NATURA E SOCIETA' NEL PENSIERO DI EDMUND BURKE PREMESSA La presente edizione del saggio sulle origini del pensiero politico di Edmund Burke, già pubblicato nella Collana dell'Istituto di Filosofia del diritto e di studi storico - politici della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa nel 1966 Dall’Editore Giuffrè, comprende due nuovi capitoli, IV e V, dedicati a due altri scritti di Burke che completano il panorama degli interessi filosofici e storico politici del giovane Autore: A Philosophical ENQUIRY into the Origin of our Ideas of the Sublime ami Beautiful (1757), An Essay towards tm ABRIDGMENT of the English History (1757-1762). Si è potuto così approfondire il discorso che Burke aveva iniziato con il primo scritto, A VINDICATION of Natural Society (1757), per quanto riguarda la sua critica della filosofia e della ragione illuministiche nella “versione” che ne davano Bolingbroke e Hume, critica che ebbe ulteriori svolgimenti e precisazioni sia sul piano dell’estetica, fondata sull’analisi dei sentimenti e delle passioni che precedono il nostro giudizio, sia su quello della storia delle origini e della formazione della società e della nazione inglesi. Abbiamo pertanto ritenuto opportuno rivedere ed ampliare il capitolo VI, dedicato alle origini del pensiero politico di Burke, e precisare così il suo preromanticismo, che caratterizza per tanti aspetti il suo pensiero politico e storiografico Roma, dicembre 2007 UNO LA POLEMICA CON BOLINGBROKE Nella primavera del 1756 usciva a Londra per i tipi di Dodsley un piccolo saggio anonimo, dal titolo quanto mai cattivante per quanti si interessavano di argomenti politici, soprattutto quando erano svolti con una contrapposizione decisa e polemica: A vindication of natural society: or a view of the miseries and evils arising to mankindmfrom every species of artificial society. In a letter to lord …..by a late noble writer. Non era un saggio dotto, austero, ricco di citazioni atte a documentare le tesi che vi erano svolte con lo scrupolo pedante e puntiglioso di chi intende far tacere gli avversari per sempre; era invece uno scritto agile, elegante, di piacevole lettura, caratterizzato da uno stile pressoché perfetto, senza “cadute” od “intoppi”, che consentiva di svolgere gli argomenti in modo “discorsivo”, con una serie di osservazioni brillanti e nello stesso tempo acute: si avvertiva che il discorso, alla fine, non mancava di un suo impegno profondo, nel senso di reclamare dal lettore una partecipazione viva alle conclusioni che vi si prospettavano. Ciò che colpì i lettori fu lo stile, unitamente al particolare modo di argomentare, e alle tesi sostenute. Non potevano esserci dubbi, almeno per alcuni, lo scritto anonimo doveva essere attribuito a Lord Bolingbroke, del quale erano state pubblicate due anni prima, in una “autorevole” edizione - quattro volumi in ottavo grande - le opere: evidentemente questo scritto doveva essere sfuggito al Mallet che aveva per l’appunto curato l’edizione. L’episodio non mancò naturalmente di suscitare perplessità e un certo risentimento dello stesso Mallet e degli amici del Bolingbroke che avevano promosso l’edizione delle sue opere, tanto che, a quanto si ricorda, sentirono il bisogno di recarsi dal Dodsley per fargli esplicita richiesta della “provenienza” dello scritto anonimo, che a quanto risultava loro non era compreso fra le carte del Bolingbroke. Un vero e proprio “caso letterario” che contribuì naturalmente al successo, alla diffusione del saggio anonimo e che si risolse nell'anno successivo quando Dodsley pubblicò la seconda edizione: questa volta, però, compariva il nome dell’autore, un nome sconosciuto negli ambienti letterari, mondani, politici di Londra, un giovane irlandese, Edmund Burke. La of natura society è il primo scritto, di un certo impegno filosofico - politico, con il quale Burke debuttò nel mondo politico e letterario londinese: esso sostanzialmente conclude un periodo della sua vita caratterizzato dalla incertezza di operare una scelta definitiva fra la sua viva vocazione di scrittore, appassionato di problemi letterari, estetici, filosofici e politici, in quella dimensione propria della cultura illuministica, specialmente inglese, nella quale l’impegno “letterario” è vissuto in stretta connessione con quello civile o più propriamente politico, e la professione legale alla quale lo voleva destinato la volontà paterna. Aveva studiato dal 1744 al 1750 al Trinity College di Dublino, l'università che tanto lustro doveva ricevere dall'insegnamento di Berkeley ed era stato subito notato per la sua passione per i classici, per la sua intelligenza viva, per la sua parola facile, brillante, per le sue qualità oratorie, che dovevano poi renderlo famoso. I suoi interessi culturali avevano un chiaro orientamento umanistico-letterario che per molti aspetti ispira e sollecita i suoi studi di storia, di filosofia e di politica, nei quali assumono particolare rilievo gli argomenti e le questioni dì carattere etico-religioso. A quanto è dato sapere, non amava troppo gli studi di logica che molto probabilmente, dato il suo “temperan1ento" intellettuale, gli sembravano volti a mortificare la spontaneità e la discorsività del ragionamento. Nel 1750 il padre lo aveva mandato a Londra perché iniziasse gli studi di diritto per dedicarsi poi alla carriera forense, ma la nuova esperienza di studio al Middle Temple, dovette ben presto convincerlo che fra il diritto colto nella sua viva dimensione storico-politica e il diritto dei giurisperiti, dei giudici, degli avvocati, con tutto il complicato corredo di formule, di principi, d'eccezioni, intercorreva una profonda differenza e che il secondo si riduceva, infine, ad un arido tecnicismo al quale si ribellava il suo temperamento, e finiva col contrastare con la sua precedente formazione spirituale e culturale. Il suo epistolario testimonia le sue “perplessità”, il contrasto fra le sue vocazioni e il desiderio di rispettare la volontà paterna. Nell’aprile del 1751 scriveva al suo caro amico Shackleton: “ la mia salute è tollerabile, ringrazio Dio, i miei studi anche nello stesso modo, e la mia situazione non è spiacevole”; ed ancora nell’agosto del 1751 dava notizia all'amico dei suoi studi legali, con poco entusiasmo, e con la magra consolazione che, alla fin fine, un mediocre “legale” vale, nella considerazione sociale, almeno tre volte un mediocre poeta; ma doveva constatare dì fare scarsi progressi nello studio del diritto, che certamente non presentava alcuna difficoltà per coloro che erano disponibili ad apprenderlo, ma non per quelli che non ne avevano alcuna intenzione. Molto probabilmente fra il 1753-1754 Burke dovette abbandonare gli studi legali per cominciare ad interessarsi, con una certa continuità, di questioni letterarie in modo da poter iniziare la carriera del pubblicista che riteneva più confacente alle sue attitudini ed alle sue vocazioni culturali. La religione è indubbiamente un costante punto dì riferimento nella formazione culturale del giovane Burke ed i problemi che comporta per quanto riguarda la convivenza umana costituiscono le premesse di fondo dei suoi interessi e dei suoi scritti di estetica, di filosofia, di storia e di politica. La religione era un connotato essenziale della sua tradizione di famiglia: suo padre Richard era un cattolico che si era convertito all’Anglicanesimo per poter continuare nella professione forense; la madre era rimasta cattolica e vi aveva educato la figlia. Il suocero di Burke era anch’egli cattolico, ed aveva sposato una fervente presbiteriana, che aveva educato la figlia al protestantesimo. Burke, allevato nella confessione religiosa paterna, visse nella sua giovinezza e nella sua maturità, soprattutto per i vincoli parentali, un’esperienza religiosa caratterizzata da un impegno al dialogo interconfessionale sia nel protestantesimo sia fra questo e il cattolicesimo. E forse proprio questa esperienza di divisione religiosa, pur nella comune convinzione cristiana di una sola fede e di un solo battesimo, che induce Burke a confessare al suo amico Shackleton che egli è ben lungi dal ritenere che quanti non professano la sua confessione religiosa sono esclusi dalla salvezza e che di conseguenza si viene presi dalla “malinconia” quando constatiamo la diversità delle sètte e delle opinioni che sussistono fra i cristiani: gli uomini non dovrebbero per questioni sostanzialmente poco rilevanti commettere il grande crimine di spezzare l'unità della Chiesa, Certo, nota Burke, se lo spirito di umiltà, che è la più grande virtù cristiana, fosse effettivamente la nostra guida, le nostre divisioni religiose sarebbero molto poche. Questo forte sentimento dell’unità della fede e della Chiesa fu molto probabilmente all’origine della simpatia per il cattolicesimo (tanto che in quegli anni si parlò fra gli amici di una sua conversione) e si manifestò appieno nell’impegno con cui Burke sostenne dal 1760 la causa dell’abolizione delle leggi discriminatorie nei confronti dei cattolici irlandesi che negavano loro essenziali diritti civili e politici: come è stato giustamente rilevato, Burke non fu un convertito al cattolicesimo, ma alla causa del cattolicesimo irlandese. Nei Fragmems of Tract on the Popery Laws del 1765, in cui illustra i criteri per la riforma delle leggi limitative delle libertà dei cattolici irlandesi, ricorda « che questa Religione che è così perseguitata nei suoi membri, è l'antica religione del Paese, e una voltala Religione riconosciuta dallo Stato; è proprio la stessa che ricevette per secoli l'approvazione e la sanzione della Legge". Per il giovane Burke si trattava di intendere il valore, il significato e il ruolo della religione << in these enlightmed times », in cui, come avrebbe precisato negli stessi Tracts, tutti i benpensanti rifiutavano ogni forma di persecuzione religiosa: « nella proporzione in cui il genere umano è diventato illuminato l'idea della persecuzione religiosa, per qualsiasi motivo, è stata pressoché universalmente screditata dai benpensanti ». Nelle note di Burke che si riferiscono al periodo dell’organico approfondimento dei suoi interessi culturali dopo il Trinity College, 1750-1756, alcune riguardano la religione e i rapporti fra filosofia e cultura, svolte in modo organico per più pagine sì da darci sicure indicazioni sulle convinzioni che aveva tratto dai suoi studi su tali argomenti. Due note si riferiscono alle caratteristiche essenziali della religione, per precisarne l’intrinseca validità ed autonomia, che rinviano ad un'esperienza “originaria” e fondante la morale e la personalità dell'uomo contro ogni concezione “riduzionistica” della stessa religione, che la commisura e la accetta sulla base del “metro razionale” o della utilità sociale. La prima annotazione si riferisce al problema dei rapporti fra religione e politica, di particolare interesse per quanto riguarda le motivazioni della critica di Burke all’illuminismo di Bolingbroke, di Voltaire, di Htune, e dei cosiddetti Free-thinkers, che sottolineavano la connotazione essenzialmente politica della religione come un mero strumento di governo, basato sulle superstizioni, sulla credulità, sui timori e le paure delle plebi. Il titolo della nota è molto significativo: “Religion of no efficay as considered as a State engine". Per Burke la religione non può essere considerata “una macchina dello Stato”, non può essere ridotta ad un “mezzo” per consolidare l’unità e la coesione sociale e per rafforzare il prestigio delle istituzioni: la religione non può essere considerata ed usata come un comodo “strumentum” senza snaturarla e misconoscerne la vera essenza. Occorre riconoscere alla religione un proprio autonomo “ambito”, definito dalla convinzione che Dio sovrintende alle nostre azioni per remunerarle o condannarle. La religione si rivolge agli individui e alla loro coscienza e per il loro tramite ha un’influenza sulla società; solo la legge civile può esercitare ur1’azione diretta sulla società, la religione agisce invece in modo del tutto indiretto. Se consideriamo la religione non per come opera secondo i propri principi ma solamente come una “sorta di supplemento della legge civile”, cercando di trasformarla, contro la sua natura, in una sorta di “macchina politica”, finiamo per privarla di ogni efficacia politica. Ed è proprio in occasione di queste considerazioni sul valore che dobbiamo riconoscere alla religione che Burke fa un’altra osservazione di particolare rilievo per il suo orientamento critico nei confronti dei poteri “sovrani" si sarebbe tentati di dire “assoluti” - che l'illuminismo di Bolingbroke le di Hume riconosceva alla ragione nei confronti della religione. Questa, osserva il Nostro, non può essere “ricondotta” nei limiti della ragione, né essere accettata solamente se “avvolta" nel “mantello della ragione" dato che la sola ragione non riesce ad intendere il nucleo essenziale, il proprio della religione, che si riferisce a fini meta empirci, ultraterreni: « Pertanto come noi , restringiamo i fini della Religione a questo mondo, naturalmente annulliamo ogni sua operazione, tutte dipendenti dalla considerazione di un altro (mondo) ? Dio, secondo Burke, ha concesso al genere umano un altro principio attivo di conoscenza, “l’entusiasmo”, che supplisce le deficienze della ragione e che si “avvicina” alla « grande e comprensiva Ragione nei suoi effetti, sebbene non secondo il modo di operare della Ragione comune; che lavora con argomenti determinati, precisi, comuni e perciò plausibili ». Certo “l'entusiasmo” spesso ci induce in errore: ma lo stesso accade', bisogna riconoscerlo, anche per la ragione: ma questa è la condizione della nostra natura, né noi possiamo modificarla. Occorre rilevare inoltre che la nostra azione è veramente completa solamente quando noi agiamo con tutti i poteri della nostra anima, allorché noi ci serviamo dell’“entusiasmo” per elevare ed ampliare il nostro ragionamento e della nostra ragione per frenare gli slanci del nostro “entusiasmo” . La natura dell'uomo è caratterizzata, secondo Burke, dall’attività: << Dio ha fatto tutte le sue creature attive ed in modo particolare l’uomo >>, ed ha pertanto un particolare rilievo l'impegno dell'uomo nel superare le difficoltà ed i pericoli che sono spesso connessi all’adempimento delle azioni richieste dai nostri doveri, azioni spesso condizionate dall’opinione e dalla conoscenza che abbiamo delle cose. Solamente una “forte” e fondata opinione. è in grado di promuovere una azione risoluta: il dubbio e lo scetticismo non si addicono all'uomo che intende agire, che deve essere invece risoluto e positivo. Nessuna azione, conclude Burke, ma solamente deboli e imperfetti tentativi di agire possono scaturire da concezioni dubbiose e da incerti principi. Di qui l’importanza di una analisi del sentimento religioso, dei principi, dei doveri in cui esso si esprime cui Burke dedica una lunga nota per precisare il nesso sussistente con l'attività e quindi la moralità dell’uomo e la sua intrinseca ragionevolezza. La religione si riferisce al rapporto fra l'uomo e Dio riconosciuto “creatore” e principio di tutte le cose, un rapporto di dipendenza dall’Essere Superiore, che implica il dovere di riconoscenza e di accettazione della sua volontà. In questo rapporto Burke si sofferma sul rilievo centrale che ha il sentimento nella formulazione dei precetti religiosi, che vanno considerati nella prospettiva dell’analisi dei modi con cui l’avvertenza e la nozione di Dio vengono vissute dall’uomo. Gli uomini secondo Burke sono indotti dalla loro natura a “misurare” i loro doveri verso la divinità sulla base di bisogni e di sentimenti piuttosto che su quella di astratte speculazioni. I primi non ci ingannano, i secondi possono trarci in errore. Le speculazioni di carattere teorico-filosofico, fondate sulla mera ragione non ci garantiscono la “certezza” e non possono essere assunte ad unico fondamento dei nostri doveri. Secondo Burke confermano e rafforzano il nostro assenso solamente quando concordano con i nostri sentimenti, ma hanno uno scarsissimo valore quando sono contrari ad essi. Il desiderio e l'idea dell'immortalità dell’uomo, la convinzione che le nostre azioni siano la causa della nostra futura felicità o miseria piuttosto che le sanzioni dei nostri doveri, la conseguente consapevolezza che la nostra vita è una preparazione della futura sono espressioni del sentimento religioso cui corrisponde, per Burke, una “conoscenza”, o un’avvertenza di Dio, ingenita nella natura dell’uomo: << Gli uomini hanno una qualche conoscenza di Dio... Dio ci ha dato una conoscenza di se stesso e noi crediamo che questa conoscenza sia di qualche importanza per noi >>. Perciò non dobbiamo “immergerci” troppo nelle cose che ci fanno ritenere questa vita il nostro tutto, negando in certo qual modo noi stessi, dato che l’indulgenza nei confronti dei nostri piaceri rimuove la nostra attenzione dagli altri fini della nostra vita, ed indebolisce il nostro impegno per essi. Le passioni che scaturiscono dall’amore di se stessi contrastano spesso con i doveri connessi alle relazioni fra gli uomini ed abbiamo un danno minore quando riusciamo a limitare i nostri desideri anziché indulgere ad essi con pregiudizio degli altri. In conclusione, lo spirito di rinuncia fondato sull'avvertenza del limite delle passioni e dei desideri è, secondo Burke, il secondo pilastro della morale e quindi di una ordinata convivenza fra gli uomini. Dio non è percepito dall’uomo solamente come Creatore ma anche come Provvidenza, come presenza attiva e continua in tutti gli eventi della sua vita e del mondo in cui vive: la religiosità dell’uomo, cioè la sua dipendenza da Dio, si perfeziona e si invera nella convinzione della Provvidenza. Se Dio fosse solo Creatore l'ordine delle cose, osserva Burke, sarebbe caratterizzato dalla necessità, con la conseguenza che noi potremmo solamente onorarlo, ma non amarlo e nemmeno temerlo o sperare in Lui. L’onorare si esprime mediante la lode e la gratitudine che sono sentimenti “inerti”, incapaci cioè di promuovere attività, perché scaturiscono dalla considerazione di ciò che fu fatto. La speranza e il timore corrispondono invece alla nostra ingenita propensione all’attività: promuovono infatti ogni nostra iniziativa perché si riferiscono ad un futuro “aperto”, non preordinato dalla necessità. Alla Provvidenza è connessa pertanto la fiducia che la nostra attività, cioè la nostra libertà e responsabilità, ponga in essere un mondo umano che si inserisce nell'ordine dei fini voluto da Dio. Gli argomenti contro la Provvidenza, secondo Burke, sono suggeriti dalla ragione, che riscontra nella natura un ordine strutturato secondo leggi immodificabili; nei nostri sentimenti invece non vi è nulla che la contraddica, anzi vi è una “consonanza" fra quelli e l’idea della Provvidenza. Grazie a questa possiamo renderci conto che << Dio ha fatto per la massima parte gli uomini strumenti di tutto il bene che opera per loro: infatti la maggior parte della loro forza deriva dalla reciproca assistenza e la maggior parte del loro sapere dalla mutua istruzione. Ciò è la prova che nell’uomo vi è un capitale di credito o di fede nei confronti del suo simile senza del quale questa assistenza ed istruzione sarebbero impraticabili >> . La logica della fiducia nella Provvidenza, che prescinde dalla conoscenza dei motivi o dei fini delle sue azioni, è la stessa della fiducia che riponiamo nei nostri simili (crediamo in loro e in ciò che faranno) senza cui la “buona volontà” non può sussistere fra gli uomini, e la stessa società viene dissolta. L’azione della Provvidenza nel corso degli avvenimenti umani può essere compresa solamente alla luce del principio della eterogenesi dei fini, che sovrintende anche a tutti gli eventi naturali, in quanto inseriti nell’ordine della creazione: per Burke la “sapienza della natura" non è altro che la Provvidenza: << La sapienza della natura o piuttosto la provvidenza è proprio degna di ammirazione in questo, come in un migliaio di altre cose, per conseguire i suoi fini mediante mezzi che sembrano diretti ad altri scopi >>. In conclusione la fiducia nella Provvidenza è l’essenza del sentimento religioso, tanto che negare la Provvidenza significa negare la stessa religione: << Eliminare la Provvidenza significherebbe perciò eliminare la Religione >> . Il sentimento di Dio e la corrispondente idea si “inverano” in quella conoscenza del divino che ci è stata data da Dio: non dobbiamo ritenere impossibile, osserva Burke, che Egli ci abbia dato una conoscenza della sua natura o del suo volere e che non abbia trovato i mezzi adatti a comunicarci questa conoscenza. Dobbiamo ritenere pertanto che il fatto storico della Rivelazione, quale ci è attestato da una costante tradizione fondata su una serie di testimonianze, è la vera fonte della nostra conoscenza di Dio. Questa conoscenza richiede uomini incaricati di insegnarla, di interpretarla e di trasmetterla agli altri, in modo da garantire la continuità dottrinale dell’insegnamento delle verità religiose che non possono dipendere dalle arbitrarie interpretazioni dei singoli. La religione, in quanto Rivelazione, è pertanto intimamente connessa con una “società particolare” che sia al suo servizio,cioè con la Chiesa. La religione per Burke ha una sua “originaria autonomia”, come avvertenza e sentimento di Dio, che ha una sua “logica”, cioè un suo modo di esprimersi, distinto da quello razionale, che “precede”, anticipa ed orienta la ragione. Sussiste, come si è visto, una corrispondenza fra le convinzioni religiose e i nostri sentimenti, le nostre passioni, che danno l’orientamento e l’impulso alla nostra attività, che si genera pertanto, compresa quella razionale, nel sentimento e nella coscienza religiosa. La ragione, in altri termini, non genera da se stessa, cioè non trae dalla sua razionalità l’impulso, la forza, la presa vitale sulla realtà che le consente di assimilarla, e quindi di spiegarla e di conoscerla. La ragione, soprattutto quando perviene ad un altissimo grado di analisi, non riesce mai a rappresentare compiutamente la realtà. La convinzione che solamente il razionale ha una “vera” esistenza e consistenza è infondata, come la pretesa che la realtà si “adegui" in tutto e per tutto al dettato razionale si che possa essere “riformata” in toto secondo criteri del legislatore illuminato. A scanso di eventuali fraintendimenti, occorre rilevare che Burke non assume un atteggiamento scettico nei confronti della ragione, nel senso di non riconoscerle alcuna sostanziale capacità nel cogliere la verità, ma che diffida dì una ragione che si fonda esclusivamente sull'intelletto, così come si rifiuta dì ridurre tutto il campo del sapere a quello che può essere conosciuto dalla ragione. Così Burke non rifiuta, ad esempio, l’esperienza tutta intellettuale del dubbio, inteso proprio come essenziale momento pedagogico della nostra ragione; ma nello stesso tempo non esita a riconoscerne i limiti quando cerca di esaurire in se tutta la realtà, perché sa che in questo caso lo stesso ragionamento finisce col vanificarsi in raffinate sottigliezze intellettuali, che non intendono i veri principi che informano la realtà che vogliamo conoscere, Il criterio che deve informare l’analisi razionale è quello della semplicità. Burke osserva a tal proposito che quanto più la mente dell’uomo si eleva dal “volgo”, cioè della gente comune, tanto più si avvicina alla “semplicità” del suo aspetto, del suo linguaggio ed anche di non poche delle sue nozioni. Questo uomo conosce bene la sua ragione, ma proprio per questo motivo ne diffida, la considera criticamente. Egli si affida in più di un’occasione alle sue passioni: le controlla,ima non le incatena. Il criterio della “semplicità" si collega con quello delle “ordinary roads of life”,con l'ordinario modo di vivere della gente comune", e quindi con il costume e le tradizione che ne costituiscono l'ispirazione dì fondo, L’uomo che è consapevole della sua natura, cioè del rapporto sentimento passioni ragione, diffida sempre dei ragionamenti che lo portano fuori delle “ordinary roads of Life". “Noi, avverte Burke, dobbiamo sempre considerare il costume con grande deferenza, come non dobbiamo sempre irridere le convinzioni popolari. Vi è sempre un principio di carattere generale a produrre i costumi, che è certamente una guida più sicura delle nostre teorie”. Il “costume” non è la stratificazione o la istituzionalizzazione di un comportamento soprattutto quando è un costume universale che ritrova la sua giustificazione unicamente nella ragione dell’individuo che persegue il suo utile e benessere, ma è costituito .da quelle norme del comportamento etico - sociale di una comunità di individui che esprimono un principio e quindi una verità, che difficilmente la ragione riesce a spiegare o a comprendere allorché procede con metodo squisitamente intellettualistico, e che quindi debbono essere accolti nel loro contenuto di verità, proprio perché testimoniati come tali dal costume stesso. Burke insiste nel criticare la “raffinatezza razionale”: non c’è maggior pericolo di errore, avverte, di quando persistiamo nell'inoltrarci lungo la “road of refinement”, nella pretesa di comprendere e di spiegare tutto: per quanto lo riguarda “diffida e sospetta sempre dei suoi ragionamenti quando gli sembrano troppo curiosi, esatti e conclusivi”. Auspica che i nostri ragionamenti non siano troppo “impegnati” e soprattutto che la perniciosa attività di raffinata analisi non si eserciti << sulle formalità e sulle cerimonie che sono usate in alcuni affari materiali come nelle più importanti vicende della vita ». Le ritrova in tutte le nazioni e in tutti i tempi e ritiene pertanto che siano consone alla nostra natura: non gli fa piacere sentirle giudicate delle frivolezze. La ragione che fa del criterio razionale il principio di tutte le cose, non solamente misconosce il contenuto di verità del costume e delle tradizioni, pretendendo di sostituirli con le sue regole astratte perché prive di ogni nesso con i sentimenti e le passioni umane, ma dissolve anche tutte le forme, i simboli, le cerimonie, le convenzioni, gli ideali con cui gli uomini hanno dato un senso ed un significato alla morte, al dolore e alla miseria che l’accompagnano, al rapporto fra i sessi, all’amore, alla procreazione, alla nascita di nuovi esseri. Tutto è ridotto alla mera natura fisiologica dell'uomo ed alle debolezze e necessità che ad essa sono connesse. Ma, rileva Burke, che cosa altro si può desiderare di più se non essere uomo, il che implica che noi accettiamo con grande reverenza la nostra natura da desiderare di non essere privati delle sue “parti deboli”. Non dobbiamo desiderare di poter vivere, come qualcuno sostiene, senza essere costretti a nutrirci ed a dormire, ma dobbiamo ringraziare la Provvidenza che ha così felicemente unito la sussistenza del corpo con la sua soddisfazione. E perciò accettando la nostra natura, dobbiamo mutare in meglio la nostra condizione e dobbiamo tramutare le nostre necessità, i nostri bisogni, le nostre imperfezioni in “eleganze” e, se possibile, in virtù. Fra il 1750 e il 1756, come si rileva dalle “note”, Burke maturò un orientamento critico nei confronti della ragione illuministica che, negli scritti di suoi autorevoli rappresentanti, si caratterizzava per una critica radicale delle tradizioni, e quindi delle idee, dei valori, in particolare religiosi, che a quelle erano connesse. Sembrava in particolare al giovane Burke che la ragione non doveva rifiutare il suo essenziale e vitale rapporto con la sfera del sentimento e delle passioni e che non poteva avere, pertanto, come suo unico presupposto e fondamento l’esperienza empirica delle sensazioni (Bolingbroke, Hume), ma la totale esperienza umana quale si esprime nella storia, che rappresenta la concreta prospettiva cui deve sempre mirare la ragione. Di qui la scelta di scrivere la Vindication. La Vindication of natural society rappresenta l’inizio della fortunata “carriera” letteraria del Nostro e “sancisce” la decisione, maturata indubbiamente a lungo, di non dedicarsi alla professione legale, forse più immediatamente redditizia e certamente più tranquilla e sicura, per scegliere invece quella del letterato, più libera, più interessante, indubbiamente più affascinante, ma, per il giovane irlandese privo di conoscenze e di protezioni illustri, altolocate e sicure, in una società come l’inglese della seconda metà del settecento che ancora si strutturava sul “patronage” delle grandi famiglie aristocratiche, piena di “rischi” e di incertezze. La Vindication rappresentava per Burke una scelta particolarmente felice del tema e del momento nel quale presentarsi al pubblico londinese: l’edizione delle opere di Bolingbroke, soprattutto di quelle filosofiche, la maggior parte delle quali vedeva la luce per la prima volta, aveva richiamato l'attenzione del pubblico colto londinese sulla figura, sull’attività politica, sulla posizione nella cultura filosofico - politica inglese dell'ex ministro della Regina Anna, di un così illustre personaggio, che tanta parte aveva avuto negli importantissimi avvenimenti politici degli inizi del secolo in Inghilterra. Henry Saint John, discendente da un’antica famiglia aristocratica, aveva partecipato giovanissimo alla vita politica, tanto che a soli venticinque anni era entrato nella Camera dei Comuni ed in breve era riuscito a diventare uno dei personaggi più cospicui del mondo politico inglese nell’agitato periodo che doveva concludersi con la pace di Utrecht. Dotato di uno spirito brillante, acuto, pronto a far propri gli aspetti più vivi della cultura del tempo, s’impose all’attenzione della Camera dei Comuni e dell'ambiente politico per le sue notevoli virtù oratorie - la sua eloquenza rimase proverbiale - per le sue indubbie doti di leader, che ne dovevano fare in poco tempo uno dei capi riconosciuti del partito tory. A soli trentatre anni fu nominato segretario per la guerra, appena agli inizi del conflitto europeo provocato dalla successione spagnola: nel 1710 fu segretario di Stato, carica che gli consentì di partecipare attivamente alla fase preparatoria della pace di Utrecht, che, se gli costò alcuni anni più tardi il processo di zmpeacbment e l’esilio, deve essere indubbiamente considerata il suo capolavoro politico. Jonathan Swift che lo conobbe in quegli anni ci lasciò di lui un giudizio che dovette indubbiamente essergli stato suggerito, in gran parte, dal fascino che esercitava il giovane uomo politico: “I think Mr. san john the greatest young man I ever knew; vit, capacity, beauty, quickness of a piprehension, good learning, and an excellent taste; the best orator in the House of Commons, admirable conversation, good nature and good manners; generous and a despiser of money”. La politica non costituì il suo unico interesse o la sua sola passione: fu animato anche da un non comune impegno verso la cultura letteraria e filosofica che, sostenuto dalla vivezza del suo ingegno, richiamò attorno a lui l'attenzione e l’an1icizia di alcuni fra i più acuti e brillanti “spiriti” del secolo. Alexander Pope, indubbiamente il poeta più fine del Settecento inglese, dimostrò per Bolingbroke un’ammirazione profondissima: nel 1736 così scriveva a Swift: “Nothing can depress his genius. Whatever befalls him, he will still be the greatest man in the world, either in his own time, or with posterity”; l'Esmy on men è, per molti aspetti, la trascrizione poetica delle idee del suo amico sulla natura dell'uomo. Voltaire trovò in Bolingbroke un consigliere preziosissimo, sempre pronto ad orientarlo con suggerimenti illuminanti sulla cultura politica e filosofica inglese, si che, dedicandogli la tragedia Brutus, gli testimoniò la sua riconoscenza in termini di altissimo elogio: “Souffrez donc que je vous presente Brutus, quoique ecrit dans une autre langue, docte sermonis utrfusque [ à vous qui me donneriez des leçons de français aussi bien que d’anglais, à vous qui m’apprendiez du moins à rendre à ma langue cette force e cette energie qu’inspire la noble liberte de penser; car les sentiments vigoureux de l’áme passent toujours dans le langage; et qui pense fortement, parle de rneme”. Bolingbroke, pertanto, seppe dare all’impegno politico la consapevolezza di dover essere l’interprete di un’opinione culturalmente qualificata: la fondazione del “Craftsman”, il primo giornale politico di opposizione, costituisce indubbiamente uno dei suoi meriti: su questo stesso giornale trattò i problemi più vivi della costituzione inglese, che ebbe poi occasione di illustrare al suo amico Montesquieu, durante il soggiorno londinese di questi . Erano note d'altro canto le sue simpatie per gli atteggiamenti, soprattutto sul piano filosofico, di decisa critica delle tradizioni e dei valori sui quali si fondava l'autorità della Chiesa anglicana ed in genere quella delle religioni positive, Protestantesimo, Cattolicesimo, e quindi la sua adesione a tutti quegli aspetti della cultura illuministica nei quali più decisamente si faceva posto ad uno “spirito” antimetafisico, atto a risolvere sul piano della critica razionalistica qualsiasi richiamo a valori trascendenti. La pubblicazione delle opere, soprattutto di quelle nelle quali si trattava ex professo il problema del fondamento meramente razionalistico della religione e si precisava quindi il vero, significato (almeno secondo il Nostro) che bisognava dare al deismo, alla religione di “natura”, svelava senza possibilità d'equivoci quella che era stata una convinzione nota a pochi amici nei confronti della religione positiva, quale causa prima di tutte le superstizioni che avevano ostacolato ed ostacolavano il progresso della scienza e che aveva addirittura pervertito la società civile, fonte quindi di disordini, di guerre, di incomprensioni, di intolleranze, di reciproci (ed inutili) odi fra gli uomini, strumento di oppressione e di tirannia. Queste considerazioni polemiche non poterono non suscitare perplessità, un senso di imbarazzo in certi ambienti politici londinesi, soprattutto in quelli del partito tory: la Chiesa d’Inghilterra era pur sempre un valido puntello del sistema costituzionale e delle forze sociali che si esprimevano in esso: quell’attacco così violento, che della tradizione non salvava nulla a parte il suo fondamento nel “merito”, era veramente molto poco “parlamentare”, nel senso che infrangeva, sia pur post mortem, una regola di riservatezza, di rispetto formale, nei confronti della religione “stabilita” che gli uomini politici inglesi più rappresentativi avevano sempre professato. Non mancarono i giudizi polemici nei confronti dì Bolingbroke: il più noto, che nella sua asprezza ben esprime lo sdegno di coloro che si sentirono offesi nel loro sentimento religioso, è quello del celebre critico e letterato Samuel Johnson, il quale, a quanto ci racconta il suo biografo, non esitò a dichiarare: << Signore, egli fu un farabutto e un codardo; un farabutto per aver caricato un fucile contro la religione e la moralità; un codardo perché non ha avuto il coraggio di sparare lui stesso e ha lasciato mezza corona a un mendicante scozzese per premere il grilletto dopo la sua morte >>. Naturalmente l’ambiente ecclesiastico e quanti vi erano per vari motivi collegati, non lasciarono passare sotto silenzio un cosìaudace attentato ai valori sui quali si fondava l’autorità religiosa della Chiesa Anglicana. L’opera di Bolingbroke sembrava pertanto aver riaperto nella cultura inglese la polemica sul deismo, che per tanti aspetti ormai poteva considerarsi esaurita almeno in Inghilterra: riproponeva il problema dei rapporti fra religione positiva ed ordine politico, che proprio in quel torno di tempo in Francia,,ad opera dei “philosophes”, trovava una enunciazione ed una corrispondente soluzione negli stessi termini polemici di Bolingbroke. La Whidication of natural society di Burke si inserisce quindi in una polemica che investe sostanzialmente un momento essenziale del pensiero illuministico, dal quale in sostanza dipende tutto il suo sistema concettuale, la sua particolare sensibilità nel cogliere e valutare i comporta menti degli individui nella società, ir1 definitiva il suo particolare concetto di ragione, quello sul valore e sul significato da riconoscere alla religione. È proprio in occasione di questa polemica che possiamo cogliere il distacco profondo di Burke, un distacco, possiamo dire originario, un diverso modo di sentire, di avvertire la realtà sociale nella quale l'uomo vive, come carica di valori che danno un senso ed un significato alla stessa attività dell’individuo e che non possono comunque essere ridotti, o risolti sul piano del puro fare empirico nel quale si esplica l'intelletto dell’individuo. La positività della religione, il fatto che essa non possa essere ridotta ad una superstizione dannosa per la società, significa per Burke riconoscere, in sostanza, l’autonomia di un sentimento originario che precede l’agire razionale dell'uomo, che lo orienta nelle sue scelte fondamentali. C’è in definitiva in questa sua scelta tutta la sua personalità, nel senso che il suo pensiero politico troverà il suo centro unitario e la sua prospettiva originale proprio nell’approfondire e motivare i significati di questo atteggiamento. Nell'introduzione alla seconda edizione uscita nel 1757, Burke precisava lo scopo di questo suo primo lavoro, chiarendo il suo intento polemico nei confronti degli scritti filosofici del Bolingbroke. L'edizione delle opere del Bolingbroke intendeva corrispondere all'interesse del pubblico colto di conoscere finalmente, nella sua interezza, il pensiero di un uomo` che aveva avuto tanta parte nella politica inglese ed aveva goduto di una posizione di primo piano nella stessa cultura inglese. Purtroppo quest'aspettativa è andata delusa: una lettura consapevolmente critica non può non mettere in luce le profonde contraddizioni in cui cade continuamente il politico-filosofo, la inconsistenza delle sue argomentazioni; quel lungo divagare fra i filosofi antichi e moderni non si riduce in sostanza che a tentare di dimostrare che la religione, quale noi conosciamo nelle sue manifestazioni positive, tè un “sistema” di superstizioni le quali, naturalmente, non hanno altra funzione che quella di assicurare il potere delle caste sacerdotali. DUE NATURA E SOCIETÀ IN BOLINGBROKE Come si è accennato, nelle sue opere filosofiche Bolingbroke aveva a lungo trattato il tema del fondamento della religione naturale, per dimostrare la falsità delle religioni positive: il suo attacco era indirizzato principalmente contro la teologia delle Chiese “storiche": la cattolica, anzitutto, e quelle nate dalla Riforma. La religione naturale si riduce alla ragione stessa di Dio quale si esprime nella natura: questa è ordinata, o sistematicamente organizzata, secondo delle leggi che la matematica e la fisica, attraverso una analisi sorretta dall’esperienza, riescono ad individuare: alla stessa guisa la natura dell'uomo è regolata da norme che la ragione, illuminata anch’essa dall’esperienza, può individuare e comprendere nel loro sistematico connettersi. Dio è la ragione stessa delle cose, la sua realtà si esprime tutta ed esclusivamente nella sua “razionalità”: le religioni storiche, proprio perche si rivelano nei loro dogmi e nelle loro teologie decisamente “irrazionali", non sono altro che interpretazioni interessate della sola vera religione, quella di natura, unica per tutti gli uomini, che li unifica sul piano della comune razionalità. Per Bolingbroke il fondamento della società politica risiede nell’amor di sé, che, sollecitato dall’istinto del piacere, sospinge l'uomo a formare la famiglia, come primo nucleo di unione e quindi come inizio della società. La ragione, come principio della natura, grazie all’aiuto dell’esperienza amplia la prima società familiare in una comunità di famiglie, in una società generale, In tal modo l’amor di sé mediante la ragione diventa consapevole che può essere soddisfatto solamente grazie ad una collaborazione sincera e durevole fra tutti i componenti della società: l’interesse del singolo individuo è strettamente connesso a quello della società: << Gli uomini non si trovarono mai, dato che non avrebbero mai potuto vivere, in uno stato di assoluta individualità. L’amore' di sé, indirizzato dall’istinto del mutuo piacere, operò l'unione dell'uomo con la donna. L’amore di sé operò quella dei genitori e dei figli. L'amore di sé divenne socievolezza, e la ragione, un principio della natura umana, così come l’istinto, lo rafforzò. La ragione lo promosse e lo estese alle relazioni più remote ed unì molte famiglie in una sola `comunità, come l’istinto aveva unito gli individui in una sola famiglia. La ragione ha realizzato ciò con l’aiuto dell’esperienza; e quale è il risultato dell’esperienza? Non è di fare qualcosa di nuovo in natura, ma di scoprire ciò che vi era in natura, prima inosservata. Il dovere naturale di esercitare la benevolenza, di amministrare la giustizia, di rispettare i patti, è così evidente per la ragione umana, come il desiderio di felicità è conforme all’istinto umano. Noi desideriamo mediante l'istinto ed otteniamo mediante la ragione >>· Bolingbroke insiste in modo particolare sul ruolo svolto dall’esperienza per quanto riguarda l’educazione dell'istinto: la critica cui sottopone la concezione hobbesiana dello stato di natura, oltre a evidenziare il motivo che in essa non è possibile trovare la giustificazione di un principio (Dio - legge di natura) che precede e sostiene la società civile e politica, perche realizza l'identificazione fra la legge dì natura e quella positiva e riduce sostanzialmente la prima alla seconda, sottolinea anche il fatto che la ragione, mediante la quale gli uomini pongono in essere il contratto che fonda la società, è una ragione che non si ritrova allo stato di natura, ma che è il risultato proprio dell’esperienza: << sebbene Hobbes dica, con abbastanza infondatezza in alcune occasioni, che la retta ragione è la regola delle azioni anche prima delle leggi civili. Ma per pensare correttamente l'uomo nel suo proprio stato, noi dobbiamo considerarlo soggetto all'attuale direzione di tutte le sue naturali facoltà, della sua ragione come dei suoi desideri, della sua ragione proprio sfornita di arte e non assistita dall'esperienza, ma non del tutto incapace, e in tutti i casi in grado di indicargli i primi generali evidenti principi sui quali è basata la felicità della sua specie, verso i quali è penosamente e fortemente diretto dalle necessità della sua natura >> . Bolingbroke ammette che la socialità possa esprimersi come vincolo fra più individui anche al di fuori dell'interesse, dell'utile “consapevole di sé", e quindi dell'ardor di sé. L'amicizia, ad esempio, può nascere e vivere indipendentemente da qualsiasi considerazione interessata: una certa simpatia intellettuale può unire indubbiamente più individui. In definitiva può essere accolta l'osservazione di Cicerone che l'uomo, anche se non fosse costretto dalle necessità inerenti al suo stato naturale, avrebbe ricercato la società con gli altri, in odio alla solitudine e al fine di instaurare un dialogo con i suoi simili. Ma tutto questo riguarda la socialità propria di piccoli gruppi di individui non quella sulla quale si fonda la società politica, la “ general sociability”: la quale, tiene a ribadire Bolingbroke, ha un fondamento meramente utilitaristico. Si tratta di intendere il particolare modo, meglio il meccanismo mediante il quale la natura, cioè l’istinto, perviene a conoscere l'utile, quale principio che unifica in modo sistematico tutti i rapporti che si istituiscono fra gli individui in società. L'istinto, nell'uomo, significa la ricerca del piacere che è la norma del comportamento umano nelle manifestazioni elementari, di base della sua vita, naturali, nel senso di presociali: la ragione, invece, la seconda tendenza naturale dell’uomo, si ricollega all’istinto ed ha la funzione di “organizzare” le sensazioni piacevoli, di collegare quelle passate e di prevedere quelle future ed è la guida sicura dell'uomo verso il raggiungimento della felicità, piacere consapevole di se stesso. Solo la felicità dura, cioè salva il piacere dalla dispersione che lo insidia e per durare deve essere l'anima della “general sociability”. Tutte le cosiddette virtù “morali” non sono altro che un'ulteriore specificazione della ragione naturale quale sopra è stata intesa: e sono, inoltre, virtù sociali, quali la benevolenza, la giustizia perché utili e perciò necessarie a mantenere la società. Il piacere e la felicità, l'istinto e la ragione sono manifestazioni dell’amor di sé, che è il centro unificatore di tutte le esperienze dell’individuo. In tal modo, secondo Bolingbroke, si realizza l'ordine fissato da Dio nella natura: ordine naturalmente che corrisponde alla sapienza divina e che può. essere conosciuto da tutti gli uomini, senza alcun bisogno di “intermediari”, in virtù delle loro autonome capacità razionali: << Questa volontà appare essere nel fatto la vera costituzione della natura umana. Essa è il piano comprensibile della sapienza divina. L'uomo è capace di comprenderlo e può essere indotto a seguirlo dal duplice motivo dell’interesse e del dovere. Per quanto riguarda il primo la reale utilità e la retta ragione coincidono. Per il secondo, dato che l’autore della nostra natura ci ha fatti per desiderare irresistibilmente la nostra felicità e ci ha costituiti così che il bene privato dipende da quello pubblico e la felicità di ogni individuo da quella della società, la pratica di tutte le virtù sociali è la legge della nostra natura e fatta tale dalla volontà di Dio, e avendo stabilito il fine e proporzionati i mezzi, ha voluto che noi dovessimo cercarci gli uni con gli altri >>. Coincidenza quindi dell’interesse privato con quello pubblico, della felicità del singolo con quella della società, tendenza naturale ad attuare le virtù sociali poiché solo in tal modo l’uomo realizza compiutamente la sua personalità e perviene alla sua personale felicità: questo è il piano “provvidenziale” predisposto da Dio, sul quale si svolge l’attività dell'individuo. La conseguenza più immediata dell’esistenza di un ordine naturale, che esprime come si è visto la sapienza divina, Dio stesso quale simbolo della ragione, è che le società politiche dovrebbero esprimere un identico ordinamento o sistema di leggi: invece, e Bolinghroke ricordando Montaigne non se lo nasconde, la storia grazie all’esame degli usi, dei costumi, delle leggi dei diversi paesi ci avverte che sono diversissimi fra di loro. Il che per il Nostro non inficia l’esistenza dell’ordine naturale, che deve essere correttamente compreso, seguendo del resto Bacone, come la legge delle leggi: “The laws of nature are truly what my lord Bacon styles his aphorisms, the laws of laws”. La fonte dalla quale promanano le leggi civili e politiche è pura, ma i canali per mezzo dei quali vengono diffuse nelle società sono sostanzialmente infetti dalle passioni, dai pregiudizi e dall’ignoranza degli uomini. Di qui le diversità, le contraddizioni, l’assurda pretesa di far valere due diversi criteri di giusto, l’oscurità delle stesse leggi: il che dipende anche dal fatto che le leggi, il più delle volte, non vengono fatte tenendo presente il riferimento alla legge di natura. Per tal motivo le leggi civili non si riducono ad altro che alle norme arbitrarie di una volontà assoluta, imposta agli uomini dalla forza o dalla frode di alcuni e confermata dall'educazione é dal costume. La riconosciuta possibilità della non coincidenza delle leggi positive con quelle dì natura viene in sostanza ad alterare il piano provvidenziale di Dio, a turbare l'equilibrio fra interesse privato e pubblico, felicità privata e pubblica. Ora per comprendere il senso della polemica di Bolingbroke nei confronti