vale la pena di ricordare un po’ di storia per osservarne le principali tappe evolutive. Nei primi decenni del Regno d’Italia, erano presenti ben sei banche autorizzate dallo Stato a emettere banconote aventi corso legale: la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio, la Banca degli Stati Pontifici, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Nel 1893, dalla fusione delle prime tre nacque la Banca d’Italia con la struttura legale di una società per azioni di diritto privato. Il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia mantennero tuttavia l’autorizzazione ad emettere moneta legale. Solo nel 1926 la Banca d’Italia divenne l’unico istituto di emissione. Con una legge emanata nel marzo del 1936, essa venne successivamente trasformata in un istituto di diritto pubblico. Fin dalla sua creazione la Banca d’Italia operava in modo relativamente indipendente dal potere politico, tuttavia la sua indipendenza si realizzò in seguito. Prima del 1992, infatti, la possibilità ultima di determinare le condizioni del credito spettava al Tesoro, mentre prima del 1981, la Banca d’Italia, era addirittura obbligata ad acquistare tutti i titoli emessi dal Tesoro e non acquistati da famiglie, imprese e banche. A fronte di tali acquisti, ovviamente, emetteva un corrispondente ammontare di base monetaria. Inoltre il Tesoro disponeva di un conto corrente presso la Banca d’Italia (detto conto corrente di tesoreria) il cui saldo poteva anche essere negativo e che costituiva un’altra forma di finanziamento del Tesoro presso la Banca 2 d’Italia. Anche in questo caso, ad un saldo negativo, corrispondeva una creazione di base monetaria e viceversa. Successivamente la normativa cambiò e queste possibilità di finanziamento monetario per il Tesoro non furono più utilizzabili. Ciò avvenne quando con una legge, lo Stato italiano “liberò” la Banca d’Italia dall’obbligo dell’acquisto di titoli emessi dal Tesoro e non sottoscritti dal pubblico e dalle banche, e quando un’ulteriore legge impose che il saldo del conto corrente di tesoreria non poteva essere negativo. Queste leggi che avevano accresciuto l’indipendenza della Banca d’Italia e rafforzato il suo controllo sull’offerta di moneta, sono conosciute in gergo con la frase divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Naturalmente la Banca d’Italia restava libera di acquistare e vendere a sua discrezione i titoli del Tesoro. Al riguardo, il regime della BCE è ancora più restrittivo: a essa è fatto divieto, cioè, di finanziare i disavanzi dei Governi dei paesi membri.1 30. 2. Strumenti di controllo dell’offerta di moneta Abbiamo chiuso il modulo precedente, presentando una rassegna dei principali strumenti di creazione della base monetaria. La banca centrale non è obbligata a subire passivamente le variazioni di base monetaria provocate dall’operare dei tre canali appena illustrati. Essa dispone di vari strumenti che le consentono di controllare l’ammontare complessivo dell’offerta di moneta (M) contrastando le variazioni indesiderate dovute all’effetto dei tre canali. Per fare ciò, essa può agire tanto sul livello della base monetaria (H) che sul moltiplicatore stesso. In questo contesto ci limitiamo a ricordare tre strumenti a sua disposizione: 1 Manovra del coefficiente di riserva obbligatoria. In precedenza abbiamo osservato che il rapporto tra riserve e depositi che le banche sono tenute a rispettare (per legge) influenza l’entità del moltiplicatore. Cerchiamo di essere più chiari sulla relazione tra i due parametri. Se aumenta la porzione di riserva che le banche devono accantonare per ciascun livello di depositi, a parità di base monetaria l’offerta di moneta si riduce, poiché una parte meno consistente può essere messa di nuovo in circolazione da parte delle banche. Il rapporto tra riserve e depositi, che appunto prende il nome di coefficiente di riserva obbligatoria può essere considerato una variabile sotto il controllo della banca centrale e può essere utilizzato dalla sua dirigenza per mantenere l’offerta di moneta ad un livello desiderato; Operazioni di mercato aperto. Questo tipo di operazioni consistono nella compravendita di titoli sul mercato secondario da parte della banca centrale. 2 Un Cfr. Samuelson e Nordhaus (1996) e Rodano (2000). Per mercato secondario, nel caso dei titoli, si intende il mercato dei “titoli vecchi”, ovvero non dei titoli di nuova emissione. 2 3 acquisto di titoli comporta l’aumento della base monetaria. Una riduzione, al contrario, si verifica nel caso di una vendita. Le operazioni di mercato aperto sono uno strumento molto più flessibile della manovra del coefficiente di riserva obbligatoria. Possono infatti essere effettuate anche quotidianamente allo scopo di determinare un bilanciamento più accurato della politica monetaria. Spesso le operazioni di mercato aperto della banca centrale assumono la forma di cosiddette compravendite pronti contro termine, che consistono in operazioni nel mercato secondario per cui, ad esempio, la banca centrale acquista, ad una certa data, un determinato ammontare di titoli, impegnandosi subito a rivenderli in una data successiva fissata in anticipo. Una operazione di questo tipo determina un temporaneo aumento della base monetaria in circolazione (avremmo avuto invece una temporanea riduzione della base monetaria se l’operazione pronti contro termine avesse riguardato un’iniziale vendita contro un acquisto successivo); Manovra del tasso ufficiale di sconto. Il tasso ufficiale di sconto è il tasso di riferimento per i prestiti che la banca centrale effettua agli istituti di credito. Un suo aumento rende più costoso prendere soldi a prestito dalla banca centrale, ovvero l’indebitamento (da parte delle altre banche), riducendone di conseguenza le dimensioni. Le scelte di manovrare il tasso ufficiale di sconto hanno anche un cosiddetto effetto annuncio, nel senso che servono ad informare il mercato che le autorità monetarie hanno deciso di attuare un certo tipo di politica monetaria (restrittiva o espansiva). L’annuncio, in molti casi, è molto più importante di quello che si crede. L’utilizzo di tutti questi strumenti mette in grado di controllare, sia pure entro certi limiti, l’ammontare dell’offerta di moneta. 