tempo amministrativo e garanzie di sistema

“TEMPO AMMINISTRATIVO E GARANZIE DI SISTEMA” – Carmelo MICELI
Porre mano a una breve rielaborazione dei presidi degli interessi legittimi, risponde anche
all’ esigenza di dare una dignità sostanziale alle pretese del cittadino tacitate dal burocrate.
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(segue)
Campo elettivo della giustiziabilità dei pubblici silenzi, è in particolare quello dell’ edilizia,
dove non di rado, dinnanzi alle istanze private (a titolo esemplificativo si ponga mente alle
cd. zone bianche), si staglia, non un’ aderenza alla pianificazione territoriale, ma una
ricaduta patologica delle attribuzioni pubblicistiche. Degne di nota sono, sotto questo
profilo, nel nuovo assetto dei danni non patrimoniali cagionati dalla p.a., le argomentazioni
sviluppate da Palazzo Spada (ex multis, sent. n. 1271/2011), anche alla luce dell’ art. 2bis l.
241/90, e dell’ ulteriore sollecitazione precettiva esercitata dal c.p.a. su perniciosi fenomeni
di inerzia e dispersione. L’ affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione
amministrativa intercetta il sostrato della normazione europea e, a cascata, nazionale (in una
evolutiva convergenza di valori), sì da “essere meritevole di tutela, non essendo sufficiente
relegare tale difesa alla previsione ed all’ azionabilità di strumenti processuali a carattere
propulsivo, che si giustifichino solo nell’ottica del conseguimento dell’utilità finale ” (C.S.
ord. n. 875/05, cui si saldano le influenze comunitarie e dottrinali del “tempo” come
autonomo bene della vita). Siamo forse al cospetto di una declinazione amministrativa del
riadattato brocardo oraziano “tantum sis, quantum habeas”..in tempo?! È così, che diventa
sempre più labile quel monito di Stanislao Mancini, il quale in occasione dei lavori
parlamentari della LAC, ebbe a dire a proposito dell’ interesse privato (non sussumibile
nella categoria del diritto soggettivo), sacrificato dall’ esercizio del potere pubblico: “ch’ ei
si rassegni!”. L’ implementazione delle tutele del cittadino che fronteggia la potestà
autoritativa, secondo i canoni positivi di pienezza ed affettività, assurge del resto a
ineludibile corollario della valenza propulsiva dell’ art. 113 della Carta Fondamentale
(esprimendo, come rilevato da Nigro, una spinta evolutiva che l’ impianto costituzionale
conferisce all’ interpretazione del sistema processuale in genere, e di quello amministrativo
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nella specie): indirizza il legislatore verso il completamento, ossia verso l’ abolizione della
ingiustificata limitazione dei mezzi di tutela del singolo nei confronti della p.a. (Police).
Qualunque cosa si pensi circa i rapporti tra giurisdizione di diritto soggettivo (invero
sostenuta ab initio anche da Cammeo con riguardo al contenzioso amministrativo) e
processo di impugnazione, questo iter sembra collocarsi assai bene in un quadro
complessivo in cui l’ affermarsi del rito amministrativo come giudizio di parti comporta la
tendenziale recessività delle dinamiche della tutela d’ annullamento, per il fatto stesso che
l’ atto amministrativo e la sua sorte perdono, in questo contesto, la centralità originaria: ne
deriva come, ove non residuino sacche di discrezionalità, viene meno la provvisorietà del
cristallizzarsi del dictum giudiziale (nella proiezione conformativa) rispetto alla riedizione
provvedimentale.
Questo iter di parificazione, ha vissuto una storica accelerazione con dlgs n 80/98 (rispetto
alla reticenza e alla malintesa prudenza del dato positivo anteriore): “in quelle norme
sembra di poter scorgere l’ embrione di un sistema di tutela giurisdizionale connotato dalla
pienezza della cognizione e dalla completezza del novero delle azioni proponibili; in
definitiva, dalla effettività delle garanzie offerte alla domanda di giustizia” (Police).
Proprio nella predicabilità dell’ articolato poziore, già anni fa Scoca ne evidenziava le
profonde implicazioni sistematiche al fine di superare ingiustificate disomogeneità nella
difesa delle posizioni private “dialoganti” con il potere, rilevando, peraltro, come ai fini del
completamento della tutela non vi sarebbe alcun bisogno di modificare l’ attuale
Costituzione: sarebbe sufficiente, infatti, dare attuazione al suddetto art. 113. Su simili
paradigmi di efficacia realizzativa, insiste la novella codicistica, che attinge a un arco di
rimedi necessari a conformare ed “esaudire” pienamente le pretese sostanziali dedotte in
giudizio, così inverando (sia pure a fronte di “cieche sforbiciate ministeriali” – F.Merusi) le
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garanzie giurisdizionali del “nuovo cittadino”, nella spiegazione della sua sfera di “libertà
garantita” (Benvenuti). Sull’ esatto significato che assumerà -se mai sarà normativamente
consacrata l’ azione di adempimento aldilà di preoccupazioni di bilancio- questa formula
tanto enfatica quanto (forse) oscura, molto inciderà anche l’ evoluzione dei mezzi di “difesa
attiva”, nel quale a tutt’ oggi si compendiano e si confrontano, non sempre armonizzandosi,
le diverse anime del giudizio di legittimità, per elidere quel sistema irrazionale e dimidiato
di tutela che accompagnava le definizioni dapprima procedimentali e poi giudiziarie delle
aspettativie del cittadino. Invero, è bene precisare, che quel che sembra un odierno valore
euristico ascritto alla connotazione di spettanza del processo, riposa su un suggello
codicistico di brillanti intuizioni scientifiche del passato. Rilevava, in proposito, Mazzarolli
che il cittadino comunque chiede una tutela per ottenere l’ uso e il godimento del bene: per
tale via, pare di potere condividere pienamente (con buona pace delle convulse
manualistiche che sembrano presentarsi come copernicane) che “è da riconoscere che ciò
cui mira l’ esperimento dell’ azione processuale, in fondo, è, in ogni caso, la soddisfazione
dello stesso interesse sostanziale” (Mazzarolli).
Nella continua riscrittura della tradizione (la quale, secondo Costa, finisce col permeare la
scienza giuridica), è possibile riproporre nell’ attuale assetto, non più irrigidito da una
domanda anelastica e irrelata rispetto alla concretezza e attualità dell’ interesse a ricorrere,
la celeberrima definizione celsina (nihil aliud est actio quam ius persequendi iudicio quod
sibi debetur), nel traguardo di un potere di condanna del giudice senza restrizione di oggetto
e modulabile in relazione ai bisogni differenziati emergenti in causa: lo scenario delineatosi
induce a ritenere come l’ individuzione dei rimedi sia di pertinenza anche del diritto
sostanziale. È bene premettere sin d’ ora che il principio dell’ effettività della tutela, almeno
per come è declinato in Europa, sembra riprendere e dare forza agli studi del Chiovenda, in
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quanto l’ effettività è assunta soprattutto nell’ accezione della idoneità a comportare l’
attribuzione al soggetto leso di ciò che gli spetta alla stregua proprio del diritto sostanziale:
“il processo deve dare, per quanto è possibile praticamente, tutto quello e proprio tutto
quello che egli (colui che agisce) ha il diritto di ricevere”.