delle passioni, dei pregiudizi e dell’ignoranza umana, quali cause dell’infelicità dell'individuo e quindi del suo vero male, occorre tener presente il modo con cui si costituisce la società civile. La famiglia rappresenta la prima forma di società naturale fondata sull’istinto, che esprime altresì la prima forma di governo, quello paterno: questo potere è assoluto finché 'i figli non sono in grado di provvedere ai propri bisogni, nel senso che non sono ancora intellettualmente maturi, diventa limitato quando i figli pervengono all’età della ragione, cessa quando i figli escono dalla famiglia per costituirne a loro volta un'altra. La prima forma di vita sociale dell’individuo è quella che si attua nella famiglia, e la prima società naturale è quella che s'istituisce fra le famiglie: per Bolingroke questo è l’ambito nel quale si realizza la pura ragione naturale dell'individuo, che è in grado di far fronte a tutte le esigenze di questo particolare stato. Quando, a motivo soprattutto dell’accrescimento demografico che non consente più alla famiglia o ai gruppi familiari di sopperire alle esigenze dei singoli individui in un determinato territorio, si passa all’unione di più famiglie o di più gruppi. gentilizi, allora abbiamo una seconda forma di società, quella che è di solito chiamata civile o politica, caratterizzata dal fatto che essa tè in definitiva l'espressione della natura umana quale è stata creata da Dio. Per la prima l'uomo ritrova da se stesso, senza alcun altro aiuto, le norme del suo comportamento: mentre per la seconda si richiede, sempre da parte dell’uomo, un coerente svolgimento delle esigenze fondamentali della sua natura. La prima quindi è una società naturale che nasce da un comportamento istintivo, immediatamente dedotto dalla natura umana, mentre la seconda è una società “artificiale”, proprio perché formata da un complesso di relazioni, di leggi, che ritrovano il. loro fondamento, il loro titolo di legittimità, unicamente nel fatto di essere state individuate dalla ragione dell’uomo per poter conseguire la felicità. << È molto diverso nel caso della società politica. In questa non siamo lasciati a noi stessi. Non siamo liberi di scoprire, né di agire, a seguito della scoperta, grazie alle nostre conoscenze. Noi vi siamo condotti dalla mano di Dio, come avvenne, ed anche prima di avere il pieno uso delle nostre conoscenze. Quando Dio fece l’uomo, fece una creatura la cui felicità dipendeva dalla sua socievolezza con gli animali della sua specie. Egli lo fece inoltre un animale socievole, un animale capace di percepire un immediato piacere e vantaggio della società. La necessità della società naturale precede quella della società artificiale e la prima, che è costituita dall'istinto, ci predispone alla seconda, alla quale siamo condotti dalla ragione ». Nell’analisi del fondamento della società politica acquista pertanto in Bolingbroke un rilievo particolarmente importante la distinzione fra società naturale e società artificiale: la prima è caratterizzata, come si è visto, da un insieme di rapporti spontanei, e da un governo - quello paterno - anch’esso espressione di un rapporto padre-figli, immediato, naturale; la seconda, che è storicamente preceduta dalla prima, si esprime invece nel vincolo delle leggi civili, che si riducono alla natura compresa dalla ragione: le leggi civili pertanto sono naturali-artificiali: << La vicinanza, uno scambio di buoni uffici, in una parola la mutua convenienza possono dare inizio, mediante l'unione di più famiglie fondata su contratti ed accordi, a società civili. Ma la causa principale di tali artificiali o politiche unioni, fu di diversissima natura ». Le leggi artificiali quindi sono legittime solamente quando sono l’interpretazione che la ragione. dà alla comune legge di natura, senza che l’interprete si lasci fuorviare in questa sua funzione dai pregiudizi e dalla superstizione. Purtroppo, osserva Bolingbroke, bisogna riconoscere che l’opera della ragione è continuamente insidiata dall’ignoranza, dall'errore, dalle tendenze irrazionali dell’uomo che prevalgono su quelle razionali:'ma, fra tutte le cause che inceppano e finiscono col fuorviare l'opera della ragione, la principale è indubbiamente la superstizione. Questa nasce e si alimenta nell'ambito delle religioni positive o artificiali, che snaturano e contraffanno la religione “naturale”, che accomuna invece tutti gli. uomini e che ci indica la vera essenza di Dio. Le religioni “artificiali” furono istituite da alcuni sapienti con l’unico scopo dì assicurare una maggiore efficacia alle leggi civili e per rafforzare il potere politico. Esse hanno finito col promuovere una falsa concezione di Dio, e quindi col rafforzare la superstizione, corrompendo la socialità che unisce gli individui: a poco a poco insinua fra gli stessi individui un sentimento di divisione, di reciproca diffidenza che si sostituisce a quello naturale della benevolenza, dal quale dipende per l'appunto la socialità, vincolo che unifica gli uomini nel corpo politico. D'altro canto, osserva Bolingbroke, bisogna riconoscere che la possibilità di istituire una società politica che riesce ad esprimere un ordine sufficientemente stabile ed una forza che ne assicura l’osse1·vanza è necessariamente collegata, nella società primitiva, alla religione, nel senso che l’ordine e il potere debbono essere legittimati come emanazione della volontà divina. Nell'uomo primitivo le facoltà razionali sono molto attenuate: egli vive sotto la costante preoccupazione di dover soddisfare le necessità immediate in uno stato di continua agitazione che gli rende impossibile quella tranquillità, quel distacco, che sono le condizioni necessarie perche l'individuo possa razionalizzare il suo agire pratico. La superstizione, pertanto, è la forma tipica di conoscenza degli uomini delle società primitive ed essa deriva dal fatto che l'uomo interpreta la realtà ritenendo se stesso come il centro del mondo che lo circonda, si avvale così dell’immediata esperienza della sua vita e riferisce ad essa tutti i fenomeni della natura. Non c’è sistema politico, nella primitiva antichità umana, che non è anche sistema religioso, non c’è politica che non è anche teologia, osserva Bolingbroke, proprio perché le menti dei rozzi ed ignoranti primitivi non avrebbero mai compreso i dettami della religione naturale. Questa come sappiamo coincide con la ragione naturale, quale si manifesta nell’ordine fisico della natura, che per essere compreso appieno richiede una necessaria depurazione degli istinti e delle passioni e una conseguente educazione delle facoltà razionali umane, quale può attuarsi solamente attraverso lo studio della filosofia o scienza sperimentale. I fondatori delle religioni storiche, secondo Bolingbroke, sono tutti consapevoli dell'esistenza di un Dio unico, che si identifica con l'ordine stesso della natura: essi nascondono però questa convinzione ai popoli per sottometterli al loro potere mediante la rappresentazione di un Dio che colpisca le loro menti rozze, mediante le forme e i simboli del culto, dei riti. La tradizione, la consuetudine, soprattutto attraverso l'educazione hanno unito, quasi solidificando in un sol corpo, le norme del comportamento politico a quelle del comportamento religioso, e ne hanno fatto un ordinamento istituzionalizzato, che ha una sua autonoma consistenza. Ma se la società artificiale si serve della religione “artificiale” come dello strumento necessario per realizzare il suo ordine politico, essa nel contempo predispone anche lo strumento più efficace di tirannia, di dispotismo, d’intolleranza che assoggetta, quasi fossero schiavi, gli uomini che avevano invece dato vita alla società politica per godere di una vita felice. L’istituzionalizzazione della religione artificiale è infatti la premessa per sostituire alla legge di natura ed alle leggi civili da essa derivate l’interesse particolare, e quindi l’arbitrio, del gruppo oligarchico o del tiranno, che rompe il rapporto fra l'utilità del singolo e quella pubblica, l’unico che consente all'individuo di poter pervenire alla felicità. Le religioni “artificiali", pertanto, sono tutte “false”: invece di rappresentare la religione “naturale”, la legge di natura, ne sono una “dolosa” distorsione, che finisce con l'allontanare sempre più gli uomini dalla verità. Delle religioni storiche, Bolingbroke ne salva solamente due, l’ebraica e la cristiana: la Bibbia e il Vangelo nella loro autentica dottrina, si riducono alla proclamazione della esistenza di un Dio unico, sola ragione della natura.. Ma occorre avvertire che le interpretazioni che nell’ambito del giudaismo e soprattutto del cristianesimo sono state date al Vecchio e al Nuovo Testamento dalle scuole filosofiche e teologiche sono tutte da respingere: tutte sostengono, con vari e speciosi argomenti, la sottomissione della ragione umana, incapace di pervenire da se alla verità, al principio d’autorità rappresentato dalle chiese, cui spetta indicare i principi e le regole fondamentali che debbono orientare la coscienza dell’individuo. Su questa pretesa sostengono la subordinazione dell’ordine civile e politico a quello religioso e cercano così di sancire il riconoscimento di un imperium in imperio, quello della Chiesa nello Stato, una vera e propria assurdità, dal punto di vista di una concezione “scientifica” della politica, fonte di tutti i disordini, di tutte le lotte civili, di tutti i dispotismi. In effetti, a considerar bene l'ordine politico, ci si rende conto che il suo fine è quello di assicurare alla ragione il primato su tutte le passioni ed inclinazioni degli uomini. Si osservino inoltre le seguenti affermazioni, il vero amor di sé coincide con l’amor sociale o con la benevolenza, l’autore della natura ha organizzato il sistema dell’ordine civile umano in modo che tutti gli uomini debbano coesistere in un comune sentimento di benevolenza. Possono essere dimostrate e possono essere condivise da qualsiasi uomo che sia in grado di confrontare poche idee chiare e determinate. Ma ciò non significa che l’uomo deve necessariamente comportarsi secondo principi che sono veri dal punto di vista speculativo. Noi siamo così fatti che basta un vantaggio presente, sia pur momentaneo, per distrarci dal perseguire un bene maggiore, ma futuro: a volte una piacevole sensazione, sia pur passeggera, ci distoglie dal perseguire la nostra vera utilità che solo la ragione e la riflessione ci possono indicare, La filosofia, come ricorda Aristotele, educa chi segue i suoi insegnamenti a fare volontariamente quello che gli altri sono costretti a fare con la forza. Ma i più, in effetti, non sono filosofi, e quanti comandano o aspirano a comandare ritengono che l’unico mezzo per far agire i molti secondo ragione è quello di servirsi di strumenti ideologici, che si fondano tutti sul sentimento della paura, per indurli al rispetto delle leggi ed informare in tal modo i loro comportamenti a criteri razionali; è la stessa ragione a suggerire le “arti" che servono ad asservire ai suoi fini le passioni degli uomini. Per questo motivo le religioni “artificiali”, che nel corso dell'esperienza storica hanno reclamato prima un’autonomia e poi una supremazia che loro non spetta, debbono essere ricondotte alla loro funzione originaria, e rientrare nell'ambito della loro vera legittimità, debbono tornare a svolgere la funzione discreta della convalida e del rafforzamento presso la coscienza dei più delle leggi, e dell’attività di governo. In Bolingbroke la polemica contro le religioni storiche, “artificiali', nel sottolineare i loro aspetti negativi, le conseguenze veramente disastrose per quanto riguarda la possibilità di pervenire da parte dell’uomo al vero, naturale scopo della società politica, la felicità, nel denunciare l’insanabile dualismo di Chiesa e Stato, fonte di tutti i mali, conclude con la necessità di garantire il primato dell'ordine civile e politico, cioè della ragione naturale e quindi della religione naturale sulla religione artificiale, cioè sulla Chiesa. Questa proposta d’autentica riforma della società “artificiale" può essere realizzata solo grazie ad una sempre maggior diffusione della filosofia “sperimentale”, l’unica che consente di« poter pervenire alla ragione naturale, e di una totale riduzione della religione a puro strumento della ragione atto ad asservire le passioni degli uomini ai suoi fini. Per Bolingbroke, che la religione possa avere una sua originaria autonomia, indipendente dalla ragione educata dall’esperienza, è una pretesa degna del “primitivismo di un Ottentotto”. TERZO NATURA E SOCIETÀ IN BURKE Dopo tanto scetticismo sul piano etico-religioso e dopo tanto pessimismo su quello politico Bolingbroke conclude, come si è visto, con una prospettiva in cui si recupera sostanzialmente il momento positivo della stessa società politica “artificiale”. Ora è proprio su questo particolare aspetto che s'inserisce la critica di Burke alla filosofia politica dell’ex ministro della Regina Anna. L’osservazione fondamentale, secondo Burke, è che questo pensiero politico è profondamente contraddittorio. Quegli stessi argomenti, quello stesso metodo usati per risolvere criticamente sul piano di un'analisi di tipo razionalistico i rapporti che si istituiscono nell’ambito della società, e per dimostrare l`inconsistenza delle forme di rispetto ed ossequio nei confronti dei valori consacrati dalla tradizione, come quel gusto tutto intellettualistico di prospettare dubbi, di suscitare incertezze al fine di dimostrare la radicale contraddittorietà del “vero” codificato dalle filosofie accademiche e dalla religione rivelata, nello stesso tempo forniscono i mezzi per “distruggere”, fzmditus, quella società politica, che invece si vorrebbe conservare dopo averla “depurata” di tutte le scorie, rappresentate dalla religione e dalla superstizione: << Il proposito era quello di dimostrare che senza l’impiego di alcuna considerevole forza le stesse macchine che furono impiegate per la distruzione della religione possono essere impiegate con eguale successo per la sovversione del governo; e che quegli speciosi argomenti possono essere usati contro quelle cose che essi, che dubitano di ogni altra cosa, non permetteranno mai che vengano messe in questione ». Ma c’è di più, rileva acutamente Burke: questa filosofia che pur sembra criticare tutto, dubitare di tutto, in sostanza nasconde accuratamente, con una certa qual raffinata astuzia tutta intellettuale, alcuni principi che non possono essere messi in discussione: in altri termini li dà per scontati, li accetta “acriticamente”, e sul piano dell’operare pratico lì difende “senza esclusione di mezzi"; in effetti, ricostituisce su di essi una nuova forma di autorità altrettanto sacra ed inviolabile, anche se priva del prestigio riconosciuto alla “vecchia” dalla tradizione. Lo scopo della vindication è pertanto quello di risolvere questa contraddizione, non del solo Bolingbroke, come si vedrà, ma del pensiero politico illuministico che si fonda sui presupposti filosofici illustrati dallo stesso Bolingbroke: occorre tirar fuori il deus absconditus di questa filosofia politica, esaminarlo, obbiettivamente, spassionatamente, senza prevenzioni di sorta, per dimostrarne la vera natura. Per tal motivo, tutte le argomentazioni che sono svolte nella vindication sono condotte sul filo sottile di un’ironia “puntuta ed affilata”, che sa “dissezionare” i concetti degli avversari con una “tecnica indolore", e con una perizia consumata: non la polemica decisa, aperta, violenta, per abbattere e distruggere l'avversario, ma l’analisi delle sue ragioni svolta con garbo. La vindication prende le mosse da un precedente dialogo nel quale l’amico del filosofo, pur concordando con i risultati cui si era pervenuti durante la discussione - si erano individuati i fondamenti della società politica non si era poi sentito di continuare ulteriormente nell’esame dell'ubi consistam della società: avvertiva che una “curiosità” di tal genere, una volta appagata, avrebbe finito col distruggere l’intero edificio sociale. Ma, osserva Burke nei panni di Bolingbroke, a questo punto non ci si può tirare indietro, bisogna stare al gioco: d’altro canto la verità non ci può arrecare alcun danno, dato che solo l'errore costituisce la vera causa dei dolori, delle disgrazie, dei mali che l’individuo deve sopportare. I principi sui quali si fonda la società politica vanno esaminati in tutte le loro conseguenze con assoluta spregiudicatezza: noi siamo abituati a considerare con riverenza, quasi con timore, quanto ci è stato tramandato dalla tradizione, a mantenere nei confronti delle istituzioni dei nostri antenati un rapporto di timore riverenziale, ma la verità, ritorna a precisare Burke, esige l’i1npegno di scandagliare a fondo tutte le opinioni ricevute, anche se il risultato di questa “operazione” dovesse concludersi con la dimostrazione della radicale infondatezza di quanto ci sembrava essere così stabile, giusto e vero, e se questa stessa dimostrazione, divenuta principio di concreto operare politico, dovesse radicalmente contrastare i nostri stessi interessi . Non lasciamoci sedurre, continua ad incalzare Burke, dal vecchio ma sempre ascoltato avvertimento della tipica mentalità bigotta, che sconsiglia di dimostrare l'infondatezza dei pregiudizi popolari per le gravi conseguenze che potrebbero derivarne per quanto riguarda la stabilità dell’ordine politico, che si fonda sull'obbedienza del popolo e proprio sull'accettazione passiva dei principi e dei valori contenuti nei “ pregiudizi”. Questa, invece, è una pretesa assurda e blasfema: la nostra felicità dipende esclusivamente dalla pratica della virtù e questa, a sua volta, è possibile solamente se si svolge sul piano della verità, quanto a dire, sulla base della conoscenza di quei rapporti eterni che Dio ha fissato quali norme che regolano la vita degli uomini. Dobbiamo essere particolarmente accorti a non pretendere di forzare la natura con l’imporle delle norme “artificiali”, frutto delle nostre invenzioni: solo lo studio della natura, condotto senza pregiudizi, ci ha consentito di conoscere alcune verità che costituiscono poi il vero fondamento di quel poco di libertà e di felicità di cui godiamo. L’epoca nella quale viviamo, nota Burke, è caratterizzata dalla lotta contro la superstizione: infatti l’edificio che si fonda sopra di essa è stato in gran parte demolito, soprattutto in Inghilterra. Da tempo sono state messe in luce le miserie che la religione, - fonte prima di tutte le superstizioni - e il governo dispotico delle chiese sui fedeli hanno provocato all'umanità: ormai si pensa e si agisce sulla base della ragione e della natura. Ma se questo è vero per molte persone, non bisogna dimenticare che la maggioranza vive ancora secondo schemi e principi frutto della superstizione: precisazione quanto mai importante da tenere sempre presente, in quanto è sempre possibile il pericolo che la tensione spirituale necessaria per continuare la lotta contro la superstizione si allenti, tanto più che, come è noto, purtroppo la fonte di tutte le superstizioni, “degli entusiasmi senza senso, della sacra tirannia” suscita ancora, sia pur formalmente, la riverenza e la stima delle stesse persone illuminate: chiara allusione all'attività politica dello stesso Bolingbroke, che, in diverse occasioni, parteggiò per la Chiesa d'Inghilterra e ne sostenne i concreti interessi temporali. Ricordiamoci, infine, che il potere politico ritrae la sua forza proprio dalle istituzioni ecclesiastiche che gli garantiscono di poter contare, nell'ambito della società, su consensi ampi ed omogenei; e che le leggi “artificiali", necessario vincolo di tutto l’ordine politico, incutono il timore riverenziale che le fa rispettare grazie all’avallo della religione “artificiale”. Perciò dobbiamo tener costantemente presente che l'idea di religione e dì governo sono intimamente connesse: accettiamo il governo come necessario, o quantomeno utile per conseguire il nostro benessere, e siamo disposti, anche a nostro dispetto, ad accogliere questa o quella forma di religione “artificiale”, della quale il volgo sarà sempre schiavo, ed anche le persone di cultura subiranno, sia pure involontariamente, la sua influenza. Il rapporto religione-società va esaminato, quindi, con spirito veramente illuminato, senza alcun timore delle possibili conclusioni, liberandoci in definitiva di quel senso di rispetto, sia pur formale, verso la religione stessa, che impedisce agli uomini di cultura di essere veramente coerenti e che li rende partecipi, in fondo, dell'asservimento delle coscienze operato per l’appunto dalla Chiesa. Per tal motivo, un’analisi, sufficientemente approfondita, del modo con cui si realizza l’ordine politico della società umana non è niente altro che la continuazione dell'opera dì “illuminazione” delle coscienze che il secolo sta attuando sul piano della religione. ,La società umana passa attraverso due forme fondamentali, come del resto la religione: la società naturale e quella “artificiale”. La prima si fonda sull’istinto sessuale e sul vincolo che lega le persone appartenenti a questo primo gruppo: il padre, la madre, i figli costituiscono la società naturale. I primi uomini vissero in uno stato naturale di perfetta uguaglianza, nutrendosi dei prodotti della natura. Ovviamente, in questo stato l’umanità dei tempi primitivi dovette assoggettarsi a gravissime limitazioni, derivanti sostanzialmente dalla mancanza di una più ampia ed articolata unione d'individui, il che voleva dire l’impossibilità di fruire dei vantaggi connessi con il reciproco aiuto e la comune assistenza e di risolvere pacificamente le eventuali controversie per la mancanza di un giudice comune. Gravi inconvenienti, indubbiamente connessi con la società naturale, ma che non impedivano all’uomo di vivere libero, in perfetta eguaglianza con i suoi simili: se l’uomo, fosse rimasto entro i limiti “sociali" fissatigli dalla natura, la famiglia o al massimo i parenti, la sua felicità sarebbe stata garantita. Invece l'uomo, resosi conto dei vantaggi che ritraeva dal vivere insieme nella famiglia, ritenne che altri maggiori vantaggi gli sarebbero derivati da una società più ampia, dalla riunione di più famiglie in un sol corpo politico. E poiché la natura non aveva creato alcun vincolo “naturale’' d'unione, l’uomo supplì a questa mancanza con l'inventare le leggi: questo è il vero fondamento della società politica, la quale, proprio perché fondata sulle leggi, “invenzioni” degli uomini, è una società “artificiale”. A ben considerare, la società artificiale nasce, alla fin fine, dalla radicale incapacità dell’uomo di saper individuare il suo limite, dal non sapersi contentare, da questa volontà che lo anima e lo sospinge a volere sempre di più: non sappiamo mai venire a patti con la nostra condizione, siamo sempre pronti a perdere quello che abbiamo guadagnato pur di appagare l'insaziabile voglia di avere di più. L'uomo, in sostanza, cede la sua libertà ed uguaglianza naturali per un maggior benessere, che si dimostra del tutto illusorio. Non rimane quindi che considerare la società artificiale nei suoi vari aspetti. L’analisi delle “conseguenze” della società artificiale per quanto riguarda la vita umana ci darà una dimostrazione quanto mai convincente, si che, alla fine, dovremo concludere che l'origine di tutti i mali che affliggono l’individuo si ritrova proprio nella società artificiale. Lo Stato, o società politica, osserva Burke, può essere considerato sotto diversi punti di vista: o nei rapporti fra Stato e Stato, o nei rapporti che si istituiscono all’interno dello Stato fra chi comanda e chi obbedisce, oppure nei rapporti che si istituiscono nell’ambito della stessa società civile. Se consideriamo il modo con cui si sono attuati i rapporti fra i singoli Stati, non possiamo fare a meno di riferirci in un'ampia prospettiva alla storia umana, per vedere di cogliere qual è stato in definitiva il risultato di questi rapporti. Le conclusioni che dobbiamo ricavare da un esame spassionato degli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia umana, per lo meno dal punto di vista politico, sono del più sconsolante pessimismo: non troviamo l'amicizia, la concordia, la benevolenza, la comprensione nei rapporti fra gli Stati, ma il sospetto, l'ambizione, la volontà di potenza, molte volte l'odio e l’intolleranza, si che la guerra è il solo risultato delle relazioni che si istituiscono fra le società “artificiali”, o gli Stati. La storia universale si riduce, pertanto, ad una drammatica, angosciosa, orrida descrizione di guerre, di lotte civili: la storia sembra non avere alcun altro significato che quello di dimostrare che lo Stato e il potere sono fondati esclusivamente sul sangue. Il riferimento a Machiavelli, a questo punto, è quasi d’obbligo, Una considerazione del Segretario fiorentino, consente a Burke dj osservare che la guerra costituisce l'unica vera preoccupazione di chi detiene il potere politico: la pace non ha altro scopo che quello di preparare la guerra. Basta appena accennare, per avvalorare la tesi enunciata, alla storia dei grandi imperi dell’antichità, delle società “artificiali”, delle cui gesta la storia ci ha conservato ricordi abbastanza sicuri. Tutta l'antica civiltà egiziana sembra concentrarsi, a quanto è tramandato, nel grande sforzo militare con il quale Sesostri cercò di estendere i suoi domini lungo le coste del Mediterraneo orientale sino alla Colchide. Si parla di un esercito di settecentomila uomini con cui il faraone tentò di allargare i suoi domini. Questa operazione militare significò la distruzione d'intere popolazioni che cercarono di difendere la loro libertà e nello stesso tempo la morte di molti dei suoi soldati uccisi in battaglia, e soprattutto dagli stenti e- dalle malattie. Possiamo calcolare che circa due milioni di uomini persero la vita nelle spedizioni militari di Sesostri e, dobbiamo dire inutilmente, dato che, a quanto ci ricorda Giustino, quelle conquiste furono effimere e non servirono ad altro che a soddisfare le passioni di dominio e di conquista del faraone. Consideriamo la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Medi, dei Persiani: è un continuo tentativo di assicurare con la guerra la stabilità del proprio dominio, di garantire all’interno stesso della società “artificiale” l’ordine e l’obbedienza al potere politico. Semiramide e Nino sono ricordati come le grandi personalità politiche di questo periodo in virtù della loro capacità di fondare imperi: ma ciò significa guerre continue, con tutte le loro tragiche conseguenze. E la storia greca è anch’essa il racconto delle lotte continue fra città e città, fra le opposte fazioni all'interno delle stesse città, una lotta fratricida, in fondo, combattuta a volte per il possesso di pochi ettari di terreno, dalla quale la Grecia usci stremata di forze, per essere assoggettata dalla Macedonia. Ed anche l’impero d'Alessandro significò, in sostanza, una pace relativa: alla sua morte i regni di Siria e di Egitto, quelli di Pergamoe di Macedonia si combatterono per duecento anni. E continuando nell’analisi della storia antica, quale spettacolo di devastazioni, di massacri, di proscrizioni, di deportazioni non offre la Sicilia prima del consolidamento del dominio romano a causa delle guerre intestine fra i seguaci delle opposte fazioni politiche, e delle lotte fra i Greci, i Cartaginesi, e i Romani. Infine l’affermarsi di Roma sulle popolazioni italiche e poi l’estendersi e il consolidarsi del suo impero suggeriscono indubbiamente l’idea di una sorte di “catastrofe" del mondo antico se pensiamo a quante vite furono distrutte, quante popolazioni furono ridotte in schiavitù, quanti sacrifici e vessazioni dovettero subirei vinti. Ma nella storia antica c’è quella di un popolo che forse più che ogni altra può essere importante per intendere quanto male e quanto dolore si contenga nella società “artificiale”: è la storia di Israele. Il suo insediamento “politico” nella terra promessa fu possibile solo scacciando le popolazioni che vi abitavano in precedenza, e fu difeso con ostinate lotte con i popoli vicini sino a che i re degli Assiri e di Babilonia non ridussero in servitù l’intero popolo. La tragedia finale del popolo ebreo, che si concluse con la distruzione di Gerusalemme, ha, ai fini della nostra indagine, un significato ben preciso: se un popolo così piccolo, in un territorio cosi limitato, ebbe a sopportare tanti lutti, tanti dolori, tante traversie, dobbiamo ovviamente ritenere che una somma maggiore di mali debbano aver sopportato popoli di gran lunga più numerosi, il cui domir1io politico si estendeva su un più ampio territorio. « La storia non conosce limiti ai dolori ed alle pene degli uomini: ci sono stati periodi in cui sembrava di essere vicini alla totale distruzione del genere umano. L’invasione dei barbari, alla fine dell’Impero romano, devastò la Gallia, l'Italia, la Spagna, la Grecia e l’Africa: ovunque vi furono distruzioni, eccidi. La furia dei barbari trasformò quelle terre, una volta popolose e fertili, in un deserto. È certamente inutile continuare in questa noiosa cronistoria di guerre e di stragi che hanno falcidiato il genere umano: del resto, la storia dei tempi moderni è nota a tutti. Ma non può essere passato sotto silenzio il fatto che la conquista delle Americhe fu attuata mediante la distruzione d'intere popolazioni, si calcola intorno a dieci milioni di morti. Purtroppo gli eccidi e le sopraffazioni in Africa ed in America non sono ancora terminati. La storia umana come campo di attività delle società politicamente organizzate non si riduce ad altro che ad un gigantesco campo di battaglia, nel quale riposano, di volta in volta, fra i corpi martoriati dei vinti, stremati, i vincitori: allo storico non rimane altro compito che quello di redigere il conto consuntivo di tante stragi. Il numero che si ricava - l'indagine statistica naturalmente deve essere accolta con cautela, date le scarsissime informazioni in nostro possesso - è tale da angosciare qualsiasi uomo dotato di un minimo senso dì responsabilità. Cosa insegna, in fondo, la tragica esperienza della storia umana? La società artificiale è un meccanismo che l’uomo non riesce a controllare. Con troppa facilità, infatti, l’uomo si dimentica che il suo animo ha una naturale propensione per le passioni che sono soddisfatte sul piano della forza e della volontà di dominio: ma queste passioni hanno un ben limitato campo d’azione, e quindi scarsissime possibilità di poter raggiungere il proprio oggetto, nell'ambito della società “naturale”. Non così nella società “artificiale”, nella quale invece esse hanno la possibilità di ritrovare gli strumenti più idonei per il soddisfacimento delle loro pretese: la così detta società civile con l’ordinato sistema delle sue istituzioni, è in grado di unificare la forza dei singoli individui in un'unica forza sociale, e di attuare un “meccanismo sociale" che consente ad uno o pochi individui di servirsene. L’unica preoccupazione, in fondo, di tutta la società politica consiste proprio nel rendere sempre più perfetta la forza sociale, nell'aumentare il suo potere dj offesa, vale a dire di distruzione e di morte: sotto questo punto di vista non può negarsi che il progresso verso “il meglio” è indubbiamente costante: << Dai primi albori della società politica ad oggi le invenzioni degli uomini hanno affilato e perfezionato il mestiere dell’assassinio, dai primi rudi saggi di clave e di pietre sino alla presente perfezione di fucili, cannoni, bombarde, mine e tutte queste specie di artificiale, colta e raffinata crudeltà, nella quale noi siamo ora così esperti, che forma la parte principale di ciò che i politici hanno insegnato a credere essere la nostra principale gloria ». Nella società “naturale” invece, questa concentrazione di forze non era assolutamente possibile: l'uomo, in ultima analisi, doveva unicamente preoccuparsi del male che poteva provenirgli da un altro uomo, da una forza più o meno, ma sempre, proporzionata alla sua e dotata di un potere d’offesa estremamente limitato. L’uomo delle società “artificiali” invece si è ridotto ad essere il più feroce di tutti gli animali proprio perché la sua forza è stata moltiplicata, tanto da convincerlo di poter sottomettere i suoi simili alla sua volontà di dominio. È proprio questa l’essenza del potere politico, e quindi il vero fondamento della società “artificiale”, la causa di tutti i nostri mali. La società politica, in ultima analisi, riposa su di un fondamentale rapporto di subordinazione quale intercorre fra il padrone e lo schiavo, e per tal modo l’avarizia, l'interesse, l’ambizione, l’orgoglio di un uomo di governo sono leggi per quanti non hanno alcun proprio fondato convincimento. La politica è ormai considerata come immediatamente collegata con la malvagità dell’uomo: quella parola suscita, bisogna riconoscerlo, un senso di ripulsa in quanto ci richiama, si può dire automaticamente, un comportamento completamente distaccato da qualsiasi considerazione etica. D'altro canto non c’è scrittore politico il quale non riconosce che il governo dello Stato è necessariamente connesso con la violazione della giustizia: la famosa “ragion di Stato” indica per l’appunto quella suprema necessità politica che consente ai governanti di violare in alcuni casi quelle norme etiche su cui si fonda la giustizia e che costituiscono la vera garanzia di libertà per l’individuo. Queste brevi osservazioni sulla natura della politica ci consentono, secondo Burke, di poter esaminare nella loro “verità effettuale” gli ordinamenti formali mediante i quali il potere politico realizza la sua funzione di governo delle società umane. Dobbiamo innanzitutto osservare che tutte le costituzioni possono essere ricondotte ad una sola, la più semplice: quella dispotica. Il dispotismo sembra corrispondere alla vera natura del potere politico “artificiale”, nel senso che un’analisi oggettiva, spassionata, non condizionata da timori reverenziali, dei presunti valori rappresentati dall’autorità fondata sulla tradizione, ci dimostra, senza possibilità di equivoci, che il complicato meccanismo delle costituzioni politiche non ha altro scopo che quello di nascondere il fondamentale rapporto di sudditanza, proprio del governo dispotico, che lega la massa dei governati ai governanti. Per dispotismo dobbiamo intendere la forma di governo nella quale tutti i centri di potere dipendono unicamente dalla volontà del potere supremo: svuotati dì qualsiasi autonomia sono governati tutti nello stesso modo, esclusivamente dalla volontà “occasionale” di colui che impersona il supremo potere. È proprio il felice aggettivo che Burke usa, “occasional”, a denotare la caratteristica fondamentale del dispotismo: il fatto cioè della sua radicale incapacità ad esprimere una volontà coerente ed organica, tale cioè da garantire il conseguimento del bene pubblico. Il dispotismo è indubbiamente la forma più semplice di governo, e quindi quella più diffusa: poche sono le società politiche che riescono a darsi una costituzione diversa da quella dispotica, ma anche queste sono continuamente insidiate dal dispotismo. Consideriamo le manifestazioni tipiche della costituzione che s’informa a tale principio: la volontà del supremo reggitore, per realizzarsi nella sua pienezza e nella sua assolutezza, deve necessariamente porre in atto una serie di accorgimenti che finiscono con l’annullare qualsiasi possibilità di vita autonoma e libera da parte dei singoli individui e quindi con il corrompere ed alla fine disgregare il tessuto delle relazioni sociali, in modo da lasciare l’individuo solo, senza possibilità di aiuto, di fronte alla assolutezza del potere politico. La volontà assoluta, quale si esprime nel dispotismo, è in sostanza volontà essenzialmente "capricciosa”, pronta a seguire i consigli di chi con più abilità e con più accortezza sa lusingarla ed orientarla verso quei provvedimenti volti a realizzare quanto sembra soddisfare i suoi “appetiti”. Per tal motivo il potere politico deve necessariamente asservire tutto e tutti ai suoi fini, con i quali a poco a poco debbono identificarsi quelli della società: l'obbedienza più cieca è il risultato di questo metodo di governo e nello stesso tempo la condizione perché possa continuare ad operare. Così si pongono le necessarie premesse perché il potere politico possa pretendere di indagare, di scrutare la coscienza stessa dei sudditi per assicurarsi che ci sia un’effettiva coincidenza fra la sua volontà e quella dei sudditi, e l'individuo viene, in tal modo, privato di quello che è il suo bene più prezioso, l’interiore libertà, cioè la determinazione autonoma dei fini delle sue azioni, e, quindi, ridotto al rango di uno schiavo,. Libera da qualsiasi vincolo, la volontà assoluta del reggitore è dominata da un insaziabile desiderio, una vera e propria “concupiscenza”, di avere sempre di più e di diverso. Nulla riesce ad appagarla completamente: essa nella sua azione di governo deve continuamente volere, qualcosa di nuovo. Dietro l’apparente stabilità, il governo dispotico nasconde sostanzialmente una profonda instabilità che è data, per l'appunto, dalla essenziale mutevolezza dei fini che si propone la volontà politica. Questo governo si realizza solo a patto di asservire tutti gli individui ai suoi voleri per mezzo della forza, che la stessa società ha messo a sua disposizione, e per mezzo della corruzione, della frode, della paura. L’oppressione che si esercita sulla massa degli individui che compongono la società politica diventa nel governo dispotico sempre più pesante: in effetti, il principe governa per mezzo dei suoi favoriti, di quei consiglieri che riescono a cattivarsi la sua simpatia e la sua benevolenza, i quali, osserva Burke, rendendosi conto che la benevolenza del loro signore è di breve durata, cercano di realizzare quanto più possono finché dura il “loro” potere. Due “corti", quella del principe e quella del favorito, costituiscono la caratteristica del dispotismo, quella del potere legale e quella del potere “di fatto", l’una contro l’altra armata con le insidiose e velenose armi della calunnia più o meno nascosta, della frode, della corruzione, talché la fede pubblica e privata, che costituisce uno dei vincoli fondamentali della società, non più può essere considerata come un valore centrale per la stabilità delle relazioni sociali. In un regime dispotico ogni individuo deve fare unicamente affidamento sulle qualità peggiori del suo carattere: gli ingenui, gli onesti, i “poveri di spirito" sono facile preda degli astuti e dei violenti. Questa forma d’oppressione. genera un diffuso senso di scoraggiamento, di profonda apatia che finisce col togliere alla società qualsiasi interesse per tutte quelle iniziative che richiedono la collaborazione degli individui sul piano sociale e che sono tanto necessarie per perseguire il progresso civile e sociale. È forse proprio per questo motivo che il dispotismo finisce per causare una diffusa indigenza che colpisce le società soggette ad una tal forma di governo. Possiamo considerare ora in sintesi quali i “benefici” effetti della forma più semplice della società “artificiale”: la mancanza assoluta di libertà sia nelle espressioni della vita pubblica che in quelle della vita privata, la coartazione e il progressivo svuotamento della coscienza del singolo, l'oppressione di uno o di pochi attuata al solo scopo di soddisfare la smodata ambizione di chi comanda, la disgregazione dei valori fondamentali sui quali si fonda il costume sociale, la corruzione della vita pubblica e privata, l'assoluta insicurezza nella vita e nei beni, lo sfruttamento e la conseguente miseria ed abbrutimento della stragrande maggioranza degli individui. Perciò, osserva Burke, questa prima “costituzione”, o modo di organizzare il potere o la forza sociale, non corrisponde alle attese di benessere e di felicità, di maggiore autonomia e libertà che si sono ripromessi gli individui costituendo la “società artificiale": abbiamo visto quali ne sono stati i concreti risultati. In questa forma di governo la natura umana è degradata alla brutalità delle bestie e, come osserva giustamente Locke, essa è peggiore dell’anarchia: è indubbiamente meglio vivere nella società di natura, affrontando tutti i rischi che questa comporta, anziché avvalersi del presunto ordine e della presunta tranquillità che offre il governo dispotico. Si osserverà, continua Burke, che se la forma di governo dispotica, la più diffusa sulla terra perché la più semplice, è la causa di tanti mali per gli individui, lo stesso non può dirsi per altre costituzioni, che sono state elaborate proprio per ovviare ai gravissimi inconvenienti della prima. Le costituzioni aristocratica, democratica e soprattutto mista, nella quale si contemperano i principi delle tre costituzioni tipiche, secondo quanto affermano la maggior parte degli scrittori politici, in effetti garantirebbero, soprattutto l’ultima, il raggiungimento di quella libertà, sicurezza e tranquillità cui aspira l’uomo con la formazione della società “artificiale”. Purtroppo uno studio attento, condotto con animo disincantato che non si lasci commuovere dall’apparente autorità di alcuni principi o valori fondati sulla tradizione o sul costume ci dimostra che queste altre forme di governo, in definitiva, non fanno che accentuare i malanni insiti nel dispotismo. E indubbiamente una conclusione paradossale, almeno ad una prima considerazione, ma che alla fine deve essere accettata in tutta la sua verità, non appena ci rendiamo conto del concreto meccanismo delle stesse costituzioni. Nel corso dell’esperienza storica il primo tentativo, ingenuo del resto, di eliminare il dispotismo deve essere stato quello che si ridusse a cambiare la persona di chi governa: questa sostituzione, cui si pervenne di solito dopo atroci lotte civili, servì a ben poco. Il nuovo principe per un breve periodo di tempo informò il suo governo ai principi del pubblico interesse, poi, a poco a poco, instaurò di nuovo la costituzione dispotica: in fondo è nella natura stessa del potere politico realizzarsi nella sua forma più assoluta. Ammaestrati da successive esperienze gli individui ritennero, allora, che affidando il potere ad un numero ristretto di persone dotate di virtù riconosciute da tutti i cittadini, avrebbero avuto un governo efficiente e nello stesso tempo rispettoso dei diritti di tutti i consociati, anche perche i nuovi governanti, dotati di un patrimonio ragguardevole, non avrebbero avuto alcuna sollecitazione ad arricchirsi a spese dei concittadini. Ma anche in questo caso si tratta di un'illusione: in effetti, l’esperienza stessa si incarica di dimostrare che il governo aristocratico si distingue solo formalmente da quello dispotico, dato che quando il popolo viene escluso dal potere legislativo esso diventa automaticamente schiavo della classe aristocratica, così come lo era stato del principe: anzi, la tirannia che deve sopportare è più pesante, in quanto ogni nobile ha di solito l’alterigia di un sultano e la sua azione di governo risulta infine ispirata alla gelosa custodia dei propri averi molto spesso confinante con l’avarizia , all’orgoglio connesso con le proprie tradizioni familiari, alla paura dì perdere un potere che in definitiva non ha alcuna corrispondenza nei concreti e reali interessi della società. Consideriamo, ad esempio, le repubbliche di Genova e di Venezia: il loro governo non è altro che un dispotismo mascherato. La “ragion di stato” di queste repubbliche è sostanzialmente il sospetto, con tutte le relative conseguenze che finiscono col corrompere lo spirito pubblico e col fondare la costituzione su di un rapporto di soggezione che sottomette il popolo all’aristocrazia . D'altro canto, che la costituzione aristocratica renda ancor più pesante il potere dispotico di cui dispone è comprovato da una considerazione di cui non si tiene il debito conto: l'aristocrazia, come corpo politico, tende a rendere omogenea l’azione politica di coloro che vi appartengono, e, gelosa delle sue prerogative e tradizioni, cerca di mantenersi come un ordine chiuso che si perpetua nel tempo, conservando inalterati i suoi principi di governo e non consentendo alcuna modificazione o innovazione nel modo di governare gli affari pubblici. Per tal motivo, osserva acutamente Burke, nella forma del dispotismo “puro”, nella quale il potere è affidato ad una sola persona, c’è sempre un periodo di tempo, sia pur breve, nel quale il dispotismo si attenua dì molto o addirittura sparisce (anche se i casi sono certamente rari) in occasione della successione o sostituzione del principe: basta ricordare a questo proposito Tito, Vespasiano, Antonino Pio, Marco Aurelio. La possibilità, invece, che il governo dispotico sia notevolmente ridotto oppure sostituito con una forma di governo monarchico rispettoso della dignità e della Libertà dei cittadini, è esclusa nelle forme aristocratiche di governo, in quanto in esse non gli individui ma il corpo politico esercita in effetti il potere politico. Consideriamo, ad esempio, il caso della repubblica di Venezia, che sembra avere un governo sufficientemente moderato: essa nasconde un regime dei più tirannici, che si manifesta nella particolare cura con cui l’aristocrazia persegue il fermo proposito di mantenere il popolo in uno stato di generale apatia, mediante quegli accorgimenti atti a provocare il suo disinteresse per tutto quello che riguarda la cosa pubblica. La profonda corruzione civile, che soffoca qualsiasi tentativo di dare al popolo, alla maggioranza dei cittadini, una propria dignità ed una sua autonoma funzione nell'ambito della costituzione, è in definitiva la conseguenza della politica perseguita con tenacia dall’aristocrazia di privare il popolo di qualsiasi forma di libertà, col tenerlo costantemente sottomesso mediante il timore di un’implacabile inquisizione di Stato. Così, anche questa volta, bisogna dire che la seconda forma di governo, escogitata per garantire alla “società artificiale” il conseguimento del benessere collettivo e della libertà di tutti, non corrisponde agli scopi prefissi, anzi essa non fa che rendere ancora più dura e più stabile l’oppressione propria del dispotismo: « In breve i regolari e metodici procedimenti di un'aristocrazia sono più intollerabili degli eccessi propri di un dispotismomo, e, in generale, più lontani da ogni rimedio ». La terza forma dj governo, costituita per sottrarsi alla tirannia della classe aristocratica, è quella democratica, nella quale il popolo diventa l'unico soggetto attivo del potere sovrano. Potrebbe sembrare, e molti lo hanno sostenuto, che la democrazia assicuri finalmente alla società politica il godimento di quei beni per i quali è stata costituita: ma ancora una volta bisognerà dire che anche questa nuova costituzione, e forse più delle precedenti, realizza un tipo di governo che si fonda sul più spietato, assurdo assolutismo. Come già nelle altre due costituzioni, quella monarchica e aristocratica, l’esercizio del potere da parte del popolo, non limitato da altra istituzione od ordine politico, ricrea le stesse condizioni che determinarono l’instaurarsi del dispotismo. Il “meccanismo” mediante il quale si corrompe, a poco a poco, o per dir meglio è “consumato”, l’insieme dei valori che costituiscono la trama essenziale del costume sociale, è sostanzialmente identico a quello delle altre costituzioni: anche il popolo viene a poco a poco corrotto dall'esercizio del potere sovrano; la sua volontà non si determina sul piano della consapevolezza razionale, ma su quello delle passioni, dei sentimentalismi. Anche il popolo, più del monarca, è sensibile alle lusinghe, al fascino dei demagoghi che sanno blandirlo, commuoverlo, suscitare la sua ira e il suo furore, il suo sdegno, trovare con arte sottile la strada giusta per