30. 3. Effetti economici della moneta Ma perché è così importante considerare la moneta anche nel momento in cui ci approcciamo allo studio della macroeconomia? Come si inseriscono valutazioni relative alla domanda e all’offerta di moneta nel contesto dei modelli che abbiamo iniziato a studiare? Quest’ultima è una domanda molto specifica, per la cui risposta attendiamo la fine del corso. Per il momento ci limitiamo a fare alcune osservazioni circa le conseguenze macroeconomiche della moneta. In effetti, dato che questa è controllata da una autorità pubblica, si configura come un possibile strumento di politica economica. Circa la valutazione degli effetti macroeconomici della moneta, gli studiosi anche in questo caso sono divisi in due approcci principali. Secondo l’approccio keynesiano, con il quale siamo entrati in contatto dalla Lezione 9, le politiche monetarie hanno effetti reali e permettono di stabilizzare le fluttuazioni cicliche. Secondo un 4 altro approccio, il tentativo di regolare la vita economica attraverso la politica monetaria, arreca più danni che vantaggi. Questo secondo “schieramento” di economisti prende il nome di neoclassici. Fin dall’inizio abbiamo osservato che la caratteristica della macroeconomia, a differenza della microeconomia, consiste nel prendere in considerazione soggetti, beni e mercati aggregati. Il loro numero è piccolo perché l’interesse dello studioso di macroeconomia non è la conoscenza del dettaglio, ma è quello di mettere in luce gli effetti di trasmissione e “retroazione” di un mercato all’altro.3 Nel Modulo 26 abbiamo parlato di Pil nominale e Pil reale in riferimento all’effetto della variazione del livello generale dei prezzi. Anche in questo caso, gli effetti della moneta possono essere distinti in due categorie: Effetti nominali. Le variazioni dell’offerta di moneta hanno influenza sul livello generale dei prezzi e di conseguenza sul tasso di inflazione; Effetti reali. Le variazioni dell’offerta di moneta hanno influenza su quantità (in particolare il livello del prodotto di equilibrio e quindi il livello di occupazione) e prezzi relativi. Dunque, riprendendo le idee dei due contrapposti schieramenti di teoria macroeconomica; i keynesiani ritengono che sia importane porre l’accento sugli effetti reali della moneta, mentre i neoclassici sugli effetti nominali. Questi ultimi enfatizzano talmente tanto questo punto di vista che giungono a teorizzare la cosiddetta neutralità della moneta, ovvero un ragionamento che, seppur molto semplificato, si articola secondo quanto segue. Se all’interno di un sistema economico raddoppiano prezzi e redditi, le scelte degli individui (anche a livello aggregato) non cambiano. Queste scelte infatti non dipendono dai prezzi espressi in euro ma solo dai prezzi relativi. Si tratta di una implicazione del principio generale che le scelte dei soggetti sono razionali e che, di conseguenza, non sono influenzate dalla cosiddetta illusione monetaria. In questo quadro dunque, la moneta cambia i “numeri” dei prezzi ma non i loro rapporti.4 Per ciò non determina una variazione delle scelte. La moneta si comporta come un velo che avvolge l’economia reale.5 Come abbiamo visto, l’esistenza della moneta è molto importante per un sistema economico: obbligati a trattative di baratto, i risultati sarebbero molto meno efficienti. Tuttavia, la quantità di moneta effettivamente in circolazione non influenza i risultati dell’economia reale, perché non influenza i prezzi relativi. 3 Cfr. Rodano (2000), Cap. 4. Intuitivamente queste considerazioni ci riportano indietro addirittura ai primissimi moduli del corso. Si ricordi infatti quanto detto a proposito di scelta del consumatore, qualora di fronteggia un vincolo di bilancio. Si ponga tuttavia attenzione al fatto che in questo contesto stiamo ragionando su grandezze macroeconomiche. 5 Cfr. Rodano (2000). 4 5 Gli economisti keynesiani, al contrario, pongono l’accento sugli effetti reali. Essi, sulla base dell’osservazione delle dinamiche economiche, sostengono che i prezzi sono vischiosi, cioè reagiscono molto lentamente agli squilibri tra domanda e offerta di beni, perciò, come abbiamo visto nel modello reddito-spesa, nel momento in cui si verifica uno squilibrio, l’aggiustamento si raggiunge attraverso la variazione delle quantità. Se ipotizziamo dunque che nel sistema economico si verifichi un aumento dell’offerta di moneta, assumendo che i prezzi rimangano stabili, questo fa aumentare la domanda di beni e le imprese reagiranno aumentando la loro produzione. Un altro meccanismo interessante legato a questo punto di vista è il seguente. Supponiamo che i salari, a seguito delle variazioni che intercorrono nel sistema economico, varino più lentamente degli altri prezzi. Questa ipotesi non è irrealistica se pensiamo che essi sono fissati tramite contratti che spesso si riferiscono ad un arco di tempo ampio. Se un aumento dell’offerta di moneta fa salire i prezzi ma, per quanto affermato, non i salari, ne consegue che si verificherà una riduzione dei salari reali. All’aumento dell’offerta di moneta si associano dunque effetti reali (sempre per il citato principio di razionalità).