Nel cambio pelle del rito (in questi termini si è espresso recentemente il Presidente del
C.S.), il diritto civile continua a essere, in parte, matrice di taluni concetti predicati con
vigore anche in sede amministrativa, affinchè l’ unità ordinamentale e sistemica non soffra
di risposte diseguali e parcellizzate a seconda della natura della situazione soggettiva
azionata. Tale osmosi tra ordito civilistico e pubblicistico, ha trovato di recente campo
elettivo nell’ innesto di istanze risarcitorie non patrimoniali, originate dal contenzioso fra
privati, e, in aderenza a esigenze egualitarie ex art. 3 Cost, culminanti nel paradigma
aquiliano della responsabilità dell’ ente pubblico. Si ricorda, allora, che prima che avesse
inizio il processo di pubblicizzazione del diritto amministrativo in Italia, e prendesse vita
quindi il suo “decollo” (per dirla con Melis), quest’ ultimo era considerato come una costola
del diritto privato, “largamente e rettamente inteso” (Meucci). Quest’ ultimo, pertanto
assurgeva a un insieme di principi che riguardavano pienamente anche i rapporti giuridici
dello Stato e della pubblica amministrazione, ai quali, pertanto, si attribuivano le stesse
caratteristiche dei soggetti individuali (Rebuffa). L’ immagine di un diritto pubblico
“costretto alle catene” dal diritto civile (Mayer), insiste talvolta anche tra le righe
introduttive delle inflazionate manualistiche, e certo si aggira ancora oggigiorno, dove,
come sostiene taluno, stiamo vivendo forse un ritorno della disciplina pubblicistica agli
albori. Il periodo considerato è troppo lungo e travagliato sul piano culturale per concedere
spazi ad omogeneità interpretative. La “sola razionalità mondana possibile” sia in sede
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procedimentale, che in quella successiva processuale, non deve essere informata a un
monismo tendenziale, recante solo incertezze epistemologiche.
Certo è che i confini pubblico-privato vanno sempre più offuscandosi, come mostra l’
attenta dottrina, poco incline a ridurre le multiformi spinte della viva realtà nella polare
relazione tra giurisdizione di diritto soggettivo e quella di tipo oggettivo: tra i due poli,
infatti insistono sfumature e peculiarità concrete che inducono nuovi impulsi interpretativi e
nuovi orientamenti di ricerca. Le peculiarità della casistica, così, sembra vadano
tendenzialmente preservate dall’ impatto conformativo di categorie generali di dubbia
pertinenza, affidandosi alle quali si rischierebbe un effetto deformante piuttosto che
positivamente orientativo. Parrebbe, quindi preferibile, quella logica orizzontale
compositiva della ragionevolezza, che postula il riferimento agli accadimenti concreti, e
suggerita spesso nello ius dicere degli ermellini.
E infatti, pur registrando, anche con l’ avvento della novella codicistica, una connotazione
di spettanza e una completa tribunalizzazione del giudizio amministrativo (Clarich), non
dobbiamo essere indotti a inquadrare le chiavi di lettura delle sfumature empiriche in un’
ottica pancivilistica. Tanto che resistono ancora, sia pure a fronte di declinazioni
interpretative che pendono verso il polo del diritto soggettivo di credito, le intuizioni
pregevoli che ravvisano l’ essenza dell’ interesse legittimo (vera causa petendi del g.a.,
come in origine suggellato dall’ Accordo Romano-D’ Amelio, e poi costituzionalizzato nel
’48) nel dialogo tra cittadino e amministrazione (Scoca). Sembra utile rilevare che un conto
è la parificazione delle due situazioni giuridiche sul piano delle tutele, altro è la loro identità
sul piano sostanziale.
Tale breve ed estemporanea premessa appare necessaria come sfondo, ideologicamente
orientato, per frenare facili privatizzazioni, ed approcci riduzionistici, che trascurano il
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limite funzionale dell’ interesse pubblico che presidia l’ agere amministrativistico e il suo
confronto procedimentale con le aspirazioni private. Ciò, come vedremo appresso, non
implica affatto il ripristino di vedute di retroguardia, specie di questi tempi dove si assiste
alla centralità del bene della vita nella costruzione dell’ interesse legittimo (Ad. Plen. n
3/2011, sulle spinte sostanzialistiche dottrinali). Sappiamo bene che la giuridicizzazione
delle funzioni e della potestà pubblica rechi ormai l’ obsolescenza dell’ interesse privato
come occasionalmente protetto (secondo la formula di Zanobini), ma un travaso sbrigativo
(e forse banale) di categorie negoziali sul terreno amministrativo, può solo condurre ad
aleatorietà dei modi del potere e parzialità degli esiti, che andrebbero a imporsi, momento
per momento..interesse per interesse. E del resto, pur quando si arrivi al taglio valoriale che
l’ utilità sostanziale reca dapprima al procedimento e poi alla cognizione e decisione
processuale, dobbiamo tener ben ferma e salda l’ idée directrice: l’ istanza del cittadino, in
chiave oppositiva o pretensiva, non è suscettibile di soddisfazione immediata, in termini di
necessitas iuris, ma transita attraverso un riconoscimento del bene della vita in termini di
possibilità giuridica (secondo la significativa ricostruzione offerta da A. Romano Tassone).
Qualificata dottrina aveva posto l’ accento sulla “autonomia assiologica” delle situazioni
soggettive poste a confronto dell’ amministrazione pluralista (nonché sulla speculare
connotazione di spettanza del processo), quasi a voler sussumere in una coesione sistemica,
la binaria contrapposizione tra l’ agire funzionale con potere pubblico e l’ agire secondo il
diritto comune.
L’ intermediazione valutativa dell’ ente, quand’ anche resa secondo moduli vincolati
(tricotomia norma-fatto-effetto), veicola l’ oggetto dell’ aspirazione privata, in cui la
generalizzazione del modello procediamentale sostituisce lo spazio vuoto di diritto in cui si
muoveva l’ intutito dei buoni funzionari (Cammeo), con un contesto di relazioni
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interorganiche, razionali e riproducibili (le parole sono tratte ancora dalle riflessioni di
Romano Tassone). Insomma, pur a fronte dello sviluppo potenziale dell’ azione
amministrativa sospesa tra “l’ indebolirsi del principio di legalità e la permanenza ed
espansione di poteri impliciti”(Morbidelli), il procedimento non può d’ improvviso perdere
la sua equilibrata dialettica verso derive negoziali di conservazione o conseguimento di
utilità privatistiche, giacchè in esso scorre non solo la vita dell’ istante, ma anche quella
degli altri.
Ecco riemergere l’ invariante (termine volutamente gianniniano per passare dal piano della
ricostruzione storica, offerta a stralci sopra, a quello della costanza tipologica) che segna il
“decollo amministrativo”, dal vuoto dell’ autorità-soggezione al confronto procedimentale
democratico, in cui la realizzazione dei compiti affidati all’ amministrazione non sia slegata
da esigenze di giustizia sostanziale (art. 3 Cost), la quale informa sia la composizione dell’
interesse pubblico primario con quelli secondari, sia il contemperamento delle esigenze
private coinvolte (cfr. A.M. Sandulli). E allora la causa del potere esercitato, e la
rispondenza ad essa dello snodo ed esito procedimentale, non potrà mai piegarsi alla
funzione economico-sociale cui tipicamente (e teoricamente) assolverebbe un determinato
contatto tra apparato e cittadino richiedente, ma riflette un’ assetto, imparzialmente
strutturato, dove, per dirla con le parole di Santi Romano “si sorpassa la caduca esistenza
degli
individui..si
eleva
aldisopra
di
interessi
individuali,
contemporandoli
e
armonizzandoli..ricollegando con intima..continuità di tempo, di azioni, di momenti, di fini
e scelte diverse..” di cui, il procedimento è tipica e comprensiva espressione.
Cerulli Irelli, recentemente, ha osservato che il diritto pubblico e diritto privato operano
come tecniche di tutela che il legislatore, più o meno razionalmente, utilizza in
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considerazione degli interessi da tutelare e dei risultati da raggiungere. Invero, appare
ancora lunga la strada per il ricongiungimento dei due diritti.