pervenire al suo cuore e servirsi delle sue stesse passioni più nobili per convincerlo della sua assolutezza, del fatto che la sua volontà è sopra la stessa legge, La storia della democrazia per eccellenza, quella d’Atene, ci fornisce ammaestramenti utili sul rapido processo di degenerazione del sistema democratico e su come il potere del popolo si trasformi nella più spietata delle tirannie. Si comincia con l’allontanare a poco a poco dal governo gli uomini più illustri e più capaci, che non sanno indulgere a favorire o a blandire le passioni del popolo: il principio della assoluta eguaglianza di tutti i cittadini trova in tal modo una prima applicazione, per ispirare poi tutte le istituzioni politiche del regime democratico, con l’unico risultato di eliminare dalla vita politica quanti con la loro personalità, o con la loro posizione sociale, possono elevarsi al di sopra della media dei cittadini. L’ostracismo è l’istituto che, più d’ogni altro, esprime lo spirito egualitario che anima le democrazie, che finisce con l’allontanare i migliori dalla vita politica e col dividere il popolo in contrapposte fazioni, ognuna delle quali convinta di perseguire il bene della collettività. La volontà del popolo, come quella del tiranno, non trova più una sua interna e coerente stabilità, ma credendo d’interpretare sempre e comunque il giusto e l'onesto, muta a seconda delle situazioni, e soprattutto delle suggestioni, finendo col perseguire unicamente il particolare interesse della maggioranza dei cittadini che formalmente la esprime. La storia d’Atene ci ricorda provvedimenti della più palese ingiustizia, in cui vennero obliate le più elementari norme della convivenza civile: come non rammentare, questo proposito, il provvedimento dell'assemblea ateniese, durante la prima fase della guerra peloponnesiaca, con il quale, onde escludere una parte del popolo dalla distribuzione del grano inviato dal re di Egitto durante il periodo della carestia, tolse a cinquemila Ateniesi il diritto di cittadini, confiscando i loro patrimoni e disponendo nel contempo, cosa ancora più abominevole, che fossero venduti come schiavi? Non può negarsi certo che la stravaganza, il capriccio, l’ira, il furore, la persecuzione ingiusta e malvagia, la prevaricazione a danno dei singoli e delle minoranze sono continuamente presenti nella storia della democrazia ateniese e ci ammoniscono che il popolo può essere, a volte, più tiranno dello stesso Nerone. Le vicende politiche ateniesi dimostrano inoltre che la democrazia non riesce a garantire la tranquillità, la sicurezza, la libertà dei singoli cittadini: anzi il principio della sovranità del popolo non conduce ad altro risultato che a quello di legittimare le fazioni e le loro lotte, al cui termine il vincitore di turno aveva il diritto dì opprimere, esiliare, bandire, a volte condannare a morte i suoi avversari. La vita, l’onore, gli averi di un cittadino erano garantiti unicamente da un'incerta, effimera maggioranza che sosteneva la fazione cui apparteneva o che lo annoverava fra i suoi seguaci: Atene è la città che bandi Temistocle, che ostracizzò Aristide, che costrinse all'esilio Milziade, che allontanò Anassagora e che uccise con il veleno Socrate. Il governo democratico era incapace di esprimere una volontà politica unitaria ed omogenea, in grado dì realizzare in concreto il benessere collettivo, proprio perché si fondava su di una fiducia popolare “fragile”, e quindi variabile, a motivo del sospetto con il quale il popolo riguardava sempre i governanti per il timore di essere sminuito nella sua autorità o addirittura di essere privato della sua potestà sovrana. È questa, in sostanza, la profonda antinomia della costituzione democratica, una volontà che diffida di se stessa, una volontà in sostanza sterile, che non riesce a tradursi in atto, proprio perché sottopone ad un continuo controllo gli strumenti del suo volere e tende a renderli poco efficienti. In questo regime un generale non poteva né vincere né perdere una battaglia, un filosofo non poteva usare di quella libertà della quale godevano invece tutti gli altri cittadini: la libertà politica, paradosso del regime democratico, non ammetteva la libertà di pensiero. L’instabilità, in sostanza, è la caratteristica fondamentale del regime democratico: la politica si riduce ben presto alla lotta delle opposte fazioni per assicurarsi il potere, conquista sempre effimera; ir1 questa costituzione, di volta in volta, si succedono, come è stato acutamente notato sin dall’antichità, il governo monarchico, del demagogo cioè che riesce a concentrare su di sè il favore popolare, quello aristocratico del ristretto gruppo che riesce a orientare le decisioni dell’assemblea ed a farsi nominare ai posti di comando infine quello popolare, quando in alcune occasioni il governo, cioè gli atti che gli competono, vengono direttamente assunti dall'assemblea stessa. La costituzione democratica è un caotico alternarsi di forme di governo in una lotta spossante che finisce con lo stremare e col ridurre all'indigenza la società politica: << Siccome vi è un perpetuo mutamento, uno che si innalza e l'altro che decade, voi avrete tutta la violenza e una politica malvagia, con cui un potere che nasce deve sempre acquistare la sua forza, e tutta la debolezza dalla quale gli Stati che decadono sono portati alla completa distruzione >>. Si è dimostrato in tal modo che le tre forme tipiche di governo, monarchica, aristocratica, democratica, non sono che tre diversi aspetti dell'unica fondamentale forma di governo, il dispotismo: pure, osserva Burke, al fine di eliminare qualsiasi eventuale perplessità, possiamo ammettere chele tre forme di governo di cui si è parlato abbiano realizzato nel corso dell’esperienza storica, e tuttora realizzino, un certo grado di libertà, di sicurezza, di tranquillità per i cittadini. Ma anche questa concessione alla tesi degli avversari serve a ben poco, allorché intendiamo considerare la questione nella sua interezza, se la società “artificiale” è un bene o un male per gli individui che la costituiscono. Occorre tener conto che le tre forme di governo di cui si è trattato garantiscono, nella migliore delle ipotesi, la libertà politica ad un ristrettissimo numero d'individui: ad Atene il numero dei cittadini oscillava fra i diecimila e i trentamila, ma gli schiavi ammontavano a circa quattrocentomila, e in determinati periodi superarono anche questo numero. A Sparta il numero dei cittadini liberi era, proporzionalmente agli schiavi e agli Iloti, molto inferiore a quello d'Atene. Queste osservazioni possono essere fatte a tutti gli ordinamenti politici dell’antichità, e come vedremo, alla maggior parte di quelli moderni. Se si tiene conto che gli Stati che hanno informato il loro ordinamento politico a principi, sia pur formali, di libertà sono un’esigua minoranza rispetto agli altri, e che all’interno di questi stessi Stati i liberi sono un'altra esigua minoranza, dobbiamo necessariamente ritenere dopo quanto si è detto nel corso dell’esame delle singole forme di governo, che la società “artificiale” non è assolutamente in grado di assicurare agli uomini il godimento di quei diritti e di quel benessere per i quali sarebbero state costituite. L’ordine politico “artificiale”, considerato nelle sue manifestazioni tipiche e con riferimento non a questa o quella singola esperienza storica, ma a tutto il genere umano, non si riduce ad altro che ad una ristretta oligarchia che si mantiene al potere mediante l’uso spietato della forza: il governo popolare, pertanto, è un puro nome, che non ha alcun riscontro con la concreta realtà istituzionale della società politica. Come si è visto la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia non corrispondono ai fini per i quali è stata fondata la società “artificiale”: ma, si dirà, le forme di governo non sono esaurite, gli uomini nella loro secolare esperienza, ammaestrati dai mali subiti dalle precedenti costituzioni, hanno cercato di ovviare agli inconvenienti, mediante la fusione delle tre forme di governo in una sola costituzione, la quale, conservando i principi della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia, riuscisse nello stesso tempo ad eliminare i gravi difetti di ciascuna. È la costituzione “mista" o governo “misto", che per molti scrittori politici sembra aver finalmente garantito alla società la stabilità dell’ordine politico nel rispetto dei diritti e della libertà dei membri della società. La costituzione mista, se esaminata con animo veramente critico e spoglio di pregiudizi, rivela ben presto la sua inconsistenza, la sua incapacità a realizzare gli scopi che le sono prefissi, dato che la pretesa di attuare un reciproco controllo ed un bilanciamento fra le forze sociali, che si esprimono politicamente nella monarchia, nell’aristocrazia e nella democrazia, è irrealizzabile e, all'atto pratico, pone in essere una costituzione così macchinosa da generare, nella società, degli stati di tensione politica fra i diversi ordini che costituiscono una continua minaccia all’unità stessa dello Stato. Sono proprio le osservazioni sulla costituzione mista e quelle che seguono, a proposito delle fondamentali istituzioni civili sulle quali si regge l’organizzazione della stessa società, che consentono di rilevare come la critica di Burke si riferisce, a volte in modo palese, alla vita politica inglese della prima metà del settecento, e cosa ancor più interessante, alla situazione sociale, che sembrava riprodurre in Inghilterra l'antica distinzione dello Stato classico fra liberi e schiavi. Non possiamo nasconderci, precisa Burke che le diverse “parti" che costituiscono la costituzione mista, hanno, o per lo meno rivendicano, ciascuna una propria autonomia e distinta funzione, che non sono però specificate con regole precise. I loro diritti sono quanto mai vaghi sì che quando si pongono questioni che per essere risolte richiedono condivise interpretazioni e concordi accertamenti di responsabilità, si hanno invece discussioni, controversie che hanno come unico scopo quello dì lasciare impuniti gli abusi che sono commessi nell’esercizio delle pubbliche funzioni. In tal modo, quel controllo che la costituzione mista dovrebbe garantire su quanti sono incaricati della cosa pubblica viene sostanzialmente a mancare, onde, a poco a poco, gli abusi stessi sono prima tollerati e poi legittimati: la pratica, quindi, dell’esercizio di poteri di fatto, non previsti dalle leggi, diventa sempre più diffusa e finisce nel tempo col modificare il costume civile e politico, affermando il principio dell’assoluta impunità per tutti quelli che partecipano al governo della cosa pubblica. L’inconveniente più grave, che provoca delle conseguenze dannosissime, è indubbiamente quello che si riferisce ai rapporti dei tre ordini, il monarchico, l'aristocratico, il democratico. Benché uniti nella stessa costituzione, ciascuno di loro serba intatto, se così possiamo dire, il proprio spirito di corpo, e costituiscono tre parti separate e distinte, ciascuna gelosissima delle sue attribuzioni, delle sue prerogative, delle sue tradizioni, onde le relazioni che si istituiscono fra di esse sono improntate alla reciproca diffidenza: il re ambizioso, la nobiltà orgogliosa, il popolaccio sempre tumultuoso, pronto alla rivolta e ingovernabile. Formalmente ogni “parte” sembra voler convivere pacificamente con le altre, ma il suo costante, se pur segreto, proposito rimane quello di “insidiare” le posizioni delle altre, di diminuirne il prestigio e il potere, onde accade che nelle questioni di una qualche importanza sia che riguardino gli affari interni che quelli esterni, si considerano i provvedimenti da assumere più per quanto attiene agli eventuali vantaggi che possono provenire a questa o quella parte, che per la bontà intrinseca degli stessi provvedimenti e ci si preoccupa di vedere se le leggi richieste aumentano o diminuiscono i poteri della Corona, se restringono od allargano i diritti dei cittadini. Così i più urgenti e gravi problemi della società sono normalmente risolti senza alcuna particolare considerazione per quanto riguarda la garanzia del bene pubblico, ma unicamente in vista degli interessi particolari di questo o quel partito, con l’ovvia conseguenza che la famosa e tanto vantata “bilancia” dei poteri non è mai in equilibrio ma in effetti pende sempre o da una parte o dall'altra, con “oscillazioni” che turbano profondamente l’ordine politico e civile della stessa società. Per tal motivo, il governo, nella costituzione mista o “bilanciata”, si riduce di volta in volta ad essere l'espressione di uno solo, del monarca, che si serve del potere politico a suo esclusivo arbitrio, o di un’astuta “confederazione” di pochi avente lo scopo di ingannare il principe e di opprimere il popolo, oppure di una frenetica ed ingovernabile moltitudine. Si tenga inoltre presente, dopo quanto si è detto, che l’anima della costituzione mista è il partito, e che lo spirito che accomuna tutti i partiti e che li determina nella loro azione politica è quello dell'ambizione, degli interessi particolaristici: il partito si sostituisce, a poco a poco, alle istituzioni politiche, onde tutti i valori ed i principi del costume pubblico vengono rapportati unicamente agli interessi partitici. Ed è proprio questo spirito, osserva Burke, che alla fine distrugge tutti i principi che una natura benevola ha posto in noi, che finisce con l’annullare qualsiasi sentimento d’onestà, di `giustizia, che vanifica molte volte perfino i legami della società naturale, cioè l’affetto che unisce i componenti di una stessa famiglia. Così l’esperienza della vita politica, quale si svolge nell'ambito della costituzione mista, ci rende chiaro che il governo che si esercita per il tramite dei partiti si riduce di solito ad una vera e propria oppressione simile a quella del dispotismo, e a volte del tutto uguale ad una vera e propria tirannia. Il peggio è che l’opinione pubblica in fondo finisce con l’accettare questo stato di cose, proprio. perché siamo abituati a vedere che i più sacrosanti diritti sui quali si fonda l’ordine della società diventano oggetto di quotidiani compromessi, senza alcuna preoccupazione di giustificarli, salvando almeno le forme apparenti della giustizia. Ebbene, osserva Burke, noi consideriamo tutto questo senza la benché minima emozione, proprio perché siamo cresciuti in questa pratica: non ci sorprendiamo affatto che si richieda ad un uomo dì essere un impostore o un traditore con la stessa semplicità con la quale gli si domanda di solito un favore, e siamo infine abituati a vedere rifiutate queste richieste, non perché contrastano con i più elementari principi della giustizia e della morale, ma perché l’interessato ha già aderito ad analoghe profferte formulate da altro partito. Tutte queste osservazioni potrebbero essere ulteriormente illustrate con altri argomenti, desunti dalla ricca “fenomenologia” della vita politica propria della costituzione mista: non rimarrebbe che l’imbarazzo della scelta. Basterà accennarne solamente alcuni. Si esalta ad esempio la tolleranza che è possibile attuare solamente nella costituzione mista: certo noi siamo liberissimi di criticare la costituzione cinese o di condannare, tanto per fare un esempio, i trucchi e l’assurda bigotteria dei bonzi, ma non appena queste critiche sono mosse al costume politico inglese ed alla religione da noi in auge si viene immediatamente tacciati di ateismo e di tradimento, con tutte le relative conseguenze. La storia politica inglese, d'altro canto, ci consente di rilevare che lo stesso partito dapprima ha sostenuto la legittimità della resistenza armata del popolo contro la monarchia e poi non ha esitato a giustificare una prerogativa regia così estesa da confinare con il più rigido degli assolutismi. Sempre la storia inglese non ci avverte che non abbiamo mai avuto un parlamento, il quale mentre si preoccupava di fissare dei limiti alla prerogativa regia, nello stesso tempo cercava di porre dei limiti a se stesso? Non sono mancati i Re che per mezzo della violenza o della frode hanno tentato di violare la costituzione? I tentativi di riformare i gravissimi difetti della nostra costituzione, più e più volte denunciati, non hanno fatto altro che aggravare i mali lamentati? E così la nostra tanto vantata libertà a volte è addirittura calpestata, a volte è portata vertiginosamente in alto, sì che essa ha un’esistenza del tutto precaria, condizionata dalle contese, dalle guerre, dai complotti. Non c’è nessun altro paese d’Europa in cui il patibolo è stato così spesso arrossato dal sangue dei nobili: confische, esili, processi, esecuzioni ricorrono continuamente nella storia delle famiglie aristocratiche, molte delle quali furono distrutte. Certo la vita politica non è caratterizzata più da quegli episodi di ferocia e di sangue: bisogna riconoscere che l’esperienza politica è riuscita a trovare altri mezzi di governo diversi da quelli che si fondavano sulla spada. Bisogna anche ammettere che, in definitiva, sono forse preferibili i vecchi, spietati, ma leali mezzi di governo, ai nuovi che si fondano sulla corruzione e sul tradimento. L’esame della società “artificiale” non deve limitarsi, per Burke, alla costituzione, al modo con cui è regolato l'esercizio del potere politico, ma deve essere anche esteso a quelli che sono gli “strumenti” essenziali della vita “civile” e sociale dell’individuo, alle istituzioni fondamentali, alle reali condizioni di vita della maggioranza degli individui nella società “artificiale". In questo caso Burke riprende le critiche rivolte alle condizioni della società inglese del suo tempo e che il pensiero politico illuministico, in particolare quello di Bolingbroke, non prendeva in alcuna considerazione. È stato da molti osservato, anche Locke lo ha detto, che uno dei più grandi inconvenienti della società naturale è che ogni individuo, qualora gli sia stato fatto un torto, debba essere giudice della sua stessa causa. Per tal motivo una delle istituzioni fondamentali della società “artificiale”, forse quella che la caratterizza, deve ravvisarsi nel fatto di affidare ad un terzo, estraneo agli interessi dei contendenti, la soluzione della controversia. Ben presto però ci si accorse che la garanzia della vita, degli averi, dell’onore degli individui era affidata ad una volontà, quella del giudice, del tutto arbitraria, perché non soggetta ad alcun controllo: invece di garantire la libertà degli individui mediante un giudizio imparziale e disinteressato si erano sottoposti gli individui stessi ad un potere che si rivelò ben presto insopportabile. Si pensò allora di limitare la volontà del giudice mediante le leggi, che avrebbero dovuto garantire un giudizio obiettivo, e quindi giusto. Introdotte le leggi, ci si rese conto che le stesse, nella loro semplicità e. brevità lasciavano ancora troppa libertà al giudice: occorreva aggiungere alle vecchie, nuove leggi, che precisassero ed integrassero le prime. Si riscontrarono nuove, gravi difficoltà, che resero macchinosa e complessa l’amministrazione della giustizia. Le nuove leggi ponevano difficili problemi interpretativi per quanto riguardava i rapporti con le vecchie: la terminologia giuridica era diventata complessa, per cui la necessità di ricorrere ai commenti, alle glosse, alle relazioni, ai rerponsa prudentum. Gli uomini, che avevano inventato le leggi per regolare i loro rapporti, erano diventati poco a poco prigionieri delle loro stesse leggi, trasformate in uno dei più validi strumenti di soggezione e di oppressione. A motivo dell'interpretazione il diritto è diventato una scienza complessa, appresa da una ristretta categoria di persone, che detiene il monopolio della conoscenza e dell’applicazione delle leggi, le quali, peraltro, erano state inventate affinché ogni individuo potesse sapere con certezza quali fossero i suoi diritti e quali le relative garanzie. La certezza del diritto è in sostanza una pura illusione: chi consideri la complessa macchina dell'amministrazione della giustizia dovrà convenire che sono proprio le leggi a rendere incerti, confusi, aggrovigliati i rapporti degli individui nella società. “La confusione cresce, la nebbia si fa più spessa, sèno al punto che non si è più in grado di stabilire quello che è permesso o quello che è proibito, quali sono le cose di nostra proprietà della comunità. In tale incertezza (incertezza per uno specialista, ma vera oscurità simile a quella che nasconde la lingua egiziana all'umanità) le parti che si costituiscono in giudizio sono rovinate più per la lunghezza dello stesso giudizio che per l'ingiustizia di una qualsiasi decisione. Le nostre eredità sono ormai diventate il prezzo delle dispute giudiziarie e queste diventano la nostra eredità”. Si tenga inoltre presente, continua Burke, che i professori della legge “artificiale” sono sempre intimamente legati a quelli della teologia “artificiale'‘. In fondo il loro scopo è identico: essi hanno, ciascuno nel suo campo, elaborato le rispettive dottrine in modo da “confondere la ragione dell’uomo e da incatenare la sua libertà naturale". I teologi non esitano a scagliare i loro anatemi contro chi osa venir meno ai doveri sanciti dalle leggi artificiali e dal canto loro gli uomini di legge professano verso il diritto una venerazione di tipo religioso, che si esprime nel rigido e solenne formalismo, con il quale hanno rivestito tutti i rapporti che si costituiscono fra le persone ne a società. La conseguenza dell'intimo nesso che è stato stabilito fra la legge “artificiale" e la teologia “artificiale” si rende evidente non appena noi ci rivolgiamo al giudice affinché venga garantito un nostro diritto: non si discute sulla “cosa” che interessa chi promuove il giudizio, ma sulle forme che sono state usate, o che si sarebbero dovute usare per quel determinato diritto e in quella determinata vertenza: l’oggetto principale della lite viene immediatamente perso di vista e tutta la sapienza si esercita unicamente sulle parole, sulle formule, la cui presenza o la cui assenza può decidere del patrimonio, dell’onore, a volte della vita di un individuo. La proprietà, è stato detto, è la prima e vera garanzia della tranquillità, della sicurezza, della libertà dell'individuo e di conseguenza la tutela della proprietà è la condizione essenziale perché siano garantiti l’ordine e la pace, senza le quali non può esistere alcuna società politica. Orbene, non appena una persona si rivolge al giudice, deve rendersi conto a sue spese che la tutela che le leggi dovrebbero garantirgli è una parola vana: L’amministrazione della giustizia è cosi complessa, cosi macchinosa, la procedura cosi complicata, che a causa delle spese del processo rischia di perdere prima che sia decisa la causa. E quando dopo tante fatiche, dopo tanti affanni, ottiene una sentenza favorevole, la vittoria è spesso vana: l’avversario riesce sempre a trovare un errore commesso nel corso del giudizio che giustifica il proseguimento della causa presso un’altra corte: << La mia causa, che due agricoltori avrebbero deciso in mezz’ora, impegna invece la corte per vent’anni. Quando arrivo alla fine della mia fatica ed ottengo in compenso del mio lavoro e delle vessazioni subite una decisione favorevole, un astuto comandante del campo avversario trova un errore nella procedura seguita: il mio trionfo si trasforma automaticamente in lutto. Si scopre che ho usato “o” invece di “e”, o qualche altro errore: rinnovo così la mia causa, vado di corte in corte, passo da quella d’equità a quella di “state law" e un'eguale incertezza mi attende ovunque; in tal modo un errore al quale io non ho partecipato decide improvvisamente della mia libertà e della mia proprietà, inviandomi dal tribunale alla prigione e trascinando la mia famiglia nella povertà e nella fame. Signori, io sono del tutto innocente dell’oscurità e dell'incertezza della vostra scienza. Io non ho reso oscura questa scienza con nozioni assurde e contraddittorie, né l'ho confusa con l’inganno e con i sofismi. Voi mi avete escluso in tutti i modi dalla condotta della mia causa con il motivo che la scienza era troppo profonda per le mie cognizioni, il che riconosco: ma era troppo profonda anche per voi, e avete reso la via così intricata, si che alla fine vi ci siete perduti voi stessi, La conclusione di tutto questo è che voi sbagliate e poi punite me per i vostri errori ». Né può essere sottaciuta un’altra grave incongruenza del sistema giudiziario e processuale: per quanto è tarda e lenta la giustizia allorché tratta di questioni attinenti al patrimonio delle persone, altrettanto è sollecita, rapida quando è investita di questioni la cui definizione implica la vita o la morte di un individuo: riesce veramente incomprensibile comprendere come mai quando sono in gioco interessi, indubbiamente importanti, ma non essenziali, la giustizia si circondi di tante cautele e proceda con una circospezione così eccessiva da ingenerare gli inconvenienti che si sono lamentati, ed invece quando si deve decidere su interessi essenziali, quali la vita, l'onore, la libertà della persona, quegli accorgimenti, tanto necessari per garantire i beni supremi dell’individuo, sono invece del tutto omessi. I “politici” hanno sempre sostenuto che lo scopo fondamentale delle leggi, come si è già ricordato, è quello di garantire la sicurezza, la tranquillità, la vita, l'onore, il patrimonio di tutti gli, individui che costituiscono la società, di assicurare la giustizia a tutti al fine di difendere il povero e il debole dalle sopraffazioni del ricco e del potente. Ma, ancora una volta il richiamo ai reali e concreti rapporti di fatto consente di dimostrare quanto tale affermazione è, in sostanza, astratta: in un sistema giudiziario il cui costo è altissimo, la giustizia è riservata esclusivamente ai ricchi ed i poveri, di fatto, sono esclusi da quelle garanzie, da quella tutela e difesa dei loro interessi e diritti, per le quali fu invece costituita la società “artificiale". Nella società naturale l'individuo poteva sempre difendersi contro le sopraffazioni del suo simile più forte, aveva sempre il diritto di soddisfarsi del torto subito esercitando un’azione di rappresaglia mediante la sorpresa o l'astuzia: << invece nella società politica “artificiale” il ricco può derubarmi in mille modi, né io posso difendermi, dato che il denaro è l'unico mezzo mediante il quale io sia autorizzato a combattere, E se io oso vendicarmi l’intera forza di quella è pronta a completare la mia rovina ». L’esame della società “artificiale” non può dirsi completo se non prendiamo in considerazione, nel suo vero ed autentico significato, la distinzione cui si è accennato fra ricco e povero, su cui, in ultima analisi, riposa l'intero ordine politico e sociale della società. I ricchi sono pochi e i poveri costituiscono la stragrande maggioranza della società “artificiale”: il sistema è organizzato in modo tale che ai poveri è imposto l’onere di fornire i mezzi che consentano ai ricchi di vivere nell’ozio e nel lusso, e che i ricchi hanno l’unica preoccupazione di escogitare i mezzi migliori onde mantenere i poveri nella schiavitù. La soggezione che sottomette il povero al ricco, questo è il rapporto fondamentale su cui si fonda il complesso meccanismo dei comandi e delle obbedienze che consente il “funzionamento” della società “artificiale”. Certo nella società di natura una delle leggi fondamentali, se non la prima, è quella che sancisce che i nostri acquisti debbano essere in proporzione del nostro lavoro: ma nella società politica questa stessa legge è capovolta: chi lavora ha poco o niente e chi non lavora gode, invece, dei benefici e dei vantaggi derivanti delle fatiche altrui. Noi, in verità, non Siamo abituati a considerare. tale aspetto della nostra società, benché, quotidianamente, ci cadano sott’occhio moltissimi episodi che vi si riferiscono direttamente. Nella sola Inghilterra, ad esempio, più di centomila persone lavorano nelle miniere per le industrie tanto necessarie alle nostre esigenze “civili": << Queste persone infelici appena vedono la luce del giorno, esse sono seppellite nelle viscere della terra, ove lavorano in un durissimo e spaventoso mestiere senza la minima prospettiva di potersene un giorno liberare; si nutrono del peggior vitto, la loro salute si deteriora miserabilmente, la loro vita è notevolmente accorciata dal fatto di trovarsi continuamente confinati fra i dannosi vapori di questi minerali. Altre centinaia di migliaia di persone sono torturate senza remissione dal fimo soffocante, dal fuoco intenso e dalla continua fatica necessaria per manipolare, e raffinare i prodotti delle miniere >>. Questo è quanto possiamo dire dell'Inghilterra: ma è ben poca cosa se estendiamo la nostra analisi agli altri Stati ed alle altre collettività sparse nel mondo. Allora possiamo dire senza correre il rischio di. essere smentiti che << milioni di uomini ogni giorno fanno il bagno nei velenosi vapori e nei distruttivi effluvi del piombo, dell'argento, del rame, dell'arsenico. Per non parlare di altri lavori, pieni di miseria e di disprezzo, nei quali la società civile ha sistemato i numerosi enfant perda: della sua armata >>. Così la società “artificiale" nasconde accortamente nel suo seno una schiavitù forse più intollerabile dell’antica: essa in sostanza è un meccanismo che rende possibile l'oppressione, lo sfruttamento dì pochi nei confronti della stragrande maggioranza. Pure, si dirà, tutto questo è necessario, non può che essere così, affinché almeno pochi, i ricchi, possano essere felici: ma anche questa è un'illusione, l'ultima, di quanti credono nella positività della società “artificiale”. I ricchi, infatti, possono essere distinti in due categorie: quelli che s’interessano della cosa pubblica e che si dedicano quindi all’attività politica e quelli che vivono nell’ozio, dediti unicamente ai piaceri ed a consumare le ricchezze prodotte da altri. Per i primi la vita si trasforma ben presto in una serie di continui affanni, di dolori, d’amarezze, di cocenti delusioni, di roventi gelosie, di preoccupazioni, tormentati continuamente da un’ambizione che non viene mai soddisfatta. La politica a poco a poco li trasforma, indurisce il loro cuore, li rende incapaci di sentire qualsiasi affetto, di godere l'amicizia; il loro animo si fa gelido, lì rende veramente insensibili a quanto alimenta e costituisce l’umanità dell'uomo, ed alla fine li lascia stanchi, disillusi, amareggiati per non aver potuto conseguire il sogno di grandezza: in una parola, infelici. Consideriamo ora l'altra “specie" dei ricchi, “quelli che dedicano il loro tempo e le loro fortune all'ozio e al piacere". In fondo anche questi sono degli infelici. Si tenga presente a tal proposito che i piaceri che procurano reali e durevoli soddisfazioni sono quelli naturali, e quindi comuni a tutti gli individui, ricchi e poveri. I piaceri invece che derivano dalle arti e dalle invenzioni umane non ottengono mai il loro scopo: essi richiedono una raffinatezza sempre più sottile e nello stesso tempo più complessa, onde impegnano l’individuo in una ricerca di nuove esperienze in grado di sostituire le vecchie, ormai esaurite, che si fa a poco a poco più laboriosa, più pesante, finché finisce, con la fatica che comporta, con lo stancare chi la persegue. Il piacere alla fine si distrugge e lascia al suo posto uno stato d'incontentabilità, tanto più acuta quanto più intensa e più lunga è stata la ricerca del piacere stesso. Si tenga inoltre presente che in questa spasmodica ricerca del piacere la mente perde gradatamente il suo vigore intellettuale e non riesce più ad intendere la verità e con ciò stesso non è in grado di riconoscere la felicità. In fondo la società artificiale parifica il povero e il ricco per quanto riguarda l’impossibilità perle due categorie di pervenire alla felicità: << I poveri per il lavoro eccessivo e i ricchi per l’eccessiva lussuria sono messi allo stesso livello, sono resi egualmente ignoranti di quel sapere che può condurli alla felicità. Una vista ben miserevole della vita ir1terna d’ogni società civile! La classe più umile è angariata ed abbrutita dalle più crudeli delle oppressioni, e i ricchi con il loro artificiale metodo di vita si procurano i peggiori dei mali, quegli stessi mali che con la loro tirannia infliggono alle persone sottomesse al loro potere >>. Infine, l'ultimo argomento in difesa della società “artificiale”, che l’ineguaglianza sociale cui si è accennato, con tutte le conseguenze, è necessaria onde consentire la nascita e l’affermarsi delle “arti”, senza le 'quali non è possibile la vita civile, dopo tutto quello che si è detto mostra chiaramente la sua radicale ir1consistenza, si risolve cioè in una petizione di principio. La società “artificiale” è necessaria per l'esistenza delle arti, e queste sono necessarie perche possa sussistere la società: un argomento che in realtà non spiega nulla, e dimostra solamente che quando noi cerchiamo di dare una spiegazione plausibile, una giustificazione alla società “artificiale”, in realtà ci rinchiudiamo in un circolo vizioso dal quale non siamo poi più in grado di uscire. Burke è così giunto alla fine della sua analisi della società “artificiale” e può riassumere i risultati del suo esame, che come ha precisato all’inizio è stato condotto attenendosi allo stesso metodo con il quale Bolingbroke aveva studiato i rapporti fra la religione naturale e l'artificiale: essi sono decisamente negativi. La società civile è la causa di tutti i mali di cui soffrono gli individui, tutti, come abbiamo visto, ricchi e poveri. Il genere umano, organizzatosi politicamente nelle società “artificiali”, si è diviso in tante collettività particolari, ciascuna animata da odio, da intolleranza nei confronti delle altre, che si sono nel corso della storia distrutte a vicenda: la storia Lunana, a motivo della presenza della società “artificiale” che concentra nelle mani di pochi un immenso potere di distruzione al servizio delle passioni più abbiette, frutto anch’esse della stessa società e sconosciute in quella di natura, si riduce ad un bellum omzzium comm omnes, ad una pura lotta per il predominio, nella quale gli uomini finiscono col distruggere se stessi. L'ordine politico costituzionale, in qualsiasi forma è considerato, si riduce ad un dispotismo più o meno nascosto, più o meno giustificato dal punto di vista formale; il rapporto di soggezione su cui si fonda il potere politico è connaturato con la prima relazione che si istituisce fra gli uomini, basata sull'assoggettan1ento del povero al ricco, sulla quale si struttura tutta la vita della società. << Considerate, osserva infine Burke, ancora una volta il labirinto delle leggi, la iniquità connessa con la loro oscurità. Considerate le malvagità commesse nel seno di tutte le collettività dall’ambizione, dall’avarizia, dall’invidia, dalla frode, dall'aperta ingiustizia e dalla pretesa amicizia: vizi i quali trovano scarsa possibilità di affermarsi, nella società di natura, ma che fioriscono e prosperano nella società artificiale. Considerate tutto il nostro discorso: aggiungete tutte quelle riflessioni che vi possono essere suggerite dal vostro intelletto e fate uno sforzo per sollevarvi sopra la filosofia volgare, onde confessare che la causa della società artificiale è impossibile come quella della religione artificiale, che essa in fondo costituisce una deroga all’onore del nostro Creatore, così come sovverte la ragione umana e produce un male senza fondo per il genere umano >> . QUARTO CAPITOLO LA CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ NELLA PHILOSOPHICAL ENQUIRY Ai fini dello studio delle origini del pensiero politico di Burke, i problemi posti dalla vindication debbono essere ulteriormente approfonditi e considerati alla luce degli altri due più importanti scritti del primo periodo dell'attività letteraria del Nostro fra il 1756 e il 1760, A Philosophical Enquiry into the origin of our ideax of the Sublime and Beatzful, pubblicato per la prima volta nel 1757, e An Esmy towards un Abridgment of English History, che scrisse, per conto dell’editore Dodsley fra il 1757 e il 1762 e che fu pubblicato postumo nel 1815. Il primo è un_ saggio d’estetica che impegna Burke ad un’analisi dei rapporti fra la ragione e le passioni, cioè fra la ragione e la sfera del_ sentimento e dell’immaginazione e quindi ad un più diretto confronto, anche se non formalmente esplicitato, con la filosofia dì Hurne. Il secondo è una sintesi della storia inglese, che si riferisce alla formazione della nazione e del suo ordinamento politico dalla dominazione romana al regno di Giovanni senza terra e alla concessione della Magna Carta (1216), con cui furono per la prima volta sancire le libertà inglesi. Il pensiero di Burke si orienta quindi verso una concezione della politica che, grazie ad una analisi delle passioni e dei sentimenti degli uomini, sia in grado di rendersi conto del ruolo che le stesse passioni hanno nella formazione e nella dinamica della società politica, che trova poi nella storia la sua ulteriore e più compiuta determinazione. Della produzione burkiana del primo periodo lo scritto più noto e di maggior successo è indubbiamente l’Enquiry, di cui Burke curò una seconda edizione nel 1759 con varianti ed aggiunte, fra cui la più importante è 1"Introduzione" dedicata alla definizione ed analisi del concetto di “gusto”, scritta in “risposta” all’analogo saggio di Hume, di cui Burke non aveva potuto tener conto, essendo stato pubblicato pochi mesi prima. La distinzione fra l'idea del bello e quella del sublime impegna Burke nell’analisi delle passioni, considerate come << organi della ragione », e da un punto di vista più generale, di ciò che attiene alla sfera del sentimento, soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di saper percepire ed anticipare le conoscenze della ragione. Si tratta di rendersi conto di ciò che viene prima della ragione, di ciò che la promuove e la orienta, di ciò che le consente di potersi “impadronire” della realtà che intende conoscere. Il sentimento, le passioni, rappresentano l’unione “vitale" fra il soggetto e la “cosa” oggetto della passione: il sentimento si manifesta così come esperienza “vissuta”, che deve essere analizzata per poter comprendere il fine specifico cui tende. Questa indagine ha un rilievo anche per la politica, dato che fra le passioni che sono proprie dell’animo del singolo individuo vi sono quelle che si riferiscono alla << più generale società che ci unisce agli uomini e agli altri animali e che possiamo in un certo senso dire ci unisca anche col mondo) inanimato >>. Per Burke la società è un “mondo umano", è una “totalità” che è il risultato di tutte le attività dell’uomo. Si tratta pertanto di “superare” il razionalismo proprio di una conoscenza meramente (perché rigorosamente) empirica, che produce solamente verità aride e prive di vita, per far valere esigenze che scaturiscono dai nostri più veri ed autentici sentimenti. Si pongono così le premesse di una critica della filosofia di Hume, in particolare del suo scetticismo accademico, per i suoi effetti negativi non solo sul sentimento religioso, ma anche per la coerenza e costanza degli uomini nell'assolvere ai loro impegni sia privati che pubblici, rilievo cui già si accenna nelle “Note sulla religione”. Occorre riconoscere la specifica autonomia ed originarietà della religione, quale si coglie nell’esperienza religiosa, tramite la fede, il sentimento e la ragione. Come sappiamo, l'unione della fede e del sentimento si manifesta, per Burke, come “entusiasmo”, la nobile passione per i grandi ideali della religione, che occorre riconoscere come tali, nella consapevolezza che l’entusiasmo` nei suoi effetti è più vicino alla “grande e comprensiva ragione" che non la “comune ragione” che opera secondo le regole dei luoghi comuni. Sussiste pertanto la possibilità di una comprensione più profonda dell’esperienza, in sostanza della nostra vita, mediante l’armonico contemperamento di entusiasmo e ragione. L’entusiasmo eleva la ragione e le apre nuovi orizzonti e la ragione, a sua volta, controlla gli slanci dell’entusiasmo. La ricerca filosofica non può che informarsi al criterio di un armonico contemperamento della ragione e del sentimento e riconoscere che la conclusione delle sue indagini sta nel riconoscimento della saggezza divina come fondamento dei nessi e dei rapporti delle relazioni, in ultima analisi dell’ordine che si rinviene nella natura dell'uomo. Il fine degli studi è l'elevazione della mente: << Con quanta maggior cura osserviamo la mente umana, più forti, più vive tracce troviamo ovunque della saggezza di Colui che la creò. Se la dissertazione sull’utilità delle parti del corpo si può considerare come un inno al Creatore, l’utilità delle passioni che sono gli organi della mente, non può essere priva di lodi a Lui, né incapace di destare in noi quella nobile e singolare unione di scienza e dì ammirazione, che solo una contemplazione delle opere della infinita sapienza può dare ad una mente razionale; mentre riferendo a Dio tutto ciò che troviamo di giusto, di buono e di bello in sé stesso scoprendo la sua forza e la sua sapienza anche nella nostra debolezza ed imperfezione, onorando quelle là dove noi chiaramente le scopriamo e adorando la loro profondità là dove noi ci perdiamo nella nostra ricerca, noi possiamo essere indagatori senza impertinenza, ed elevarci senza inorgoglirci; possiamo essere ammessi, se cosi possiamo dire, nel consesso dell'onnipotente, attraverso una mediazione delle sue opere. L’elevazione della mente deve essere il principale scopo di tutti i nostri studi, poiché se essi non la conseguono in qualche misura, sono di scarsissima utilità per noi >>. Questo sentimento religioso costituisce l’ispirazione di fondo dell'Enquiry: la conoscenza, che si basa certamente sui dati fornitici dall'esperienza quindi sulle nostre sensazioni, è promossa e sollecitata dai nostri sentimenti, e si avvale di principi costanti, validi per tutti gli uomini, che la sottraggono ai condizionamenti ed alle incertezze dello scetticismo. La verità di Dio costituisce in Burke il presupposto che consente alla ragione umana di pervenire ad un risultato positivo: la ragione non ha il suo fondamento solamente nei principi e nel metodo mediante i quali elaborare i dati dell’esperienza sensibile, liberandosi in tal modo dal condizionamento delle emozioni e delle passioni, ma anche nell'avvertenza e quindi nel riconoscimento del sentimento religioso che la rende immediatamente partecipe della realtà di Dio. Per tal motivo la ragione acquisisce un’“apertura”, una “prospettiva” che le consentono di osservare e comprendere le articolate e complesse manifestazioni della natura umana, senza rinchiudersi in un astratto e arido intellettualismo che le impedisce un reale contatto con il mondo umano. Nell'introduzione dedicata al “Gusto", scritta con un sottinteso riferimento alle tesi sostenute da Hume nell'analogo scritto, possiamo cogliere le riserve che Burke formula nei confronti dell’empirismo filosofico humiano e della connessa concezione della razionalità. L’introduzione si richiama esplicitamente ad una ragione, fondata sulla comune natura umana, che consegue risultati sicuri e fornisce pertanto principi obiettivi all'attività dell’uomo <<I poteri naturali dell'uomo a me noti, che sono in rapporto con gli oggetti esterni, sono i sensi, l’immaginazione e il giudizio. Noi crediamo e dobbiamo credere che, come la conformazione dei vari organi è del tutto o quasi la medesima in tutti gli uomini, così modo di percepire gli oggetti esterni è in tutti gli uomini lo stesso o lievemente diverso >>. Se invece riteniamo che << i sensi offrano ai diversi uomini immaginazioni diverse delle cose, questo scetticismo renderà vano e insignificante ogni sorta di ragionamento su ogni soggetto, persino quello stesso ragionamento scettico che ci ha indotto a formulare un dubbio circa l’accordo delle nostre percezioni >>. Non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dalle differenze che notiamo fra i pensieri, i sentimenti, i piaceri ed i gusti degli uomini: infatti << nonostante questa differenza, che ritengo più apparente che reale, è probabile che la ragione e il gusto abbiano in tutte le creature umane le stesse caratteristiche. Poiché, se non vi fossero principi di giudizio, così come di sentimento, comuni a tutti gli uomini, non si potrebbe fare nessun affidamento sulla loro ragione e sulle loro passioni, tale da permettere l’ordinario rapporto di vita >>. Burke può affermare di conseguenza che lo scopo della sua “ricerca filosofica” << è di trovare se vi sono dei principi in base ai quali l’immaginazione è colpita, così generali, così fondati e certi, da fornire i mezzi per ragionare in modo soddisfacente intorno ad essi E tali principi del gusto io ritengo vi siano: per quanto paradossale ciò possa sembrare a coloro che, da un punto di vista superficiale, ritengono vi sia tanta diversità di gusti, sia nel genere, sia nel grado che nulla possa essere di più indeterminato >>. Secondo Burke la validità delle conclusioni frutto dell’analisi delle nostre sensazioni si fonda su principi intrinseci alla esperienza, intesa come esplicazione dei “poteri naturali" dell'uomo. Fra i sensi, l'immaginazione e le idee sussistono rapporti fondati su principi costanti, che ci consentono di comprendere non solo il nesso fra i sentimenti e l'attività razionale, ma anche di formulare conclusioni valide e convincenti. Attenendosi alla “logica” lockiana Burke nella sua analisi ritiene valido il rapporto causa effetto, rifiutandone la critica humiana: tiene a precisare che i principi con i quali analizziamo e valutiamo l’esperienza non sono << derivati da abitudini o da interessi >>, assumendo così, sia pure implicitamente, una posizione decisamente critica nei confronti della concezione di Hume che fonda la validità delle conclusioni tratte dall’esperienza sulla consuetudine; << E queste cause agiscono quasi uniformemente su tutti gli uomini perché agiscono in base a principi esistenti in natura, e non derivati da abitudini ed interessi. Amore, dolore, timore, ira, gioia, tutte queste passioni hanno a turno colpito l’animo d’ognuno, e non in modo arbitrario e casuale, ma secondo principi certi naturali e costanti ». Fra i poteri naturali dell’uomo, come sappiamo, vi è l’immaginazione, alla quale Burke riconosce un ruolo rilevante nell’ambito delle passioni e nella formazione delle idee. Ma l’immaginazione non è quella di cui ci parla Hume, la libera e in sostanza arbitraria capacità di invenzione dell'uomo << con tutta l’apparenza della realtà >>, che deve essere controllata mediante la “credenza” (la convinzione convalidata dalla consuetudine): è invece il "potere creatore della mente" che è "affetta" da << principi così generali, così fondati e certi, da fornire i mezzi per ragionare in modo soddisfacente intorno ad essi ». L’immaginazione, per Burke, non rappresenta l’insidia dell’irrazionale, ma è il vero centro motore delle passioni, dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo: dall’immaginazione dipendono in sostanza l’esperienza del bello e del sublime e da essa promanano le passioni che si riferiscono alla costituzione e alla vita della società. Le idee non solo derivano dalle sensazioni, ma sono anche “create” dall’immaginazione e sono altrettanto importanti ai fini dell’attività umana quanto le prime. All’immaginazione << appartiene tutto ciò che si chiama intelletto, fantasia, invenzione », sì che deve essere considerata come << il più esteso campo del piacere e del dolore il campo dei nostri timori e delle nostre speranze e di tutte le speranze ad esse connesse ». Il compito della ragione è quello di analizzare, suddividere, individuare le differenze fra due oggetti, fra le parti o