Con maggior impegno esplicativo, nell’ interferenza di origini civilistiche e dei derivati
approfondimenti in sede amministrativa (memori del monito di S. Romano che “un
ordinamento è molto più di una raccolta di leggi”), è necessario verificare la compatibilità di
poste attive risarcitorie (nell’ accezione non patrimoniale) con la spendita di autorità
veicolatà comunque in un processo, in cui, come ribadito dal decreto correttivo n 195/2011,
è immanente il riflesso dell’ interesse pubblico che connota l’ esercizio del potere delle
amministrazioni, così giustificando rilevazioni e interventi d’ ufficio a delimitazione del
principio dispositivo delle parti (su cui torneremo nel prosieguo).
L’ intreccio di profili sostantivi e processuali conduce non più a mere logiche cassatorie
attizie, con riedizione incerta della p.a., ma a marcare l’ introduzione di un meccanismo che,
nella vocazione al rispetto del limite funzionale del potere pubblico, risponda alle esigenze
di piena cognizione e tutela del rapporto amministrativo, di accertamento della spettanza del
bene della vita anelato dal privato e inciso dall’ agere burocratico (sol così nel giudizio si fa
compiutamente “questione di un rapporto tra chi detenga un’ autorità e chi ne sia soggetto” Benvenuti-).
Ciò è reso possibile, altresì, da una rivalutazione del nesso funzionale tra procedimento e
processo, con l’ elaborazione di indici sistematici (vieppiù avvalorati dal rinvio esterno al
c.p.c. postulato dall’ art. 39 cpa) che sostengono l’ impulso del giudice a entrare nella
valutazione organica del primo, senza per questo voler esercitare vincoli anomali che
tradiscano la separazione degli assetti di Montesquieu, ma dando vita a un sindacato che,
senza limitazione, accerti se il potere, conferito ex lege, sia stato correttamente esercitato.
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La separazione dei poteri così non smarrisce la propria tracciabilità ordinamentale, ma va
intesa per funzioni, rectius per “cicli funzionali” secondo la ricostruzione di Silvestri.
Viene a delinearsi una nuova collaborazione tra processo (frequentemente già nella fase
cautelare) e procedimento, “divenuta, in qualche misura, la forma dell’ equilibrio
istituzionale tra giurisdizione e amministrazione” (Cintioli). Qui giova una breve
precisazione: pur condividendo la tesi, autorevolmente sostenuta, che ravvisa nell’ impianto
codicistico l’ effetto di un distacco tra il processo e la conseguente attività provvedimentale,
potendo la sentenza definire au fond la res litigiosa senza ulteriore appendice autoritativa,
nondimeno può scorgersi un rinnovato legame tra procedimento e iudicium nel segno di una
continuità della regolamentazione dell’ assetto di interessi pubblico-privati che l’
ordinamento persegue, senza vuoti temporali di disciplina e tutela (horror vacui). Simile
prospettiva ricompone morale e diritto (ricordiamo Max Weber, “il diritto amministrativo
funziona se c’ è una dimensione etica”), bonum sibi e giusto legale: l’ obbligo di prestazione
non si separa dal dovere di protezione, il consenso democratico dall’ utile (cfr. Viola).
Questa precomprensione dell’ oggetto, sostanziato dal bene della vita (e in sede
procedimentale, e in quella contenziosa), veicolato da una ragionevole composizione
temporale, costituisce il nocciolo duro del realismo amministrativo: a ben vedere, il termine
di conduzione e gestione dell’ utilità finale, diviene un modo diverso per intendere il ruolo
dei bisogni di tutela, non solo in senso ontologico, ma metodologico. Il tempo, si riporta
così a un principio costitutivo dell’ azione (amministrativa e giurisdizionale), divenendo il
“fatto” che costituisce il punto di partenza delle indagini del giurista nella valutazione del
petitum sostanziale: risalendo oltre per ricercarne il fondamento, il perché e il valore della
sua efficacia.
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L’ interdipendenza strategica tra procedimento e giudizio, che è prodotta dalla condivisione
dell’ esigenza di enucleare la regola compositiva del caso concreto, si fa forte della
considerazione che la
sollecita definizione di assetti antagonistici deve essere cercata
secondo connessioni causali fra certe forme di comportamento cooperativo, la stabilità dell’
azione pubblica e la conservazione o l’ ampliamento di sé.
Dare continuità all’ io e all’ agere autoritativo. Ecco il trade union tra norme di azione e di
relazione: adottando un’ ottica hobbesiana, la misura del diritto è l’ utilità (meglio, se in una
corrispondenza biunivoca). Il fine e il quomodo procedimentale, dunque, non possono
cader fuori dalle possibilità cognitive del giudice. Non è chi non veda una maggiore
tendenza del sistema iuris alla razionalità, che resta compito del giurista “portare alla luce e
costruire fin dove è possibile” (secondo l’ insegnamento di Rescigno). Ma fin dove è
possibile? Non siamo di fronte a un’ impossibile unificazione concettuale, né innanzi a una
questione pregiudiziale (che come tale, è naturaliter fuori dal giudicato, secondo la nota
dottrina di Alberto Romano). I beni giuridici vanno costruiti in funzione dell’ effettività
temporale del diritto, da raggiungere con le tecniche di tutela classica (demolitorioconformativa) e condannatorie, improntate alla effettiva lesione del bene (nullum iudicium
sine iniuria).
Orbene, una visione sintetica del rapporto autorità-cittadino, che involga non solo l’ epilogo
provvedimentale ma la spiegazione del potere secondo la L n 241 del 1990, che costituisce
lo “statuto giuridico” (Scoca) delle pubbliche amministrazioni, si atteggia a presupposto
esistenziale del giudizio amministrativo: l’ oggetto della cognizione risente della intima
continuità di tempo, di azioni, di fini, di momenti e scelte diverse di cui il fatto
procedimentale (che sostanzia la causa petendi) è tipica e comprensiva espressione.
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Trova così fondamento, nella relativa letteratura, la considerazione secondo cui, almeno nei
casi in cui l’ azione amministrativa abbia carattere vincolato, l’ oggetto del giudizio non
potrebbe più limitarsi alla verifica formale del corretto svolgimento della funzione ma
dovrebbe estendersi all’ accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale che il
ricorrente avanza nei confronti dell’ amministrazione, con conseguente estensione della sua
cognizione a tutti i fatti necessari per verificare la rispondenza del contenuto dell’ atto
adottato dalla p.a. alla fattispecie normativa astratta (Cerulli Irelli).
E ciò, nel valicare il mero scrutinio estrinseco di legittimità provvedimentale, implica un
ingresso cognitorio esaustivo del g.a. nel procedimento (considerato sia nelle sue
esplicitazioni positive che negative), topos in cui si incardina l’ essenza del dialogo tra
aspirazione privata e potere, “in cui si giudica e si valuta intorno a pretese concernenti
interessi della vita” (Giannini).
A ben vedere, viene ad attualizzarsi, nel quadro di una cognizione unitaria della vicenda d’
amministrazione e di una sua definizione satisfattiva, l’ idée directrice di Hauriou, che deve
informare compiutamente il contenzioso, orientato “pour la jonction, dans la même instance,
des conclusions à fin d’ annullation et des conclusions à fin de réparation et de restitution”.
Tale assunto rinviene una propria coerenza sistematica negli addentellati codicistici, e in
particolare nell’ art 7, che compendia la ratio sottesa all’ imperativo di effettività, nella
concentrazione, davanti al giudice, di ogni forma di tutela dell’ interesse legittimo: senza
più scontare asimmetrie di difesa e di azioni esperibili a fronte del soddisfo reale che deve
connotare l’ utilità chiovendiana del rito (“chi ha ragione, è giusto che se la veda
riconosciuta senza intollerabili dilazioni”). Non è chi non veda la palingenesi dei fini e dei
presupposti processuali, in una nuova weltanschauung sostanzialistica dell’ oggetto del
processo (si ricorda in tal senso Cognetti e la sua avvertenza di evitare “inutile spreco di
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attività processuale” per effetto del monismo dei soli vizi formali), emergente nitidamente
nel progetto di codice licenziato ab origine dalla commissione istitutita presso Palazzo
Spada. Ivi, nella attinente relazione di accompagnamento, consta l’ esistenza nel nostro
sistema juris di due giurisdizioni, “sostanzialmente ordinarie”: l’ una “attrezzata per erogare
ogni forma di tutela ai diritti soggettivi..l’ altra approntata.. per incalzare, in ogni sua forma,
l’ esercizio del potere, assicurando una tutela del pari ampia e completa, alle posizioni di
interesse legittimo”. Logico corollario diviene l’ elisione di quelle prospettive, pur
autorevolmente sostenute, che depotenziavano tale figura soggettiva come “uno zoppo
importante”, ovvero ne sancivano l’ epitaffio sistemico all’ esito del Dlgs n 80/98: “agonia e
morte ingloriosa dell’ interesse legittimo” (Ledda). Nel suo rilancio applicativo (corroborato
dall’ Ad. Plen., in uno alla centralità del bene della vita), occorre interrogarsi sui limiti della
portata e dei contenuti, al fine di ricostruire i formanti essenziali della sua disciplina
basilare, evitando il problema che “venga scambiato il limite della protezione per l’ oggetto
dell’ interesse protetto” (Scoca).
Le costruzioni giuridiche -si rammenta- non debbono obbedire soltanto ad esigenze di
coerenza logica, ma debbono anche rivelarsi praticamente adeguate: esse cioè, come
precisato da taluni Autori, debbono aderire il più possibile al complesso di valori che si
esprime nel fenomeno regolato, fenomeno che il diritto non sempre può integralmente e
liberamente conformare. Gli studi più recenti, poi, soprattutto ad opera di Scoca, vedono
nell’ interesse legittimo una posizione logicamente distinguibile dal diritto soggettivo e
probabilmente ineliminabile in ogni ipotesi in cui a fronte di un potere pubblico stiano
situazioni di vantaggio del cittadino, le quali non possono che essere, in sostanza interessi
legittimi, comunque le si voglia denominare.
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Insomma il punto discusso sembra centrato sulla supposta subvalenza dell’ interesse privato
rispetto a quello pubblico: questo legame, laddove enucleato in modo quasi contingente e
occasionale, risulta tuttora riproposto da taluni, mentre da altri viene negato in nome della
rivalutazione del carattere soggettivo e diretto della tutela accordata al portatore di interessi
legittimi (Scoca).
E, invero, come lumeggiato da autorevole dottrina, “le situazioni soggettive non sono corpi
compiuti o nozioni ontologicamente immutabili; esse non sono altro che quadri riassuntivi
di tutele.. sono le tutele positivamente accordate che conferiscono sostanza (e fisionomia)
alle situazioni giuridiche soggettive” (Police).
Questo ovviamente, anche a prescindere dalle più generali tendenze a rivalutare il criterio
funzionale su quello strutturale nella costruzione delle categorie giuridiche, e per più
pratiche ragioni. In altri termini parafrasando Kelsen, l’ effettività è requisito
imprescindibile della valenza normativa di un precetto giuridico.
D’ altra parte sia a livello teorico che sistematico consta un orientamento a mente del quale
omnis determinatio est negatio -ricordava Spinoza inneggiando alla vitalità dei concetti, che
ogni definizione restringe il campo delle possibili applicazioni- : antitetico cioè allo schema
concettuale positivista che da sempre informa l’ operatore in materia. Muovendo da una
rivalutazione suggestiva della funzione promozionale del sistema juris (N. Bobbio), si
asserisce che nel diritto i bisogni finiscono per dare vita alle norme ed alle loro
interpretazioni: ciò compendia, dinamicamente, un contenuto dell’ interesse legittimo che
varia con il variare del modo in cui l’ interesse materiale è protetto (Nigro).
Sia un’ apodittica aristotelica che un orientamento suppositorio spingono a ritenere che non
tutte le associazioni tra le idee hanno lo stesso grado di scientificità o la stessa importanza
per la scienza, ma solo quelle che introducono la nota della necessità di valore, che
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giuridicizza l’ obbligo di provvedere e la trasformazione dello stato di fatto in diritto
declinata secondo ragionevole consecutio temporum.
Il nuovo modello interpretativo è, dunque, un peculiare costruttivismo, quale punto di
incidenza tra diritto e fatto (per usare parole di Esposito): è un progetto che si impone ai
ritmi organizzativi d’ apparato, mediandone la differenziazione funzionale e la complessità
relazionale, tramite il comando e i moduli che strutturano la capacità dialettica del
burocrate, portando in un numero sempre crescente di casi, alla soddisfazione necessaria
degli interessi materiali del ricorrente. Soddisfazione necessaria che, in quanto avente ormai
solide basi giuridiche, non si vede perché il g.a. non possa dichiarare e accertare, con le
conseguenze che ne derivano sul piano dell’ effettività.
E allora originando il proprium delle situazioni soggettive dalla pregnanza delle tutele
accordate, si intravede forse la strada di un’ apprezzabile integrità psico-fisica del portatore
dell’ interesse pretensivo? L’ ottica panbiologica, sembra così attrarre anche il bene della
vita esautorato nelle inerzie burocratiche? In tal senso, la casistica, specie anteriormente al
DL 70/2011, parla sempre più di un contenzioso incardinato da domande di riparazione del
danno, asseritamente derivato dal ritardo del comune di residenza, nel rilascio di un
permesso di costruire.
I pregiudizi lamentati, come prevedibile, riguardano spesso sia le conseguenze derivanti dal
ritardo nella stipulazione dei contratti definitivi di acquisto degli immobili edificandi, sia il
danno biologico cagionato dalla condotta omissiva dell’amministrazione. La spiegazione
della responsabilità dell’ ente, richiede in simili evenienze l’ accertamento della colpa
ascrivibile all’ inerzia pubblicistica (non ritenendo, nel caso, predicabili gli assunti della
Corte di Giustizia, in materia di pubblici appalti, sulla configurazione in termini oggettivi
della responsabilità della p.a.). Nel tentativo di rifuggire da un modello asettico di
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rimproverabilità in re ipsa (qualcosa che somigli fin troppo a una somma castigo e a una
rigida identità eventistica), si valorizza, secondo il dettato codicistico e l’ armamentario
istruttorio mutuato dal cpc (compreso l’ interrogatorio formale, tar Milano 1205/2011), la
valutazione organica dell’ iter procedimentale, la complessiva vicenda d’ amministrazione
cui è sotteso l’ assetto di interessi contrapposti. Ciò posto, ne discende, nel ragionevole
impulso del giudice a entrare nel procedimento, che il requisito della colpa vada riferito al
processo generativo dell’ atto illegittimo, alla superficialità e approssimazione
dell'istruttoria tecnica operata, alla sua attitudine a pregiudicare l’ affidamento dei privati e
non alla misura della difformità dai parametri normativi che governano l’ esercizio del
potere amministrativo (in senso conf. C.S. n. 1162/09). In altri termini, vieppiù al ricorrere
delle condizioni di cui al co. 3 dell’ art. 31 cpa (suscettivo di applicazione estensiva), il fatto
procedimentale e non l’ epilogo attizio concorre a qualificare il dato oggettivo rimesso alla
cognizione del g.a., sol così inverandosi quella concentrazione di tutele che compendia il
principio di effettività spiegato dall’ art. 7, in una chiave non meramente promozionale, ma
prescrittiva del diritto al giusto processo (a tanto conduce il “vincolante” combinato
disposto di cui agli art. 1, 2 cpa e 100, 111 e 113 Cost.). Ecco pertanto, (siccome
autorevolmente evidenziato), che l’ ingresso (di più idonei mezzi di accertamento) del fatto
nel processo amministrativo, sembra ormai consentire, senza alcun ulteriore ostacolo, un
accertamento pieno della situazione controversa. E ciò, non soltanto nel senso che l’ atto
amministrativo non irrigidisce il sindacato del giudice, “ma soprattutto in ragione della
forza normativa del fatto, che per essere normalmente espressione di una concorrenza di
elementi (aventi ciascuno una diversa rilevanza giuridica), funziona, nella complessità della
sua verificazione, come più significativo indicatore di coordinamento delle scelte dell’
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amministrazione e come altrettanto significativo parametro di valutazione e di decisione per
il giudice” (Police).