gli elementi di un tutto, quello dell’immaginazione intesa come “spirito”, fantasia, invenzione è di riconoscere le somiglianze, ciò che accomuna, che unifica. Questa operazione è più gratificante per la mente di quella dell’analisi, perché « rilevando le somiglianze noi produciamo nuove immagini, coordiniamo, allarghiamo la nostra esperienza », mentre quando facciamo << distinzioni non offriamo alcun elemento all’immaginazione; il compito stesso è più severo e noioso » L'esperienza non è più una serie di dati di fatto, che la ragione conosce nella loro determinazione empirica, ma diventa essenzialmente “esperienza vissuta”, la “nostra” esperienza, arricchita, allargata dall’immaginazione, sì che essa comprende a pieno titolo anche il bello e il sublime, che consentono di conoscere momenti ed aspetti particolarmente importanti dell’esperienza degli uomini. Di qui il valore di concretezza che Burke riconosce alla << pratica >> nei confronti della teoria, al sentimento_ nei confronti della ragione, anche se ciò non significa sminuire l'importanza dell’analisi razionale e della sua incidenza sulla “pratica”: << Ritengo sia comune l'aver torto in teoria e ragione in pratica: e siamo ben lieti che sia così. Gli uomini sovente agiscono bene se seguono il loro sentimento, ma ragionano poi male su di esso per i loro principi; ma dal momento che è impossibile evitare un tentativo di ragionamento ed è ugualmente impossibile prevenire il fatto che esso eserciti un influsso sulla pratica, vale certo la pena, affrontando pure qualche sofferenza di averlo esatto e fondato sulla base di una sicura esperienza ». Il riconoscimento del ruolo primario della fantasia o dell’invenzione nell’attività di “ideazione” della mente ridimensiona la concezione illuministica della razionalità nella sua pretesa di ridurre la realtà ai criteri meramente empirici. La ragione, avverte Burke, non riesce mai a comprendere ed a definire in modo esaustivo la realtà, che per la sua complessità sfugge sempre ad una compiuta “presa di possesso" razionale La ragione illuministica, proprio perché è sicura dei suoi risultati conseguiti secondo una procedura rigorosamente razionale, finisce per rinchiudersi in se stessa, con il risultato di proporre una conoscenza limitata ed a volte astratta delle cose. Di qui la diffidenza di Burke nei confronti del primato della definizione, « il celebrato rimedio » contro l’incertezza e la confusione; La definizione restringe l’orizzonte della nostra ragione nell’ambito dei termini di cui ci serviamo per le nostre analisi, mentre la natura, la realtà, è di gran lunga più ricca, più articolata e complessa. Perciò, osserva Burke, vi possono essere « definizioni esattissime, eppure esprimono solo approssimativamente la natura della cosa ». Le definizioni pertanto, più che acquisizioni di verità sicure e compiute, debbono essere considerate come le conclusioni di una ricerca di cui interessa analizzare con cura il “percorso” compiuto per pervenire ad esse. Al metodo d’insegnamento basato sulle definizioni, che ci offre << poche verità aride e prive di vita », Burke ritiene si debba sostituire quello della ricerca, per rendere consapevole l’allievo del modo con cui si è pervenuti alla scoperta della verità: << ma da parte mia sono convinto che il metodo di insegnamento che più si avvicina al metodo di ricerca è incomparabilmente il migliore; dal momento che insoddisfatto di dare poche verità aride e prive di vita esso conduce alla loro genesi e tende a porre il lettore sulla traccia dell’invenzione e a dirigerlo verso quei sentieri che l’autore ha percorso per giungere alle sue scoperte ». l’avvertenza che non bisogna proporre verità “aride e prive di vita" significa per Burke che la ragione non deve stabilire una distinzione netta, una vera e propria separazione contrapposizione, con l’immaginazione, ma deve cercare di comprendere il rapporto che intercorre fra la sua “logica” e quella dell’immaginazione, per una conoscenza più profonda e più reale della natura dell’uomo. Anche l’immaginazione, grazie all’invenzione, alla fantasia che alimentano l'attività artistica in tutte le sue forme, esprime le verità della vita, e con maggiore immediatezza ed efficacia, anche se con minore esattezza dal punto di vista della definizione logico concettuale. La cultura delle nazioni “più ignoranti e barbare”, secondo il criterio della ragione riflettente ed intellettualizzata, si esprime per Burke proprio nell’ambito dell’immaginazione: queste nazioni se << sono state deboli e retrograde nel distinguere e nell’ordinare le loro idee, spesso hanno facilità nelle similitudini, paragoni, nelle metafore e nelle allegorie >>, con cui manifestano e “definiscono” mediante la loro produzione artistica le loro “verità di vita”. Esse esprimono proprie originarie culture e civiltà, che certamente non rientrano nei canoni dell’estetica e del gusto proposti dalla ragione illuministica, ma che rappresentano manifestazioni significative ed importanti dei diversi modi con cui si manifesta, in diverse situazioni ambientali e storiche, la comune natura umana. In questa prospettiva volta ad evidenziare la funzione della immaginazione nel processo cognitivo, Burke tende a mettere in risalto la funzione che esercitano le passioni nella conoscenza stessa, cercando di istituire fra la ragione e le passioni un rapporto dinamico contro la concezione associazionistica e meccanicistica di Hume. L’attività dell’ani1no umano è caratterizzata dalle passioni, « gli organi della mente » secondo l’espressione burkiana, nel senso cioè che il processo mediante il quale la mente attua le sue facoltà si origina, è promosso e sostenuto dalle passioni. La conoscenza inizia con la prima e semplice “emozione” dell'animo, la curiosità, suscitata dalla novità. Ma la curiosità si esaurisce presto perché “consuma” rapidamente le novità che la suscitano; di qui la necessità di rinnovare l’interesse dell’uomo con altre passioni che lo impegnino con maggiore forza e per un maggior lasso di tempo che, per Burke, sono il dolore e il piacere, e le passioni che da essi derivano. Queste due passioni non costituiscono per Burke la somma di tutte le altre, sia sgradevoli che gradevoli, nel senso che queste possono essere definite come successive gradazioni, o come diversa composizione delle due stesse passioni fondamentali: in effetti il dolore e il piacere sono due esperienze primarie e originarie, l’una distinta dall’altra, tanto che non possono reciprocamente influenzarsi. Ciò significa che Burke ha sostanzialmente abbandonato il metodo della psicologia associazionistica proprio dell’empirismo humiano per un metodo che privilegia la descrizione delle diverse fondamentali esperienze emozionali ,e passionali dell’animo umano che riesca a coglierne il momento genetico e ad individuarne la specifica funzione per quanto riguarda la riflessione, la conoscenza e il comportamento dell’uomo. Ciò consente di ottenere << un’analisi razionale delle nostre passioni necessaria per tutti coloro che vogliono comprenderle in base a principi solidi e sicuri >>, evitando così le incertezze e i dubbi di un’analisi meramente empirica. A tal proposito occorre avvertire che non bisogna limitarsi ad una conoscenza “generale" delle passioni: « per penetrarle sottilmente o per giudicare con proprietà un'opera intesa a penetrarle, dovremmo conoscere i limiti esatti del campo in cui agisce ciascuna di esse, seguirle nella varietà di tutti i loro aspetti, e penetrare in profondo in quelle parti della nostra natura che possono sembrare inaccessibili >>. In questa prospettiva lo “stato di quiete” della nostra mente (una sorta di “disincanto” nei confronti delle passioni), al quale fa riferimento Hume per garantire alla ragione di riflettere e di analizzare le idee, assume per Burke una valenza negativa. La quiete dell'animo, il distacco concepito come assenza di dolore e di piacere è per Burke anche la “quiete” della ragione: la riflessione, il ragionamento, la razionalità scaturisce dalla tensione creata dall’esercizio e dal lavoro: « Il miglior rimedio per tutti questi mali è l’esercizio e il lavoro: e il lavoro è un superamento di difficoltà, è uno sforzo del potere di contrazione dei muscoli e come tale assomiglia in tutto, tranne che nel grado, al dolore, che consiste nella tensione e nella contrazione. Il lavoro non è soltanto necessario per mantenere gli organi meno delicati in uno stato adatto alle loro funzioni; ma è pure necessario agli organi più fini e delicati per mezzo dei quali agiscono l’immaginazione e forse le altre facoltà intellettuali più delicate del sistema ». Le passioni hanno un ruolo rilevante per quanto riguarda la concezione della società e il ruolo degli individui nella sua formazione. A tal fine Burke distingue le passioni in due grandi categorie, quelle che si riferiscono all’individuo come singolo e quelle che attengono alla società, con l’avvertenza che tutte le nostre passioni sono finalizzate o all’uno o all’altra: << La maggior parte delle idee capaci di produrre una forte impressione nella mente, sia semplicemente idee di dolore o di piacere o idee della modificazione di questi, può essere ridotta con una certa approssimazione a queste due principali idee, la preservazione di se stessi e la società; ai fini dell'una o dell'altra delle quali si calcola rispondano tutte le nostre passioni ». Intanto l’individuo e la società sono due “fatti originari" nel senso che la loro sussistenza si fonda sul processo mediante il quale si esprimono le passioni che sono proprie dell’uno e dell’altra. La conservazione di se stessi non corrisponde all’analogo principio considerato come norma fondamentale del comportamento dell’individuo in Hobbes, Locke e Hume, perché secondo Burke è intimamente connesso con le emozioni più forti, o impressioni che può provare l’animo umano e quindi con le idee di dolore, dì morte, di pericolo, dato che le idee di vita e di salute, benché producano piacere e gioia, non arrivano mai a provocare un’'impressione così intensa come le prime due. Così se per l'empirismo inglese l’istinto di autoconservazione esprime in ultima analisi il criterio dell'utile che a poco a poco con il progresso della ragione diventa la norma riconosciuta del comportamento etico sociale dell'individuo e pertanto fondamento della giustizia, del diritto, della proprietà, dell’ordine sociale, nonché della stessa religione positiva, per Burke, invece, questo istinto è intimamente connesso al sentimento del dolore o del pericolo, che per essere << le più forti di tutte le passioni >> producono nell’individuo « la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire », che lo libera dai determinismi dell’esperienza sensibile e gli manifesta la sua sostanziale individualità. In queste emozione consiste l’esperienza del “sublime”. Per Burke il connotato essenziale dell’individuo non è la “razionalità” cui si riferiscono Hobbes, Locke e Hume, ma la coscienza del significato e del valore del suo esistere, acquisita con l’esperienza fondante della sua “individualità”,'che è anche la più forte emozione che l’animo umano possa sentire, quella del “sublime”. Tramite questa “passione” l’uomo scopre il suo se stesso originario, acquista cioè coscienza della sua esistenza, si distacca completamente dalla natura ed avverte l’esistenza di un Essere che lo domina, infinitamente superiore, dinanzi al quale l’uomo si sente come annullato, ma nello stesso tempo si percepisce come il soggetto di questa esperienza che lo costituisce nella sua originarietà, cioè come un’esistenza sua propria, completamente distinta dalla realtà che lo circonda. Nel sublime l'individuo, come ha giustamente rilevato Cassirer, ritrova la sua originarietà, riconosce un se stesso non deducibile da qualsiasi altro tipo di esperienza, non più mero “registro” ed attento “organizzatore” del materiale che riceve dalla realtà esterna, ma attività creatrice di nuove idee, di nuovi valori. Il concetto di passione è così radicalmente capovolto rispetto a quello di Hume, il quale non avrebbe mai potuto accettare la tesi burkiana che la passione più forte, l’emozione totalmente “possessiva" del sublime costituisca l’origine della ragione dell’uomo,' sia l'esperienza vitale mediante la quale l’individuo si appropria, assimila la realtà che lo circonda e comincia a pensarla. Per Burke la tensione dell’animo che si esprime nell’esperienza del sublime opera una immedesimazione del soggetto con il dato della realtà, dalla quale risulta un tipo di conoscenza “vissuta”, che anticipa, ispira ed orienta la conoscenza riflessa, la ragione: << La passione causata da ciò che è grande e sublime in natura, quando le cause operano con il loro maggiore potere, è lo stupore: e lo stupore è quello stato d’animo in cui ogni moto sospeso, regna un certo grado di orrore. In questo caso l'anima è così assorta nel suo oggetto, che non può pensarne un altro, e per conseguenza non può ragionare sull’oggetto che la occupa. Di qui nasce il potere del sublime che lungi dall'essere prodotto dai nostri ragionamenti li previene e ci sospinge innanzi con una forza irresistibile ». Dio, per Burke, è una verità di ragione, che trova una corrispondenza nel sentimento, nell’immaginazione. A questa premessa si connette il problema dell'origine del rapporto uomo-Dio, del modo con cui viene avvertito, vissuto e pertanto conosciuto; solo se riusciamo ad acquisire il valore e il significato dell’originaria esperienza religiosa, possiamo comprendere il valore autentico della religione e renderci in tal modo conto di come la “verità" di Dio costituisca il primo e sicuro punto di riferimento della ragione e la “società” dell'uomo con Dio il presupposto e il fondamento della società degli uomini. Si tratta pertanto di indicare quale particolare esperienza ci consente di pervenire a queste conclusioni muovendo da un'accurata analisi delle passioni che si riferiscono al bello ed al sublime. Per Burke il Dio della ragione ha una sicura “testimonianza", una conferma, nella più significativa esperienza vissuta dell'individuo, quella del sublime: la religiosità della quale parla Burke attinge i suoi connotati essenziali e caratteristici, la sua inconfondibile tipicità per la quale non può essere risolta in altre manifestazioni od esigenze dell’animo umano (Hume), proprio dall’esperienza pre razionale del sublime. Il Dio della ragione, definito secondo le qualità e gli attributi che Gli riconosce la ragione, rimane lontano e distaccato dall'uomo, una “astratta verità” di ragione, che non impegna l’immaginazione << Affermi dunque che mentre consideriamo la Divinità puramente come oggetto di conoscenza, in quanto costituisce un'idea complessa di potere, di sapienza, giustizia, bontà, qualità tutte elevate a un grado che va molto al di là dei limiti della nostra comprensione, mentre consideriamo la Divinità sotto questo aspetto raffinato ed astratto l'immaginazione e le passioni sono poco o per nulla affatto impressionare >>. Ma ben altro significato e valore si riconoscono a Dio allorché non viene considerato. come puro concetto della mente, ed è invece presente al nostro animo, grazie alla nostra immaginazione, nella sua espressione originaria di potenza infinita. In questo caso l’individuo partecipa dell’esperienza del sublime, in cui si sente come annullato di fronte alla potenza infinita di Dio, dominato da un timore sacrale che nasce dal manifestarsi della maestà divina: « Ora sebbene in una esatta idea della Divinità nessuno dei suoi attributi sia forse predominante, pure per la nostra immaginazione la sua potenza è di gran lunga più notevole. Una riflessione, un confronto è necessario per convincersi della sua sapienza, giustizia, bontà. Per essere colpiti dal suo potere è solo necessario che noi apriamo gli occhi; ma mentre contempliamo un essere così vasto, come se fossimo sotto il braccio della sua onnipotenza, ci rannicchiamo nella piccolezza della nostra natura e ci sentiamo in certo senso annichiliti dinanzi a lui. E sebbene la considerazione degli altri suoi attributi possa alleviare in un certo senso le nostre apprensioni pure nessuna convinzione della giustizia con cui è esercitata; né dalla misericordia da cui è mitigata, può completamente allontanare il terrore che nasce naturalmente da una considerazione di una forza cui nulla può resistere. Se noi gioiamo, gioiamo con tremore, e persino nel momento in cui riceviamo un beneficio, non possiamo fare a meno di rabbrividire dinanzi a una potenza che può distribuire benefici di tanta importanza. Quando il profeta Davide contempla i miracoli dì saggezza e di potenza che sono evidenti nella costituzione dell’uomo, sembra colpito da una specie dì orrore divino e grida: “In modo terribile e meraviglioso io sono stato creato! ”... Ma solo la Sacra Scrittura può offrire idee conformi alla maestà di questo soggetto. Nella Sacra Scrittura, dovunque Dio è rappresentato mentre appare o 'parla, tutto ciò che vi è di terribile in natura è chiamato a raccolta per rafforzare il senso di timoroso rispetto e di solennità che la divina presenza suscita. I salmi e i libri dei profeti sono densi di esempi di questo genere: “La terrà tremò, dice il salmista, il cielo pure si riversò alla presenza del Signore" >> . La religione in Burke si esprime sostanzialmente come originaria esperienza di Dio, come il primo modo con cui Dio appare all’uomo e nel contempo l'uomo avverte la sua presenza, si rende conto della sua esistenza. La conoscenza di Dio si richiama nella sua originarietà ad un’esperienza che non può essere risolta nei principi e nei concetti della ragione filosofica: la religione non può essere ridotta alla filosofia. Per l'esperienza religiosa Dio non è un'idea “chiara e distinta”: è l'infinita potenza che si manifesta all'uomo nell’assoluta indeterminazione visiva, nell'oscurità, come un Essere avvolto nel mistero, che suscita stupore attonito, terrore sacrale cioè la massima tensione dell'animo, dalla quale l'uomo cerca di fuggire ma verso la quale si sente irresistibilmente attratto, partecipando così alla sua “verità". Il nucleo essenziale della religiosità appare cosi a Burke come manifestazione del sublime e quindi si esprime nella dimensione del tremendum, del misterium, del fascinans, del luminoso; di qui l'insistito richiamo alla religiosità del Vecchio Testamento in particolare all’episodio di Giobbe che indica in modo emblematico come si esprima l’originario rapporto dell’uomo con Dio: << Vi è un passo del Libro di Giobbe stupendamente sublime e questa sublimità è dovuta principalmente alla terribile incertezza della cosa descritta. “Nei pensieri derivati dalle visioni della notte, quando il sonno profondo cade sugli uomini, un timore mi assalì e un fremito mi scosse tutte le ossa. Allora uno spirito passò davanti al mio viso. I peli del mio corpo si rizzarono. Rimasi fermo ma non potei discernere la forma; un’immagine era davanti ai miei occhi; v'era silenzio ed io udii una voce: Deve un mortale essere più giusto di Dio?" ». Che il sublime sia inizialmente connesso alla fondamentale esperienza del sacro è comprovato, secondo Burke, dalla constatazione degli stretti rapporti dj colleganza di significati fra alcune parole, terrore, stupore, ammirazione, reverenza, rispetto: << Lo stupore,,come ho detto, è l’effetto del sublime nel più alto grado: gli effetti inferiori sono l’ammirazione, la reverenza, il rispetto... Varie lingue possono essere testimoni dell’affinità di tali `idee. Esse spesso usano la stessa parola per indicare indifferentemente gli aspetti dello stupore, dell’ammirazione e del terrore. €·)étu[3og è in greco timore e stupore; òewoç significa terribile e rispettabile; otìòéw significa venerare o temere. Vereor è in latino quello che è otìoéw in greco. I Romani usavano il verbo stupeo, un termine che indica con forza lo stato di una mente stupita, per esprimere l’effetto o di un semplice timore, o dello stupore; la parola czttorzzfus (colpito dal tuono) esprime anch’essa l’affinità di tale idea >>. Anche la società ha una propria realtà, si avvale di una “autonoma” struttura nella quale l'individuo è inserito non già per il suo consenso finalizzato alla ricerca dell'utile ma per l’impulso di << tutte le nostre passioni >>. Burke riconosce due tipi di società: “la società dei sessi” e la “società generale”. La prima, costituita dall’unione dell’uomo e della donna, ha come scopo la propagazione della specie: non è determinata solamente dall'istinto, ma è promossa e sostenuta dal sentimento della bellezza, che orienta l’uomo e la donna nelle loro scelte e che è l’oggetto di quella passione complessa indicata con il termine di amore: << Chiamo la bellezza una qualità sociale; perché quando gli uomini e le donne, e non solo essi, ma anche gli altri animali, ci danno un senso di gioia e di piacere nel guardarli..., ci ispirano sentimenti di tenerezza e di affetto verso le loro persone; ci piace allora vederli vicino, ed entriamo volentieri in rapporto con loro, a meno che non abbiamo forti ragioni per fare il contrario >>. La famiglia e i gruppi parentali costituiscono il presupposto della “società generale” che << ci unisce agli uomini e agli altri animali, e che possiamo in un certo senso dire che ci unisca anche con il mondo inanimato >>. La società generale pertanto, è una unità-totalità, nel senso che per il suo tramite le vite dei singoli si integrano fra di loro, talché non possono più sussistere se non nell'articolato sistema dei rapporti reso possibile dalla società, che tramuta anche il dato materiale dell’insediamento territoriale in un rapporto di unione cioè in un sentimento affettivo che ci lega ai luoghi nativi. La società generale offre all’individuo numerose occasioni di istituire "società particolari” dalle quali può trarre un “ particolare piacere": « Una buona compagnia, una conversazione animata e l’affetto di un’amicizia riempiono l'anima di grande piacere >>; ma il vivere in società non implica che un temporaneo isolamento non sia << per se stesso piacevole », mentre << l’assoluta e completa solitudine, cioè la totale e continua esclusione da ogni società è un dolore tanto grande che a stento possiamo immaginarlo ». Il rapporto individuo - società non deve essere inteso in modo “totalizzante", nel senso che all’individuo non venga riconosciuto un ambito di propria autonomia; il “temporaneo isolamento” ci consente di sottrarci agli impegni della società e di attendere ad esigenze di carattere contemplativo: la virtù dell’individuo sociale in Burke si esprime aristotelicamente nell'intimo nesso fra azione (pratica) e contemplazione (teoria): << Questo può forse provare che noi siamo creature nate tanto per la contemplazione che per l'azione dal momento che l’isolamento ha i suoi piaceri, così come li ha la società >>. La società generale si presenta così come un sistema molto articolato di relazioni che si fondano sulle passioni degli uomini tutte necessarie perché la società pervenga ai fini che le sono propri; per Burke possono essere ricondotte a tre passioni fondamentali: << Sotto questa denominazione di società rientrano passioni di un genere complicato, che si suddividono in varie forme, adatte a quella varietà di fini a cui devono servire nella lunga catena della società. I tre principali anelli di questa catena sono la “simpatia”, l'“imitazione” e l'ambizione >>. La simpatia è la più importante delle passioni sociali, per mezzo di essa si forma il primo reale e sostanziale vincolo fra gli individui che li fa sussistere come società. Mediante la simpatia l’individuo partecipa ai sentimenti e all'attività dei suoi simili, perché grazie a questa passione ci immedesimiamo negli altri in una reale “partecipazione di vita”: ne consegue che le considerazioni e le scelte degli individui non sono tanto il frutto di una distaccata e tranquilla riflessione ma sono di solito promosse ed orientate dalla simpatia, cioè dalle vicende e dalle passioni delle persone con le quali si sono istituite relazioni: « Sotto l’impulso della prima di queste passioni siamo portati ad interessarci degli altri, siamo toccati da ciò che lì tocca, non possiamo rimanere più spettatori indifferenti di alcuna cosa che gli uomini possono fare o subire. infatti la simpatia deve essere considerata come una specie di sostituzione, per cui ci mettiamo al posto di un altro uomo e siamo colpiti, sotto molti aspetti, da ciò che colpisce lui; cosicché questa passione può o partecipare della natura di quelle che si riferiscono alla preservazione dì se stessi e improntandosi al dolore, può essere una causa del sublime, oppure rivolgersi ad idee di piacere, e allora tutto ciò che è stato detto degli effetti sociali, sia che essi si riferiscano alla società in generale, o soltanto ad alcune forme di esse, può essere qui applicato ». Per Burke la maggior parte delle nostre passioni è provocata dalla partecipazione “simpatetica” alle passioni degli altri, o ad avvenimenti, o a situazioni, quindi a fatti sociali in grado di suscitare in noi quelle determinate passioni. Una partecipazione si noti che non è promossa dalla ragione, proprio perché essa si manifesta come una specie di impulso e quindi con una immediatezza che “anticipano” la ragione stessa, che, del resto, ha uno scarso potere nel suscitare le passioni: << Temo che sia un metodo troppo comune nelle ricerche di questo genere attribuire la causa dì sentimenti che nascono semplicemente dalla struttura meccanica dei nostri corpi o dalla naturale costituzione delle anime nostre, a certe conclusioni della ragione sugli oggetti che ci vengono presentati; poiché sono propenso e credere che l'influsso della ragione nel destare le nostre passioni non sia affatto così esteso come comunemente si crede>>. Accanto alla simpatia l'altra fondamentale passione sociale è l'imitazione, per cui l’individuo è portato a ripetere quanto fanno i suoi simili. Essa esprime la naturale condiscendenza dell’uomo verso i suoi simili e presiede, per Burke, alla “cultura di base” di ciascun individuo, che per essere il risultato della reciproca imitazione dei comportamenti degli associati, si riferisce ad una comune cultura che, essendo frutto di comportamenti, di abitudini e di consuetudini comuni, realizza e rafforza il vincolo sociale. Da questo punto di vista la società ha una forte valenza pedagogica, che investe l’intera personalità dell'individuo: « E per via dell'imitazione, molto più che per l'insegnamento, che noi impariamo; e ciò che apprendiamo per tale mezzo non solo lo apprendiamo in una forma più pratica, ma anche più piacevole. Così si formano le nostre abitudini, le nostre opinioni, le nostre vite. Limitazione è uno dei più forti vincoli della società; è una specie di reciproca condiscendenza che gli uomini hanno l'uno per l’altro. spontaneamente, e che è lusinghiera per tutti >>. La terza passione sociale è l’ambizione, l’impulso che sospinge l’individuo a distinguersi dagli altri, ad affermare la sua “diversità” e la sua superiorità, e quindi ad innovare a volte radicalmente le convinzioni comuni e gli assetti sociali consolidati. Se la società si fondasse unicamente sulla simpatia e sull’imitazione sarebbe condannata ad una piatta uniformità a motivo della monotona ripetizione di comportamenti completamente omologati, e, di conseguenza, ad essere governata secondo i principi di un tirannico conformismo: « tuttavia se gli uomini. si dessero unicamente all'imitazione e ognuno seguisse l'altro, e così via, in ciclo continuo, è facile osservare come non potrebbe mai esservi progresso fra di loro. Gli uomini, come i bruti, rimarrebbero alla fine identici a quello che sono oggi e che erano all’inizio del mondo. Per impedire ciò, Dio ha posto nell’uomo un senso di ambizione e una soddisfazione che nasce dalla vista della sua superiorità sui propri simili in qualcosa cui essi attribuiscono valore >>. L'ambizione rappresenta, pertanto, il principio dell’individualismo come innovazione, come impulso a superare il proprio simile e quindi a non ripetere passivamente ma a fare di più e meglio: da questo punto di vista essa è anche il principio del “movimento” della società e del suo progresso. L'ambizione sollecita infine la dialettica delle passioni sociali, che costituisce la dinamica dell'articolato e complesso sistema delle relazioni sociali sul quale si fonda l'ordine politico della società. 'La società generale, che comprende gli uomini, le loro cose e l’ambiente in cui vivono, è un vero e proprio “mondo umano" (secondo l'espressione vichiana) che affonda le sue radici nella struttura più profonda della natura umana. Ha un autonomo fondamento essendo la necessaria “espressione” delle passioni dell’uomo, che la formano e la fanno sussistere come una unità-totalità, che include in sé tutte le manifestazioni della vita degli individui. Per tal motivo l’ordine politico e la corrispondente organizzazione politica sono intimamente connessi, possiamo dire “vitalmente” connessi con la società generale, ne sono una essenziale espressione. Di qui il rifiuto di Burke di ridurre la politica al momento dell’utile, alla razionalità utilitaristicamente intesa, infine alla civiltà come espressione della sola ragione, che si è finalmente affrancata dalle passioni e che sa quindi porsi come obiettivo l’utile sociale. Ma in questo caso la ragione si separa dalla vita, dalla concreta realtà umana, mentre la politica e in particolare il potere debbono invece continuamente confrontarsi, “convivere" con quella realtà che è, come si è visto, caratterizzata proprio dalla dialettica di quelle passioni che la ragione dovrebbe mettere fra parentesi prima di esprimere il suo giudizio. Il potere, proprio perché rappresenta l'esigenza che l'ordine politico sussista nella sua effettività, prima di essere un’istituzione positiva che si fonda sull’ordinamento politico e sugli interessi sociali che tutela, esiste come “entità” che si legittima mediante le passioni connesse al “sublime", il timore, la reverenza, il rispetto: « In realtà è così naturale questa timidezza nei riguardi del potere ed è così fortemente connaturata in noi, che pochissimi sono capaci di vincerla, se non col mischiarsi molto negli affari del gran mondo, o con l’usare non poca violenza alle loro naturali disposizioni ». Il potere si esprime inizialmente, originariamente, nella sfera del sacro, cioè nell’esperienza delle passioni e dei sentimenti che sono connessi e derivati dal “sublime”, di qui la maestà e l’assolutezza del Supremo reggitore come manifestazione di quel sacro che lo legittima a decidere della vita e del destino dei singoli e della comunità. La politica è “all'inizio” strettamente connessa con la religione, per certi aspetti deriva dalla religione: la distinzione e la dialettica contrapposizione fra religione e politica propria dell'esperienza cristiana nell’illuminismo di Bolingbroke, di Voltaire e di Hume è risolta sul piano di una razionalità che costituisce e legittima il potere e che riduce la religione ad un mezzo di governo trasformandola in un'utile “macchina politica", In tal modo il potere è del tutto scisso e in sostanza contrapposto al “sacro”, la cui esperienza è considerata la fonte delle superstizioni che rendono così difficile il progresso civile degli uomini. Ma in questo caso la sfera del “sacro”, come esigenza di avvertire e concepire l’assoluta grandezza da cui dipende l’ordine delle cose e degli uomini, si ricostituisce all’interno del potere, che rivendica una propria autonoma forza ed energia che rendano effettive le sue decisioni e i suoi comandi senza i quali la società si disarticola in una caotica moltitudine di gruppi e d’individui in continua lotta fra di loro. Così quando la ragione intellettualistica, di solito occupata << nel riscontrare motivi di errore sulla via dell’immaginazione, nel dissipare le scene del suo incanto », dissolve con la sua critica le passioni e i sentimenti che attengono alla sfera del potere, per renderlo un'istituzione di pura ragione, in realtà lo riporta alla sua originaria manifestazione di onnipotenza, con l’aggravante della convinzione che le sue decisioni e i suoi comandi corrispondono in tutto e per tutto alla vera ragione e al bene della comunità. Disconosciuti i limiti del potere posti dal sacro, vengono a cadere quelli posti dall'etica e dalla ragione a motivo dell’identificazione di potere e ragione, per cui il primo non può non volere che il vero e il bene. Di qui l’in1portanza secondo Burke dei modi con cui si “rappresenta", e nello stesso tempo si “circoscrive” la “potenza” del potere, cioè i simboli e il cerimoniale, che secondo Burke appartengono all'“estetica” del potere e promuovono in noi con immediatezza quei sentimenti che sono il presupposto dei limiti del potere. Nella P/ozlosop/vical Erzquiry Burke, pur avvalendosi della terminologia filosofica e della gnoseologia dell’empirismo di Locke, finisce poi col “tramutare” 'l’esperienza empirica nell'esperienza della vita dell'individuo e della società, sul modello dell’esperienza estetica del sublime e del bello. Va rilevato a tal proposito che in Burke la passione non indica tanto una mera sensazione non depurata della sua forza e vivacità iniziali, non intellettualizzata, quanto l’unione “vitale” dell’individuo con la realtà che lo circonda, una vera e propria presa di possesso di questa realtà, che si tramuta nell'individuo in forza ed attività creatrice, che risolve in sé, unificandoli in modo originale, tutti i dati forniti dalle sensazioni. La politica può guardare ormai al “tutto” della società, considerata nella dinamica delle passioni che la fanno sussistere e quindi delle “forze” che la costituiscono e la promuovono nel corso di un lungo processo storico. La politica “riscopre” cosi la storia come la dimensione in cui è possibile cogliere il valore e il significato della sua attività. CAPITOLO QUINTO STORIA E POLITICA Negli anni immediatamente seguenti alla Vindication e all’Enqury Burke si dedico, come si e accennato, alla composizione di un’opera di carattere storico, An Essay towards an Abridgment of English History, che secondo gli accordi con l’editore Dodsley avrebbe dovuto comprendere l’intera storia inglese dalle origini sino alla regina Anna. L’Abridgment non corrispondeva solamente al vivo interesse per gli studi storici che aveva caratterizzato la sua formazione culturale; riprendeva e per molti aspetti continuava il discorso che aveva iniziato con la Vindication, cioè con la concezione del rapporto fra religione, filosofia, politica e storia, quale era stato proposto da Bolingbroke, alla cui opera si richiamavano gli autori che avevano espresso gli orientamenti più significativi della storiografia dell’ultimo ventennio, Voltaire, Montesquieu, Hume. L’Abridgment doveva tener conto non solamente dei nuovi orientamenti storiografici, ma anche della tradizione della storiografia erudita, di Rapin Thoyras, la cui opera, nonostante le riserve di Burke, offriva un insostituibile punto di riferimento per un’informazione approfondita sulla storia inglese basata su un’attenta ricognizione delle fonti. Il lavoro dovette rivelarsi ben più impegnativo di quello previsto: si trattava di approfondire gli studi per il periodo delle origini e del medioevo, sul quale gravavano incomprensioni e decise condanne da riconsiderare criticamente, mentre sino a quel momento i suoi interessi di storia inglese si erano concentrati sul periodo moderno, con particolare riguardo alla storia irlandese. Nel 1759 aveva avuto proprio con Hume una vivace discussione sulla tradizionale condanna da parte degli storici inglesi dell’insurrezione irlandese del 1641. Lo studio delle origini e dell’età medievale sino a Govanni senza terra e la relativa redazione della storia occuparono Burke dal 1757 sino al 1762. Molto probabilmente i nuovi impegni connessi con l’inizio della sua promettente carriera politica che lo induceva a dedicarsi alla pubblicistica politica contemporanea (il saggio sulla Popery Law) lo convinsero ad interrompere definitivamente il suo lavoro: rimasto inedito, fu pubblicato postumo nel 1815. Va inoltre rilevato che il periodo storico trattato nell' Abridgment aveva in sostanza esaurito gli interessi storiografici di Burke, concentrati sul problema dei rapporti fra giustizia, diritto e storia con riferimento alle origini e alla formazione storica delle leggi e delle istituzioni politiche inglesi, considerate in una prospettiva montesquiviana e con una visione preromantica della storia medioevale inglese. L' Abridgment inizia con il periodo della dominazione romana, si sofferma sull’insediamento sassone, sulla diffusione del cristianesimo e del monachesimo, sulle leggi ed istituzioni sassoni, sulla serie dei re sassoni; tratta poi dell’insediamento dei Normanni e della monarchia normanna, da Guglielmo il conquistatore sino a Giovanni senza terra, prestando particolare attenzione per questo ultimo periodo ai contrasti e agli scontri fra monarchia, aristocrazia, chiesa e popolo delle città, che si sarebbero poi conclusi, dal punto visto politico-costituzionale, con la concessione della Magna Carta, il primo riconoscimento delle fondamentali libertà inglesi. La storia dell'Inghilterra, come storia della nazione e dello Stato inglesi, è vista in stretta connessione con la storia della formazione dell’Europa come repubblica cristiana (la diffusione del cristianesimo), per gli essenziali rapporti con gli eventi storici europei, in particolare quelli del nord Europa (i Sassoni, i Danesi, i Normanni), per la dialettica fra potere temporale e spirituale - l’impero e il Papato - che si riflette a volte in modo determinante nella politica inglese; per l’importanza che rivestono le crociate che coinvolsero tante nazioni europee, compresa l’Inghilterra; per le comuni leggi ed istituzioni feudali. Ciò che colpisce chi legge Abridgment è proprio la consapevole affermazione da parte di Burke della dimensione europea della storia relativa alla formazione della nazione e dello Stato inglesi. La premessa all’indagine storica svolta nell’ Abridgment ‘ è data da un “Frammento”, dedicato a un saggio sule leggi Inglesi, in cui si indicano i criteri storiografici seguiti e si sottolinea, con un implicito richiamo ai capitoli trentesimo e trentunesimo dello Spirito delle legge, il decisivo contributo della ricerca storico-giuridica per la storia dei “tempi oscuri” (le origini) dell’Inghilterra. Si tratta di rendersi conto delle fasi del processo di formazione delle leggi inglesi, che vanno considerate in stretta connessione con gli eventi storici, secondo l’avvertenza montesquiviana che << bisogna illuminare la storia con le leggi e le leggi con la storia ». << Fra gli oggetti della nostra curiosità - nota Burke - nulla di più razionale delle origini, dei progressi e delle rivoluzioni delle leggi umane, Gli eventi politici e militari sono caratterizzati dall'ambizione e dalla violenza; la storia delle leggi invece è la storia della giustizia. Non vi è indagine più gratificante di quella che cerca di tracciare i progressi degli uomini nel tentativo di imitare il Supremo Reggitore in uno dei suoi più gloriosi attributi; e di considerarli nell’esercizio di una prerogativa che desta meraviglia sia affidata alla gestione di un essere così debole. Nel corso di questa ricerca incontriamo spesso prove di questa “fragilità”, ma nello stesso tempo riscontriamo tali nobili sforzi di saggezza e di equità, da giustificare pienamente la ragionevolezza di quella straordinaria disposizione, per cui gli uomini, in un modo o nell'altro, si sono sempre posti sotto il dominio di persone simili a loro. Che cosa di più istruttivo che rintracciare le prime e nascoste fonti di quella giurisprudenza, che oggi “irriga”ed arricchisce intere nazioni con così copiose inondazioni; che osservare il manifestarsi dei primi principi del DIRITTO, involti nella superstizione e contaminati dalla violenza, finché con il passare del tempo ed a seguito di circostanze favorevoli essi hanno potuto farsi valere in modo chiaro; le leggi, talvolta perdute e seppellite nella confusione delle guerre, dei tumulti; e talvolta soverchiate dalla mano del potere; poi, vittoriose sulla tirannia; diventando più forti, più certe, più ferme per la violenza che hanno sofferto; arricchite proprio da quelle conquiste straniere che cercarono di distruggerle; dirozzate e mitigate dalla pace e dalla Religione; promosse ed esaltare dal commercio, dalla vita civile e da quella scienza sincera che apre le menti? >>. Il diritto, le leggi e la giustizia non sono per Burke la mera espressione del loro contesto storico, ma scaturiscono da un’esigenza costitutiva dell’umanità dell’uomo che trova fondamento nella sua connaturata religiosità, << in an attempt to imitate the Supreme Ruler in one ot the most glorious of his attributes >>. Ed è proprio l'insopprimibile esigenza di giustizia che costituisce il principio dinamico del diritto e che ha insieme alle altre esigenze e passioni degli uomini una parte determinante nella generale dinamica della storia. Burke polemizza contro i fautori della concezione di un’originaria e perfetta legge inglese che si sarebbe conservata inalterata per tanti secoli; contro le concezioni politico-partitiche della legge sostenute dai Tories e dai Wighs (per i primi la legge deriverebbe unicamente dalla volontà del re, per i secondi da precise istanze e richieste del popolo); infine contro i teorici di un sistema di leggi originariamente e tipicamente inglese cresciuto su se stesso, senza alcun apporto di leggi straniere, che sarebbero state sempre espunte dalla legislazione inglese ogni qual volta si tentò di inserirle. Tutte queste interpretazioni sono sostanzialmente astratte nel senso che non tengono conto della realtà, cioè della sua concreta dinamica, che può essere compresa solamente nella dimensione storica: lusingano la vanità nazionale e la grettezza professionale, espongono i loro sostenitori a << macroscopiche contraddizioni >>, a tali << assurdità che sarebbe ridicolo menzionarle >>. Il corpo delle leggi inglesi sino al periodo normanno l’originario nucleo storico - si riferisce a tre fonti principali: gli antichi, tradizionali costumi delle genti del Nord Europa, che furono diffusi con le conquiste a‘ seguito delle invasioni barbariche e che essendo conformi al << genio >> del popolo formarono << il grande corpo e il principale flusso delle leggi sassoni »; i canoni della Chiesa, che se non erano ancora stati ricondotti a criteri uniformi di interpretazione, contribuirono a correggere, mitigare e perfezionare le rozze istituzioni dei popoli del Nord; alcune parti del diritto romano e le consuetudini della altre nazioni germaniche. i Il problema della formazione storica della società inglese, delle sue leggi ed istituzioni, induce Burke ad una riflessione sulla “originaria” società britannica sulla base delle fonti antiche, greco-romane, delle nuove acquisizioni degli “antiquari”, degli usi, delle tradizioni, dei “monumenti” dei popoli di quelle età, di una maggiore consapevolezza dell’influenza che la collocazione geografica e le condizioni ambientali ebbero sulla vita di quelle antiche popolazioni. Basti accennare che Burke dedica il primo libro dell’ Abridgment alle origini della società britannica ed alla dominazione romana, soffermandosi in modo particolare sui costumi, sulle tradizioni e le istituzioni religiose di quella società per rilevarne le essenziali caratteristiche e per illustrare poi i criteri cui si informò l'amministrazione romana della Britannia, in particolare nel periodo del tardo Impero. Secondo le notizie tramandateci da Cesare nel De bello Gallico le primitive popolazioni britanniche provennero dalla vicina Gallia: i Celti, i Belgi e gli Aquitani, che si insediarono rispettivamente nel centro, nel nord e nel sud dell’isola. I primi, dediti alla caccia e alla pastorizia, furono spinti verso l’interno dai Belgi, che poterono realizzare stabili insediamenti sulle zone costiere, grazie all’agricoltura che costituiva la loro principale attività. I costumi e i caratteri erano sostanzialmente quelli delle popolazioni della Gallia descrittici da Cesare, << impazienti, fieri, incostanti, vanitosi, vanagloriosig amanti delle novità e come tutti i barbari, fieri, infidi e crudeli ». L’arte militare era sostanzialmente inesistente: erano temibili solamente per la destrezza nel predisporre imboscate. Fra i Britanni, come del resto fra tutte le altre nazioni primitive, erano del tutto inesistenti vincoli di carattere “politico” o “civile”: l’unica forma di “autorità” cui facevano capo le relazioni dei gruppi parentali era quella del padre di famiglia, al quale era riconosciuto il potere di vita e di morte su tutti i componenti della stessa famiglia che comprendevano i liberi e i servi. A1 di sopra dell’autorità paterna era riconosciuta quella dei sacerdoti, i Druidi, che, oltre ad amministrare il culto con cui si sancivano le più importanti deliberazioni comuni, esercitavano tutti i poteri di suprema giurisdizione sui liberi e sulle famiglie: la religione esprimeva così le convinzioni comuni dei Britanni necessarie a rinsaldare il sentimento di appartenenza ad una comunità politica. Burke si sofferma sulla teologia dei Druidi, fondata sull’immortalità dell’anima, sulla metempsicosi, sulle loro conoscenze astronomiche, geografiche, di matematica e di medicina mista a pratiche magiche, sulla loro capacità di celebrare con canti eroi della comunità e di tradurre il loro sapere in massime redatte in versi, sulla loro arte divinatoria. Era una religione che divinizzava la natura, i fondamentali elementi naturali il fuoco, il sole, la luna, i pianeti, l'acqua; teneva in particolare venerazione le querce e le foreste. La religione non è una “superstizione” che alimenta il terrore o le assurde fantasie degli uomini, e quindi l'efficace strumento per realizzare la tirannia della casta sacerdotale, ma è la prima forma di sapere dei popoli primitivi, compresi quelli più “acculturati”, i Greci e i Romani; è quella concezione della vita e del mondo che, tradotta nei simboli e nelle forme del culto, rende possibile la prima forma di ordine civile e politico della società: « The first openings of civility have been every where made by religion: amongst the Romans, the custody and interpretation of the laws continued solely in the college_ of the pontifs for above a century >>. Essa pertanto rappresenta il principio d’identità di quella società primitiva, ciò che le consente di riconoscersi come un'unità di intenti, finalizzata soprattutto alla difesa contro gli invasori o a sostenere la ribellione contro gli oppressori: Burke ricorda la crudele strage dei Druidi ordinata dal comandante romano Paulino, per privare i Britanni dei loro capi “spirituali” che promuovevano e sostenevano la resistenza contro l’invasore. Il progetto di estendere a consolidare il dominio romano sulla Britannia fu ripreso nel 42 d.C. da Claudio e le operazioni militari, a causa della strenua resistenza delle popolazioni britanniche, si protrassero per circa trent’anni prima che il dominio romano, durante l’impero di Vespasiano, grazie alla saggia condotta militare di Agricola, potesse stabilmente insediarsi. Agricola sa che la forza militare da sola non riesce a sottomettere i popoli: la conquista per essere duratura non deve essere l'occasione per instaurare una tirannia. Il dominio pertanto deve essere temperato e legittimato dalla partecipazione dei dominati alla civiltà dei vincitori e da un rapporto di collaborazione ad intenti comuni. Agricola riuscì a “riconciliare” i Britanni ai Romani, proponendo ai Britanni tutti i vantaggi della civiltà dei Romani. Egli sottomise i Britanni rendendoli civili e li indusse a scambiare una << selvaggia libertà » con una << civile e lieve >> sottomissione. << La sua condotta, conclude Burke, è il modello perfetto per coloro cui è affidato l’infelice ma necessario incarico di sottomettere un rozzo ma libero popolo >>. Burke si sofferma in dettaglio sulle vicende dell’amministrazione romana nella Britannia da Adriano (171) sino ad Onorio (432), quando l’isola fu di fatto abbandonata dalle forze romane, per sottolineare gli eventi e gli episodi in cui è dato riscontrare un certo ruolo che la Britannia ebbe nella fase del tentativo di consolidamento dell’Impero e poi nel periodo della decadenza e della fine. La dominazione romana, protrattasi per circa quattrocento anni, non riuscì a promuovere nella Britannia una stabile organizzazione politico-amministrativa in grado di poter contrapporre una valida difesa dell’isola dalle incursioni dei suoi nemici. Per questi motivi, quando i Romani abbandonarono l"isola (432), i Britanni non riuscirono ad esprimere un governo in grado di far fronte agli attacchi degli invasori. L’intesa raggiunta di riconoscere un re, garanti per un certo periodo la pace interna e consentì di organizzare la difesa nei confronto dei Pizi. Nel 447 i Britanni, constatata l’impossibilità dì continuare a far fronte agli attacchi dei nemici, avendo perso ogni fiducia nel loro re e in fondo in se stessi, decisero nell'assemblea nazionale di chiamare in aiuto i Sassoni, una popolazione del nord della Germania, nota per la sua forza e per il suo valore militare. L'aiuto si trasformò in breve volgere di tempo in una vera e propria invasione, che si concluse con lo stabile insediamento dei Sassoni e dei loro alleati, gli Angli, nella Britannia e con il totale assoggettamento dei Britanni, che se non furono ridotti in schiavitù, come sostengono alcuni storici (Hunie), furono privati di ogni diritto politico, “degradati" precisa Burke, una specie di capzìzlv demizmtzo: in effetti furono dissolti come “nazione”, la loro religione e la loro lingua furono cancellate, e furono assorbiti dai nuovi dominatori, gli Anglo-Sassoni. La storia degli Anglo-Sassoni dai loro primi insediamenti sino alla costituzione della monarchia è caratterizzata dalla mancanza di fonti storiche attendibili: le cronache di quel periodo non sono altro che una rappresentazione fantastica delle gesta dei personaggi leggendari di quei tempi. Sono narrazioni, osserva Burke, che offrono tanti spunti per i poeti e suscitano invece tante perplessità negli storici: in effetti è il “tempo" mitico ed eroico della nostra nazione. L’Inghilterra anglosassone esce da questo periodo “oscuro" con la diffusione del cristianesimo a seguito della missione del priore del monastero di S. Andrea, Agostino, promossa dal papa Gregorio Magno, e della conversione di Ethelbert, re del Kent, e della sua nobiltà: secondo Burke, fu la “rivoluzione” più rilevante della storia inglese: << nor is there indeed any revolution so remarkable in the English History >>. L’importanza del cristianesimo nel processo di formazione della società civile e politica inglese durante il medioevo è sottolineata da Burke nel capitolo secondo del terzo libro dedicato allo « Stabilimento del Cristianesimo, delle istituzioni monastiche e dei loro effetti >>. I successi dello zelo missionario dei monaci nell’opera di conversione del popolo furono dovuti non solamente alla loro vita pia ed austera ma anche al fatto che cercavano di istruire il popolo nelle attività necessarie a soddisfare bisogni primari della vita civile: Burke ricorda l’iniziativa del vescovo Wilfrid volta a diffondere fra le popolazioni della costa del Sussex l’arte della pesca, da loro prima non praticata, offrendo così ad esse la possibilità di affrancarsi da una situazione di totale miseria, che spingeva molti al suicidio. L’attività dei monasteri era in sostanza ispirata alla costante preoccupazione di conseguire il bene` del popolo. `Quando i re donavano alle chiese terre che erano state conquistate ai loro nemici pagani, il clero battezzava e liberava da ogni peso i nuovi vassalli; si avvalevano della benevolenza dei dotti e dei consiglieri per indurli a mitigare il rigore della legge di conquista: << essi gioivano nel vedere la religione e la libertà avanzare con un uguale progresso >>. Per Burke nulla merita maggiore lode che lo zelo dei monaci per la libertà delle persone: nei loro canoni, come nelle transazioni stipulate con i grandi proprietari, era sempre inserito un preciso richiamo a favore della libertà. Le penitenze erano finalizzate ad atti di beneficenza, per cercare dì trarre dalle azioni malvagie occasioni per operare il bene; il (grande feudatario penitente era sollecitato a liberare i propri schiavi ed a redimere quelli degli altri, oppure gli si suggeriva di riparare le strade, di costruire chiese, ponti e di provvedere ad altre opere di pubblica utilità. I monasteri erano le uniche organizzazioni con carattere di perenne continuità, ai quali si rivolgeva chi desiderava istituire lasciti patrimoniali per soccorre i poveri, sicché essi rappresentavano l'unico canale attraverso cui la liberalità dei ricchi passava in un continuo flusso ai poveri, che potevano sempre contare sul soccorso delle istituzioni monastiche. La confidenza che il monachesimo aveva suscitato in tutte le classi sociali per le sue austere regole di vita, ben lontane dall’avarizia e dal desiderio di ricchezza che lo caratterizzò nel secolo successivo, promosse la crescita dei monasteri. Essi trasformarono, mediante bonifiche e dissodamento di terre incolte, i siti sperduti in cui si erano insediati e costruirono splendide abbazie, che non furono solamente centri di vita religiosa, ma ebbero anche un ruolo rilevante nella vita civile e politica. I monasteri e le abbazie rappresentarono in quei tempi di ricorrente anarchia politica, caratterizzati da guerre continue, un luogo di sicuro rifugio per re, principi, conti, grandi feudatari, rispettato di solito da tutti i contendenti. Da questo fatto nasce il diritto di immunità che fu poi riconosciuto ufficialmente ai monasteri ed alle terre di loro proprietà, il che consentì di allargare la possibilità di rifugio a tutte le classi sociali, in particolare al popolo minuto, maggiormente esposto alle vessazioni dei feudatari. In tal modo i monasteri esercitavano un importante ruolo volto a contenere la feroce lotta politica ed a proteggere le classi meno abbienti: grazie alla loro influenza L’interpretazione delle “barbare” consuetudini e leggi cominciò ad essere informata a criteri di equità e di umana considerazione. I monasteri furono anche gli unici centri di attività culturale e di diffusione di “sapere civile": se lo spirito del monachesimo, come si suol ritenere, contribuì alla decadenza delle scienze nell’Impero romano è certo però che la diffusione della cultura e della civiltà nel Nord Europa fu merito esclusivo dell'iniziativa e dell’impegno dei monaci. Si noti a tal proposito che la spiegazione e l’approfondimento dei testi sacri richiedeva una cultura che si riferiva alle scienze, alle lettere, alle arti delle civiltà latina e greca: la conoscenza della lingua latina necessaria per tutte le funzioni del culto, per il “governo” delle istituzioni ecclesiastiche e per le loro relazioni in Inghilterra e con Roma, implicava naturalmente lo studio degli autori classici, che erano stati salvati dal naufragio della letteratura antica. Grazie a quelle esigenze ed a quegli interessi di carattere religioso-culturale furono trasmessi sino ai nostri giorni quegli inestimabili “monumenti” della letteratura e della scienza classica, che sarebbero certamente stati distrutti in occasione dei saccheggi, delle rapine, delle stragi che caratterizzarono quei tempi dell’alto medioevo. Burke rileva inoltre l’importanza dei pellegrinaggi, promossi dalla religiosità cristiana diffusa ed alimentata dal monachesimo, che, se possono essere oggetto di riserve e critiche, risultarono di sicuro vantaggio per la cultura. Le loro mete erano Roma, che ancora conservava il poco che si era salvato dalla rovina dell’Impero; Gerusalemme, che li portava nel cuore dell’impero greco, ove erano vivi gli antichi studi, cui si aggiungevano nuove conoscenze nell’ambito delle arti. Quando gli Arabi occuparono la Palestina i pellegrini ebbero l'occasione di apprendere le nuove scoperte di “quel popolo laborioso". Essi stabilirono pertanto, in quei tempi così avversi, contatti fra l’isola e tante altre nazioni di cui si sarebbe appena avuto notizia, portando in patria tante informazioni che non si riferivano solamente ai miracoli e alle leggende, ma anche a nuove conoscenze utili per le esigenze della loro vita. I pellegrinaggi in tal modo preservarono, rileva Burke, quello scambio di relazioni proprio del genere umano, che nell’età moderna è garantito dalla politica, dal commercio e dalla “curiosità colta". Proprio quei viaggi portarono in Inghilterra i semi del sapere e del progresso, che furono coltivati nella tranquillità e nel rifugio dei monasteri, le uniche istituzioni che potevano assolvere a tale compito che richiedeva una categoria di persone che fosse libera dal condizionamento degli impegni della vita quotidiana e che, dati i tempi, non fosse assillata dalla totale incertezza del domani, dal timore di un'incombente miseria e di imminenti pericoli di vita. In effetti, osserva Burke, la conservazione e la diffusione del sapere furono rese possibili dal fatto che la vita contemplativa era stata distinta e separata dal resto della comunità, garantendole uno status particolare, come condizione necessaria per poter svolgere il suo ruolo di conservare ed alimentare la fede ed il sapere, che avrebbero dato un contributo essenziale alla “civilizzazione” della società inglese e del nord Europa. C'è in queste considerazioni di Burke l’implicita affermazione del primato della vita “contemplativa” su quella pratico-operativa, della conoscenza teologico - religiosa, filosofica, letteraria, su quella delle arti e dei mestieri, come necessaria premessa storica di quella civiltà del sapere che rende possibile e continuamente promuove le conoscenze utili all'uomo e alla società: in altri termini il ,bios ..... presuppone per quanto riguarda la nascita dei nuovi popoli e delle nuova società europee il ,bios ..... intimamente connesso, come la storia ci ricorda, al sentimento religioso. Né va dimenticato che un contributo notevole alla cultura inglese fu dato dai prelati stranieri nominati dal Papa per meriti religiosi e vasta dottrina alla più alta carica ecclesiastica inglese. Fra questi Burke ricorda il settimo arcivescovo di Canterbury, il greco Teodoro, che introdusse intorno al 669 lo studio della lingua greca in Inghilterra, creando a tal fine una scuola presso la cattedrale, dotandola di preziosi manoscritti greci fra i quali un “magnifico codice contenente i poemi omerici: << and thus the other great fountain of knowledge, the Greek tongue, was opened in Englandu. >>. Se il sud della Inghilterra si giovò del diretto “canale" con Roma per promuovere e diffondere la cultura; nel nord dell'Inghilterra tale esigenza fu assolta da due monasteri, quello di Hii e quello di Durham che furono riconosciuti con giudizio concorde come autorevoli centri di dottrina religiosa e di sapere “profano". Nell’opera del << venerabile >> Beda, il più dotto religioso di quel periodo, si esprime, a giudizio di Burke, l’impegno della cultura ecclesiastica di connettere le esigenze di un approfondimento della dottrina religiosa con una esposizione sistematica delle conoscenze che si riferivano alle discipline e alle arti tramandate dal mondo classico. Di Beda, oltre agli scritti di commento alle Sacre Scritture, ad argomenti di filosofia naturale, dì grammatica, di retorica, di etica, vanno ricordati gli scritti storici, in particolare la sua Historia ecclesiastica, che rimane, nonostante un certo disordine nella distribuzione della materia e certe ingenuità per le interpretazioni decisamente miracolistiche di alcuni avvenimenti, una fonte preziosa per la storia di quei tempi. Nel giudizio sulle opere di Beda non bisogna soffermarsi solamente sulle ingenuità e le concezioni erronee dettate da superstizioni e da pregiudizi religiosi, ma mettere in risalto, con una giusta valutazione storica, il valore positivo che ebbero per la società del loro tempo nel promuovere un significativo progresso culturale e scientifico. Esse educarono le menti ad avere una concezione sistematica della realtà, a concepire i rapporti e gli interessi derivanti dalla comune vita sociale secondo un determinato ordine ed a disciplinare e controllare gli impulsi delle passioni con i valori della religione e i principi della morale. E, cosa particolarmente importante, l’interesse dimostrato per la lingua inglese della quale si cominciò a perfezionare e ad arricchire le sue capacità “espressive” sul modello delle lingue e della cultura classiche. Di qui l'alto apprezzamento di Burke dell'opera di Beda, « this father of the English learning >>, al quale è impossibile rifiutare « the praise of an incredible industry and a generous thirst of knowledge >>. Va altresì riconosciuto che nessun'altra nazione, tranne quella inglese, che aveva cominciato ad uscire da una “totale” barbarie solamente cinquant'anni prima, riuscì ad esprimere in così poco tempo un fiorente centro di cultura ed un così eminente maestro. La diffusione del cristianesimo nell’Inghilterra rese più “civili” i costumi barbari delle popolazioni, attenuando la loro ferocia e rozzezza, e favorì il consolidarsi fra quelle popolazioni di una serie di rapporti e di relazioni che consentirono una prima forma di unione fra i cinque regni costituitisi all’indomani della conquista anglosassone: il Wessex, la Mercia, il Northumberland, il Kent e l’Essex. L’impulso a questo primo tentativo di unificazione politica dell’Inghilterra provenne dall'esempio offerto dalla politica di unificazione imperiale di Carlo Magno, alla cui corte era stato ospitato Egbert re del Wessex, che nell’827 riuscì a realizzare l'unione dei cinque regni. L’autorità e il potere della monarchia in effetti erano molto fragili: la mancanza di vincoli e rapporti (istituzionali definiti e precisi poneva la monarchia alla merce della grande aristocrazia, che di fatto era sovrana nelle sue vastissime proprietà. Si aggiunga che la successione al trono era spesso l'occasione di gravi conflitti fra i pretendenti: non vi erano norme precise che la regolassero e doveva essere confermata dall'elezione degli ordini. La stabilità e la durata del potere monarchico erano pertanto affidate unicamente alle capacità e alla personalità del monarca. Se Egbert riuscì a mantenere con autorità il suo potere ed a respingere gli assalti dei Danesi, che cercavano di insediarsi nell'isola, il suo successore Ethelwolf, mite, devoto, interessato più alle pratiche di pietà religiosa che agli affari di governo, fu del tutto incapace di contrastare validamente i loro attacchi. I suoi successori Ethelbert ed Ethelred non riuscirono ad arrestare il processo di disarticolazione della monarchia. Il regno sassone era tale solo di nome, di fatto si era dissolto e le “parti" che lo costituivano erano ritornate alla loro antica indipendenza, favorita dalla situazione di anarchia determinata dagli attacchi e dagli insediamenti dei Danesi. La ricostituzione dell’unità del regno sassone fu dovuta all'energia, alle capacità militari e di governo del nuovo re Alfredo, che, dopo alterne vicende, riuscì a scacciare i Danesi dal Wessex, dalla Mercia e dal Northumberland e ad obbligarli ad un tributo nell'Est Anglia, conseguendo, questa volta, una durevole pace. Oltre che alla difesa e alla “restaurazione” dell’unità politica del regno sassone Alfredo provvide ad una organica riorganizzazione legislativa ed amministrativa dei suoi domini, che ne garantisse l'ordine e la tranquillità, talché egli è ricordato con onore come << the founder of our Laws and Constitution >>. Le contee furono suddivise in cento “distretti”, ripartiti- in “tythings" delle quali dovevano far parte gli uomini liberi, vincolati dal mutuo impegno di preservare la pace e di evitare il furto e la rapina. Particolare attenzione fu rivolta all’amministrazione della giustizia, al fine di migliorare la preparazione dei giudici, che dati i tempi erano sforniti di una adeguata cultura giuridica, e di garantire una giustizia obbiettiva con severe condanne nei confronti dei frequenti casi di corruzione. Fu promossa inoltre un’organica raccolta delle leggi, degli usi, delle consuetudini, nella quale furono inseriti diversi commenti come orientamento per i giudici al fine di assicurare la certezza del diritto e garantire una corretta applicazione delle leggi. Dopo la morte di Alfredo i suoi successori furono di nuovo impegnati nella lotta con il nemico di sempre, i Danesi, senza peraltro riuscire ad incidere efficacemente sulle loro capacità offensive. La guerra contro i Danesi, che nel frattempo erano riusciti ad insediarsi stabilmente nell'isola, continuò fra alterne vicende ed impegnò i monarchi sassoni dal 900 sino al 1016, quando il re dei Danesi Canuto, alla morte di Edmund, l'ultimo dei successori di Alfredo, riuscì a farsi designare dall’assemblea degli ordini re d’Inghilterra. La monarchia danese non durò a lungo, per l’incapacità dei successori di Canuto e per la forte opposizione dell’aristocrazia anglosassone: alla morte di Hardicanute, l'ultimo re danese, appena trentatré anni dopo l’avvento al trono di Canuto l'assemblea del regno ricostituiva con voto unanime la monarchia sassone nell’ultimo discendente Edward il confessore, che si era rifugiato in quegli anni nel ducato di Normandia. Edward disilluse ben presto l'aristocrazia sassone che lo aveva sostenuto con la sua politica dichiaratamente favorevole ai suoi amici normanni che si concluse con lo scontro aperto con Godwin, conte di Kent, capo del “partito” sassone. Si erano costituite cosi le premesse per l’intervento dell'assemblea del regno in occasione della morte dì Edward, che non aveva lasciato eredi diretti. Fu eletto al posto del pronipote di Edward, Edgar Atheling, legittimo erede, il figlio di Godwin, Harold II, sancendo così il principio elettivo per la successione al trono d’Inghilterra. Ma l'esclusione del successore legittimo e la designazione al trono di un estraneo alla famiglia, reale consentirono a Guglielmo duca di Normandia di disconoscere la nomina per far valere la sua pretesa alla Corona, fondata sulle promesse del re defunto. Fu l'ir1izio di un conflitto che si concluse con lo sbarco in Inghilterra dell’esercito normanno e con la sconfitta e la morte di Harold II nella battaglia di Hastings. La nobiltà sassone, insieme alla città di Londra, « che nota Burke persino a quel tempo era molto potente >>, tentò di organizzare la resistenza riconoscendo come re il legittimo successore Edgar Atheling. Ma ben presto si manifestò l'inconsistenza del tentativo, per la mancanza di fiducia nel nuovo re, per i reciproci sospetti che dividevano gli aristocratici, per la paura e la confusione che dominava nell’assemblea costituita da rappresentanti di ordini in contrasto fra di loro. Quando Guglielmo, dopo aver passato il Tamigi si avvicinò a Londra, << il clero, i cittadini, la gran parte dei nobili - conclude Burke -, che avevano di recente messo la Corona sulla testa di Edgar, gli andarono incontro per fargli atto di sottomissione, per accompagnarlo poi in trionfo a Westmmster, ove fu solennemente incoronato re d’Inghilterra. Tutta la nazione seguì l'esempio dj Londra: una sola battaglia concesse l'Inghilterra ai Normanni, la cui conquista era costata tanto tempo e tanto sangue ai Romani, ai Sassoni e ai Danesi ». Secondo Burke la sconfitta dell'esercito anglosassone nella battaglia di Hastings non fu la causa della fine del regno anglosassone (come ritengono alcuni storici, fra i quali Hume) ma fu l’episodio finale della lunga crisi che minò ogni possibilità di efficace resistenza del regno. Per Burke il processo d'unificazione politica avviato da Egoberto e che aveva trovato nell'opera di Alfredo la sua espressione più organica e coerente non era riuscito a conferire un'effettiva stabilità al nuovo ordinamento politico. Intanto la legge che obbligava ogni individuo ad appartenere ad una Tything Court aveva rinchiuso la società anglosassone in una rigida struttura che fu la prima causa della mancata integrazione fra le due popolazioni, l’originaria britannica e quella anglosassone, e che non consentì alcuno sviluppo delle energie sociali, finendo per isterilirle e provocando cosi la decadenza della nazione anglosassone. D’altro canto due secoli di guerre contro i Danesi avevano praticamente dato fondo a tutte le risorse, mentre le capacità, di difesa e di recupero erano sostanzialmente molto limitate: non esistevano città costruite in mattoni, né si era in grado di poter costruire posti fortificati con muratura in cui poter concentrare e riorganizzare la difesa, in modo da poter affrontare in condizioni di vantaggio l'esercito invasore. La loro tecnica militare era elementare ed arretrata, come la loro civiltà, rispetto a quella dei Normanni. Dal punto di vista dell’organizzazione politica la crisi si manifestava con il progressivo indebolimento del potere regio. Le lotte continue contro i Danesi avevano offerto l’occasione perché il potere degli Alderman aumentasse ogni giorno di più a scapito di quello regio (« too great to obey, and too little to protect >>) mentre l'aristocrazia “regia”,che costituiva la struttura portante del regno e il nerbo della nazione, sempre a motivo delle guerre, si era ridotta a un numero veramente esiguo di famiglie. Si aggiunga che per l'istituto del Galvelkind che ammetteva alla successione delle terre “nobili" tutti i figli maschi in parti uguali e ir1 mancanza di questi anche le figlie, la proprietà si era suddivisa, con il risultato di determinare un continuo cambiamento nella titolarità – e relativa riduzione - dei poteri connessi con quelle proprietà: il governo anglosassone entrò cosi in uno stato di “continua fluttuazione”. In quella situazione il potere tendeva a concentrarsi in pochi gruppi, ostili fra di loro: le famiglie aristocratiche più rappresentative, aspirando tutte alla corona d'Inghilterra, rendevano sempre più incerti i diritti dei legittimi successori. Tutto ciò si rifletteva nelle assemblee del regno, nelle riunioni del “parlamento” anglosassone, che era praticamente diviso fra le opposte fazioni delle grandi famiglie che aspiravano al trono, e quindi incapace di promuovere una valida resistenza, perché senza una guida, senza un preciso indirizzo politico; alla fine i Grandi preferirono sottomettersi ad un principe straniero, anziché a chi ritenevano un loro eguale e nemico. Secondo Burke non possiamo avere una piena comprensione della storia della monarchia anglosassone se non ci rendiamo conto del nesso sussistente fra le sue leggi ed istituzioni e la sua attività politica: si tratta, come aveva suggerito Montesquieu, di << illuminare la storia con le leggi e leggi con la storia ». Anche per Burke, come per Montesquieu, le leggi sono intimamente connesse con l'ambiente, con il carattere, con l’indole, con il grado dì cultura, con il generale sistema di vita: lo “spirito delle leggi” è il principio unificatore di tutti questi fattori, che debbono essere considerati come parti di un tutto che si articola e si specifica in un processo storico. Le condizioni di vita dei Sassoni e lo stato della loro cultura sono i primi dati che dobbiamo tener presente per comprendere lo “spirito” delle loro leggi. Un popolo barbaro, la cui unica occupazione era- la guerra, senza arti, senza “industrie”, aveva vincoli politici estremamente labili, per la mancanza di quella trama di- rapporti e di relazioni propria delle società civili, che consente di concentrare la forza sociale in un unico potere e di realizzarne le deliberazioni per il conseguimento dei fini comuni. Altra caratteristica tipica di quei popoli era la mancanza di una distinzione fra legge e costume: le leggi dei Sassoni si identificavano con il costume, erano l’espressione delle consolidate _convinzioni collettive. Fra queste la più radicata, che esprimeva lo spirito di quell’elementare ordine sociale e politico, stabiliva la regola che le deliberazioni che riguardavano il comportamento di tutti i membri della comunità dovevano essere approvate dall’assemblea di tutti gli uomini liberi. Più precisamente, nota Burke, i popoli di razza germanica, secondo quanto attesta Tacito, consentivano che i loro capi avessero un pieno potere nel decidere le “ cose minori”, come le controversie che si verificavano fra i singoli, ma non le questioni che riguardavano l’intera comunità: si riconosceva ai loro principi e re il potere giudiziario, ma non quello legislativo, che apparteneva all’assemblea. Burke, se partecipa con Montesquieu alla convinzione che il principio ispiratore dei governi liberi è proprio delle popolazioni di razza germanica, non si lascia trascinare dall’entusiasmo per questa costituzione primitiva, quasi fosse il modello, indubbiamente semplice ma compiuto, del sistema costituzionale inglese. Quella “costituzione” è l’espressione delle scarse relazioni comunitarie proprie di un popolo primitivo e barbaro, prive di qualsiasi incentivo atto ad incrementarle, che avrebbero mantenuto i Germani in quelle condizioni di vita primitiva. Se il “sistema costituzionale", come vuole Montesquieu, è .stato inventato nella foreste della Germania, bisogna anche considerare, avverte Burke, che finché rimase in quelle foreste ed anche per lungo tempo dopo, fu ben lontano dall’essere un buon sistema; in effetti fu un tentativo molto imperfetto di fare un governo. Era un sistema per un popolo rozzo e barbaro, calcolato per mantenerlo nella sua barbarie. L’ordinamento politico della società anglosassone si basa sul rapporto di subordinazione che vincola il libero che riceve le armi dal signore il quale gliele consegna e che impegna il primo a porsi al servizio del suo signore: è questo un obbligo che riguarda tutti i liberi atti alle armi, che possono scegliersi il signore cui affidarsi. Questo rapporto, secondo Burke, si basa su i due fondamentali sentimenti della natura umana: l’ambizione, che spinge un uomo, anche a costo di qualsiasi rischio e sacrificio, ad assumere la guida degli altri; e l’ammirazione, che induce gli altri a seguirlo per il mero piacere di appagare questo sentimento, cui si accompagna una specie di “secondaria” ambizione, fra le più diffuse fra gli uomini; questi due principi creano una volontaria ineguaglianza e dipendenza fra gli uomini. Ma fra gli uguali, fra i signori, non poteva che sussistere un vincolo di tipo confederale: essi sono ricordati nelle leggi sassoni con il titolo di Seniore e di Cavaliere ed i loro subordinati con il termine di “fratelli alleati”, con il compito di sostenere il reame e la monarchia. Infine il rapporto di subordinazione implicava che il signore provvedesse al mantenimento dei subordinati a ricompensa dei loro servizi. A Questi principi individuano una categoria di persone, che costituisce la “struttura portante” dell'organizzazione politica anglosassone: l'aristocrazia militare. L'ereditarietà del ruolo politico che fini poi per caratterizzare questa classe o “ordine" è, secondo Burke, il risultato della trasformazione di un rapporto di carattere squisitamente personale fondato sulla libera scelta, e' quindi precario perché soggetto- al mutevole comportamento di individui leali ma violenti, in uno di carattere istituzionale, garantito dal diritto. L’ereditarietà dello status di “signore” era l’unico modo per dare stabilità e continuità ai rapporti di carattere politico fra il “signore” e subordinati, garantendo in tal modo la sicurezza e la pace dell’intera comunità. A queste imprescindibili esigenze di stabilità occorreva provvedere in occasione della morte del re e dei grandi feudatari, mediante il riconoscimento dei “diritti del sangue" garantiti dalla successione ereditaria, che in determinate occasioni erano riconosciuti dall’assemblea della comunità mediante l'elezione. L'ordine politico della società, basato sul rapporto di natura clientelare, si strutturava sulle categorie sociali in cui era` divisa la società anglosassone: nobili, vassalli, liberi e schiavi che facevano capo alla famiglia gentilizia sulla quale si fondava la rudimentale organizzazione Giuridico - amministrativa. La costituzione anglosassone riconosceva un ruolo eminente alla nobiltà che era al servizio del monarca, alla quale era assegnato, per le spese dei dipendenti e degli armati, un vasto territorio con piena giurisdizione sui suoi abitanti). La ripartizione amministrativa del regno si fondava sulla Tything Court, formata da dieci capi famiglia liberi e di “qualche considerazione", che deliberava sulle questioni e sulle controversie che potessero turbare la concordia della comunità: il fine della Tything era proprio quello di garantire la reciproca fiducia fra i suoi componenti; ogni uomo del regno, in quanto sottoposto ad ur1a Corte signorile, era obbligato a far parte dì una Tything. Dieci di queste costituivano una Hundred Court, che si riuniva una volta al mese per decidere sui reati minori. Le questioni più importanti, compreso l’atto di fedeltà al re, erano trattate e decise dalla County o Shire Court, la ripartizione amministrativa più grande del regno, presieduta da un nobile di grande prestigio denominato Ealdorman, sempre affiancato dal vescovo, per le questioni che si riferivano all'ordine ecclesiastico. In effetti, tiene a precisare Burke, il rispetto che si portava al clero e la cultura superiore del vescovo, ne facevano il presidente di fatto della Corte e l’ispiratore delle sue decisioni, consentendogli in tal modo di temperare la rigidità e la severità delle leggi anglosassoni. L’assemblea del regno denominata Wittenagemote, il “parlamento” anglosassone, era considerata superiore a tutte le altre corti perché era formata dai membri più influenti degli ordini del regno, aristocrazia e clero, e dagli alti ufficiali di Corte. Ogni persona di qualsiasi rango sociale poteva assistere al Wittenagemote, per essere informata del risultato dei suoi lavori. Ma ciò non significa, avverte Burke, che essa possa essere considerata una sorta di assemblea rappresentativa delle contee e delle città, come fu poi la Camera dei Comuni: l’idea di rappresentanza era troppo complessa per le menti semplici degli Anglo Sassoni, che fra l'altro disprezzavano le attività connesse all’esercizio delle arti e del commercio, che costituirono il presupposto di quegli interessi, di quelle esigenze e di quelle relazioni che ebbero poi un riconoscimento mediante la loro rappresentanza politica nei Comuni. La composizione del parlamento sassone, secondo Burke, non era stabilita con certezza. Si può ritenere che allorché si rendeva necessario assumere provvedimenti di carattere legislativo, che riguardassero tutti i sudditi, il re convocava il Wittenagemote e riuniva nel luogo della sua corte i vescovi e tutte le altre persone che riteneva più opportune, Conti e grandi feudatari. Le leggi, dopo essere state approvate, erano comunicate per la loro esecuzione alle Corti dei “borghi”, circoscrizioni comprendenti più città e villaggi, nelle quali il popolo si impegnava ad osservarle e ad unirsi per perseguire quanti l’avessero violate. In tal modo, secondo `Burke, la forma di governo del periodo anglosassone era in sostanza una confederazione, che era continuamente rinnovata, in occasione dell’impegno ad eseguire le leggi espresso dalle Corti dei “borghi” . Altrettanto incerti erano i poteri che il re esercitava nell'assemblea: la legge, proclamata in nome del re, era proposta dalla persona incaricata di redigerla, ed era considerata l’espressione del consenso unanime dell’assemblea più che la manifestazione della volontà di un legislatore che la stabiliva di propria autorità. Di nuovo Burke rileva quanto sia errato ritenere che l’ordinamento costituzionale inglese risalga a quei tempi remoti, senza rendersi conto << che così forti cambiamenti nei costumi, nel corso di tante età, debbono produrre sempre un considerevole cambiamento nelle leggi, e nelle forme come nei poteri di tutti i governi >>. La stessa osservazione vale per le leggi anglosassoni, che riflettono il carattere di quelle popolazioni, la loro semplicità e rozzezza: esse erano finalizzate ad assicurare la pace fra i vari clan familiari ed a fissare pertanto, con riferimento alle diverse categorie sociali, l'importo dell’indennizzo che l'offensore avrebbe dovuto pagare all’offeso: leggi “imperfette”, prive dì alcun criterio di coordinamento, che sancivano consuetudini dei clan familiari fra loro diverse e contrastanti. Esse pertanto sono ben lontane da quella perfezione che attribuiscono loro i soliti panegiristi delle istituzioni e delle leggi anglosassoni. Altrettanto semplici i principi sui quali si basava il processo, in particolare quello penale. Ogni controversia era decisa o sulla base del giudizio e dell’intesa delle parti, oppure sulla base dell’opinione della comunità, oppure con l’appello al giudizio di Dio, denominato ordàlia, che si sarebbe manifestato mediante le prove dell’acqua bollente o del ferro rovente: chi le avesse superate, doveva essere considerato innocente. Al fine di evitare per quanto era possibile la severa procedura dell’ordàlia e nello stesso tempo per non lasciare adito allo spergiuro, si ammise nella pratica giudiziaria il principio della prova e del giudizio sulla base dell’affidamento e della conoscenza dei vicini, della comunità. L'imputato che fosse assistito in giudizio da dodici “compurgatori”, che attestavano che il suo giuramento era conforme al vero, era prosciolto dall’imputazione: se l’opinione di alcune persone legittimava 1’accusa, l’opinione di dodici persone stimate valeva a liberarlo dalla stessa accusa: << If opinion supports all government, it not only supported in the general sense, but it directed every minute part, in the Saxon polìty >>. A quei principi fu ispirato il giudizio basato sulla giuria, Trial by the Country, cioè di affidarsi per ogni questione dubbia al giudizio di persone del luogo, che conoscessero le persone e i fatti. La giuria non era vincolata, tranne un caso particolare previsto da uno specifico statuto, ad alcuna regola processuale predeterminata ma era libera di giudicare sulla base delle sue informazioni e presunzioni. La legislazione penale anglosassone era molto moderata. La pena di morte era rarissima e non era contemplata la tortura: essa era sostanzialmente finalizzata alla composizione delle reazioni che suscitavano i reati gravi che avrebbero certamente turbato la pace della comunità; era ispirata pertanto al principio di mirare alla compensazione dell’offesa e del danno ricevuti. Il governo sassone si limitava ad esercitare la funzione d'arbitro fra le due parti contendenti, fissando l’entità della composizione e garantendone l'esecuzione. ' Burke si sofferma sul rilievo che ha la proprietà della terra nell’ordinamento politico della società anglosassone. Secondo la consuetudine sassone, propria di tutti i popoli germanici, le terre erano ridistribuire annualmente fra le famiglie e i gruppi gentilizi; dopo l’insediamento nell’isola britannica si provvide invece all’assegnazione di vasti territori ai capi dei clan gentilizi per la difesa della “conquista”. Il possesso a vita riconosciuto a chi aveva ricevuto tale assegnazione, questa prima forma storica di proprietà, ebbe come scopo quello di rendere stabile una serie di rapporti che si costituivano fra il titolare del possesso ed i suoi dipendenti, in particolare il rapporto clientelare che legava i secondi al primo, e quello di soggezione che vincolava schiavi e semiliberi alla coltivazione della terra che era stata concessa. Questa forma di possesso, proprio perché univa per tutta la vita l’uomo e la sua famiglia ad un determinato territorio, si trasformò a poco a poco in un vero e proprio diritto cui venne riconosciuto il carattere dell’ereditarietà, affinché quella stabilità dei rapporti sociali che era a fondamento della concessione a vita delle terre fosse ulteriormente garantita e rafforzata dal perdurare del possesso nella stessa famiglia, che, secondo l’espressione di Burke, era di fatto “murata” nei suoi possedimenti dalle “proprietà" confinanti di altre famiglie concessionarie. Già al tempo del re Alfredo (871-897) questi grandi possessi si trasmettevano per successione nella stessa famiglia, Accanto a queste “proprietà” denominate Bookland, era riconosciuta un'altra forma di proprietà, normalmente più piccola e quindi politicamente meno importante, il cui titolo non si fondava sulla concessione reale, ma sulla prescrizione, sul possesso mantenuto per un lungo periodo di tempo, la Folkland. Queste terre erano libere dai vincoli di concessione, potevano essere lasciate in eredità sia ai figli maschi che femmine e potevano essere liberamente alienate. Dopo questi due tipi di proprietà vi erano le concessioni di terra date dal re in vista di servizi particolari, per certi aspetti simili ai feudi, introdotti più tardi, a seguito della conquista normanna. La conquista normanna ha per Burke il merito storico di aver finalmente inserito l'isola britannica nella più ampia società politica europea, rendendola partecipe di una forma superiore di civiltà grazie alla possibilità di costanti, proficui contatti con gli altri Stati europei, che avrebbero così, sia pure indirettamente, contribuito al processo di incivilimento della società inglese. La specifica connotazione della storia inglese, data dal suo “sistema politico" che si organizza a poco a poco intorno alla monarchia e i cui principi saranno definiti con la Magna Carta, non deve farci dimenticare - avverte Burke - che essa si svolge in parallelo con quella europea per gli stretti nessi fra la politica inglese e quella dei ducati del Nord Europa, della Francia e dell’impero, peri continui rapporti di carattere religioso e culturale con la Francia del Nord (il ducato di Normandia) e in particolare con la Chiesa di Roma. Basti accennare all’importanza che le Crociate ebbero nella politica della monarchia normanna ed ai riflessi della lotta per le investiture fra Impero e Chiesa sulla politica ecclesiastica della stessa monarchia, impegnata a garantire la sua piena sovranità temporale nei confronti di Roma. La storia inglese del periodo della monarchia normanna deve essere studiata, secondo Burke, con riferimento al quadro storico dell’Europa fra l’ottocento e il mille, nel cui ambito si espressero le due istituzioni a carattere universale, l'Impero e la Chiesa, che caratterizzano la storia medioevale. La società europea dell’alto medioevo si costituisce a seguito dell’insediamento dei popoli di razza germanica nei territori dell’ex Impero romano con forme di organizzazione politica assai rudimentali. I tempi oscuri della società europea corrispondono a questo primo periodo, caratterizzato da una ricorrente instabilità politica, dalla estrema difficoltà di superare il particolarismo delle aggregazioni politiche tribali - familiari, dalle continue guerre di rapine e di conquista, tali da darci l’impressione di un disordine totale e di una permanente anarchia. Si aggiunga inoltre che proprio in questo periodo l'invasione degli Arabi e le loro rapide conquiste sembrarono destinate ad aver facile ragione di una società disgregata da lotte e conflitti continui. Ciononostante in questa stessa società, osserva Burke, si erano già espressi quegli ideali e quei principi di una superiore unità dei popoli e delle nazioni europee, che le avrebbero consentito di dar vita ad ordinamenti politici garanti di quel tanto di stabilità e di ordine necessari ad avviare un lento ma continuo progresso civile. Il rapporto di colleganza fra i regni, i principati e le entità politiche minori europee era rappresentato dalle due istituzioni a carattere universale, l’Impero e la Chiesa, che garantirono il processo di formazione della società europea. Anche in questo caso Burke afferma la sua convinzione sul ruolo essenziale del cristianesimo e della Chiesa nel creare dei vincoli di carattere religioso, spirituale e culturale, nel proporre cioè una concezione della vita che consentì all’Europa “barbarica” di uscire da una situazione di anarchia e di stabilire al suo interno una serie di rapporti e di relazioni, che formarono la trama che rese partecipe la società europea di comuni ideali e valori. La religione cristiana appare quindi a Burke come la forza spirituale che salvò l’Europa dalla dispersione e dall’anarchia, mentre la politica della Chiesa seppe con grande saggezza costruire un potere fondato esclusivamente sull’opinione, sfruttando tutte le occasioni favorevoli per consolidare il suo potere spirituale su quello politico temporale, per sottrarsi alla soggezione di quest’ultin1o e per affermare alla fine la sua autonomia ed indipendenza. Burke riconosce al Papato una grandissima arte politico diplomatica. I Papi seppero “servirsi” sia delle virtù che dei crimini dei grandi: favorirono la brama dei re per un'autorità assoluta e il desiderio di libertà dei sudditi: provocarono la guerra e si adoperarono per la pace ed ogni volta riuscirono a crescere nell'opinione e nella considerazione generale. Il loro potere poté così estendersi dalla sfera ecclesiastica a quella politica, passare dalla sottomissione all’indipendenza ed assumere così i caratteri di un potere universale, analogo a quello dell’Impero. La premessa storica dell'Impero fu la costituzione in Francia di una forte monarchia alleata della Chiesa, l’unica istituzione che poteva sancire la legittimità della monarchia, riconoscendole il ruolo di garante della giustizia e del diritto, e quindi dell’ordine e della pace temporali, contro ogni tentativo di violenza e di sopraffazione. La politica di Pipino e quella di Carlo Magno ebbero il loro pieno riconoscimento con l’incoronazione di Carlo Magno quale Imperatore dei Romani. La società politica medioevale poteva avere un costante punto di riferimento, che dava coerenza e continuità ai rapporti che si stabilivano fra le diverse entità politiche, regni, principati, contee, città e comuni. La storia medioevale, per Burke, è caratterizzata dai rapporti fra Impero e Chiesa, fra potere spirituale e temporale, dal reciproco tentativo di affermare e consolidare la propria superiorità. Né sfugge a Burke come proprio nel conflitto fra Impero e Chiesa, che ebbe come principale teatro di combattimento l’Italia, si inserisce una nuova forza politica, rappresentata dalle entità politiche minori, i regimi cittadini, in particolare le città marinare e i comuni italiani, che, avvalendosi delle libertà e dell’autonomie riconosciute loro dalla Chiesa e dall’Impero, si dedicarono alle attività commerciali, pervenendo in breve ad un rilevante grado di potenza e di civiltà. Il quadro storico dell'Europa è completato infine dai Normanni per la costituzione del ducato dì Normandia nella Francia e dei regni normanni a Napoli, in Sicilia e in Inghilterra. La politica della monarchia normanna fu rivolta innanzitutto al consolidamento del potere regio sulla base della riorganizzazione rigorosamente feudale del regno, della repressione delle pretese e dei comportamenti di piena autonomia dei grandi feudatari, di un controllo dell’ordine ecclesiastico affinché la sua giurisdizione e le sue decisioni non invadessero e non contrastassero la giustizia e la politica del regno. La prima fase dell’insediamento della monarchia normanna in Inghilterra fu caratterizzata dalla politica di Guglielmo di cercare un'intesa con gli Inglesi, con la nobiltà e con l’ordine ecclesiastico, con le città, in sostanza con il “partito anglosassone”, al fine di unire le due nazioni. Confermo alla città di Londra la carta delle libertà che era stata concessa dai re anglosassoni. Rispettò le proprietà degli Inglesi che non avevano preso le armi contro di lui e per le concessioni di terre ai suoi seguaci si avvalse dei patrimoni dei suoi nemici dichiarati, delle terre demaniali e di quelle “ecclesiastiche” di cui poteva disporre. Per consolidare ulteriormente il suo potere cercò di favorire, in nome delle comuni origini, l’integrazione fra i Normanni e i Danesi che si erano insediati nell'isola al tempo di Canuto ed erano rimasti in rapporti di inimicizia con gli Anglo-Sassoni. Con questi provvedimenti Gugliemo ritenne di aver pacificato i suoi nuovi domini e di potere allontanarsi dall'Inghilterra per un breve ritorno in Normandia. Ma il suo viaggio fu l’occasione che consentì agli oppositori del regime normanno di tentare una insurrezione, che Gugliemo, ritornato in Inghilterra, riuscì a domare. Fu l’inizio di una politica di dura repressione ed oppressione della nobiltà e del popolo anglosassone, che coinvolse anche l'ordine ecclesiastico a motivo della decisione di deporre tutti i vescovi anglosassoni per sostituirli con ecclesiastici normanni. Nel corso di questi provvedimenti i capi del partito anglosassone, fra i quali Edgar Atheling, l’ultin1o discendente dell’antica monarchia, riuscirono a rifugiarsi in Scozia e ad ottenere l'aiuto dell'esercito del re. Questa volta l’insurrezione, per l’intervento della Scozia, per l’aiuto della Danimarca e per la convergenza delle forze di coloro che si erano ribellati ai Normanni in diverse regioni dell’Inghilterra del nord, assunse le caratteristiche di una guerra organizzata, che sconvolse l’Inghilterra per circa due anni. In quell’occasione si manifestarono il coraggio e le capacità militari di Gugliemo, che riuscì a distogliere i Danesi dall'alleanza con gli`Scozzesi ed a sconfiggere successivamente i suoi avversari. Dopo questa vittoria definitiva sui suoi nemici, sancita da una seconda solenne cerimonia di incoronazione nella cattedrale di Wmchester, Guglielmo poté assumere quei provvedimenti atti a dare al suo regno uno stabile e sicuro fondamento. La monarchia normanna basava il suo potere su un ordinamento rigidamente feudale, cioè su un rapporto di “vassallaggio”, che promanava dal re e che, per successive concessioni, dai vassalli del re a quelli di minore rango, si estendeva a tutto il regno. Il feudo era finalizzato soprattutto all'organizzazione e al reclutamento dell'esercito che faceva carico soprattutto ai grandi feudatari, i “vassalli del re”, che, secondo Burke, erano pochi, si da avere una grande posizione ed un grande rilievo politico agli occhi del popolo, con il risultato di costituire una specie di diaframma fra il popolo e il monarca, sminuendone in tal modo l’immagine e l'autorità, come gli avvenimenti successivi avrebbero dimostrato. All’inizio dell'impresa militare il re appariva formidabile alla testa dei suoi numerosi vassalli, perché il giuramento feudale li obbligava a seguirlo in guerra, ed essi adempivano a quest'obbligo con piacere. Ma quell'esercito che incuteva tanto timore poteva dissolversi come un sogno, perché quel “popolo” fiero ed indisciplinato non aveva costanza e il servizio feudale era contenuto in limiti molto ristretti. Le regole feudali riconoscevano al cavaliere che si era dedicato alla professione delle armi la facoltà di scegliere il signore al quale prestare i suoi servizi, ma era un obbligo di durata limitata, dopo il quale il cavaliere era libero 'di cercarsi un altro signore, Questa libertà si basava sulla professione militare che istituiva un rapporto di uguaglianza fra coloro che la esercitavano. Un cavaliere era un pari del re: ambedue fondavano il loro ruolo sulle loro capacità militari. Era perciò facile trovare un certo numero di persone sempre pronte a seguire ogni bandiera, ma era difficile portare a termine una iniziativa che richiedeva un’azione regolare e continua. Era proprio questa l'intrinseca debolezza della monarchia feudale, essendo fondata su un principio che non solamente la limitava, ma minacciava di vanificare