E questa pienezza della cognizione tende a trasformare la natura stessa del processo
amministrativo, in giudizio di parti e nell’ interesse delle parti, nella considerazione della
“parità delle armi” (ossia come eguale opportunità di rappresentare efficacemente nel
processo le proprie ragioni).
Occorre, comunque, una equilibrata composizione del quadro normativo, evitando che un’
emotiva proiezione del diritto sostanziale sulla processura, per conformarla intimamente,
porti a una forzatura del tenore letterale del dato positivo, in cui lo strumento di effettiva
resa di giustizia (che informa gli artt. 24 e 111 della Cost) va coordinato con il principio
della domanda. Se il concetto di diritto soggettivo è divenuto moneta corrente nell’ attuale
cultura giuridica tanto da relegare quello di azione a quinta ruota del carro, il sistema,
tuttavia impone, l’ operatività del principio dispositivo delle parti, da astringere entro
precise maglie temporali (sia pure con i necessari temperamenti), quale fondamento e
misura del potere decisorio.
L’ idoneità a fare stato, tra le parti, del dispositivo e degli assunti motivazionali conforma la
dinamica del rapporto dedotto in causa, secondo i caratteri della stretta consequenzialità e
razionalità oggettiva, così concretandosi anche le istanze di certezza del diritto e di
proporzionata modulazione processuale.
Ed è proprio in questo senso che il processo amministrativo si avvia a diventare un processo
“paritario”: un giudizio in cui, come rilevato da puntuali tesaurizzazioni dottrinali, “davanti
al giudice, gli interessi in gioco sono sempre equivalenti e la disponibilità che hanno le parti
dell’ oggetto del giudizio fa sì che egli assista come termine neutrale al loro combattimento..
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nulla esclude che, paritari o meno che siano i rapporti sostanziali, davanti al giudice le parti
siano entrambe poste sullo stesso piano, siano cioè vere parti” (Police).
Il nuovo codice ha completamente abbandonato l’ idea che l’ apprensione immediata della
realtà costituisca una prerogativa della giurisdizione di merito (per una significativa
comparazione tra il sistema istruttorio recato dalla novella codicistica e quello previgente in
cui la cognizione diretta del fatto da parte del g.a. era stata concepita come riservata alla
giurisdizione di merito si veda Scoca, commento all’ art. 63 in Il processo amministrativo,
commentario al d.lgs 104/2011), ed ammette ora, anche nel giudizio di legittimità, l’
esperimento di mezzi di prova, quali la Ctu (nella duplice accezione disegnata dalla
giurisdizione civile, deducente -di valutazione dei fatti- e percipiente -di accertamento degli
stessi-) o la prova testimoniale, che consentono di avere piena ed autonoma contezza delle
circostanze rilevanti ai fini del decidere. D’ altronde sul punto la relazione al codice, è
chiara nell’ affermare che “ il principio del giusto processo ha trovato poi la sua piena
espressione nella previsione della prova testimoniale anche nel giudizio di legittimità, che
costituisce segno indubbio dell’ approdo del processo al giudizio sul rapporto”.
Parafrasando quanto assunto da Fazzalari nella dinamica del processo civile, potremmo
concludere come l’ accento suole porsi sul rapporto tra misura giurisdizionale e interesse al
bene, in cui si inscrive l’ oggetto del processo amministrativo, il quale non ha come profilo
identitario il provvedimento ma il rapporto che intercorre tra l’ amministrazione e il privato.
Con la consueta lucidità, Scoca al riguado sottolinea: “dire che l’ oggetto del processo è il
rapporto amministrativo significa che il giudice conosce degli interessi che sono coinvolti
nel provvedimento amministrativo che viene impugnato; conosce cioè della legittimità dell’
assetto degli interessi che viene determinato dall’ amministrazione mediante il
provvedimento”.
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Mutando l’ oggetto su cui si incardina lo ius dicere del g.a., va quindi rimeditata l’ attività
istruttoria considerata come il momento in cui si incontrano i protagonisti del processo e i
loro interessi, “un momento centrale in cui, attraverso una serie di attività poste in essere
congiuntamente dalle parti e dal giudice, si radicano le fondamenta della pronuncia
giurisdizionale sul solido terreno della realtà dei fatti .. Per questo suo tratto caratterizzante,
l’ istruttoria è necessariamente ancorata al rapporto processuale dalla cui definizione
dipende ed alla cui definizione concorre” (Police).
In passato, la regola processuale secondo cui graverebbe sul ricorrente solo il principio di
prova (“intermediato dalla estensione oggettiva per effetto dell’ attività acquisitiva del
giudice”-Benvenuti-), finiva per ascrivere, al più, in capo al ricorrente l’ onere di fornire uno
schema attendibile di ricostruzione storica e valutazione giuridica degli avvenimenti (così
Cannada Bartoli), con l’ effetto di riversare sulla p.a. l’ onere suppletivo della dimostrazione
del contrario (o della introduzione del fatto contrario per dirla con Benvenuti), implicando a
suo carico preclusioni di tipo sostanziale o processuale (per quest’ ultimo profilo, il
riferimento è in particolare alla tesi di Piras, secondo cui il principio che il giudicato copre il
dedotto e il deducibile si applicherebbe anche al processo amministrativo di legittimità). Ciò
è tradizionalmente dovuto a due fattori: - la posizione di supremazia dell’ amministrazione
rispetto al privato nella costruzione della propria decisione, che abbisogna di un riequilibrio;
- la obiettiva difficoltà del ricorrente di accedere alla complessa sequenza procedimentale e
di poterla a sua volta conoscere e “dominare”, il che escluderebbe da questo speciale
alleggerimento dell’ onere probatorio il caso in cui i fatti siano nella completa disponibilità
dell’ attore (v. Caianiello). Essa è stata posta in discussione a seguito dell’ affermarsi di
nuovi casi di giurisdizione esclusiva e di un modello di giurisdizione di legittimità con pieno
accesso al fatto ed ancorato alla logica della spettanza (Lipari).