il suo potere e dì determinare nel regno una situazione di sostanziale anarchia, come avrebbe sperimentato a suo spese il terzo re della monarchia normanna, Stefano. Particolare attenzione Guglielmo rivolse alla politica ecclesiastica sostanzialmente ispirata, secondo Burke, alla preoccupazione che la “macchina” dell’organizzazione ecclesiastica, che tanto lo aveva sostenuto nella conquista del potere, non potesse essere impiegata contro dì lui. Cominciò con l'assoggettare le vastissime proprietà della Chiesa agli obblighi previsti dalle leggi feudali a favore della Corona e del fisco. Dei sessantamila feudi esistenti in Inghilterra circa ventottomila appartenevano alla Chiesa inglese, liberi dagli oneri feudali di fornire un certo numero dì armati e dal pagamento delle tasse: con una serie di provvedimenti Guglielmo abolì quei privilegi e pretese dalle autorità ecclesiastiche le prestazioni previste per i feudi di cui erano titolari. Stabili che fra le sue prerogative sovrane vi era anche quella di sovrintendere ai rapporti fra la Chiesa d'Inghilterra e Roma: le “comunicazioni” fra la Chiesa inglese e il Papa dovevano avvenire con la preventiva informazione e con il consenso del re e per quanto riguardava le nomine pontificie nella Chiesa inglese sancì il principio che i sudditi dovevano prestare obbedienza solamente agli ecclesiastici la cui nomina fosse stata convalidata dall’approvazione regia. L’esercizio del potere nella società feudale si può comprendere nelle sue caratteristiche di dominio e di oppressione se consideriamo con attenzione il sistema tributario del regno normanno: la finanza pubblica, avverte Burke, esercita la sua “influenza” ed incide su quasi tutte le attività sociali degli individui, sì che la sua organizzazione ci consente di comprendere non solamente la dinamica e il conflitto di interessi fra chi detiene il potere ed i suoi soggetti, ma anche la forma e i poteri del governo in ogni tempo. Solamente se teniamo presente il sistema tributario feudale come fu posto in atto da Guglielmo possiamo renderci conto della particolare forma storica che assunse a poco a poco il conflitto fra la nobiltà, la Chiesa, il popolo delle città e la monarchia normanna e come si arrivò all’“alleanza" fra i tre ordini che impose la concessione della Magna Carta. Il re era titolare di un diritto d’imposizione tributaria sostanzialmente assoluto, di cui si serviva contro i feudatari sospettati di essere suoi nemici, e che favoriva la corruzione e le malversazioni dei funzionari che amministravano la riscossione, informata il più delle volte alla procedura della requisizione militare. Il fisco era particolarmente oppressivo e rapace nei confronti del “popolo”, cioè dei liberi abitanti nelle città e nei “borghi”, che, nota Burke, sino al regno di,Enrico II vivevano in una condizione non molto lontana dalla schiavitù. L'unico temperamento alla politica dura ed oppressiva di Gugliemo fu dovuto all’azione di Lanfranco, un ecclesiastico italiano di grande cultura e di straordinaria pietà, arcivescovo di Canterbury, che come consigliere del re riuscì a far valere con indipendenza e libertà di giudizio una politica di moderazione nelle più importanti questioni di governo. Così gli inglesi, rileva Burke, dovettero alla virtù di uno straniero e all'influenza che ebbe sul re, quel poco dì libertà di cui potettero godere. Anche la monarchia normanna, come già l'anglosassone, non riuscì a “sottrarsi” ai gravi conflitti che seguirono alla successione al trono fra i pretendenti alla Corona. Alla morte di Guglielmo, che negli ultimi anni del suo regno era stato costretto ad intervenire in Normandia contro il primogenito Roberto, la successione del secondogenito Guglielmo II era stata impugnata proprio da Roberto con l’aiuto del re di Francia. Il conflitto si era risolto, con un. accordo. fra i fratelli favorito dalla decisione di Roberto di partecipare alla prima crociata bandita proprio in quel torno di tempo da Urbano II e che aveva suscitato un generale entusiasmo ed universale partecipazione al messaggio di liberazione dei luoghi sacri per la tradizione cristiana. Alla morte dj Guglielmo II la successione al trono fu occasione di profondi contrasti (premessa di futuri conflitti) fra la nobiltà, la Chiesa favorevole a Roberto (anche se assente) e il terzogenito del Conquistatore, Enrico. Ma proprio questo contrasto, secondo Burke, apre un primo sostanziale spazio di libertà per il “popolo delle città e dei borghi”. Enrico per vincere la resistenza della nobiltà e della Chiesa, sollecito il consenso del “popolo" e richiese il suo “aiuto”, sulla base della promessa di un governo più mite di quello duro e tirannico del padre e del fratello e di un programma che avrebbe restituito alla Chiesa il godimento delle sue immunità, al popolo le sue libertà, ai nobili i loro privilegi ed abolito la legislazione sulle foreste e l’odiosa distinzione “politica” fra inglese e normanno. La conferma e la concessione d’ulteriori privilegi alla città di Londra e di una “carta” che riguardava tutti i suoi sudditi con cui si sancivano le promesse di libertà rappresentano per Burke l’inizio di una prassi che avrebbe avuto il suo pieno riscontro con la concessione della Magna Carta. Enrico cercò innanzitutto di stabilizzare l'autorità e il potere della monarchia. Trasferitosi nei suoi domini francesi riuscì a sconfiggere l’esercito di Roberto, che, ritornato dalla Palestina, aveva manifestato l’intenzione di riproporre le sue pretese al trono. Pacificata la Normandia con la “reclusione” di Roberto che durò sino alla sua morte, indirizzo la sua attività di governo a ridurre i grossi abusi presenti nell’amministrazione civile; a umiliare i grandi baroni; a contenere lo spirito ambizioso del clero per restituire alla monarchia quel potere di direzione della politica del regno che le veniva disconosciuto o notevolmente limitato dai grandi feudatari e dai dignitari della Chiesa. Il re non adempì gli obblighi sanciti dalla “carta” che aveva concesso; le foreste, possesso della Corona sottratto ad ogni disciplina delle leggi e ad ogni controllo della giustizia, furono mantenute, incrementate ed “amministrate” con maggior rigore di prima. Le tasse furono aumentate e distribuite ad arbitrio del sovrano: un atto di vera e propria tirannia, che se aveva oppresso la nazione, commenta Burke, non l’aveva offesa, perché i grandi erano tenuti nella dovuta soggezione e la giustizia era amministrata con regolarità. Il contrasto fra il re e la Chiesa, il più ostinato e pericoloso di tutti quelli che Enrico aveva dovuto affrontare in quegli anni, si riferiva alla questione delle investiture che contrapponeva l’impero al Papato e che interessava tutti i regni d'Europa. Burke nell’analisi delle origini storiche dell’autorità vescovile (necessaria a suo giudizio per intendere i motivi della questione) si dichiara sostanzialmente favorevole alla tesi imperiale, nel senso che ritiene giusto ed opportuno che fra i vescovi e il re sussistano dei “legami” che consentano a quest’ultimo di sovrintendere alle questioni di carattere temporale e politico, affinché la Chiesa inglese non abbia un rapporto di diretta ed assoluta dipendenza dal Papa. Peraltro Burke riconosce che la condanna del concilio di Roma (1099) dell’investitura laica del vescovo non fu “impopolare”, ebbe un largo consenso perche denunciò i gravissimi abusi cui si prestava l’investitura laica, abusi che si verificarono in Inghilterra (anche durante il regno di Enrico) in numerose sedi vescovili, mantenute a lungo vacanti per volere del re per essere poi conferite con grande scandalo al miglior offerente. Nonostante le vivacissime rimostranze della Chiesa Enrico mantenne le prerogative della Corona. Il suo più fiero oppositore fu Anselmo d’Aosta, arcivescovo dì Canterbury « a man of Lmblameable life and of learning for his time >>, che si rifiutò di consacrare vescovi gli ecclesiastici che erano stati precedentemente investiti della loro sede dal re e fu pertanto costretto a lasciare l’Inghilterra. Alla fine si arrivò ad un’intesa fra il re e il Papa, nel senso che i vescovi nell’atto della loro nomina dovevano prestare “omaggio e fedeltà' al sovrano che rinunciava al diritto di investitura. Alla morte di Enrico, l’assemblea del clero e della nobiltà, avendo constatato che il re era morto lontano dal regno e che la figlia Matilde era anch’essa lontana, elesse al trono d’Inghilterra Stefano, nipote per parte di madre di Guglielmo il conquistatore. Anche Stefano, per consolidare le ragioni della sua successione,fu costretto a seguire la politica del suo predecessore ed a confermare i privilegi già concessi da Enrico, rinnovando la solenne rinuncia alle foreste. Ma i privilegi confermati alla nobiltà finirono per legittimare la moltiplicazione dei castelli che trasformò i grandi feudi in tante signorie locali sottratte alle leggi ed alla giustizia del regno, le une contro le altre armate, ma quasi tutte impegnate a rapinare quanti viaggiavano per le strade di cui avevano il controllo. Il tentativo di Stefano di porre fine a queste situazione d'anarchia e di rapine “legalizzate” fu l'inizio di una lunga e sanguinosa guerra civile, provocata dall'intervento del partito favorevole alla successione al trono di Matilde sostenuta dal re dì Scozia, che dopo alterne vicende, si concluse con il trattato di Vallingford con il quale si stabiliva, fra l’altro, di riconoscere come erede al trono Enrico, nipote di Enrico I, nella cui persona si riunivano la discendenza dei re normanni e quella dei re anglosassoni. Alla morte di Stefano (1154) Enrico II successe al trono per la prima volta dopo Edoardo il Confessore in modo pacifico senza alcuna contestazione: essendo discendente sia di Guglielmo il conquistatore che degli antichi re inglesi ed essendo stato adottato da Stefano e riconosciuto dai baroni, possedeva in effetti tutti i titoli per regnare. E poiché si era ormai consolidata la prassi che, il re in occasione della sua incoronazione concedesse una carta delle libertà, anche Enrico II deliberò un analogo “provvedimento”, ma, nota Burke, nella forma e nella sostanza differente dalle prime “concessioni”: non era un documento dettagliato in cui si precisavano i diritti dei sudditi, nobili, ecclesiastici e popolo, ma una semplice dichiarazione di carattere generale, quindi un “dono” del re, non un impegno sancito in modo solenne. Fu un “segnale” della ferma volontà politica di Enrico II di garantire alla monarchia una piena autonomia ed indipendenza, in particolare nei confronti dell’ordine ecclesiastico: occorreva riportare la giurisdizione ecclesiastica nei suoi giusti limiti sulla base del principio che la giustizia laica, per tutte le questioni di carattere “temporale”, doveva considerarsi sopraordinata a quella ecclesiastica. L’ex cancelliere del regno Tommaso Becket, che su indicazione regia era stato eletto e consacrato arcivescovo di Canterbury avrebbe dovuto favorire il proposito di riforma del re. Sennonché Becket, ordinato sacerdote ed eletto vescovo, non solamente ispirò la sua condotta ad un rigido impegno religioso ma si manifestò anche strenuo difensore delle immunità ecclesiastiche e della piena indipendenza dell’ordine ecclesiastico. Burke tiene a precisare che la valutazione storica dell’intera vicenda deve tener conto innanzitutto del fatto che l’autorità, l’autonomia e l’indipendenza rivendicate dalla Chiesa nei confronti del potere del re, si erano affermate ed erano state riconosciute nel corso di un lungo processo storico, che caratterizza la formazione della nazione inglese, delle sue leggi ed istituzioni. Non possiamo valutare quegli avvenimenti con le nostre convinzioni che si sono formate quasi sei secoli dopo: dobbiamo invece tener presenti le ragioni storiche che consentirono alla Chiesa di far valere le sue pretese, senza dimenticare che la grandissima autorità della Chiesa era di carattere spirituale e culturale, un potere fondato sulla convinzione e sull'opinione. L’occasione che radicalizzò i rapporti fra il re e Becket fu data da un conflitto di carattere giurisdizionale, determinato dal rifiuto dell'arcivescovo di sottoporre al giudizio del tribunale del re un sacerdote che era stato già giudicato e condannato da un tribunale ecclesiastico. Per risolvere la questione che proponeva il principio della piena sovranità della monarchia nei confronti della Chiesa per quanto riguardava l’ordine temporale, fu convocato a Clarendon un grande Consiglio di tutti gli ordini del regno, nel quale, nota Burke, i vescovi e gli abati ebbero una vasta rappresentanza ed una parte di rilievo. Gli ecclesiastici non si opposero né formularono alcuna riserva alla legge con cui si limitava la loro giurisdizione anzi sembrarono favorirla. A Clarendon si decise che tutte le cause di carattere penale e civile dovevano essere giudicate dai tribunali del re; qualora l'imputato fosse stato un ecclesiastico la giurisdizione sarebbe stata definita dalla corte suprema del re, che avrebbe nominato un giudice per assistere al processo se fosse stato assegnato ad un tribunale ecclesiastico; nessun magistrato o ufficiale del re poteva essere scomunicato senza il consenso del re; nessun ecclesiastico poteva lasciare il regno senza dare piena garanzia che non avrebbe fatto nulla che fosse di pregiudizio per il re o per la nazione. Le costituzioni di Clarendon, considerate da Burke « famose per essere state il primo freno legale al potere del clero in Inghilterra >>, non ottennero l’approvazione del papa Alessandro III, che le considerò contrarie al diritto canonico; Becket, che le aveva accettate con grande riluttanza, si pentì della sua acquiescenza e decise di opporsi con il massimo zelo. Fu l'inizio di un conflitto con il re durato sette anni, con alterne vicende e che divise profondamente l’Inghilterra e coinvolse il re di Francia l'Impero e il Papato: l’episodio più drammatico fu indubbiamente l’assassinio di Beoket, commesso nella cattedrale da quattro cavalieri della corte del re. L'orrore per il barbaro assassinio suscitò un generale odio nei confronti del re: con estrema difficoltà Enrico II riuscì a "districarsi" dalle gravissime responsabilità che gli furono addebitate e che lo mantennero in una sorta di “lazzaretto" politico per circa due anni, finché non venne riammesso nella società dei monarchi europei, dopo aver “espiato” le sue colpe e soprattutto dopo aver rinunciato alle “costituzioni" di Clarendon. Secondo Burke, Becker può essere giustificato ed anche lodato per la sua difesa dei diritti e delle immunità ecclesiastiche che garantivano l’autonomia e l’indipendenza della Chiesa: lo storico però deve rilevare che le sue pretese erano sostanzialmente eversive di uno stabile ordinamento politico e che per le sue “stravaganti" convinzioni (l’“esorbitante” potere della Chiesa e del Papato), per il suo spirito inflessibile - che le sue virtù rendevano sempre più pericoloso - la sua morte risultò di vantaggio per la composizione del conflitto. Ma essa fu certamente << sacrilega e detestabile ». Dopo il drammatico episodio dì Becker la politica di Enrico II fu indirizzata verso iniziative miranti a ristabilire rapporti di concorde intesa con la Chiesa. La conquista del1’Irlanda, che agli inizi del regno era stata già “approvata” da una bolla di Adriano IV servì a ristabilire i contatti con Roma. Dopo l'esito vittorioso dell’impresa irlandese, dopo la conclusione anch’essa vittoriosa della guerra civile suscitata da suoi figli (la monarchia non era ancora riusciva a sottrarsi alla rovinosa anarchia insita nell'ordinamento feudale) e la riconquista della Normandia, Enrico II cercò di rafforzare l'autorità reale e contenere il potere dei grandi feudatari mediante l’istituzione di giudici itineranti ed il rafforzamento della giurisdizione degli sceriffi; concesse inoltre l'uso delle armi al popolo che era raro severamente vietato dopo la conquista normanna. Questo provvedimento rese possibile, secondo Burke, la formazione di una milizia ai diretti ordini del re, reclutata sulla base di un rapporto di dipendenza “politica” e non più feudale, al fine di poter controbilanciare le forze militari che facevano capo ai grandi feudatari. Per contenere il potere dell’aristocrazia e riportarlo nell’ambito delle leggi del regno Enrico II si avvalse questa volta dell'appoggio della Chiesa: aveva appreso a sue spese che non conveniva combattere contro due avversari, ma che doveva allearsi con quello che aveva maggior peso nelle convinzioni e nelle opinioni e la cui autorità era sancita da una lunga tradizione. Nonostante questi “saggi” provvedimenti, che sembravano garantire al regno un periodo di tranquillità, di nuovo le ambizioni e le gelosie dei figli del re furono all’origine di divisioni e di cospirazioni che afflissero Enrico II nei suoi ultimi anni di regno. La situazione si aggravò con la successione di Riccardo I, la cui passione guerriera lo aveva portato per molti anni fuori della patria, quale comandante di un esercito con il quale aveva partecipato alla terza crociata, che continuava a costituire un evento centrale nella vita politica europea. La lunga assenza del nuovo re determinò un “affievolimento” del potere monarchico, che indusse l'aristocrazia e la Chiesa a cercare di assumere un ruolo nel governo dell'isola, che si sarebbe manifestato durante il successivo regno di Giovanni senza terra. Il regno di Giovanni è, secondo Burke, uno dei periodi più interessanti della storia d’Inghilterra, perché la società politica inglese riuscì a fissare i principi costituzionali per comporre i conflitti e i contrastanti interessi fra monarchia, aristocrazia, Chiesa e popolo, per determinare le prerogative sovrane e per garantire le essenziali libertà degli Inglesi. Tutte le "rivoluzioni" che nel corso di seicento anni sembrarono essere determinate da motivi occasionali, arbitrari, o dallo “spirito" di conquista, dalla volontà di dominio, dall’ambizione del potere, erano state in effetti l'espressione di un vero e proprio processo storico ed avevano contribuito a formare una società politica che riuscì ad attuare la “grande rivoluzione in favore della libertà”. In occasione della morte di Riccardo I, nonostante il re avesse indicato come erede al trono suo fratello Giovanni, si rir1novarono le questioni e i contrasti relativi ai criteri da seguire nella designazione del successore: in particolare si trattava di decidere se la designazione da parte degli ordini del regno implicasse una vera e propria elezione. A favore di Giovanni si erano dichiarati Uberto, arcivescovo di Canterbury, e Glaville, il supremo giudice del regno, praticamente l'ordine ecclesiastico e la magistratura del regno. Sosteneva Giovanni un’altra forza politica, il popolo delle città che aveva “approfittato” dello “spazio politico” che si era aperto per i periodi di “vacanza” del potere monarchico e per i contrasti e le lotte fra i feudatari per crescere economicamente, acquisire una certa autonomia amministrativa, e far valere la sua presenza politica. La nobiltà che si era vista sopravanzata dalla Chiesa, dalla magistratura e dal popolo non aveva assunto alcuna iniziativa, né alcuna decisione; non le rimaneva altro da fare che concorrere alla nomina di Giovanni, che conosceva ed odiava. Ma la nobiltà, se non era in grado di escludere Giovanni dalla successione al trono, era però tanto forte da obbligarlo a promettere in modo solenne che avrebbe riconfermato gli antichi diritti e privilegi che essa proclamava di aver sempre avuto, anche se (nota con ironia Burke) non li aveva mai pienamente goduti e non ne aveva inteso il valore. Secondo Burke, Giovanni accettò una “sovranità” sostanzialmente “dimezzata” proprio da coloro che gliela concedevano, nella sostanza egli “si sottomise ai tempi”. La politica del re fu dettata unicamente dal suo carattere incline alla tirannia, alla dissolutezza, alla crudeltà, che lo rendeva incapace di perseguire un organico disegno politico che avesse di mira l’autorità e la stabilità della monarchia. Nei suoi interventi militari in Normandia non si rese conto del disegno politico del suo “vero” nemico, il re di Francia Filippo Augusto, che mirava a privare i grandi feudatari del suo regno dei loro domini e quindi ad estrometterlo proprio dalla Normandia. Accettò in un primo momento le proposte di pace di Filippo rompendo l'alleanza con l`Imperatore e con il Conte delle Fiandre che garantiva i suoi possessi francesi, consentendo cosi a suo nipote Arturo, subornato dal re di Francia, di tentare la conquista di parte dei suoi domini. Trasferitosi in Francia riuscì a sconfiggere i suoi nemici, ma non seppe trarre frutto dalla sua vittoria: si lasciò trascinare dal suo carattere feroce e vendicativo, facendo assassinare suo nipote, che era suo prigioniero. Il fatto suscitò l’indignazione generale; Filippo colse l'occasione per intimare a Giovanni, in qualità di vassallo del regno di Francia di presentarsi alla Corte dei Pari a Parigi, per aver fatto uccidere un vassallo del regno: al rifiuto del re inglese si mosse con un grosso esercito alla volta della Normandia. Giovanni assistette inerte alla conquista del ducato dal quale la sua famiglia aveva tratto le sue origini e la sua potenza; lasciò che Rouen, la città a lui favorevole, fosse presa d’assedio senza portarle alcun aiuto. I baroni, che lo avevano seguito nella sua spedizione militare, sdegnati dalla sua ignavia abbandonarono l’esercito regio e ritornarono in Inghilterra. Giovanni approfittò dell'occasione per imporre ai baroni la cessione di un settimo dei loro beni mobili come pena per l'abbandono del suo esercito e per pretendere un'identica imposizione sulla proprietà ecclesiastica, senza preoccuparsi di darne alcuna giustificazione. Questi provvedimenti e le violenze perpetrare contro i privati per soddisfare i suoi vizi finirono per determinare un diffuso sentimento di disprezzo, di rancore e di odio nei confronti di Giovanni, che si manifestò in occasione del conflitto con la Chiesa. L'elezione del nuovo arcivescovo di Canterbury avvenuta all’insaputa del re e con una procedura irregolare per favorire l’elezione,del vice priore dell’abbazia di S. Agostino, determinò la reazione di Giovanni che impose una nuova elezione nella persona da lui designata; La questione naturalmente fu deferita al giudizio del Papa, Innocenzo III. Fu l’inizio dell’intervento di Roma e della Chiesa inglese che avrebbe determinato la serie degli eventi politici che si conclusero con la concessione della Magna Carta. Innocenzo III, che mirava a cogliere ogni occasione per consolidare ed ampliare la giurisdizione papale, giudicò irregolari sia la prima che la seconda elezione ed in virtù della sua plerzzludo potestatzk ordinò che si ripetessero le elezioni, indicando come candidato il suo amico cardinale Stefano Langton, che fu il deus ex macchina della concessione della Magna Carta. Il rifiuto di Giovanni di accettare il giudizio del Papa provocò prima l'interdetto contro il regno inglese e poi, persistendo la resistenza del re, la scomunica che scioglieva i sudditi dal vincolo di fedeltà ed invitava il re di Francia a prendere possesso della corona “vacante”. I provvedimenti papali e la minaccia dell’intervento diretto sul territorio inglese da parte del re dì Francia, che disponeva di grandi forze, costrinsero Giovanni ad accettare la mediazione dei legati del Papa ed a subire l’estrema umiliazione di fare omaggio della corona d'Inghilterra agli stessi legati per poterla ricevere “purificata”, quale concessione del Papa. Nessuno, commenta Burke, protestò per l’atto di “soggezione” del re che colpiva in fondo tutta la nazione; il contrasto dei partiti era tale che tutti erano d’accordo non solo nel rendere omaggio alla sede romana, ma anche nell'adempiere al formale riconoscimento del rapporto di vassallaggio con la Chiesa di Roma. Gli amici del re perché speravano che in tal modo potesse riconquistare il potere e i suoi nemici che vedevano la sua umiliazione con piacere, perché ritenevano che avrebbe finito per condizionare il suo potere a loro favore; il clero che vedeva aumentati il suo prestigio e la sua influenza. L'assoluzione dalla scomunica pose, inaspettatamente, Giovanni di fronte all’obbligo di rispettare alcuni principi di condotta politica che limitavano il suo potere sovrano, che pensava di potere “riavere” integro. Ed a ricordargli quei limiti era l'arcivescovo di Canterbury, proprio quando a nome del Papa lo assolveva dalla scomunica. Gli ricordò non solamente i doveri religiosi ma anche quelli di sovrano di non pretendere alcun tributo senza l'approvazione del gran consiglio e di non punire alcun individuo se non dopo un giudizio delle corti di giustizia; in due principi, osserva Burke, era sintetizzata l'intera Magna Carta. Il re doveva imparare a sue spese che il'aver fatto atto d'ossequio alla suprema autorità spirituale e pubblica ammenda dei suoi errori non serviva a garantirgli il vecchio potere, libero da ogni vincolo e da ogni controllo. Quando si accinse ad intraprendere la guerra contro Filippo II incontrò la decisa resistenza di parte della nobiltà che si rifiutò di seguirlo, né poté ricorrere ai vecchi mezzi repressivi nei loro confronti perché ne venne “trattenuto" dall’arcivescovo che gli ricordò la promessa fatta di rispettare le leggi e lo ammonì che qualora avesse disposto confische ed arresti senza l’espletamento dei giudizi previsti sarebbe di nuovo incorso nella scomunica. L’arcivescovo non si limitò a frenare il re, assunse un’iniziativa ben più importante, quella di spiegare ai baroni il valore e il significato legale e costituzionale della loro resistenza ed in qual modo l’aspirazione di vedere garantite le loro libertà e i loro privilegi potesse ottenere un riconoscimento nel l’ambito dell’ordinamento del regno. In occasione di un sinodo che si teneva nella chiesa di S. Paolo a Londra, Langton incontrò privatamente alcuni dei maggiori baroni ai quali, dopo aver ricordato e descritta, la miserevole situazione del regno ed averne indicate le cause, commento la- carta dei diritti e dei privilegi, concessa da Enrico I, precisando che le rimostranze alte dovevano essere presentate dall’intero ordine della nobiltà al fine di ottenere una permanente garanzia delle loro libertà. Occorreva pertanto che i presenti alla riunione si facessero promotori di un'intesa, una specie di “confederazione", con gli altri baroni per realizzare quell'unità di intenti, necessaria per il riconoscimento dei loro diritti. I presenti accolsero con entusiasmo le indicazioni e le esortazioni dell’arcivescovo: potevano richiamarsi ad un precedente autorevole e conferire così alle loro rimostranze una piena legalità. Il re si rese ben presto conto che gli incontri fra i baroni erano finalizzati ad un “complotto” contro la sua autorità. Nel timore che si realizzasse un’intesa fra i due ordini, che gli avrebbe precluso qualsiasi possibilità di resistenza, ritenne opportuno ricorrere di nuovo all’aiuto del Papa, riconoscendo ancora una volta la sua giurisdizione. Ma, contrariamente alle sue attese, l’intervento del Papa ottenne l'effetto opposto: invece di dividere, unì i due ordini, la nobiltà e gli ecclesiastici: Langton oppose un’efficace resistenza passiva al nuovo intervento del Papa, protestando pubblicamente contro l'atto di sottomissione del re, formalizzato con la “cessione” della Corona inglese al Pontefice. I baroni invece mantennero un atteggiamento passivo nei confronti del re, probabilmente perché turbati dall’intervento del Papa e perche il loro proponimento politico non era ancora pienamente maturato. Approfittando dell’atteggiamento remissivo dei suoi vassalli, Giovanni tentò ancora una volta di riacquistare la sua autorità: organizzò un esercito per riprendere la guerra in Francia e cercare di ottenere una vittoria decisiva. Agli inizi sembrava che l’impresa dovesse essere coronata da successo, ma nella battaglia di Bovines gli eserciti di Giovanni e dell’Imperatore furono duramente sconfitti dai Francesi. Non c’era altro da fare per il re d'Inghilterra che chiedere, tramite il legato del Papa, un lungo armistizio e ritornare nel suo regno. Ma questa volta i baroni approfittando dell'assenza del re, avevano portato a termine le loro intese, la loro “confederazione”, avevano maturato il proposito politico di una ferma azione comune. Dopo l’arrivo del re a Londra una delegazione della nobiltà, a nome dell’intero ordine, gli presentò una petizione molto “ossequiosa" nella forma, ma “dura” nella sostanza, nella quale si dichiaravano le loro libertà e si chiedeva che esse fossero riconosciute e garantite dall’autorità del re. Giovanni cercò di eludere la richiesta precisando che aveva bisogno di tempo per valutarla, in realtà per cercare i "mezzi" che gli consentissero di rifiutarla. Assunse dapprima il solenne impegno di partecipare alla crociata poi pretese un nuovo giuramento di fedeltà da parte del popolo, infine richiese di nuovo aiuto al Papa. Forte di questi “puntelli” della sua autorità oppose un deciso rifiuto alla richiesta dei baroni quando fu rinnovata, « che egli non avrebbe mai garantito tali libertà che lo avrebbero fatto uno schiavo di se stesso >>. Questa volta i baroni ricorsero alle armi; grazie alle loro intese raccolsero in breve un esercito e ben consapevoli che nessuna iniziativa che riguardava tutto il popolo poteva essere presa se non con l'avallo della religione, nominarono il loro comandante << Maresciallo dell'esercito di Dio e della santa Chiesa >>, per sancire l’intesa fra nobiltà, Chiesa e popolo. Londra, la città il cui favore era ormai decisivo nelle contese civili, dichiarò il suo pieno sostegno all’azione dell’aristocrazia nei confronti del re. Giovanni si trovò così completamente isolato, di fatto prigioniero nella Torre di Londra una volta roccaforte del suo potere, senza la possibilità di ricevere alcun aiuto dai suoi ex alleati. Non gli rimase che accettare le richieste dei baroni; il 15 giugno del 1215 firmò i due documenti in cui erano precisate in distinti articoli le richieste dei baroni e del popolo, la Magna Carta e la Carta delle foreste, con le quali furono delimitate, per la prima volta, le prerogative della monarchia, prima ritenute senza alcun limite, e furono poste le basi delle libertà inglesi: << il re Giovanni... firmò quei due memorabili documenti che per la prima volta disarmarono la Corona delle sue illimitate prerogative, e posero il fondamento della libertà inglese >>. Burke ricorda che le due Carte furono redatte per quanto riguarda il loro preambolo con la formula delle donazioni disposte a favore dei monasteri, « per il bene dell’anima del re e per quelle dei suoi successori», quasi a voler sottolineare il contributo determinante dato dalla cultura ecclesiastica alla prima dichiarazione delle libertà inglesi. Per garantire l'osservanza delle due Carte i baroni ottennero inoltre che venisse riconosciuto un consiglio formato da venticinque baroni, scelti dall'ordine nobiliare senza alcun intervento da parte del re, con il compito di fungere da tribunale per giudicare tutte le violazioni degli articoli delle due Carte. Quest’ultima concessione aveva dì fatto “detronizzato” il re: Giovanni si vide privato della sua stessa autorità “regale”, Tentò di nuovo di riacquistare le sue prerogative sovrane, questa volta con una “riconquista” dell’Inghilterra, per sconfiggere definitivamente la nobiltà e sottomettere l’ordine ecclesiastico. Si rivolse inizialmente al Papa, ma i baroni, sostenuti dall’Arcivescovo, non furono intimoriti dai provvedimenti di condanna emanati da Roma; risolse allora di reclutare un esercito nelle Fiandre e in Germania, fidando nello spirito di avventura della nobiltà cadetta di quelle nazioni, e riuscì a formare due armate che avrebbero dovuto invadere l’Inghilterra dal nord e dal sud. I baroni rimasti privi del consiglio politico dell’Arcivescovo, che aveva dovuto abbandonare l'Inghilterra a motivo dell’interdetto, nella loro “rude” imprevidenza non si erano resi conto delle macchinazioni del re: quando ebbero notizia dell’imminenza dell’invasione, ricorsero per aiuto al re .di Francia ed accettarono come loro re suo figlio Luigi. L'intervento del re di Francia muto radicalmente la situazione: gli eserciti di Giovanni, senza disciplina e disorganizzati non ressero il confronto con le forze inglesi sostenute dai francesi e furono rapidamente sbaragliati. Luigi poté entrare a Londra e ricevere l’omaggio di tutti gli ordini. Né valsero le nuove condanne del Papa a fiaccare la resistenza inglese e ad indurre il re di Francia a desistere dal suo intervento; l’Arcivescovo, che era stato reintegrato nella sua sede di Canterbury, rimase fedele alla sua politica di sostegno dei baroni e delle libertà inglesi e di fatto vanificò l’interdetto papale continuando nell'esercizio del culto divino. Il re abbandonato da tutti, distrutto nel suo prestigio, affaticato dalle continue fughe per sfuggire ai suoi nemici, morì in quello stesso anno dopo diciotto anni di regno, o piuttosto di lotta per conservare il regno, << il più turbolento e il più calamitoso sia per il re che per il popolo di quelli che sono ricordati nella storia inglese ». Secondo Burke le due Carte devono essere valutate storicamente al fine di interpretarne il contenuto secondo le esigenze e lo stato della società inglese, e quindi secondo le consuetudini e le leggi del tempo: occorre osservare a tal proposito che le istanze di libertà si precisano riferimento ai diritti “positivi" che le interpretano e le garantiscono in quel contesto storico. In questa prospettiva ha un particolare rilievo, secondo Burke, la Carta delle foreste, la meno famosa, perché essa rispecchia una realtà sociale che ci consente di intendere i “diritti di libertà” che furono garantiti alle categorie sociali minori, che formavano la maggioranza del popolo, contro i soprusi e le vessazioni del potere regio e dei signori feudali. Le foreste si estendevano su vastissimi territori che appartenevano al demanio reale ed erano amministrare secondo leggi particolari completamente distinte da quelle che facevano capo alla giurisdizione ecclesiastica ed alla “common law". Esse risalivano all’insediamento delle popolazioni del nord in Inghilterra per le quali la caccia rappresentava una delle primarie fonti di alimentazione e che con i Normanni divenne una delle attività preferite, una vera e propria passione dei re e dell'alta aristocrazia. Agli inizi del 1200 si contavano sessantotto foreste reali alcune di vastissima estensione: esse non erano incluse in alcuna ripartizione giuridico amministrativa, nel loro ambito non avevano vigore né la legislazione ecclesiastica né la common law e le relative giurisdizioni. Per tal motivo le leggi delle foreste, che prevedevano pene severissime, legittimavano una giurisdizione penale arbitraria e sottratta ad ogni forma di controllo. “L’ordinamento” delle foreste consentiva una delle forme più dure di oppressione nei confronti delle classi più umili, che erano soggette, quando rientravano nella loro giurisdizione, ad ogni forma di vessazione: la minima infrazione di queste “leggi” 'era considerata reato di alto tradimento nei confronti del re, il che comportava pene molto crudeli, senza quelle garanzie di giudizio che erano previste dalla legge ecclesiastica e dalla “common law”. Questo tipo di “governo” delle foreste aveva effetti del tutto negativi anche dal punto di vista economico-sociale, nel senso che era la causa prima della “desolazione” che affliggeva vastissime zone di territorio, in quanto incideva in modo gravissimo su ogni forma di attività economica del popolo, col rendere estremamente difficili le comunicazioni e i commerci, bloccando in tal modo ogni tentativo di sviluppo e progresso economico. Si aggiunga inoltre che l'uso invalso da parte del demanio reale e dei grandi feudatari di aggregare altre terre alle foreste, aveva dì fatto consentito la spoliazione dei proprietari confinanti, che non potevano contare su alcun rimedio giuridico contro tali provvedimenti. La Carta delle foreste, proprio perché era finalizzata all’abolizione di molte foreste, a vietare la pratica del loro incremento abusivo, a mitigare e ad “accertare” le pene, rappresentava per la società inglese del tempo una fondamentale garanzia di libertà civile, premessa dì quella politica. Per quanto riguarda la Magna Carta possiamo parlare di una prima garanzia di libertà politica, ma con alcune essenziali precisazioni. Il documento deve essere ir1terpretato sulla base della common law, quale ordinamento che si formò in Inghilterra mediante la “fusione” delle consuetudini anglosassoni con le norme e gli istituti del feudalesimo introdotto in Inghilterra dai Normanni enon si può sostenere, osserva Burke, come vorrebbero invece i nostri storici e i nostri giuristi, che sia un “rinnovo” di leggi sassoni o di leggi di S. Edoardo. Il fine della Magna Carta è il temperamento del sistema feudale quale fu instaurato in Inghilterra dai Normanni. Né si rinviene in quel documento alcuna disposizione che possa essere interpretata con riferimento alla proprietà intesa come fondamentale e originario diritto dell’individuo e ai privilegi, considerati come diritti di libertà che appartengono originariamente all'individuo; proprietà e privilegi derivano dalla concessione del re per loro e per i loro eredi che è l’unica fonte di legittimazione dei diritti e dei privilegi. Fatta salva questa premessa si rendeva meno gravosa una serie d'obblighi cui era tenuto il possessore dei feudi nei confronti del re: furono così ridotte le altissime prestazioni in denaro che l’erede del feudo doveva versare all’amministrazione reale in occasione della immissione nel possesso del feudo, a titolo di riconoscimento della dipendenza feudale dal sovrano ma che in effetti si riduceva ad un vero e proprio riscatto dell'intera proprietà. Furono anche eliminati gli oneri che gravavano sui matrimoni dei feudatari di cui il re si serviva per imporli o per impedirli al fine di prevenire un ignobile mercato delle persone degli eredi. Se queste norme attenuarono la dipendenza feudale dell’aristocrazia dalla Corona, quelle che riguardarono l'amministrazione della giustizia ebbero una più vasta portata perché garantirono dall’uso arbitrario del potere la generalità del popolo. Le ammende da pagare per la definizione dei giudizi non erano più lasciate alla discrezionalità del giudice, che, come funzionario del re, fissava spesso un ammontare che equivaleva di fatto alla confisca del patrimonio del condannato a beneficio del demanio reale, ma doveva essere commisurato al reato e alla condizione sociale del condannato. Furono istituiti tribunali “fissi”, Common pleas, per le vertenze civili, distinti e sottratti alla giustizia “itinerante" del re, fonte di gravissimi inconvenienti ed abusi: si introdusse in tal modo il principio che la giustizia dovesse essere amministrata da un corpo di giudici costituito per legge e sottratto alla diretta influenza del re: << Ma anche questa (disposizione) può essere considerata come una grande rivoluzione. Fu costituito un tribunale, una “creatura" della sola legge, ir1dipendente da un potere personale, e questa separazione dell'autorità del Re dalla sua persona fu un fatto di vaste conseguenze nella promozione delle idee di Libertà e nel confermare la sacralità e la maestà della legge >>. Si stabili infine la norma che nessuno poteva essere condannato se non in base ad un giudizio dei suoi pari: questo per Burke è << il grande articolo che cementa tutte le parti dell’edificio della libertà ». Con il penultimo articolo ogni feudatario fu tenuto ad attuare nel suo feudo le norme sancite dalla Carta, che furono in tal modo estese all’intera nazione inglese. I “privilegi” richiesti e concessi con la Magna Carta ebbero l’effetto “rivoluzionario” di incidere sulla rigida e chiusa struttura feudale e di rendere possibili rapporti di intesa e di collaborazione fra l’aristocrazia e gli altri due ordini, aprendo spazi di autonomia e libertà al popolo. I grandi aristocratici facevano stabilmente parte del governo della nazione inglese, consapevoli ormai della necessità di agire come ordine e di mantenersi uniti Fine di garantire l’osservanza dei “privilegi” sanciti nella Magna Carta. Con l'ultimo articolo veniva istituito un consiglio di venticinque baroni, scelti dai propri pari senza alcun intervento del re, che avrebbe dovuto giudicare di tutte le infrazioni commesse contro le norme sancite dalla Carta: le sue decisioni dovevano considerarsi, per esplicita dichiarazione del re, immediatamente esecutive. Il potere del re riconosceva cosi un limite di carattere legislativo ed istituzionale, che avrebbe costituito il presupposto del sistema costituzionale inglese. Nel regno di Giovanni i contrasti, i conflitti fra monarchia, aristocrazia, Chiesa e popolo che avevano caratterizzato la monarchia normanna ma che risalivano per molti aspetti a quella anglosassone, trovano alla fine una loro storica conclusione nella << grande rivoluzione in favore della libertà >> che consente di considerare la storia inglese in una precisa prospettiva. Possiamo così comprendere il processo di formazione storica della società e dello Stato inglesi, quali le forze, e le istituzioni che agirono in quel processo e le ragioni specifiche per cui la dinamica dei conflitti politici fra monarchia, aristocrazia, Chiesa e popolo ebbe come risultato istituzionale la Magna Carta. La continua “lotta" della Chiesa per il riconoscimento delle sue “libertà” fu la premessa perché il popolo potesse ottenere le proprie “libertà”, che furono sostenute dalla Chiesa in quanto finivano per _consolidare quelle di cui essa già godeva. La mente politica della resistenza a Giovanni, dell'intesa fra Chiesa,.aristocrazia e popolo, non poteva essere che il cardinale Langton, che si era reso conto che la libertà della Chiesa poteva essere garantita dalle indebite ingerenze del potere reale solamente se avesse fatto parte delle libertà degli altri due ordini, la nobiltà e il popolo, rappresentato dalle città e dalle altre comunità minori. Con la Magna Carta le forze politiche della società inglese entrano in un rapporto di reciproca connessione ed interdipendenza e danno vita a un “sistema politico", a un ordine costituzionale, con cui il diritto comincia a regolare e disciplinare le prerogative sovrane del potere del monarca. CAPITOLO SESTO LE ORIGINI DEL PENSIERO POLITICO DI BURKE Il pensiero politico di Burke ha tre iniziali punti di riferimento: problema dei rapporti fra religione e società, Vindication, quello dei rapporti fra passioni e società, Enquzŕy, e quello dei rapporti fra storia e società, Abrzldgment, con riferimento alla filosofia illuministica di Bolingbroke e di Hume. La Vindication intende dimostrare che il rapporto posto da Bolingbroke fra religione naturale e religione artificiale con le sue relative conseguenze vale anche per il successivo rapporto, società naturale - società artificiale, intendendosi per quest'ultìn1a la società “storica", politicamente organizzata, così come aveva precisato Bolingbroke . La tesi, come si visto, è svolta sul piano di un argomentare che è continuamente animato da un'ironia discreta, quasi nascosta, ma sottile, che sottintende una meditata maturazione dei problemi che vengono trattati, e che si compiace di riferirsi ai concetti, ai principi, alle tesi sostenute nelle opere di Bolingbroke, per coglierne la sostanziale contraddittorietà. Bisogna riconoscere che nella sua critica Burke ha buon gioco, che l'ex ministro della regina Anna, come è stato rilevato, troppe volte porta nei suoi scritti filosofici l’animosità e l’“abito” dell’uomo politico che svolge tesi ed usa argomenti a seconda degli interessi del momento, senza darsi eccessiva preoccupazione di organizzare in una concezione armonica e coerente le tesi e gli argomenti via via sostenuti. Perciò, a volte, il discorso che Burke svolge nella Vindication si avvale di affermazioni brillanti ma un po' paradossali e sotto un certo punto di vista in parte scontate, dato che lo scrittore irlandese in tutto il breve saggio mantiene costante la sua punta polemica nei confronti del pensiero di Bolingbroke. In altri termini non è una critica che individua e svolge nuovi principi o nuove posizioni di pensiero politico, quanto una critica che si muove all'interno delle argomentazioni dell'avversario, che usa il suo stesso metodo, nel senso che continua il suo ragionamento e lo porta alle sue ultime conseguenze, che non possono non esprimersi, a volte, se non sul piano del paradosso. L’importanza della Vindication per quanto riguarda le origini del pensiero politico di Burke, risiede nella sua decisa presa di posizione nei confronti del pensiero politico di Bolingbroke, strettamente connesso con i principi e i valori della filosofia illuministica: tale proposito ci consente di individuare, al di sotto del discorso critico, alcune convinzioni profonde che costituiscono, in sostanza, il punto di partenza per la successiva speculazione politica burkiana. Occorre rilevare, al fine di evidenziare il vero e profondo significato della polemica burkiana, che la Vindication non si riferisce solamente a Bolingbroke: certo i riferimenti testuali, soprattutto la prefazione alla seconda edizione nella quale, come si è accennato, l’autore dichiara esplicitamente il suo intento onde dissipare fra l’altro i dubbi che erano sorti sulla paternità del saggio, sono quanto mai precisi. Bolingbroke, infatti, non era il solo che avesse teorizzato, in una prospettiva illuministica, la società politica come società “artificiale”. Bolingbroke si avvale del termine “artificiale” per precisare che le leggi e le istituzioni che consentono l’unione di una moltitudine di individui su un vasto territorio sono “inventate” dagli uomini, sono i “mezzi", gli “strumenti” fatti dagli uomini che si sono educati alla razionalità per il tramite dell’esperienza, si che le leggi politiche, in quanto artificiali, non hanno alcun fondamento in valori e principi meta empirici. La società “artificiale” è, in definitiva, l’espressione dell’amor di se, che ispira tutte le azioni dell'individuo, che si manifesta inizialmente nella ricerca del proprio interesse, e che acquista consapevolezza di se stesso allorché si rende conto della coincidenza con l’interesse pubblico: la conclusione è che l’amor di sé ha la sua completa esplicazione e la sua chiara espressione “razionale" solamente nell’ambito della società “artificiale”. Non mancano nei frammenti filosofici di Bolingbroke riferimenti ad una teoria della società “artificiale. Ma chi in quegli anni propose una compiuta, organica e coerente giustificazione dal punto di vista filosofico della società politica come società “artificiale” è indubbiamente Hume, amico ed estimatore di Bolingbroke e per tanti aspetti compartecipe degli orientamenti culturali del visconte. Non è qui il caso di dare una compiuta esposizione del pensiero di Hume sull'argomento che è, come è noto, uno dei più interessanti e più importanti del suo pensiero politico: basterà richiamare per i nostri fini alcuni concetti, alcune argomentazioni che possano} mettere in evidenza certe consonanze e a volte alcune identità di posizione fra Bolingbroke e Hume. Nel volume terzo del suo Trattato della natura umana e più precisamente nella parte seconda, Hume esamina il concetto di giustizia e l’indagine prende le mosse proprio dal quesito se la giustizia sia una virtù “naturale” o “artificiale”, “Justice, whether a natural or artificial virtue”, per affermare e dimostrare che: << we must allow, that the sense of justice and injustice is not derived from nature, but arises artificial, tho necessarily from educations and human conventions >>. Sempre nella seconda parte, soprattutto nella sezione sesta, Hume si preoccupa di chiarire il significato di questa sua affermazione, ribadendo in termini ancora più precisi il suo concetto. Dopo aver ricordato che la stabilità dei possessi, la possibilità di trasferirli mediante il consenso e il rispetto delle promesse costituiscono le tre fondamentali leggi di natura sulle quali si costituisce la società politica e si garantisce la pace e la sicurezza; che la società è l’unico mezzo per realizzare il benessere, cioè la felicità degli uomini, e che questo benessere è il reale fondamento delle società; che se le leggi di natura hanno imposto una disciplina alle passioni degli uomini, queste stesse leggi sono i mezzi più elaborati e più idonei per soddisfare le passioni, Hume termina le sue considerazioni precisando l'essenza meramente “artificiale" della società: << La natura ha inoltre affidato questo compito interamente alla condotta degli uomini, e non ha posto nella mente alcun particolare originale principio per determinarci ad un complesso di azioni, verso le quali sono sufficienti a guidarci gli altri principi del nostro umore e della nostra costituzione. E per convincerci più compiutamente di questa verità, possiamo formulare nuovi argomenti per provare che quelle leggi, quantunque necessarie, sono completamente artificiali e un’invenzione umana; conseguentemente la giustizia è una virtù artificiale e non naturale ». In Bolingbroke e in Hume si ritrovano altre coincidenze; ad esempio anche in Bolingbroke la società politica ha come sua giustificazione primaria il fatto che solamente in essa è possibile operare una scelta fra i bisogni presenti e quelli futuri, anticipare le necessità future e raffrontarle con quelle presenti: una tesi che, come è noto, ha particolare rilievo nel pensiero politico di Hume. Altri temi comuni si riferiscono alla società “naturale” fondata sull'istinto sessuale e alla società “artificiale” fondata sulla ragione educata dall’esperienza; alla benevolenza, alla giustizia intese come virtù sociali, e quindi “artificiali”; al ruolo fondamentale dell'amor di sé nella formazione della società, all'educazione ed al costume per quanto riguarda l’istituzionalizzazione dei comportamenti sociali degli individui; ed infine al comune impegno (filosoficamente di gran lunga più maturo e più consapevole in Hume) di respingere qualsiasi connessione fra la politica e prir1cipi o valori trascendenti che dovessero giustificarsi o sul piano metafisico o su quello della religione. Per questi motivi la critica mossa a Bolingbroke nella Vindication si riferisce anche alle identiche tesi, sostenute con ben altro rigore filosofico, di Hume. E molto improbabile che Burke, avendo maturato la decisione di dedicarsi alla carriera letteraria ed avendo scelto, come primo, un argomento relativo ai problemi più vivi del pensiero filosofico-politico inglese di quegli anni, non si fosse preoccupato di conoscere gli scritti pubblicati in materia che avevano contribuito e contribuivano ad alimentare l'interesse ed a ravvivare il dibattito su quegli stessi problemi; né poteva sfuggirgli il fatto che Hume apparteneva, in fondo, allo stesso ambiente culturale di Bolingbroke. Del resto non mancano nella Vindication delle osservazioni che possono essere puntualmente riferite a passi del Trattato, dei Saggi e dei Discorsi ci sembra difficile che possa trattarsi di una mera coincidenza casuale. La Vindication presuppone pertanto i problemi dell'illuminismo inglese quali erano stati svolti da Bolingbroke e da Hume: ir1 questa prospettiva possiamo cogliere, a quanto ci sembra, la premessa delle considerazioni svolte da Burke in questo suo primo scritto. A tal fine occorre soffermarsi sull'affermazione conclusiva che l’ordine politico considerato sotto l'aspetto con cui si organizza e si amministra il potere politico (costituzione) e l’ordine civile e, sociale, in altri termini la società “artificiale”, non riesce a garantire all’ir1dividuo la libertà, la sicurezza, la tranquillità, anzi è la fonte di tutti i mali di cui soffre l'individuo. La società politica significa, in definitiva, forza, soggezione, oppressione, sfruttamento, miseria, dolore, ignoranza, perversione, noia, disperazione, infelicità: la storia si riduce al racconto del “tempo” passato dagli uomini ad uccidere e sottomettere i propri simili. Con questa conclusione di un cosi radicale pessimismo Burke riprende, in sostanza, un “vecchio”, ma sempre attuale, discorso che era stato fatto agli inizi della speculazione filosofico - politica da Platone. Il filosofo aveva avvertito che la riduzione del mondo venerato e sacro delle leggi, della giustizia, ad un principio empirico, all’utile, ad un principio fondato sulla “doxa” e non sull'“episteme”, porta fatalmente il mondo politico alla disgregazione, alla lotta delle fazioni, alla lotta fratricida fra polis e polis e ad accettare quale unico principio di coesione quello della forza. In altri termini l'ordine e la stabilità politiche presuppongono che sia mantenuto attuoso l’intimo nesso che fa partecipe l'individuo di un ordine meta empirico, dell'idea del sommo bene. Una volta che si sia negata questa realtà, la vera, e che tutto sia ricondotto all’individuo empirico, al fare, quale si esprime e si coglie nella immediata sensazione, si sarebbe a poco a poco disgregato il delicato sistema delle norme etico - religiose che costituiscono il fondamento di quella autorità che,unica, legittima il potere politico e ne costituisce il principio che dall'interno, nel solo modo sostanziale, lo mantiene in quei limiti che garantiscono la stabilità dell'ordine politico e l'attuazione della giustizia. Nei confronti del pensiero politico illuministico, con particolare riferimento a Bolingbroke e ad Hurne, Burke avverte lo stesso problema: la sua polemica, che prende l'avvio dal valore e dal significato da attribuire alla religione, ha un immediato esito politico, proprio perché il giovane scrittore irlandese (aveva ventisette anni quando scrisse la Vindication) avverte, sia pur non con quella consapevolezza delle opere della maturità, che la società politica reclama una giustificazione che trascenda la realtà propria del limitato sapere e fare empirici dell'individuo, ai quali sono riportati non solamente la verità ma soprattutto la moralità. La pretesa di razionalizzare tutti i valori, i principi, le istituzioni, i comportamenti degli individui nella società, di usare come unico metro nell'esame di tutte le questioni la ragione intellettualisticamente determinata, di ridurre la religione nelle sue manifestazioni storiche ad una superstizione (anche la giustizia per Hume è una superstizione, ma è utile alla società) ed infine di dare alla morale un fondamento edonistico-utilitaristico, significa per Burke privare la società politica del suo vero centro unificatore, il principio religioso, cui deve essere riconosciuta una sua realtà autonoma, che dà un significato ultimo e un fondamento all’ordine della società politica e all’agire dell’individuo. Si vanifica la religione nelle sue manifestazioni del culto e nella sua espressione teologica e poi si pretende che la stessa religione serva a rafforzare ed a legittimare il vincolo costituito dalle leggi civili: evidentemente non ci si rende conto che una volta criticato il sentimento religioso non è più possibile, almeno nell’ambito della ragione come sopra determinata, la pari dignità etico - spirituale di ogni uomo. Proprio perché si è risolto sul piano della critica intellettuale il vero centro dell'ordine politico sociale, la società politica non può essere, coerentemente, che ridotta ad un meccanismo che riceve l’impulso e continua a funzionare grazie ad una forza il cui unico fine è di conservarsi, “riproducendosi” sempre identica a se stessa. Perciò la storia dell’umanità si riduce ad una storia di guerre, senza alcun altro contenuto, si che non è possibile riscattarla nemmeno sul piano della civiltà. Perciò tutte le costituzioni, la monarchica, l’aristocratica, la democratica, compresa la tanto celebrata costituzione mista, non riescono a mantenere il potere o la forza politica nei suoi limiti e quindi a garantire la libertà il benessere, la felicità degli individui, sì che l’unica vera forma di governo è quella dispotica. Ne è possibile salvarsi dal dispotismo, dato che la ragione stessa, che è l'unica legittimazione, nella concezione razionalistica della società, del potere politico, non offre in effetti altra scelta: si dice che gli uomini sono animati e sollecitati da passioni ingovernabili che li sospingono gli uni contro gli altri e che, al fine di sottrarre gli uomini a questo stato di anarchia e di disordine, viene costituito un governo che li mantenga nella pace e nell'ordine. Ma tè una soluzione solo apparente. Anche il governo è costituito da uomini che continuano ad essere sollecitati da quelle stesse passioni, né è stata ancora data un’esauriente dimostrazione che l'uomo, per il fatto stesso di essere stato incaricato di governare, perda la sua “natura lupesca” e diventi seguace di virtù e giustizia. Si rinnova cosi il vecchio quesito: “Quis custodiet ipsos custodes?”. E a questa domanda non si può rispondere se non con la considerazione che, date le premesse, la “custodia dei custodi" non è realizzabile, sì che l’individuo è praticamente alla mercé del potere che lui stesso ha contribuito a costituire. Alla stessa conclusione dobbiamo pervenire quando esaminiamo la società dal punto di vista civile e sociale: è indubbiamente questa la critica più interessante della Vendication con la quale Burke coglie i limiti della concezione illuministica proposta da Bolingbroke .e da Hume. Il sistema delle leggi civili, invece di assolvere all’esigenza fondamentale di garantire la stabilità dei possessi e soprattutto della proprietà, il godimento della proprietà e la sua trasmissione pacifica fra gli individui, il rispetto della parola data e quindi l’obbligatorietà dei contratti, sottopone la società civile, cioè i concreti rapporti degli individui, a quello stesso dis otismo, a quella stessa oppressione che caratterizzano la politica. Agli individui è in sostanza sottratta l'amministrazione dei propri interessi, affidata ad una ristretta categoria di persone, avvocati e giudici che detengono il monopolio della conoscenza delle leggi, che, peraltro, sono talmente complesse e “inviluppate” in un formalismo così rigoroso ed astruso da vanificare la certezza che dovrebbe caratterizzare i rapporti fondati sulle stesse leggi, rendendo così illusoria la stabilità dei possessi, la garanzia e la tutela della proprietà e l’obbligatorietà dei contratti. Occorre inoltre considerare che il sistema delle leggi civili che si fonda sull’istituto della proprietà sancisce, di fatto, una gravissima limitazione della garanzia di cui dovrebbero godere tutti gli individui, quella cioè di richiedere l’intervento della giustizia a tutela dei propri diritti. Dato l’altissimo costo della giustizia questa possibilità è praticamente consentita solamente ai ricchi, si che le leggi finiscono per sancire l’innaturale distinzione fra ricchi e poveri e la stessa giustizia viene trasformata in uno “strumento” del ricco per opprimere il povero, al quale viene tolta di fatto ogni possibilità di difesa, dato che la società non esiterebbe ad intervenire contro il povero che intendesse ribellarsi a questo stato di cose. Questa stessa situazione si manifesta in tutta la sua cruda realtà allorché noi consideriamo la “genesi” della proprietà, come nasce e come si “legittima". La proprietà è l’istituzione tipica della società artificiale, che si costituisce mediante la negazione del principio sul quale si fonda la società di “natura”, che l'individuo tanto possiede per quanto lavora e che tutto il frutto del suo lavoro gli appartiene, per affermare invece la regola che il prodotto del lavoro della stragrande maggioranza degli individui possa concentrarsi nelle mani di pochi. Questa è l’essenza della proprietà: essa si fonda su una appropriazione indebita e sullo sfruttamento e ribadisce pertanto, sul piano sociale, quella stessa soggezione ad un potere dispotico che caratterizza, come si è visto, la società politica. La proprietà sancisce la schiavitù di tanti uomini, condannati ad un lavoro abbrutente nelle miniere, nelle fabbriche, ove si trasformano le materie prime, in condizioni che li disumanizza e li riduce al rango di bestie. Il sistema delle leggi civili (ir1 particolare la proprietà) presuppone (ma li nasconde) la miseria, il dolore, il sacrificio, L’avvilimento, lo sfruttamento di tanti uomini - forse la maggioranza della società in definitiva lo stato di oppressione da parte di pochi su molti che rende ancora più forte e “penetrante” il dispotismo che caratterizza l’ordina mento politico. Burke riprende i motivi di una polemica svoltasi nel pensiero politico inglese al tempo della rivoluzione puritana, dai Livellatori e successivamente dagli Zappatori, che sottolineava proprio la contraddittorietà delle leggi naturali con quelle artificiali sulle quali si fonda la società : in questo caso, a quanto ci sembra, la sua critica e il suo intento polemico sono rivolti anche nei confronti di Hurne, che non aveva esitato a stigmatizzare le pretese sostenute proprio durante la rivoluzione puritana, che tendevano a scardinare la posizione egemonica della proprietà privata nell’ordinamento politico inglese, ed a giustificare l’opera di repressione del magistrato nei confronti di quegli “esaltati". Oltre gli intenti puramente polemici, le osservazioni di Burke dimostrano una sensibilità ed una “apertura” di carattere politico e sociale nei confronti dei problemi connessi all'incipiente processo di industrializzazione inglese, anticipando considerazioni che saranno formulate solamente dopo circa un cinquantennio. Una sensibilità completamente assente nei teorici della società “artificiale”. Bolingbroke e Hume secondo Burke propongono, in definitiva, una società che intende essere l’espressione dell’esperienza empirica degli individui, basata quindi sulla “concretezza” dei fatti convalidati da quella stessa esperienza; ma questa società si risolve invece in una “finzione” che ignora le situazioni reali presupposto della società e dell'ordine politico e che in effetti legittima lo “stato di fatto", una società rigidamente aristocratica, in cui la “cittadinanza” è riconosciuta ad una ristretta categoria di persone. Fuori di questa società ci sono gli “'altri”, il popolo, “populace”, i molti, animati di volta in volta, a seconda delle situazioni, o dall’entusiasmo o dalla superstizione, e che, benché tenuti a freno dalle leggi della società, potrebbero alla fine prevalere se non venissero per tempo sottomessi ad un potere assoluto. Come si è accennato la società “artificiale” non riesce a far valere un principio che garantisce la stabilità dell’ordine politico, che oscilla continuamente fra due tipi di assolutismo, o quello della moltitudine o quello del monarca: Hume in un saggio politico del 1741, intitolato significativamente: Se il governo britannico inclini più verso la monarchia assoluta oppure verso la repubblica sembrava aver teorizzato proprio quella conclusione, dichiarando di scegliere fra i due mali il minore, quello di una monarchia assoluta ir1 grado di garantire l’ordine e la pace contro la tirannide della moltitudine: « La cosa va perciò rimessa all’opera dello sviluppo naturale; e la Camera dei Comuni conformemente alla sua attuale costituzione deve essere l’unico corpo legislativo di questo governo popolare. Ma gli inconvenienti che accompagnano un simile stato di cose si presentano a migliaia. Se la Camera dei Comuni, in questo caso specifico, si scioglie, cosa che non è da attendersi, dovremmo sopportare tutta la tirannia di una nuova fazione suddivisa in nuove. E poiché un governo violento di questo genere non può durare a lungo, alla fine, dopo molte convulsioni e guerre civili, troveremo riposo nella monarchia assoluta, che sarebbe stato meglio per noi aver instaurata pacificamente fin dal principio. La monarchia assoluta, perciò, è la migliore morte, la vera eutcmaszá della costituzione inglese ». Le conclusioni dell’esame condotto nella Whdztatzbn ci richiamano a quanto aveva' sostenuto Hume a proposito dell’esito ultimo del sistema costituzionale inglese: la ragione scettica non solamente dissolve le religioni storiche e le culture che ad esse si richiamano confinandole fra le superstizioni, ma finisce per “disarticolare” anche quell’ordine politico che si sarebbe voluto salvare in nome della libertà. Ora proprio questa conclusione mette in forse concetto di civiltà su cui l’illuminismo tanto insiste: quale significato hanno la civiltà, le arti e le scienze che contribuiscono a formarla, se alla fine viene a mancare la libertà che ne è il presupposto necessario e lo spirito animatore? E poi ha un valore umano questa civiltà da cui è esclusa la stragrande maggioranza degli uomini? Riesce ad unire con ideali e valori comuni tutti gli individui che costituiscono la società che l'ha promossa? La risposta non può che essere negativa, proprio perché la ragione ha scavato un abisso fra i pochi e i molti, impedendo loro qualsiasi rapporto di vera collaborazione ed ha tolto alla società ogni contenuto che potesse costituire un comune punto di riferimento dei pochi e dei molti. Perciò la società artificiale si riduce, come si è detto, alla pura forza, l’unico mezzo per mantenerla unita, e perciò la forza è il solo “personaggio" della storia dell’umanità, che non può, registrare altro se non gli avvenimenti e gli episodi collegati all'uso della forza, cioè le guerre. Riferita alla società “artificiale" la civiltà sembra perdere qualsiasi consistenza e significato. D'altro canto la distinzione fra i pochi e i molti, proprio perché si realizza nella concreta esperienza sociale come distinzione fra ricchi e poveri, finisce per disumanizzare tutti gli individui che appartengono alle due categorie - gli uni perché resi aridi dal tormento di una insaziabile voglia di dominio o da una sfibrante ricerca di un piacere sempre più raffinato che alla fine non dà più alcuna soddisfazione, gli altri perché istupiditi o imbestialiti da una fatica che non conosce soste. È vanificato in tal modo ogni principio e valore etico morale. Questa conclusione con la quale Burke pronuncia la condanna definitiva della società “artificiale" ci richiama a quanto, all’incirca due anni prima, Rousseau aveva sostenuto nel Discorso sulla disuguaglianza, scritto che quasi certamente il giovane scrittore irlandese conobbe e dovette tener presente nella redazione della sua lG7’ZdZ‘CáŕiO7’l. Già in Rousseau, come è noto, il mondo della società “artificiale" era stato radicalmente condannato, ed esaltato quello semplice e spontaneo della natura, proprio perché il processo di formazione dell'ordine politico, che ha come suo istituto costitutivo quello della proprietà, mette capo necessariamente al dispotismo che finisce per disumanizzare l’uomo e col pervertire l'ordine dei principi e dei valori sui quali si fonda la moralità dell'individuo. Le analogie che si riscontrano fra la Vindication e il Discorso sulla diseguaglianza attestano che Burke si rende conto come la contrapposizione fra società naturale e società artificiale scaturisce per così dire all'interno della concezione illuministica come primato della ragione fondato sul continuo progresso delle scienze e delle arti, un primato che dissolve la vera, naturale umanità dell'uomo per formare, mediante l’invenzione della società politica, un uomo del tutto “artificiale”. E questo secondo Rousseau il risultato della fondazione e del continuo “perfezionamento” della società politica: <<In una parola egli spiegherà come l’anima e le passioni umane alterandosi insensibilmente cangino per così dire di natura; perché i nostri piaceri ed oggetti cambino a lungo andare di oggetto, perché svanendo l’uomo originario a gradi, la società non offra più, agli occhi del saggio che un'accolta di uomini artificiali e di passioni fittizie, che sono il prodotto di tutte queste relazioni nuove, e non hanno alcun vero fondamento nella natura ». In questa prospettiva la cultura della ragione illuminista pone le premesse per una lenta ma progressiva e fatale corruzione e disintegrazione della società artificiale, divisa al suo interno dal contrasto degli interessi, dalle diffidenze e dagli odi di classe, fautori di disordini, di lotte e di rivoluzioni, che si concluderanno con l’affermazione del dispotismo, << in cui tutto si riporta - nota Rousseau - alla sola legge del più forte e in conseguenza a nuovo stato di natura differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto quello è uno stato di natura nella sua purezza, e quest’ultimo è il prodotto di un eccesso di collusione >>. Ma il dispotismo o la monarchia assoluta, avverte Rousseau, non risolve i problemi della stabilità e dell'ordine politico, come riteneva Hume, dato che la legge del più forte implica che si succedano al potere tutti quelli che, di volta in volta, nelle continue mutevoli situazioni proprie delle società corrotte, risultano i più forti. Le critiche della società “artificiale” che per certi aspetti ricollegano la Vindication al Discorso sulla diseguaglianza non corrispondono ad un uguale intento e non si collocano in una comune prospettiva. Burke critica la ragione illuministica nella sua pretesa di assolutizzarsi cioè di riportare nel suo ambito tutto il complesso mondo delle passioni e dei sentimenti che finisce per proporre un tipo di convivenza umana del tutto convenzionale, “artificiale”, che non trova un principio di reale aggregazione e coesione, e si pone nel contempo il problema di individuare il vero rapporto che deve sussistere fra le passioni, i sentimenti e la ragione: di qui la sua polemica nei confronti della ragione astratta e di conseguenza della società artificiale. Rousseau invece vede nella ragione e soprattutto nel modo con cui viene concepita dai teorici del primato delle scienze e delle arti, della civiltà dei lumi, da Voltaire, Diderot, d’Alembert, l’espressione dell’amor proprio cioè dell’originario principio della disuguaglianza, che distingue, diversifica, promuove l'utile, l'interesse, che è sempre il proprio utile, il proprio interesse, il progresso delle arti e delle scienze, il raffinamento del gusto e delle convenzioni sociali. La ragione distrugge la moralità originaria dell'uomo, i sentimenti di umana solidarietà, di libertà e di uguaglianza e la sostituisce con una morale meramente convenzionale adeguata all’uomo “artificiale", discendente diretto di questa stessa ragione: « Quella che genera l’amor proprio è la ragione, quella che lo fortifica è la riflessione, essa ripiega l'uomo su se stesso, essa lo separa da tutto ciò che lo molesta, e lo affligge. Quello che lo isola è la filosofia: per via di essa egli dice in segreto, al vedere un uomo che soffre: Muori se vuoi, io sono al sicuro >>. Al primato della ragione filosofica dei “philosophes" Rousseau contrappone quello della volontà, della moralità, che rigenerano la società “artificiale” ricostituendola ex uovo per restituire all’uomo la sua originaria natura in una comunità in cui si realizzino gli indissolubili rapporti di umana solidarietà, di libertà, di uguaglianza. Ma per Burke anche il primato della volontà e della moralità proposto da Rousseau rimane, come la ragione dei “philosophes”, nell’ambito della società “artificiale”, perché finisce per proporre una volontà ed una moralità astratte che escludono la concreta realtà e dinamica dei sentimenti e delle passioni umane. La Vindication è la risoluzione critica del concetto di società artificiale e della contrapposizione illuministica fra questa e la società naturale: si poneva pertanto per Burke il problema di individuare il fondamento della società umana, sì da comprendere il rapporto sussistente fra ciò che viene prima della ragione e la ragione stessa, cioè fra i sentimenti, le passioni che forniscono i dati della conoscenza, orientano e sollecitano la ragione affinché si traduca in attività pratica. La società umana è il risultato dell’attività pratica, che promana da un rapporto di “continuità” fra passioni, sentimenti, ragione, ed è perciò fatta da tutti, illetterati e letterati, “incolti” e “colti”, ed ha una “consistenza reale", non è un “artificio” una “convenzione” della ragione. Questo problema è affrontato nel secondo scritto di Burke A Philorophical Eriquiry into the Origin of our Ideas of the Suhlime and Beautiful. i llEr1quz`r rivela la preoccupazione di Burke di “calare” la ragione nel mondo umano dei sentimenti e delle passioni, per studiare il rapporto che sussiste fra il pre razionale, ciò che viene prima della ragione e la ragione stessa, per riconoscere il ruolo che svolge soprattutto nell’attività pratica dell’individuo ed individuare i principi che le consentono di essere consapevole della corrispondenza della sua analisi e dei suoi giudizi alla realtà, al concreto. Burke si richiama nel suo saggio soprattutto a Locke, ed anche a Hume, come si è visto, per precisare giudizi e considerazioni sul concetto di gusto. La gnoseologia lockiana, con la sua proposta della conoscenza fondata sulle sensazioni, lasciava sostanzialmente impregiudicato il problema di una natura che rifletteva in sé l'ordine della creazione e quindi del riferimento alla ragione e alla volontà divine come garanzie di principi e valori meta empirici che costituivano il presupposto delle norme morali. Va ricordato a tal proposito che nel Trattato sulla tolleranza Locke ritiene che questa non si riferisce né ai cattolici, a suo giudizio intolleranti e decisi avversari della libertà religiosa, né agli atei, perché negare l’esistenza di Dio significa negare il presupposto essenziale sul quale si fonda il principio di buona fede, regola fondamentale di ogni società politica, L’empirismo dì Hume è certamente un’interpretazione' rigorosa e coerente del sensismo di Locke, che risolve sul piano gnoseologico qualsiasi nesso o riferimento ad una istanza di carattere metafisico 'o trascendente ed in questo ambito rientra la critica delle religioni storiche, le cui origini ne mostrano l’essenza superstiziosa; per quanto riguarda invece il problema della religione intesa come esigenza di principi ed ideali meta empirici con riferimento all’esistenza della Divinità, l'unica soluzione è quella di una sospensione di giudizio, non possiamo né affermare né negare. Possiamo così intendere perché nell'Enqz¢iry Burke si richiami più di una volta a Locke a conforto della sua analisi sul rapporto ragione – sensazioni - passioni e svolga invece una critica delle considerazioni relativiste in materia di “gusto” di Hume, insistendo sulle connessioni dì carattere oggettivo che sussistono fra le sensazioni, le percezioni e le “passioni” degli individui, che sono pertanto il presupposto di un comune giudizio di verità sulle qualità essenziali delle cose ai fini della loro valutazione estetica. Burke con il termine “natura” intende una realtà, comprendente anche l'uomo in quanto “organismo vivente”, che, in virtù di un principio teologico - religioso (per essere stata creata da Dio), ha una intrinseca razionalità, per cui può essere conosciuta dalla ragione umana, ed è il presupposto di quelle conoscenze di carattere scientifico che consentono di conoscere sempre di più le leggi fisiche della natura. In questa prospettiva più di una volta Burke si richiama alla sapienza divina, alla Provvidenza, e non manca dì rilevare che il fine ultimo della conoscenza è il riconoscimento proprio della sapienza divina, come suprema e vera garanzia dell’ordine razionale del creato. La conoscenza della ragione nella prospettiva illuministica significa conoscere sempre di più perfezionando nel contempo le conoscenze già acquisite: è una convinzione alla quale Burke aderisce, ma con una duplice avvertenza. La razionalità della ragione non risolve in sè la natura: ciò significa che la conoscenza razionale non riesce a pervenire alla ragione ultima dei fenomeni che indaga, Ogni nuova scoperta allarga certamente l’orizzonte del nostro sapere, ma nel contempo ci rende sempre più consapevoli dell’estrema, complessità delle interrelazioni che sussistono nella serie infinita della cause naturali, e ci richiama pertanto ai limiti della ragione umana, la cui avvertenza, per Burke, è strettamente collegata al sentimento religioso dell`infinita sapienza cli Dio. Questo non significa dichiarare il “fallimento” della ragione, o assumere un atteggiamento “scettico" nei suoi confronti, ma riconoscerle la capacità di pervenire a risultati oggettivi ‘e veritieri nell’ambito dei limiti che le sono propri. Né la ragione si dichiara paga dei risultati che consegue ma è sempre animata e sollecitata ad allargare il campo delle sue conoscenze dalle passioni pre razionali, lo stupore, la meraviglia, la curiosità, che alimentano il desiderio di conoscenza. Questo si traduce nell’amore della verità, che di nuovo rinvia a principi e valori meta empirici garanti della continuità e del progresso dell’attività razionale. L’uomo fa parte della natura, di un “tutto” organico e vivente, ma nello stesso tempo è totalmente altro dalla natura, è una “coscienza originaria” che diventa consapevole di se stessa nell’esperienza della più alta emozione che può provare, quella del sublime, alla quale è connessa l'avvertenza dell’esistenza-presenza di Dio, del sentimento religioso che per Burke svela il significato di verità della nostra esperienza ed attività. Ed è proprio quest’ultima che acquista una particolare rilevanza nei confronti della ragione, nel senso che l’attività pratica perviene secondo Burke ad una comprensione “reale”, concreta, della realtà e non formale, astratta come quella della ragione “illuministica” che identifica la realtà con la sua razionalità, mentre l’esperienza insegna, avverte Burke, che si “ha ragione in teoria e torto in pratica". In questa prospettiva Burke avverte l’esigenza di intendere il nesso “vitale” che intercorre fra le passioni, i sentimenti e la ragione che consente una conoscenza non formale, astratta della realtà, ma concreta, che stabilisca un rapporto “vero” diretto con le cose, con la complessa ed articolata realtà della società umana. Questa ha il suo fondamento nelle passioni e nei sentimenti e non nella consapevolezza tutta razionale dell'utile degli individui: sia le due società cosiddette “naturali" perché fondate sul vincolo di sangue, la società dei sessi - la famiglia, il gruppo parentale - sia la società generale si richiamano al sentimento estetico per cui siamo portati ad istituire forme di “convivenza” con le persone e le cose belle e gradevoli, cui si connettono le altre due passioni, la simpatia e limitazione, che stabiliscono vincoli di carattere affettivo fondati su una reale '“partecipazione dj vita con vita" fra tutti gli associati. L’articolazione dei rapporti della società, che potrebbe risultare uniformemente omogenea se promossa e sostenuta solamente dalla simpatia e dall'imitazione, è garantita dall’ambizione che sollecita il senso della “diversità”, del valore e del ruolo dei meriti e della capacità. L’organizzazione politica che si esprime nel potere, come centro di unificazione dei comandi e delle obbedienze necessari alla vita e al governo della società, affonda le sue radici nelle passioni degli uomini, nel senso che il potere, prima della sua legittimazione di carattere razionale, sussiste con una propria autonomia basata sulle passioni derivate dall’esperienza del sublime: il timore, la reverenza, il rispetto, che sono L’insostituibile premessa dell’efficacia dei suoi comandi. La società generale proprio perché comprende non solamente gli uomini, ma anche le “cose" con cui gli uomini “entrar1o in società" per vivere insieme, compreso il territorio e l’ambiente, i luoghi della memoria che conservano i nostri ricordi, è una totalità che continuamente si “compie", un mondo umano che alimenta il sentimento della nostra individualità. Perciò, secondo Burke, l’ipotesi di una completa, continua esclusione dalla società suscita nell’uomo un dolore insopportabile, anche se non manca dì riconoscere all’individuo il diritto al “temporaneo isola mento” per poter corrispondere alle esigenze della “vita contemplativa”, come momento di necessario raccoglimento per lo studio e la ricerca. . La società generale come totalità vivente significa per Burke che le manifestazioni dell’attività, dell’ingegno, della fantasia, dell’immaginazione, dell’arte, dei sentimenti e delle passioni degli uomini riuniti in società sono connesse fra di loro: per studiarle meglio dobbiamo considerarle separate l’una dall’altra, ma nella concretezza della vita pratica sono in vitale rapporto fra di loro. La società generale è pertanto un'unità vivente, che ha una continuità che si prospetta nel futuro e che si "estende" non solamente nello spazio ma anche nel tempo. La vita della società si esprime pertanto nella storia, anzi, per certi aspetti tende a coincidere con la storia. L’ Abridgment of English history continua in sostanza il discorso sulla società generale-politica, che Burke aveva svolto nella Abridgment e nell'Enquiry per rendersi conto del processo di formazione storica di quella società con particolare riferimento alla società inglese. I giovanili interessi per gli studi storici di Burke si erano ulteriormente precisati ed approfonditi negli anni della preparazione e della stesura della Vindication, naturalmente con riferimento agli scritti di Bolingbroke, alla sua concezione dei rapporti fra politica e storia; dobbiamo ritenere inoltre che a esse seguito con particolare attenzione il dibattito suscitato dalla pubblicazione della History of England di Hume che rifletteva gli orientamenti politici dei whigs e dei tories nella interpretazione della storia politico costituzionale inglese. Questi interessi per Burke non potevano essere disgiunti dalla considerazione del problema della storia quale era stato proposto dalle due opere più importanti sull'argomento che erano uscite proprio in quegli anni l’Esprit des lois di Montesquieu (1749) e l’Essai sur l'hz`stoire généml et sur les nzoeurs et l'esprit des nations dì Voltaire (1756). La prima sostiene L’interdipendenza e la reciproca connessione fra lo Stato, le leggi, le istituzioni, in sostanza la politica, e la storia: << Per Montesquieu gli eventi politici sono il centro del mondo storico; lo Stato è il vero anzi è l’unico soggetto della storia universale. Lo spirito della storia coincide con lo “spirito delle leggi” >>. La seconda invece “marginalizza” polemicamente gli avvenimenti politici, le imprese e la politica dei re e dei principi, e ritiene che lo scopo precipuo della storia è quello di tracciare le linee del progresso dello spirito umano grazie ad un’accurata selezione dei fatti più importanti al fine di « offrire al lettore un filo direttivo e metterlo in grado di farsi da sé un giudizio dell’estinzione, della rinascita e dei progressi dello spirito umano e per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi ». Di qui l’affermazione del primato della ragione che finisce per diventare il “deus ex macchina della storia”, una specie di letto di Prouste per il fatto storico: giustamente Cassirer osserva: « così questo (Voltaire) applica con disinvoltura la sua misura razionale al passato >>. Burke non poteva pertanto che far proprio l’orientan1ento storiografico di Montesquieu che in effetti offriva i criteri metodologici per la corretta determinazione storica degli eventi, senza correre il rischio di ignorarli o di svisarli sulla base di una valutazione razionale sostanzialmente astratta. Nell'Abridgment Burke definisce Montesquieu << The greatest genius, which has enlightened this age >> che indica i criteri per interpretare il processo storico di formazione e di successiva lenta trasformazione delle istituzioni e delle leggi feudali, fra i quali ha particolare rilevanza il rapporto fra la società feudale - i suoi usi, costumi, le sue originarie tradizioni, la sua “cultura” - e le sue leggi ed istituzioni. Secondo Montesquieu, bisogna rendersi conto della “maniera di pensare dei nostri padri” nelle sue espressioni rozze, primitive e superstiziose spesso ritenute di nessun valore storico: è invece la testimonianza di una razionalità intrinseca ai costumi, alle esigenze, agli “stili di vita" della società di quei tempi. Non possiamo tralasciare le fonti di parte ecclesiastica, come ad esempio le vite dei santi, sulla base del giudizio che sono un mero racconto di miracoli frutto di esaltare fantasie religiose, perché sono testimonianze preziosissime degli usi e dei costumi di quei tempi, il necessario presupposto di quelle leggi e di quelle istituzioni di cui intendiamo comprendere i fini. Né dobbiamo scoraggiarci, avverte Montesquieu, se le fonti della storia medievale possono dare l’impressione di un mare sconfinato senza riva: dobbiamo invece impegnarci in una loro accurata lettura ed analisi, se vogliamo intendere la storia di quei tempi: << Tutti questi scritti freddi, aridi, insipidi e duri, bisogna leggerli, bisogna divorarli, come la leggenda dice che Saturno divorò le pietre » . Alla luce di queste premesse il primo criterio che esprime l’esigenza di una corretta interpretazione storica è la raccomandazione di non valutare le istituzioni, le leggi, le tradizioni del passato alla stregua dei principi e delle esigenze del presente << Trasferire in secoli lontani tutti i principi di quello nel quale si vive - avverte Montesquieu - è tra le fonti di errori la più feconda, A chi vuol rendere moderni i secoli antichi, dirò ciò che i sacerdoti egiziani dissero a Solone: “© Ateniesi voi non siete che dei fanciulli” ». Un criterio che Burke fa proprio, come esplicitamente dichiara a proposito del giudizio sulle controversie relative alle immunità e alla giurisdizione ecclesiastiche: << and not judge, as some have inconsiderately done, of the affaire of those times by ideas taken from the present manners and opinions ». Da Montesquieu Burke deriva l’idea che la società politica, lo Stato è il risultato di un lungo processo storico; che nello Stato si esprime e continua a vivere il principio di identità che realizza l’intima connessione fra tutte le parti che lo costituiscono. Lo Stato, per richiamare la metafora montesquiviana a proposito delle leggi feudali, è simile ad una << quercia antica. l’occhio ne scorge di lontano il fogliame: ci si avvicina se ne vede il tronco ma non le radici: bisogna scavare per trovarle ». Solo la storia ci consente di trovare le radici e di comprendere il processo di formazione della comunità politica nella quale viviamo, come di quelle con cui siamo in rapporti di amicizia o di conflitto: la storia è molto di più di una naturale curiosità, attiene in ultima analisi alla consapevolezza dei principi e dei valori della società nella quale viviamo, dei diritti e dei doveri che abbiamo nei suoi confronti, per partecipare consapevolmente a quel processo storico che fa sussistere lo Stato. Per Montesquieu la storia non è una "collezione di fatti”, ma è una “connessione di fatti”, una serie di eventi caratterizzata da una continuità e da una molteplicità di “collegamenti” da costituirli in una vero e proprio “processo” storico. A questo criterio fondamentale si attiene Burke nel suo Abridgment si tratta di rendersi conto della genesi della società politica inglese, cioè del processo di formazione della “nazione” e del suo ordinamento politico e del ruolo che vi ebbe la religione cristiana. “Spirito delle leggi" significa appunto individuare il nesso che sussiste fra le convinzioni religiose, i costumi, le tradizioni, le condizioni materiali ed ambientali delle “nazioni” e delle società politiche ed i loro ordinamenti politici e legislativi in cui si esprime la loro “personalità storica", il “proprio” delle loro istituzioni e leggi. Lo “spirito delle leggi” non rinvia alla ragione fondata sulla sua interna coerenza che, per essere la vera essenza dell’uomo e del suo operare, riporta la storia a se stessa per adeguarla ai suoi schemi razionali , ma alla ragione “maturata” nell’esperienza e nella tradizione storiche, in grado di comprendere le complesse dinamiche politiche e sociali che promuovono il mutamento e le riforme degli ordinamenti politici. L’impegno a precisare la concreta dimensione storica delle leggi e delle istituzioni si esprime in modo chiaro nel breve saggio introduttivo all’abridgment, An Esmy towards the History of Laws of England, particolarmente rilevante per quanto riguarda la definizione dei principi e dei criteri ai quali deve corrispondere una corretta interpretazione storica delle dinamiche della società politica, non astrattamente considerata cioè da un punto di vista meramente teorico razionale, ma con riferimento alla sua concreta esistenza storica, Il brevissimo saggio nasce, come sappiamo, dalla profonda insoddisfazione di Burke nei confronti del metodo d’insegnamento del diritto seguito in Inghilterra. L’osservazione fondamentale del Nostro si riduce alla constatazione che esso è eccessivamente formale, astrattamente razionale e quindi assolutamente privo di senso storico. Il “sistema” delle leggi inglesi, distaccato completamente dal processo storico nel quale si è venuto a poco a poco costituendo, diventa incomprensibile. L’assurda pretesa, così radicata nelle menti anguste dei professori di diritto, dei giudici e degli avvocati, che le leggi, e relative formalità e procedure, sono le stesse che furono poste al tempo degli Anglosassoni e della conquista normanna, senza che subissero l”influenza di principi o di istituti propri di diritti stranieri, ha come unico risultato quello di mummificare il diritto, facendolo scadere al rango di una casistica così complessa da mortificare e spegnere qualsiasi interesse. D’altro canto, questa sorta d’eternità che si vuol riconoscere al sistema delle leggi inglesi, mentre pone i suoi sostenitori in gravissimi imbarazzi a causa delle continue contraddizioni in cui cadono, consente di giustificare dal punto di vista ideologico-politico tutte le tradizioni giuridiche, che vengono sistematicamente interpretate solo per dimostrare la validità e la legittimità di norme e principi che sono le espressioni di interessi politici attuali, misconoscendo il genuino contenuto storico delle leggi, alterando e falsificando in tal modo il loro vero significato. Nonostante il panegirico che i nostri scrittori di politica e di storia fanno delle leggi “costituzionali” anglosassoni non possiamo fare a meno di considerarle per quello che effettivamente sono e cioè un “monumento", una “visibile", chiara testimonianza che ancora sussistono nella nostra legislazione, esempi della nostra “antica rozzezza": << quei scrittori non possono persuaderci che le rudimentali istituzioni di un popolo illetterato avessero già raggiunto quella perfezione che solamente gli sforzi uniti della ricerca, dell’esperienza, del sapere e della necessità sono riusciti a conseguire nel corso di molte età >>. Anche in questo caso vale l’essenziale avvertimento di Montesqieu: << Bisogna illuminare la storia con le leggi e le leggi con la storia ». ' Il diritto, inteso proprio come sistema di leggi, alla stessa stregua della lingua e della cultura (learning), è in definitiva il “prodotto” di un lungo processo storico, nel quale si fondono a poco a poco principi e istituti di diversa provenienza, alcuni propri, originari della società nella quale si esprime quel determinato diritto, altri appartenenti a legislazioni straniere, a loro volta modificati, trasformati a seconda delle esigenze, che, in diverse situazioni storiche, sono state poste dai costumi, dalla religione, dal commercio dei popoli. Il compito dello storico consiste nel cogliere la trama complessa ma unitaria nella quale si compongono in un nuovo sistema concezioni e tradizioni giuridiche diverse, e nel saperne quindi individuare lo specifico contributo alla formazione della nuova esperienza giuridica. Il sistema delle leggi ha in Burke un particolare significato, nel senso che rinvia alla giustizia intesa come valore che promuove la loro formazione e il loro coordinamento. La giustizia è l’originaria, istintiva, profonda aspirazione dell'uomo ad imitare Dio “in uno dei suoi più gloriosi attributi”, che si realizza nella storia, attraverso un’esperienza di errori, di incertezze, di debolezze, di superstizioni, di violenze che costituiscono l’unica condizione per mezzo della quale quell’aspirazione può diventare consapevole di se stessa e riconoscersi, ed essere riconosciuta, come il vero fondamento della società e dell’ordine politico. Così la giustizia in Burke è anima e ragione della storia, vichianamente “idea umana di vita", comune patrimonio del Gentleman e dello slaving Poor che conferisce ad entrambi un'autentica, pari dignità civile e poli tica: è appena il caso di accennare quanto questo concetto della giustizia sia lontano da quello dì Hume, per il quale la giustizia ritrovava il suo unico fondamento nella proprietà e nei diritti a questa connessi, e, priva di qualsiasi valore sostanziale, si riduceva ad un insieme di formule e di regole mediante le quali risolvere le controversie connesse con la proprietà. Burke è fuori dell’ottica humiana della “storia naturale della religione e della società civile". La giustizia non è un'idea nel significato illuministico, humiano del termine, una mera “in1pressione” determinata dalla sensazione, come consapevolezza di ciò che ci è utile, ma è un principio meta empirico, che si esprime e si fa valere in un contesto storico caratterizzato dalla violenza, dal dominio, dall'oppressione, dall'arbitrio, e che consente di intendere come il contrasto, la lotta fra gli interessi contrapposti si compongano in un processo storico che per il tramite delle “rivoluzioni”, di radicali e profonde modificazioni degli usi, delle consuetudini, perviene al riconoscimento ed all’affermazione del diritto e delle leggi. Come si è già osservato per Burke il diritto, secondo l'espressione vichiar1a, è “un’idea umana di vita”, con la quale l'uomo, gli uomini fanno la storia, iniziando dai tempi della barbarie delle menti seppellite nei corpi e nei sensi a quelli della civiltà e degli Stati propri della ragione tutta dispiegata, In questa storia la forza, il dominio, la guerra, le oppressioni e le sopraffazioni sono le occasioni che consentono al diritto dì manifestarsi nei modi e nelle forme storicamente conformi ai costumi, alle convinzioni, alla cultura della società di quel tempo. Il sentimento della giustizia e del diritto in Burke, come sappiamo, è intimamente connesso all'esperienza religiosa dell’uomo, dalla quale scaturisce l'impulso e l'orientamento della sua attività pratica. Da questa premessa deriva la convinzione di Burke che il cristianesimo deve essere riconosciuto come un’essenziale categoria storiografica della storia medievale, per studiare la formazione dei nuovi regni e comunità politiche costituitesi dopo la dissoluzione dell’Impero romano e le invasioni delle genti germaniche e di quelle del nord Europa, e quella nuova società di regni, principati, ducati, città, di popoli e di genti, che fu l'Europa medioevale. Di qui la visione europea che Burke ha della storia inglese che, possiamo dire, è geneticamente connessa con quella dell’Europa, cominciando dal periodo romano, in cui la Britannia entra a far parte della comune civiltà euro mediterranea. L’Inghilterra aveva “rinnovato” i suoi rapporti con Roma, non più potenza mondiale, ma centro della cristianità che conservava significative testimonianze della civiltà greco-romana un punto di riferimento costante nel processo di formazione della società inglese -, con la missione dell’abate Agostino, inviato da Gregorio Magno. La conversione al cristianesimo del regno sassone è