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In base a un’ evolutiva impostazione, l’ amministrazione dovrebbe prospettare nella
motivazione del provvedimento impugnato, o, al limite, mediante un’ attività integrativa
della stessa da compiersi nel corso del giudizio, tutti i motivi ostativi all’ accoglimento dell’
istanza privata, dimodochè, dopo la pronuncia di annullamento dell’ atto negativo non
possano residuare spazi liberi per l’ adozione di un nuovo provvedimento lesivo dell’
interesse pretensivo spiegato dal ricorrente. In proposito, nel segno sempre di un
inveramento della concentrazione processuale, non possono dimenticarsi quegli esercizi di
giurisprudenza creativa (C.S. n 134/’99 e in senso conf. n. 633/2010), che mossi dall’
esigenza di porre fine a un certo punto alla controversia tra privato ed ente, introducono un
peculiare divieto di ne ter in idem, a cui tenore dopo la sentenza di annullamento, l’ ente ha
l’ obbligo di esaminare l’ «affare» nella sua interezza, non potendo nel prosieguo, all’ esito
di un’ ulteriore caducazione del suo intervento provvedimentale, indulgere su un altro
diniego attizio, neanche a cagione di profili asseritamente non esaminati in precedenza.
Aldilà della condivisione di simile esegesi, all’ epoca criticata da Virga per la carenza di
basi normative, va tuttavia rilevata la ratio che la contraddistingue: la definizione tempestiva
dell’ assetto di interessi contrapposti, che in primis presidia i ritmi procedimentali, e
successivamente la soluzione contenziosa, così arricchendo la portata precettiva delle norme
di tutela, segnandone dapprima la giuridicità cogente (art. 2 bis l 241/90) e poi la scansione
giurisdizionale (in tale iter di introduzione immanente del tempo nell’ utilità petita,
significativo apporto, su ascendenze comunitarie, è stato dato altresì dalle S.U., ove si
rimarca che l’ effettività di tutela rechi ex se la ragionevolezza dei tempi della stessa –cfr
S.U. 13659 e 13660 del 2006).
Tali teorie sono state, tuttavia, elaborate in un’ epoca in cui il processo amministrativo di
legittimità era basato esclusivamente sull’ azione costitutiva di annullamento e risentivano
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dello sforzo di rendere compatibile tale azione (con la quale il ricorrente non poteva
formalmente avanzare una pretesa ma solo impugnare un atto lesivo) con i principi
costituzionali di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale. Il cpa, segue una
strada diversa in quanto opera l’ allargamento dei tradizionali confini del giudizio di
legittimità non attraverso l’ ampliamento dell’ oggetto dell’ azione di annullamento, ma
affiancando ad essa altre azioni, come, appunto, quella di condanna pubblicistica, che, pur
essendo accessoria a quella costitutiva, rimane distinta da essa quanto a petitum e,
soprattutto, a causa petendi.
Pertanto, qualora il ricorrente intenda ottenere non solo l’ annullamento del provvedimento
impugnato e gli effetti conformativi che ne conseguono, ma anche il pieno riconoscimento
della sua pretesa (ove ciò, naturalmente, sia compatibile con l’ esercizio del potere
discrezionale della p.a.), non potrà limitarsi a dedurre in giudizio specifici vizi di legittimità
del provvedimento lesivo ma dovrà condurre la cognizione del giudice su tutti gli elementi
del rapporto di cui si chiede l’ accertamento (Greco). In altri termini, l’ istruttoria
dimostrativa deve avere un carattere genetico, cioè “produrre” l’ oggetto, e quindi l’ assetto
di interessi sotteso al rapporto dedotto, con una distribuzione dell’ onus probandi secondo lo
statuto di cui all’ art. 2697, avendo riguardo alla vicinanza e disponibilità degli elementi di
fatto utili a decidere.
Occorre osservare al riguardo che, mentre nel sistema germanico il giudice opera
autonomamente dalle richieste di parte in funzione della ricerca della verità, nel nostro
processo amministrativo, ormai improntato al coefficiente dispositivo, i poteri di intervento
officioso del giudice sono meramente sussidiari ed integrativi delle attività processuali delle
parti a cui spetta definire il tema decisorio e probatorio della causa (sul punto Scoca).
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Come risaputo, la funzione di ogni giudizio è sempre duplice: da un lato assicurare la
certezza nei rapporti giuridici (privilegiata dalla tradizione demolitoria-conformativa) e,
dall’ altro, assicurare la verità o, il che è lo stesso, la giustizia. Ebbene, il nuovo cpa va
interpretato, precipuamente, secondo il principio fondamentale contenuto nell’ art. 100
Cost., secondo il quale i giudici amministrativi devono assicurare la giustizia nell’
amministrazione e, cioè, devono garantire che la funzione amministrativa si concreti
osservando il principio di giustizia di cui i giudici sono, o dovrebbero essere, attuatori o
garanti. La norma fondamentale che, pertanto, deve ispirare la giustizia amministrativa (per
evitare che il predicato collida con il soggetto) è l’ art. 100 Cost di cui, a bene vedere, i
successivi 103 e 113 sono coerenti proiezioni. Viene a iscriversi senza residui in tale
contesto, l’ art 24 che contiene l’ affermazione dell’ azione gidiziaria come diritto
soggettivo dell’ uomo, inteso a far valere qualunque situazione giuridicamente tutelata; art.
24 che cioè riconosce il diritto al processo come strumento di effettiva resa di giustizia, non
coercibile con la tipicità delle azioni che, del resto, va evolvendosi positivamente anche
secondo il nuovo cpa (Abbamonte).
Come autorevolmente sottolineato, si tratterà infatti di utilizzare il poliformismo sistemico
dei rimedi che si legge nella novella codicistica, nel senso di derivarne un modello di azione
ricettiva delle istanze di giustizia fondate su fonti di diritto idonee a riconoscere una pretesa
come giuridicamente tutelata.
Tanto delineato, ne deriva che l’ apertura del giudizio amministrativo verso il fatto ed il suo
accertamento, sembra restituire rlievo non minore alla ricerca della verità (Police). Si
impongono nuovi vincoli logici: alla verità come corrispondenza alla astratta legalità, si
sostituisce la verità come coerenza interna di legittimità e spettanza. Bisogna, pertanto,
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trarre tutte le conseguenze dall’ applicazione del principio verum-factum, cioè dall’
identificazione tra conoscere e operare
Giova ricordare, quanto significativamente anticipato più di dieci anni fa, sulla base di una
composita ricostruzione dottrinale, come nel plein contentieux francese, anche il giudice
amministrativo italiano può ora intervenire non solo (e non tanto) sulla legittimità di un atto
amministrativo, “ma anche e soprattutto sui problemi di «merito» relativi ai rapporti
sostanziali dedotti in giudizio..”, con “pronunce idonee..a produrre oltre all’ annullamento
dell’ atto, una condanna risarcitoria per equivalente, ovvero altra condanna all’ esecuzione
in forma specifica (diversa dal semplice annullamento dell’ atto)” (Police).
Pare, quindi, pienamente condivisibile l’ assunto secondo cui la trasformazione del giudizio
di annullamento in giudizio ordinario dipende, in larga parte dalla profondità di
penetrazione del giudice nella zona del fatto (Nigro).
E ciò trova indeclinabile giustificazione, sul piano della matura esperienza giuridica, nel
dato che la posizione stessa del momento istruttorio, che sta tra l’ affermazione e la
decisione, conferma, se ce ne fosse bisogno, “che l’ istruzione è mezzo per un giudizio non
solo di esistenza ma anche di valore” e che “l’ elemento di cui si serve è la prova”
(Benvenuti).
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E ciò, in un nuovo quadro in cui al ricorrente viene processualmente offerta la possibilità di
avvalersi di presunzioni semplici, ai fini dell’ eloquenza dimostrativa della mancata
diligenza della p.a.. e delle conseguenti voci risarcibili.
Più nel dettaglio, a fronte del nihil agere pubblicistico, meritano attenzione gli individuati
stimoli esterni capaci di influenzare negativamente le capacità di adattamento di un
soggetto,
che “non ha saputo opporre adeguate risposte sul piano dell’elaborazione
esistenziale" (non di rado così descritto il vulnus alla salute -vista anche in una sua opinabile
apertura esistenzialista, sulla falsariga del codice ass. priv.). Alla base, un illecito di
carattere permanente, costituito dall’inerzia della p.a. nel provvedere su un’ istanza privata,
che assume particolare valenza negativa, derivando dall’ingiustificata inosservanza del
termine di conclusione del procedimento, che il legislatore ha, di recente, elevato all’ambito
dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, ai sensi
dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.. Inequivoca si appalesa, l’ erosione della tradizionale
posizione autoreferenziale dall’ ente pubblico, a favore di un’ ottica antropomorfica,
partecipata dalla Carta dei diritti Fondamentali dell’ Unione Europea, dove i cittadini non
sono semplici spettatori ma protagonisti dell’ agire amministrativo, condizionandone, già a
monte, modalità e tempi del suo operare. Ci si muove, verso un ordinamento ove l’ esercizio
del potere pubblico avviene nell’ ambito di rapporti giuridici in cui i soggetti si scontrano in
posizione sostanzialmente paritaria, essendo ciascuno (pubblico o privato) portatore di
situazioni protette, in differente modo dalla legge, e operanti nello spazio a ciascuno
riservato dalla legge: “il punto logico di partenza” (da intendere: il fondamento della nostra
disciplina), che Ranelletti identificava nello stato (e non nella libertà) si ribalta nel primato
della libertà sullo Stato; cioè, appunto, nella pari dignità delle situazioni protette dalla legge,
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pubbliche o private che siano, come quelle che allo stesso modo accedono alla tutela
giurisdizionale” (così in un recente intervento di Cerulli Irelli).
Sembra di riascoltare le parole di Mortati, l’ accoglimento del suo monito, quando
sottolineava l’ assenza nella teoria istituzionale dell’ ordinamento dell’ atto di volontà del
soggetto, senza cui “l’ ordinamento resta qualcosa di superiore e di assorbente che congloba
e inghiotte nella sua unità il soggetto e che in sostanza lo priva di ogni funzione e di ogni
autonomia”.
Come ha osservato Catania, nella suddetta teoria, “scompaiono proprio gli uomini, con le
loro tensioni, con le loro passioni, con il dialettico rapporto con il diritto, che ora è positivo,
di utilizzazione, ora è negativo, di rottura e di deviazione. È proprio questa dimensione di
possibilità e di non coincidenza che manca all’ interno dell’ organizzazione romaniana:
società, quel poco di società che si riesce a intravedere nel suo modello, è totalmente in
ordine e presentata in modo aconflittuale”. Paradossalmente viene a mancare “la dimensione
dell’ effettività che, per esempio, gioca un ruolo dinamico in concezioni normativistiche
quali quelle di Kelsen e di Hart”.
Assistiamo, in quest’ ottica, a declinazioni sul versante ordinamentale del principio di
uguaglianza (in cui culmina la trasversale imparzialità- C.S. n. 2070/2009), coniugate a
necessità di equilibrio decisionale (temporalmente sostenibile), tra presupposto e
conseguenza: imparzialità come appendice del principio di legalità della funzione
amministrativa, la cui predicabilità non transita per la natura pubblica o privata degli
strumenti usati per l’ esercizio del potere discrezionale. Allegretti, al riguardo, ha
chiaramente rilevato che anche quando l’ amministrazione agisce mediante moduli
privatistici, non è titolare di poteri di autonomia privata, con ciò escludendo l’ utilizzazione
tout court per l’ amministrazione delle categorie civilistiche, e nella specie della qualità di
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parte in senso privatistico, intesa cioè quale soggetto portatore di un proprio egoistico
interesse. È infatti la pubblicità dei fini, elemento di discrimen tra l’ autorità pubblica e l’
autonomia privata, ad assicurare la natura imparziale dell’ azione amministrativa.
Con la generalizzazione procedimentale, e il passaggio da una “amministrazione d’ ordine”
a una “amministrazione di prestazioni”, la crescente differenziazione funzionale e
complessità relazionale inducono a guidare la dialettica democratica tra interesse pubblico e
privato secondo il canone della giusta misura, della proporzione. E così, “la prevalenza della
cosa pubblica alla privata, entro i limiti della vera necessità, colpisce non il fine o l’ effetto,
ma il semplice mezzo” (secondo il comunitario ante litteram Romagnosi), e la formazione
sociale amministrativa valuta tempestivamente in termini di valore, di comparati beni della
vita che dimensionano il proprium dell’ interesse legittimo. Il dovere di solidarietà sociale
imposto dall’ art 2 della Grundnorm dialoga con l’ iniziativa privata, in una composizione
costituzionalmente orientata (artt. 2, 3, 41 e 42 Cost.) che dà vita a pretese azionabili, rivolte
a chiedere la loro osservanza da parte degli organi cui spettano le relative attribuzioni
gestorie. Ma seppure l’ attenzione riservata alle dinamiche della giustizia amministrativa si
muove su “concetti giuridici che non hanno pace” (Irti), sembra ormai pacifico l’ approdo di
qualificata dottrina: un’ ontologia dell’ interesse legittimo sul piano squisitamente
procedimentale non porta molto lontano. Si finirebbe per rendere inautentico il favor
mostrato, financo in sede codicistica, per l’ utilità “petitoria” che muove il ricorso a una
pronuncia satisfattiva (in una versione chiovendiana).
Gli ermellini talvolta (Cass n. 157/03) hanno costruito il sostrato dell’ interesse legittimo nel
rispetto delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione (“alle quali l’
esercizio della pubblica funzione deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in
quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”), assumendo un carattere del
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tutto autonomo rispetto all’ interesse del bene della vita, che verrebbe marginalizzato come
“punto di riferimento storico”. Riproponiamo tale asserita marginalizzazione per confutarla,
e ciò comunque nel rispetto della pregevole costruzione di una “responsabilità
paracontrattuale da contatto sociale” della p.a., riconoscendo, espressamente che dal
procedimento amministrativo scaturiscano necessariamente “dei doveri funzionali di
legalità, imparzialità ed efficienza gravanti sull’ amministrazione”, di cui Ferrara, nel
sottolineare acutamente il parallelismo tra la situazione in cui versa la p.a. e l’ obbligazione
di mezzi, riconosce che anche l’ oggetto di tali obblighi, unitariamente considerati,
corrisponde a un comportamento strumentale rispetto alla soddisfazione di un interesse
finale, o materiale. Ma a ben vedere, come peraltro sostenuto, tali doveri danno luogo a
pretese soggettive distinguibili dall’ interesse legittimo e di cui può predicarsi, in caso di
loro lesione, solo il pagamento di un equivalente pecuniario (si badi, unica forma di
risarcimento consentita in assenza di un obbligo primario di prestazione -Passoni).
La tesi della responabilità da contatto ha il pregio di irrobustire le maglie di tutela del
cittadino, determinando la possibilità di concedere la riparazione a prescindere dalla
spettanza del bene della vita (bonis soluta), afferendo solo al modo di esercizio del potere e
all’ imperatività della sua correttezza: il pregiudizio non viene più ricondotto alla perdita
dell’ utilità sostanziale cui il privato aspira, ma all’ inadempimento del rapporto che si
genera in relazione all’ obbligo imposto dalla norma (Protto). Nondimeno bisogna essere
cauti nel foraggiarne l’ applicabilità, dato che una simile tesi può condurre al rischio di un
risarcimento senza danno, prescindendo non solo dall’ elemento colposo, ma dalla stessa
conseguenza lesiva, con un automatismo che induce a massimizzare il rilievo delle pretese
partecipative, piuttosto che degli interessi sostanziali: l’ an e il quantum sarebbero declinati
in una sorta di nessun dove alla Neil Gaiman, con vuoti di riscostro probatori. Con ciò,
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siccome osservato da autorevole dottrina (Villata), non si vuole negare che il privato possa
subire un danno non collegato al cd. interesse al bene, ma va escluso che tale incisione
possa essere riconosciuta in via automatica, senza una sua rigorosa valutazione in uno al
nesso di causalità con la norma procedimentale violata, così inverando il rispetto delle
regole per la forma della funzione, le quali non vengono stabilite per ragioni meramente
esteriori, ma per la tutela “proporzionata” dei principi di garanzia, partecipazione e
trasparenza. Altrimenti opinando, giungeremmo, al più, a confuse sovrapposizioni tra
diverse categorie giuridiche (timore che pur anima i Collegi nelle varie stesure
motivazionali), riducendo la protezione della situazione giuridico-soggettiva al mero riflesso
di doveri che conformano in modo obbiettivo il dispendio di attività pubblicistica (corollario
ben evidenziato da tempo da parte di Scoca).
Orbene, riconoscendo all’ interesse legittimo una mera subalternità rispetto ad un interesse
sostanziale che può essere soddisfatto soltanto dall’ azione giuridica altrui, ciò che viene
tutelato è solo la garanzia di affidamento del privato nel legittimo esercizio dell’ attività
amministrativa.
Non è chi non veda la parzialità di simile assunto, per le trasformazioni irreversibili che
hanno “cambiato pelle” alla formazione della volontà amministrativa, al suo incontro e
confronto con la pretesa del privato, finendo per disattendere, peraltro, l’ approccio
sostanziale alla stregua del cosiddetto standard minimum europeèn. A tutto concedere, pur
valorizzando i principi di efficacia, trasparenza e democraticità dell’ agere pubblicistico,
consacrati dalla legge 241/90 (e ravvivati da un nuovo clima di procedural justice europea),
non può trascurarsi come il bene della vita sia il clinamen che attraversi il procedimento
amministrativo, il quale intercetta l’ interesse legittimo colto nella sua unità di significato
sostanziale: parafrasando le parole della Cassazione, “nel dibattito sull’ eterno problema..si
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insinua oggi, a differenza che in passato, il disagio di misurare il contatto dei pubblici poteri
con il cittadino secondo i meri canoni del principio di autorità, della presunzione di
legittimità dell’ atto amministrativo”. Gli stilemi che informavano la supremazia speciale dell’
ente pubblico sono assorbiti dalla solidarietà di cui all’ art. 2 della Grundnorm (e in seno alla
“formazione sociale” par excellence), in una versione dinamico-assiologica che elide l’ asettica
corrispondenza all’ interesse generale, il quale non è compos sui, ma esposto a una ragionevole
comparazione con i valori privatistici coinvolti. Muovendo dalla tesi dei blocchi normativi di
Nigro, nella tensione funzionale dell’ agire pubblicistico, deve approdarsi a quel giusto
equilibrio (non di rado decantato dalla Corte Europea) tra valori collettivi ed esigenze
imperative di salvaguardia di “interessi essenziali” dei cittadini, di cui il tempo può
concorrere ad irrobustire i margini pretesivi (v. in tal senso le propagazioni della lontana
sentenza del 1957, della Corte di Giustizia, Algera), sacrificabili solo con esauriente
motivazione secondo “buona e debita forma”. Altrimenti opinando, passeremmo dalla
formula di Zanobini dell’ interesse occasionalmente protetto a quello proceduralmente
assistito, che (per usare il tono di necessità garantistica che preoccupava le analisi del
Carrara), non troverebbe altra guarentia, in prima battuta, che la coscienza e la religione
degli amministratori, in rigido ossequio all’ asimmetria sintetizzabile nella vuota formula
potere-soggezione.
In conclusione, come lumeggiato da taluni autori, la partita sembra andare aldilà della
questione processuale per attingere al cuore del rapporto tra autorità del potere e libertà del
cittadino.
E allora, in un quadro prospettico scandito dall’ effettività precettiva degli artt 24, 100, 103
e 113 Cost., particolarmente efficace resta il monito di Giannini, che si impone all’ in fieri
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giuridico-dottrinale (come un “possesso per sempre” tucidideo): “se le situazioni soggettive
si definiscono in ordine ai beni della vita, non si intende come la legittimità di un atto (cioè
la qualificazione astratta di un atto) possa essere vista come bene della vita”. È proprio
questa consapevolezza che incardina il pluralismo di tutele del cpa, la catarsi “petitoria” del
giudizio amministrativo, da apostrofo guicciardiano, a misura di verifica giudiziale di
spettanza del bene della vita, di scandaglio del rapporto: il ricorso perde la sua mera
vocazione demolitoria alla verifica parentetica del rispetto del limite funzionale, per
assumere caratteri di una rinnovata Weltanschauung che indaghi la meritevolezza di tutela
della posizione (la quale non si esaurisce, a ben vedere, in una semplice confiance lègitime)
del cittadino che fronteggi il potere pubblico.
L’ agire dell’ amministrazione si fonda quindi su un canale decisorio e valutativo,
essenzialmente partecipato dai tempi di realizzazione dell’ interesse legittimo. Tempi che
finiscono per astringere e veicolare anche le ricadute patologiche del processo, in quanto
partecipano dell’ intima essenza dell’ utilità sostanziale e della sua apprensione, dal contatto
procedimentale al soddisfo giudiziale: “tipizzazione procedimentale e processuale del
tempo”. Del resto, in consonanza all’ art 111 Cost, proprio perché la ragionevole durata di
definizione dell’ istanza (conservativa o pretensiva) marca dapprima il piano giuridico dell’
obbligo di provvedere e poi quello della tutela giurisdizionale, “il momento del giudizio è
veramente il momento culminante dell’ ordinamento, almeno in un ordinamento di uomini
eguali, il momento in cui l’ ordinamento celebra il rito della sua giuridicità “ (Orestano)
Ne deriva quale logico corollario, la concentrazione processuale coniugata all’ effettività, in
cui (in esito alla conclusione procedimentale, in applicazione all’ ente pubblico del
brocardo, functus est munere suo), il giudice non interviene sul persistente potere della p.a.
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ma giudica del suo consumato esercizio. In un quadro simile, per effetto dell’ innesto del
principio di non contestazione, il dictum giudiziale non si risolve in una precaria
conformazione de futuro dell’ azione pubblica, ma guarda e risolve la situazione controversa
quale cristallizzata nel thema decidendum ac probandum partium, così che il controllo
giudiziale avrebbe a oggetto il passato (e non si proietterebbe sempre nel futuro): ciò
recherebbe coesione sistemica all’ anticipazione della tutela esecutiva alla fase di
cognizione (plausibile, secondo il tenore dell’ art. 34, lett. c, cpa). Così realizzandosi la
calazante avvertenza, secondo cui la domanda giudiziale deve ricevere soddisfazione come
se non vi fosse distacco temporale fra domanda, pronuncia giudiziale e attuazione di questa
(Nigro).
In un nuovo quadro aziendalistico della macchina pubblica votata al risultato (c.d.
performance oriented), la competitività è data dalla puntuale risposta all’ istanza del privato,
in un confronto che pone alla giuridica attenzione, nel quadro di utilità sostanziali incidenti
nei rapporti p.a.-cittadino, non solo compromissioni del reddito, ma anche violazioni dei
valori della persona: essi emergono sul versante risarcitorio in via conseguenzialistica, nel
traguardo costituzionale di un irriducibile “valore etico in sé”, di cui sancire il rispetto in
qualsiasi momento della sua vita e nell’ integralità della sua sfera di relazione (Cass. n.
2847/2010)…friendly administration, how are you?
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