considerata da Burke la premessa di carattere etico - religioso e culturale che inciderà profondamente sui costumi, sulle istituzioni della società inglese e che, con la corrispondente organizzazione ecclesiastica, costituì un fattore determinante della storia medievale inglese. Il rapporto con l’Europa assunse maggiore consistenza con la monarchia normanna: questo rapporto incise profondamente sulla storia inglese nel senso di promuovere un rinnovamento delle consuetudini, dei modi, delle leggi ed ebbe un ruolo rilevante negli eventi politici che si conclusero con la concessione della Magna Carta. Il riconoscimento del cristianesimo come categoria storica implica, per Burke, il problema del significato che assume nell’ambito di questo riconoscimento il rapporto fra la Provvidenza e la storia. L’insediamento dei Sassoni in Inghilterra avvenne in un periodo della storia dell’Europa caratterizzata dalle migrazioni delle popolazioni dell’Europa del nord e dell'est che portarono alla distruzione dell'Impero romano d’occidente e ad uno stato di anarchia per le lotte continue e feroci, apportatrici di morte e di miserie per ogni nazione. Nella considerazione di questa “rivoluzione” totale che distrusse il mondo e la civiltà antica e che “sorpassò', per l’entità catastrofica dell’evento, ogni comprensione di carattere razionale, lo storico Burke confessa di essere distolto dalla ricerca di cause connesse alle vicissitudini delle grandi trasmigrazioni dei popoli e di essere invece indotto a riconoscere “la mano di Dio in queste immense rivoluzioni, con le quali in certi periodi, Egli manifesta la sua suprema potenza e determina quel grande sistema di mutamento che è forse così necessario alla morale come si trova esserlo nel mondo naturale”. Il richiamo alla Provvidenza intende porre in evidenza che quel radicale mutamento di carattere catastrofico fu un “forte sistema di mutamento”, cioè la premessa per la formazione di un nuova società politica, con caratteri propri rispetto alla società antica greco-romana, corrispondenti per molti aspetti ai principi e ai valori della nuova religione, il cristianesimo, che avrebbe rappresentato un costante punto di riferimento per le “nazioni", i regni, le altre entità politiche costituitesi a seguito di quel mutamento. L’umanità riesce ad “uscire” dalla notte della barbarie e della ferocia in cui è sprofondata perché l’attività dell'uomo determinata dalle passioni, dalla voglia di rapina e dì guerra e caratterizzata dall'incostanza, dalla mutevolezza e dall’arbitrio, perviene 'ad un risultato che non si disperde, che tende a durare nel tempo, perché si tramuta in istituzioni, leggi, e si esprime come potere, cioè come affermazione di un principio di coesione di una moltitudine di individui. Quando si studia quel periodo dì totale disordine e di diffusa anarchia possiamo rilevare come sono proprio le passioni e i sentimenti più forti che indussero quegli uomini barbari ed ignoranti a stabilire vincoli sociali e politici stabili e duraturi, a precisare ed a sancire gli essenziali doveri e diritti dei consociati, in modo da disciplinare quella naturale libertà, che di solito sconfinava nell'arbitrio, nella violenza, negli assassini, negli scontri e nelle guerre continue. Il fine immediato delle invasioni barbariche fu la rapina e il saccheggio: ma quando quelle popolazioni cominciarono ad insediarsi con la conquista e il dominio furono in certo qual modo “costrette” a realizzare un governo “regolare” che comprendesse dominatori e dominati, un risultato che esse non avevano previsto. Nella storia gli effetti delle azioni degli uomini non si esauriscono nel conseguimento del fine “immediato” perché quegli effetti si connettono con quelli di tante altre azioni spesso in radicale contrasto fra loro, per conseguire risultati non previsti e spesso non voluti nelle intenzioni e dalle previsioni dei singoli: la storia in definitiva è caratterizzata dal principio della eterogenesi dei fini, cioè da un processo posto in atto e realizzato dagli uomini e che ha un suo risultato, che lo storico è in grado di comprendere proprio perché sa ricostruire quel processo, l’inizio, le sue varie fasi, la pluralità dei soggetti che vi hanno partecipato, i rapporti di interdipendenza che si sono istituiti fra di loro, ponendo in risalto come i fini particolari pervengano ad un fine che riguarda tutti. A La Provvidenza, che secondo Burke appare con chiarezza mirare al continuo “mescolarsi” del genere umano, non lascia la mente umana senza un principio per realizzare questo fine, che a volte è conseguito da un “istinto migratorio”, a volte da uno spirito di conquista; in certe situazioni l'avarizia spinge gli uomini fuori delle loro case, in altre invece essi sono sospinti da una brama di conoscenza; quando nessuna di queste cause può operare, la santità di alcuni luoghi (Gerusalemme, Roma, la Mecca) induce migliaia di uomini ad intraprendere lunghissimi viaggi: << Così una comunicazione fu aperta fra questa remota isola e paesi dei quali essa poi assai raramente avrebbe udito fare menzione; e così i pellegrinaggi preservarono quei rapporti nel genere umano, che oggi sono promossi dalle relazioni, dal commercio e dalla dotta curiosità >>. La Provvidenza non significa che Burke cerchi dì far intervenire il soprannaturale, il miracoloso direttamente nella storia: proprio con riferimento alle fonti ecclesiastiche della storia inglese, che rappresentano le uniche per il periodo trattato nell’abridgmen, oltre alle raccolte di leggi, egli tiene a precisare che non intende esprimere in sede storica un giudizio di merito sui numerosi miracoli che ricorrono in quelle cronache, si limita a notare che la convinzione della loro verità contribuì alla rapida conversione dei Sassoni e alla diffusione del cristianesimo. Nella ricostruzione storica si tratta di concentrare l'attenzione sulle altre cause tutte << umane e politiche che concorsero indubbiamente a quell'evento e che in un periodo dì tempo relativamente breve consentirono al monachesimo di diventare una sorta di “ordine” dello Stato fra i più stimati >>. Il compito dello storico è quello di considerare « some of the human and political ways », cioè di individuare le "vie”, i “percorsi” che gli uomini hanno seguito per pervenire a determinati risultati. Ciò significa che si tratta di ricostruire questo “viaggio", cioè come fu possibile “mettersi in viaggio" (per continuare nella metafora) e continuare a viaggiare e dal punto di vista storico quali le “origini” dell'aggregazione umana che iniziò il suo “cammino storico” e la continuità degli eventi che la caratterizzarono. L'inizio e la continuità pone il problema della formazione di una unità di intenti cioè di come una pluralità e diversità di esigenze, di istanze, di speranze, di interessi, di convinzioni spesso in radicale conflitto fra di loro riescano a produrre un’azione comune e quindi a dar vita ad un evento storico che è poi la premessa dei susseguenti che consentono, per l’appunto, di continuare il “cammino storico”. La continuità degli eventi storici e lo stesso evento assumono, nella ricostruzione storica di Burke, il carattere di un vero e proprio processo storico, nel quale vengono risolte tutte le azioni di coloro che partecipano e soprattutto vivono una generale comune situazione storica. Processo storico significa anche comprendere la connessione dinamica degli eventi e scoprire nella successione temporale la loro interdipendenza e la loro genesi storica. Sono principi dinamici del processo storico la necessità, le passioni, le convinzioni (comprese quelle “storte”, le superstizioni), gli interessi e quindi i contrasti, i conflitti, le guerre, il dominio e l’oppressione, il sentimento della giustizia e quindi la lotta contro l'oppressione. Mediante quest'esperienza storica gli uomini esprimono una comunità di intenti e danno vita allo Stato, come l'istituzione che consente alla loro vita di attuarsi nella totalità delle sue espressioni. Ma questo “cammino” è lungo, accidentato, richiede soste per meditare sulla strada percorsa e su quella che si intende intraprendere, per rendersi conto che proprio quella scelta continua la precedente. Lo Stato è il risultato di un lungo processo storico: lo Stato costituzionale inglese è il “prodotto" in ultima analisi di dieci secoli di storia inglese ed europea. In occasione della Rivoluzione francese Burke rilevava che i grandi Stati europei non potevano essere fondati o ricostituiti in pochi anni di “passione rivoluzionaria". Si tratta naturalmente di dar conto di come inizia questo processo storico, che cosa lo promuove e lo “alimenta”, quali sono gli attori e quali le pretese da far valere. In questa prospettiva si pone il problema della continuità della storia inglese per indicare come da una serie di eventi, dalle ripetute incursioni dei Sassoni e delle altre popolazioni nordiche, dalle lotte continue per rendere stabili ed allargare i primi insediamenti si sia riusciti ad instaurare un regno, quello anglosassone e poi quello normanno, che rimasero il punto di riferimento delle vicende storiche inglesi, caratterizzate da una ricorrente anarchia di poteri, il cui esito ultimo, per quanto riguarda il periodo storico considerato nell’abridgmen, è la Magna Carta, con cui furono fissati principi essenziali dell’ordinamento costituzionale, che caratterizza in modo particolare la storia inglese. Ha particolare rilievo in Burke il problema delle origini, della genesi storica delle leggi, delle istituzioni e quindi dei principi, delle regole fondamentali della vita delle comunità. Nei costumi, negli usi, nelle consuetudini, nelle convinzioni comunemente accettate c’è un principio di riposta razionalità che li ispira in quanto soluzioni dei problemi elementari ed essenziali della vita delle comunità primitive: come sappiamo, in Burke la razionalità è anticipata dall’avvertenza emozionale passionale, dal sentimento del sublime, dall’immaginazione. L’origine,· pertanto, esprime il principio costitutivo della comunità, del popolo, della “nazione”, cioè il principio “identitario”, la personalità storica del popolo, inteso come totalità di tutti i suoi componenti, comprensiva naturalmente di tutte le sue istituzioni e leggi. Le origini sono le “radici" di un popolo, di una società, di uno Stato, ciò che continuamente lo alimenta e ne fa una vivente unità storica. Ben diversa la concezione del valore e del significato storiografico delle origini in Hume che vi dedica nella History poche pagine sbrigative. l’origine in Huine, coincide con la debolissima e sfigurata “immagine” di una umanità sprofondata nel buio dell’ignoranza, dominata dal terrore e dalle passioni più selvagge, schiava delle superstizioni più assurde, e serve unicamente per rendersi conto del progresso compiuto dalle arti, dalle scienze, in ultima analisi dalla ragione e dalla civiltà. Per quanto riguarda la “costituzione” inglese è data dai “remoti indistinti e sfigurati originali” che a mala pena possono essere riconosciuti nelle “più perfezionate e più nobili istituzioni”. Il costante punto di riferimento per leggere, comprendere e scrivere la storia è la “ragione illuminata", la ragione che riconosce come suo fondamento l'esperienza empirica. Questa ragione è il “metro”, la misura di tutti i fatti storici. Per tal motivo la storia acquista un senso ed un significato veramente umano solamente quando è illuminata dai lumi della ragione. Il problema della continuità degli eventi storici è considerato da Hume nei termini dei progressi compiuti dalla ragione empirica, grazie all’inizio e alla diffusione delle arti e delle scienze. ` Il progresso, in Hume, è dato dalla lenta ma continua affermazione della ragione empirica contro quanto la nega e la condiziona, soprattutto la superstizione, alimentata dalla religione positiva, il cristianesimo: il progresso è visto in termini di maggiore acquisizione della razionalità empirica che automaticamente, possiamo dire “naturalisticamente”, dispone con la sua luce gli animi alla simpatia, alla benevolenza, al buon gusto, alla gentilezza dei modi cioè a quel vivere civile che è sinonimo di civiltà. Il passato serve solamente a commisurare la distanza che separa i tempi “civili” da quelli primitivi ed a richiamare la nostra attenzione a non farsi sedurre dalle superstizioni, sempre in agguato per insignorirsi della nostra ragione. La storia pertanto acquista un valore ed un significato solamente nel momento in cui “interviene" la ragione empirica, cioè le arti e le scienze: per quanto riguarda la storia medioevale Hume ritiene che quel momento storico deve essere collocato dopo il regno di Gugliemo il conquistatore: nel precedente periodo sassone i popoli cristiani sprofondarono completamente nell’ignoranza e di conseguenza in disordini di ogni sorta. Il progresso ha così un'origine meramente intellettuale: il contesto in cui si manifesta l’intelletto acquisisce i caratteri della storicità. Lo stesso criterio vale per tutti gli avvenimenti successivi che si riferiscono alla formazione e alla vita della società civile. La storia in ultima analisi acquista un valore “cognitivo” perché può offrire al filosofo della politica e della morale numerosi esempi dai quali trarre principi, regole per la vita privata e per quella pubblica, per la società civile e per lo Stato: la storia in ultima analisi è il grande gabinetto di sperimentazione per lo studioso della politica e del diritto. La tradizione, in Hume, si riduce alla conservazione e alla trasmissione dei risultati cui è pervenuta la ragione umana nelle successive situazioni storiche, che acquistano un significato e garantiscono una continuità storica solo per il loro contenuto di razionalità e di civiltà. Senza questa tradizione la storia si riduce all'inf1nita serie di eventi totalmente diversi, determinati dalle passioni e quindi dall’arbitrio, il cui "aspetto”, come per i secoli bui del Medioevo, appare « horrid and deformed >>. Perciò l’informe caos di eventi che sembra caratterizzare ad una prima considerazione la storia deve essere costantemente riferito al “natural progress of human thought" affinché ci si concentri sugli avvenimenti e sui relativi periodi storici in cui si verificano quelle << revolutions of mind >> che promuovono e sostengono i progressi della società civile. La storia, in definitiva, ha in Hume un valore strumentale, consente la necessaria sperimentazione per individuare i principi e le regole sui quali si fonda la società civile, la civiltà. Per Burke invece la storia ha un valore di carattere “esistenziale', nel senso che si riferisce a tutte le manifestazioni della vita dell’uomo, che sono espressioni delle potenzialità del suo animo e delle facoltà del suo intelletto. La ragione in Burke, come sappiamo, ha un deciso esito pratico ed è perciò anticipata, ispirata ed orientata dal sentimento più profondo quale si esprime nell'avvertenza e nell'esperienza religiosa, che è l'originario principio .costitutivo dell'aggregazione e coesistenza umana, il fondamento quindi della società e della civiltà. Da un punto di vista storiografico e in particolare per la storia medioevale, nei due autori ha un particolare rilievo il rapporto religione-superstizione. Burke riconosce l'autonomia e l'originarietà della religione nelle sue espressioni di culto ed istituzionali e sa che essa quando viene vissuta e praticata può esprimersi in forme superstiziose alimentate dalle paure, dal risentimento, dalle attese, dalle speranze, che la ragione distingue e mantiene separate come forme corrotte. Hume invece ritiene che la religione per essere espressione del terrore e della paura equivale senz'altro a superstizione, ad errore, fonte di ogni fantasia ed arbitrio, strumentalizzata, nell’esperienza storica delle società barbariche, dall'ordine sacerdotale per i suoi fini di potere. Di qui la diversa valutazione storica del ruolo del cristianesimo nella formazione della società medioevale in Burke e in Hume: per il primo è il principio di formazione ed unificazione della società inglese ed europea, per il secondo invece una superstizione che sancisce l’arbitrio, l'oppressione e il dominio dell’ordine ecclesiastico, che finisce per legittimare l'ordinamento feudale, cercando di condizionare il potere laico rappresentato dal monarca. Ciò che risalta ad una lettura comparativa dell’abridgmen e dei primi due volumi della History sono proprio i giudizi radicalmente diversi sui personaggi e sugli eventi connessi con la diffusione del cristianesimo, con l’affermarsi della Chiesa in Inghilterra e con la politica ecclesiastica della monarchia sassone e normanna. Tre episodi ci sembrano interessanti come testimonianza dei due diversi orientamenti storiografici del ruolo del cristianesimo e della Chiesa nella storia medievale inglese ed europea. Burke considera la conversione dei Sassoni al cristianesimo come la “rivoluzione” più importante nella storia dell'Inghilterra, con cui essa “nasce” alla civiltà: << Light scarce begins to dawn until the introduction of christianity; which, bringing with it the use of letters, and the arts of civil life, affords at once a juster account of things and facts, that are more worthy of relation: not is there indeed any revolution so remarkable in the English story », e dedica un intero capitolo all'essenziale contributo della cultura ecclesiastica alla diffusione dei primi “rudimenti” di una società civile fra i Sassoni. Per Hurne la conversione fu un episodio di un certo rilievo (mise in contatto l’Inghilterra con gli Stati dell’Europa più civili), ma non incise in modo sostanziale sui costumi barbari dei Sassoni, ai quali viene proposta in sostanza una nuova superstizione, che cercava di soggiogare le coscienze ad una passiva obbedienza al clero e al vescovo di Roma, premessa di ogni forma di “corruzione” intellettuale e morale. In effetti “quel nuovo sapere" (doctrine) per essere passato attraverso i “corrotti canali di Roma” si trasformò in una “copiosa miscela di crudeltà e di superstizione egualmente distruttiva dell’intelletto e della moralità" . Il giudizio sulla Crociata è anch’esso sintomatico per la diversa valutazione dei grandi eventi del Medioevo in cui il sentimento religioso rappresentò un fattore decisivo. Per Burke la Crociata è << one of the most extraordinary events, which are contained in the history of mankind », che influenzò in modo determinante gli avvenimenti politici inglesi e quelli europei per un lungo periodo. Burke ritiene che l'idea di essa nacque dal proposito di Urbano II di ricostituire l’unità di intenti fra i cristiani, posta in crisi dal lungo scisma che aveva diviso l’Europa e intaccato l’autorità del Papato. `Era radicata e diffusa nella religiosità di quel tempo la convinzione dell’importanza del pellegrinaggio nei luoghi della prima predicazione cristiana, in particolare a Gerusalemme, e di conseguenza altrettanto diffuso lo sdegno suscitato dai racconti dei pellegrini sottoposti ad ogni forma di angheria da parte dei Maomettani. Di qui l'entusiasmo che suscitò la predicazione di Pietro l'eremita sulla necessità di liberare la Terra Santa dal dominio dei Maomettani e la successiva proclamazione della Crociata al concilio di Clermont. L’esortazione “Dio lo vuole” si diffuse rapidamente di villaggio in villaggio, di città in città, per tutta l’Europa. All’entusiasmo popolare fece riscontro a livello europeo la devozione e lo spirito di cavalleria della nobiltà, All’inizio, osserva Burke, si avventurarono nell’impresa moltitudini di persone guidate da sacerdoti senza alcuna consistente assistenza militare, che furono in parte massacrare e in parte disperse, si che è “difficile dire, commenta Burke, se è da lamentare più la distruzione di quelle moltitudini, o la frenesia che gliela portò addosso". Ben diverso e soprattutto dal punto di vista storico, il giudizio di Hume, per il quale il rumore delle “insignificanti guerre ed agitazioni" inglesi era completamente sovrastato dal tumulto delle crociate che avevano richiamato l’attenzione dell'Europa ed “hanno sin d'allora sollecitato la curiosità del genere umano come la più ragguardevole e la più duratura testimonianza dell’umana follia che sia apparsa in ogni età o nazione”. Le crociate si spiegano con lo stato di totale ignoranza e superstizione in cui versava l'Europa, con il dominio incontrastato da parte degli ecclesiastici delle menti delle moltitudini, che non avvertendo alcun senso dell’onore o del rispetto della legge si abbandonavano ad ogni sorta di crimini e disordini, nella convinzione che non vi fossero altre forme di espiazione se non quelle imposte loro dai loro pastori spirituali, fra le quali in modo particolare la partecipazione alla guerra per la liberazione della Terra Santa. A questa “abietta supestizione” si aggiunse lo spirito guerriero, privo di qualsiasi addestramento e disciplina militare che era diventato la passione principale delle nazioni governate dalla legge feudale, e che ebbe un’influenza nefasta soprattutto nella nobiltà inglese. La categoria della superstizione spiega secondo Hume l'accanita, e per certi aspetti ossessiva, pretesa di Becket di piegare la volontà di Enrico Il a riconoscere i privilegi che garantivano l'autonomia e l'indipendenza della Chiesa d'Inghilterra per imporre un vero e proprio patronato sulla monarchia che la rendeva in sostanza politicamente dipendente dalla Chiesa e quindi in definitiva succube della “politica” seguita dal Papa, pretesa che fu all’origine di un conflitto con il monarca, per molti aspetti unico nella storia inglese e che si “concluse” con il barbaro assassinio dell’Arcivescovo. La fede, per Hume, è una convinzione talmente irrazionale fantastica da trasformare la personalità senza che il soggetto se ne renda conto, assoggettandone la mente ai suoi fantastici ideali. L’ambizione, che presuppone una tenace volontà di dominio, assume la forma della vera virtù, in quanto suprema dedizione ai valori spirituali ed eterni. Becker, osserva Hume, era un ecclesiastico << of the most lofty, intrepid, and infexible spirit, who was able to cover to the World and probably to himself, the entreprises of pride and ambition under the disguise of sanctity, and of zeal for the interests of religion >>. Certo un personaggio straordinario che doveva rimanere fedele ai suoi precedenti importanti incarichi pubblici ed indirizzare pertanto la veemenza del suo carattere nella difesa e nel promovimento del diritto e della giustizia, invece di farsi coinvolgere dai pregiudizi del tempo e di sacrificare i suoi impegni privati ed i suoi rapporti pubblici ai vincoli che egli immaginava o riteneva superiori ad ogni civile e politica considerazione. Ed in questa convinzione Becket era assolutamente sincero, perché in effetti egli non faceva altro che partecipare << to the genius of that age >>, nel quale lo spirito di superstizione era cosi prevalente che infallibilmente si impadroniva di ogni incauto pensatore, e soprattutto di quelli che erano sollecitati nei loro pensieri dall’interesse, dall'onore e dall'ambizione. << Tutta la misera letteratura di quel tempo non era altro che una “decorazione” della superstizione; i balucinamenti di senso comune di qualche santo (o visionario) potevano a volta passare attraverso la spessa nuvola di ignoranza o, ciò che era peggio, le illusioni dello “snaturato” che aveva cancellata la sensazione e nascosta la faccia della natura. La follia si era impadronita di tutte le scuole come di tutte le chiese e i suoi devoti assumevano il nome di filosofi, insieme con le insegne della loro dignità spirituale >>. La superstizione assumeva così un significato epocale e finiva in tal modo per coinvolgere tutto il Medioevo, come età storica caratterizzata dal magico, dal miracoloso, dalle fantasie e dalle follie collettive che alimentavano le passioni più cieche, fonte di continue violenze ed arbitri. In Burke non vi è alcun accenno al carattere superstizioso ed esaltato della religiosità e della personalità di Becker, come spiegazione del conflitto fra la Chiesa ed Enrico II, ma, come si è accennato, un preciso richiamo alle ragioni storiche di quel conflitto, e quindi ad una considerazione delle origini storiche della giurisdizione e delle immunità e privilegi della Chiesa inglese, per rendersi conto dei motivi per cui la Chiesa esercitava un così vasto potere, “al fine di non giudicare, come alcuni hanno fatto inconsideratamente, gli affari di quel tempo con idee ricavate dalle abitudini e dalle opinioni del nostro tempo" ma per esprimere una serena e corretta valutazione storica dell'episodio e del personaggio. Per le leggi e l’ordinamento politico costituzionale dell’Impero romano la giurisdizione ecclesiastica non poteva assumere alcun diretto ruolo politico: gli ecclesiastici potevano far valere solamente un potere di influenza. Ma con i nuovi regni barbarici la giurisdizione ineriva al possesso della terra, il che consentì alla Chiesa, grazie alle sue vastissime proprietà, di diventare uno dei tre “ordini” dello Stato e di svolgere un vero e proprio ruolo politico: in tal modo il potere spirituale era strettamente connesso con quello politico: << and all the orders had their privileges, the Clery had theirs, and were no less steady, and ambition to extend them >>. Il ruolo politico e il potere della Chiesa non si spiegano solamente con la devozione, né ovviamente, almeno per Burke, con la superstizione, ma con la “necessità dei tempi", cioè con le concrete condizioni storiche della società inglese, che “elevarono” la Chiesa a quel potere per molti aspetti eccessivo. Burke indica le ragioni di questa “grandezza”: la cultura del tempo era nelle mani degli ecclesiastici e, dato che pochi fra i laici sapevano appena leggere, solamente il clero poteva essere impiegato nei pubblici affari; essi erano gli uomini politici, essi erano i giuristi; fra essi erano spesso scelti i magistrati del re nelle corti signorili, qualche volta gli sceriffi delle contee, e quasi sempre i Giustizieri del regno. << I re normanni»-continua Burke - sempre gelosi delle proprie prerogative, furono spesso costretti ad impiegarli. Nelle abbazie si studiava il diritto; le abbazie erano il palladio della libertà pubblica perché custodivano le “carte” reali delle concessioni dei privilegi ai sudditi e la maggior parte degli atti di governo. In conclusione, essi erano necessari ai grandi per il loro sapere; venerabili per i poveri per la loro assistenza; temuti da tutti per il potere di scomunica; la condizione di ecclesiastico era esaltata sopra ogni altra cosa nello Stato; e non poteva essere altrimenti in quei tempi, mentre ciò non è possibile ai nostri giorni >>. La Chiesa rappresenta per Burke una delle grandi forze storiche dell'Inghilterra medievale, il cui ruolo deve essere valutato dal punto dì vista storico, nella prospettiva dell’intero processo di formazione della nazione e dello Stato inglesi, della dinamica dei principi e degli ideali e delle forze che erano espressione delle condizioni politiche, sociali ed economiche determinate dall'ordinamento feudale. Possiamo così intendere il ruolo decisivo svolto dall'arcivescovo di Canterbury, Stefano Langton, nelle vicende politiche che portarono alla concessione della Magna Carta da parte di Giovanni senza terra: fu in quegli eventi la guida politica e spirituale dell’aristocrazia e del popolo, rappresentando il sentimento di indipendenza dell’intera nazione anche nei confronti della politica di Innocenzo III. Le forze storiche, l’aristocrazia feudale, la monarchia, la chiesa, le città e il “popolo” debbono essere considerate come partecipi di un unico processo torico, che istituisce fra di esse una serie di interrelazioni, per cui entrano in una molteplicità di rapporti reciproca interdipendenza da cui scaturiscono tensioni e conflitti: questa è la vera dinamica politico sociale che modifica dall’interno i rapporti di potere, le istituzioni, le leggi, il sistema giudiziario e quello tributario fiscale, creando le condizioni per liberare le categorie sociali asservite al lavoro della terra e delle arti minori. Burke cerca sempre di precisare il rapporto dinamico che sussiste fra il “sistema delle norme giuridiche e politiche” (l'amministrazione della giustizia e il governo della società) e le condizioni storiche in cui vivono gli uomini (le loro necessità, i loro costumi, le loro convinzioni e credenze) per individuare le successive innovazioni e trasformazioni che, pur avvalendosi dì modelli giuridici più colti che si richiamavano al diritto romano ed a quello canonico, si svolsero secondo i principi e le caratteristiche proprie di quell'antico ordinamento giuridico-politico sassone, dal quale trasse origine il sistema di Common law, come proprio della “nazione” inglese e delle sue libertà. Burke nel corso dell'abridgmen si preoccupa sempre di segnalare gli interventi più significativi dei re sul piano delle riforme legislative e giudiziarie, di richiamare l’attenzione sui motivi politicogiuridici che le avevano determinate, di precisarne l'importanza ai fini di un migliore, cioè di un più efficiente ordinamento del regno: le continue invasioni, le guerre con i Danesi, i conflitti fra i grandi feudatari e fra questi e il re rappresentavano la lotta politica per fondare una nuova entità politica cui non bastavano le armi per sussistere, come drammaticamente confermava l'esperienza delle invasioni e delle guerre, ma che doveva essere consolidata e garantita dalle leggi, dal diritto. L’esigenza di ordine e di stabilità è intimamente connessa con l’instaurazione e il riconoscimento di un’autorità e un potere politico: modifiche e innovazioni si resero necessarie ai costumi e alle tradizioni sassoni con l’insediamento in Inghilterra e con la scelta di un re. Con la conversione al cristianesimo, una rivoluzione, precisa Burke, che promosse « still more essenti al changes in their manners and government », si avvertì l'esigenza di redigere una raccolta scritta delle leggi, cioè dei costumi e delle consuetudini. La raccolta, ordinata da Ethelbert, re del Kent, non fu redatta in latino, come per gli altri regni “barbarici" ma nella lingua anglosassone: la scomparsa del latino nell'Inghilterra sassone costrinse i monaci, unici che sapevano scrivere, ad “adattare” i caratteri latini alla primitiva lingua inglese, "altrimenti ben pochi avrebbero potuto ricavare vantaggio dalle cose che intendevano ricordare”. La “nuova lingua” sancisce così l’originarietà della “common law" come il diritto che nasce e si esprime con il formarsi della nuova comunità politica. L’iniziativa di Ethelbert fu seguita dai suoi successori Edric e Lotario e ripresa da Ina, re del West Saxons “famoso per la sua sapienza e la sua pietà" e da Offare della Mercia: la continuità dell’opera “legislativa” dei primi re sassoni attesta che l'esigenza di garantire la “certezza” e la “pubblicità” delle norme necessarie alla vita comunitaria era intrinseca all’esistenza e alla continuità dell'autorità politica. Quest’opera di certificazione delle norme sancite dal costume e dalla consuetudine ebbe la sua espressione più importante nella raccolta delle leggi promossa e realizzata da Alfredo il grande, che, secondo Burke, con la sua iniziativa ebbe il merito storico di affermare il diritto, la certezza del diritto come una ineludibile esigenza di ordine e di giustizia proprio nel corso di una “guerra crudele, della quale non vide l’inizio né visse da vedere la fine; egli riuscì a fare per l'ordine e la giustizia più di quello che ogni altro principe aveva fatto in tempo di pace”. Nel preambolo al suo “codice” Alfredo precisa che egli si è limitato a raccogliere dalle “leggi” di Ina, di Offa e degli altri suoi predecessori, quanto gli appariva di più valido, omettendo ciò che gli sembrava erroneo o non adatto ai tempi. L’opera di revisione e di “ammodernamento” di Alfredo fu continuata dai suoi successori: “sono pochi (nota Burke) quelli che non ci hanno lasciato una raccolta di leggi”. Quando i Danesi riuscirono ad insediarsi stabilmente in Inghilterra, si dimostrarono non “meno solleciti degli Inglesi a raccogliere e a rinforzare le leggi, dimostrando così (osserva Burke) di essere desiderosi di riparare alle ingiurie che avevano commesso nei loro confronti”. Il codice di Canuto il grande è “il più moderato, equo e completo di tutte le altre antiche raccolte di leggi". Non vi fu alcuna modifica sostanziale del sistema normativo anglosassone, il re si preoccupo di abolire molte delle antiche consuetudini inglesi che effettivamente risultavano odiose. Fra gli ultimi re anglosassoni Edoardo il confessore promosse una raccolta delle leggi sassoni per rafforzane l'osservanza, raccolta che non deve essere confusa, avverte Burke, con il noto codice di S. Edoardo, tanto ricordato dagli storici del tempo, che fu redatto più tardi ed attribuito al re. Il “codice” divenne la testimonianza più autorevole delle “libertà" anglosassoni alla quale si richiamarono gli Inglesi per denunciare l’oppressiva legislazione “feudale” della monarchia normanna. Chi consideri il complesso della “legislazione sassone” vi nota un continuo perfezionamento dovuto soprattutto al “contributo" dei diritti “stranieri”, il diritto canonico rappresentato dalle costituzioni ecclesiastiche inserite nelle raccolte e il diritto romano. Il diritto sassone si rifaceva pertanto a tre fonti: “gli antichi tradizionali costumi delle popolazioni del Nord Europa; i canoni della chiesa: gli ecclesiastici furono i “legislatori di fatto”, “che corressero, mitigarono ed arricchirono quelle rozze istituzioni nordiche"; il diritto civile romano, che ebbe però una minore rilevanza nel processo di formazione della legislazione sassone. La conquista normanna, con l’instaurazione della nuova monarchia, dette un notevole impulso al diritto inglese che fu letteralmente “riempito di cultura straniera”: si trattò, secondo Burke, di un “incremento di diritto” imposto dal potere reale, anziché di una vera e propria crescita dovuta ad un processo di assimilazione e rinnovamento realizzatosi nell’ambito delle precedenti leggi inglesi. Le leggi di S. Edward e quelle normanne furono considerate in netta contrapposizione fra loro, opinione radicata nello stato di tensione e di conflitto fra. gli Anglosassoni che cercavano di servirsi delle prime e i Normanni che imponevano le seconde. Guglielmo second promise di governare « by St. Edward’s laws a promise extremely grateful and popular to all parties >>, salvo poi ignorare tale promessa, ma il suo successore Enrico primo ritenne più saggio per la stabilità delle nuove istituzioni redigere un nuovo “corpo” di leggi, al fine di contemperare il nuovo ordinamento con il vecchio, cercando di ridurre al minimo l'odiosa distinzione di Inglesi e Normanni. L'autorità politica aveva acquisito la consapevolezza dell'importanza del diritto ai fini della reale pacificazione ed unità del regno. Di qui le importanti riforme dell'amministrazione della giustizia attuate durante il regno di Enrico II, per le garanzie offerte di stabili istituzioni giudiziarie che offrivano agli Inglesi un importante mezzo di difesa nei confronti dell’oppressione della feudalità normanna. In conclusione, secondo Burke la conquista, la lotta per il potere si tradussero in lotta per il diritto: « The Norman conquest is the great era of ours Laws >>. Per Hunie, invece, la lotta politica ha uno scarsissimo rilievo, se non un effetto negativo sul riconoscimento del diritto che a suo giudizio comincia ad affermarsi e il suo studio sistematico a diffondersi solamente dopo l’accidentale scoperta del Dzgesto avvenuta ad Amalfi intorno al 1130 : la possibilità di poter accedere alla più compiuta espressione della ragione giuridica e di potersi avvalere di questa “scienza” e la sua diffusione ebbero, a suo giudizio, un vero e proprio ruolo “demiurgico” nel promuovere il primo “incivilimento” della barbara e rozza società anglosassone, in quanto resero possibile l’inizio di quel progresso delle arti e delle scienze che si sarebbe poi delineato con più chiari connotati nel quindicesimo secolo. Il “lume” dell’antica scienza del diritto, modello di ragione formata sulla pratica degli affari civili, cominciò a diradare le tenebre dell’ignoranza e della superstizione per la sua insita capacità di eliminare l’errore e di convincere le menti. Per Hume il quadro storico nel cui ambito s’iniziò e si diffuse lo studio del diritto sembra non avere alcun rilievo, nessuna influenza se non quella negativa propria di una società barbara e rozza dominata dalla superstizione che caratterizzò anche il cosiddetto “diritto” della società anglosassone. Burke nell’abridgment non si avvale del modello di società civile proposto da Voltaire e da Hume per giudicare circostanze, situazioni, avvenimenti, personaggi della storia medioevale inglese, perché ritiene che questa storia debba essere compresa e ricostruita secondo i suoi “authentic monuments”, che esprimono una determinata condizione umana che aveva in se stessa i principi e le “ragioni” del suo esistere storico: ciò significa che gli uomini cercavano di risolvere i loro problemi secondo le loro storiche necessità, convinzioni ed esigenze, e con questo impegno ponevano le premesse e costruivano il loro futuro. La storia dei "tempi oscuri", dei popoli rozzi e primitivi, delle continue invasioni e insediamenti (Sassoni e Danesi), delle rapine e dei saccheggi, delle conquiste (Normanni), come quella degli altri popoli europei e dell’Europa, ha in se stessa i principi che ne spiegano lo svolgimento, indipendentemente dal confronto con la ragione dei lumi, e che la legittimano come un periodo storico epocale. Il Medioevo è la storia della informazione delle nazioni, dei popoli europei e dei loro ordinamenti politici e dei loro comuni principi religiosi e politici. Non bisogna considerare la storia medioevale con il “sentimento" e la sensibilità culturale propria dell’illuminista che tutto riporta ai principi e alle categorie del suo intelletto e che disconosce ed esclude tutto quello che non vi corrisponde, ma bisogna comprendere quella storia nella sua interna dinamica, cioè individuando le necessità, le esigenze, le tradizioni, le consuetudini, la “cultura” delle popolazioni che formarono le nuove comunità politiche a seguito delle invasioni e degli insediamenti resi possibili dalla disarticolazione e dal “crollo” dell’Impero romano. La dinamica della società medioevale, secondo Burke, è promossa ed è resa “coerente” dalla religiosità e dalla fede cristiana, che costituisce un costante punto di orientamento, dal quale non si può prescindere se intendiamo ricostruire il corso di quegli avvenimenti ed intenderne il vero significato storico. Occorre rendersi conto che << a simple religious people >> è il presupposto non solamente del prestigio che circonda la Chiesa e della sua influenza, ma anche di buona parte dei sentimenti e delle convinzioni della società medioevale, che si esprime in un mondo umano che ha proprie caratteristiche religiose, culturali ed istituzionali. Queste hanno un’intrinseca e storica ragion d’essere, una propria legittimità che deve essere riconosciuta dallo storico di quel periodo per non incorrere nell’errore di appiattire la prospettiva storica sulle idee e le esigenze del presente. Il sentimento e le convinzioni religiose non possono essere confinati nella categoria della “superstizione" perché esprimono esigenze ed ideali che sovrastano il potere e la regalità ed influenzano l’intero ordinamento, mantenendo sempre viva l’esigenza di giustizia, di difesa dall’oppressione, di libertà e di pace. L’intensa religiosità, quando si accompagna alle responsabilità di chi deve provvedere alla continua difesa del regno dall’assalto di nemici invasori, a volte attenua quella stessa responsabilità sostituendovi gli impegni religiosi, ma altre volte rafforza le energie di governo e le indirizza verso il bene della comunità. Certo, osserva Burke, la religiosità di Ethelwolf rinchiuse il re nella sua sfera privata, i doveri religiosi assunsero un’importanza particolarmente rilevante: << era un mite e virtuoso principe, pieno di una timida pietà, che rende del tutto inadatti a governare; e cominciò a regnare proprio quando era richiesta la più grande capacità di governo >>. Lascio l’Inghilterra in un momento particolarmente critico per un lungo pellegrinaggio a Roma, suscitando un generale scontento che si tramutò al suo ritorno in una ribellione, che egli riuscì a comporre, lasciando il governo a suo figlio e ritirandosi nel Kent per godere di una << ingloriosa privacy >>. Edward il confessore « era stato educato in un monastero, nel quale egli apprese la pietà, la continenza e l’umiltà, ma nulla dell’arte di governo. Egli fu semplice ed ingenuo ma di vedute molto ristrette, senza alcune capacità d'iniziativa >>. Ebbe il buon senso di affidare il governo in mani capaci. Le poche cose che curò personalmente furono tutte buone: una nuova raccolta di leggi sassoni favorevoli ai suoi sudditi, l’adozione di un gravoso tributo e la restituzione di quanto era stato ingiustamente prelevato. << In breve vi è poco nella sua vita che può mettere in questione il suo titolo di santità; ma non può in alcun modo essere riconosciuto fra i grandi re ». Se in Ethelwolf e in Edward i valori religiosi ispirarono un atteggiamento di sostanziale “disincanto” nei confronti della politica, in Alfredo il grande la religione invece promosse quella costante energia che caratterizzò la sua attività di governo << La religione che nel padre di Alfredo (Ethelwolfl fu così pregiudizievole agli impegni di governo, senza essere in lui in alcun modo inferiore nello zelo e nel fervore, fu di un più comprensivo e nobile genere; lontano da essere di pregiudizio al suo governo appare essere stato il principio che lo sostenne in così tante fatiche e nutrì come una fonte abbondante le sue virtù civili e militari ». La storia pertanto è una “ricostruzione partecipativa" del periodo oggetto degli studi e della ricerca per rendersi conto del << generale orientamento delle menti degli uomini di quel tempo », cercando di comprendere la formazione dei loro convincimenti, sulla base delle necessità, delle esigenze che di volta in volta li determinarono e li ispirarono. Le passioni e i sentimenti hanno un'intensità esistenziale che è propria di quel determinato periodo storico: il primitivismo delle popolazioni, la ferocia, che si esprime nella volontà di preda e di dominio, a volte si converte nel terrore religioso per i delitti commessi, nel pentimento e nel rifiuto ascetico del mondo, che scaturiscono da un sentimento profondo dell’anin1o ed esprimono il riconoscimento dell’interiore voce della coscienza. E quindi non è mera superstizione religiosa. Le superstizioni hanno un rilievo del tutto secondario nella ricostruzione storica di Burke che tiene invece in considerazione le credenze e le opinioni sancite dalle tradizioni, dagli usi, dai costumi in quanto sapienza riposta dei popoli e delle nazioni, cioè quella che è stata appresa nell'esperienza storica vissuta insieme dagli uomini di una collettività, per “fare”, cioè per organizzare una vita comune. Essi, secondo Burke, sono intrinsecamente connessi alla storia: gli usi, i costumi, con le convinzioni e le opinioni che sanciscono, non possono essere studiati solamente descrivendoli e giudicandoli con il metro della ragione dei lumi, per distinguere i buoni dai cattivi, come fa Voltaire. Proprio perché sono una delle principali testimonianze della storia dei popoli, debbono essere compresi e valutati sulla base del loro processo di formazione storica, della loro concreta determinazione storica. Non ci sono i “moeurs” da una parte e le necessità, le istituzioni, il potere, i re, le guerre e le battaglie dall’altra: essi fanno parte di un unico processo storico e sono pertanto intimamente connessi. Il dato filologico, nel senso più ampio del termine, attiene alla concreta determinazione storica dei personaggi, degli avvenimenti, delle situazioni, delle istituzioni e soprattutto delle opinioni e delle convinzioni perché attesta la loro esistenza storica con le loro specifiche caratteristiche. Di qui l’impegno dello storico a prestare particolare attenzione al dato filologico e a riconoscerlo nella sua intrinseca validità storica per una ricostruzione degli avvenimenti che sia quanto più possibile serena ed oggettiva, e che non pretenda di servirsi delle idee, delle opinioni dei suoi tempi per interpretare quelle dei tempi passati. La religiosità medioevale si esprime secondo i principi, gli ideali, il culto che si richiamano all'insegnamento della Chiesa di Roma: Burke avverte che la storiografia illuministica (Bolingbroke, Voltaire, Hume) per tanti aspetti continua la storiografia protestante - il riferimento in particolare è a Rapin Thoyras - che identifica la storia medievale con il dominio della Chiesa fondato sulle superstizioni religiose. La storia medioevale si riduce pertanto a “svelare” i motivi politici delle invenzioni superstiziose della Chiesa ed a dimostrare le conseguenze funeste delle convinzioni che a quelle si richiamavano. Si consideri ad esempio la lotta delle investiture che è provocata dal desiderio di dominio di Gregorio VII: la sua memoria per Voltaire << è cara e rispettabile al clero romano odiosa agli imperatori ed a ogni buon cittadino per gli effetti della sua ambizione inflessibile. La Chiesa". l'ha messo nel numero dei santi. I saggi l’han messo nel numero dei pazzi >>. Non c’è spiegazione storica a quelle guerre, se si eccettua la considerazione che << il fanatismo dei sudditi conduce i principi alla rovina »: in effetti_ la lotta per le investiture fu una « guerra sanguinosa ed assurda ». Per Burke invece il conflitto ha una sua origine e motivazione storica ben precisa: risiede nella formazione storica dell’autorità' vescovile e dell’organizzazione ecclesiastica cosi come fu riconosciuta dagli Imperatori romani e poi dai nuovi regni che si formarono a seguito degli insediamenti delle popolazioni germaniche e del nord Europa, il cui ordinamento politico finì per conferire all’autorità vescovile una “giurisdizione feudale” che la inseriva nel sistema delle relazioni e delle dipendenze feudali che facevano capo al re e all’Imperatore. Si ponevano cosi le premesse del conflitto fra il potere politico e l’autorità religiosa per la concreta definizione del modo con cui garantire la reciproca indipendenza e nel contempo precisare gli obblighi cui doveva corrispondere l”autorità vescovile nei confronti del proprio sovrano. Burke considera naturalmente la lotta delle investiture con riguardo alla storia inglese che a suo giudizio consente di cogliere il proponimento del Papato di rendere indipendenti i vescovi nei confronti dei duchi, dei re e dell'Imperatore, per rafforzare la loro dipendenza da Roma, rendendo più forte e sicura l’organizzazione ecclesiastica, ed accentuando una supremazia di carattere spirituale che finisce per invadere anche l’ambito proprio del potere politico. Burke critica l’interpretazione volta ad avvalorare credenze superstiziose, ma riconosce, nel contempo, che la condanna della Chiesa delle investiture denunciava la pratica diffusa di subordinare l'incarico vescovile a fini meramente temporali che si traducevano nella legittimazione della malversazione dei beni della Chiesa e nella nomina di persone del tutto impreparate e senza alcun prestigio di carattere spirituale. La lotta delle investiture è quindi un momento particolarmente importante della dialettica fra l’Impero e la Chiesa, che rappresenta per tanti aspetti il centro propulsivo e il principio dinamico della storia medievale. Questa stessa dialettica la ritroviamo all’interno dei singoli Stati, fra la monarchia e l’ordine ecclesiastico, in modo particolare in Inghilterra: la monarchia trae dalla concezione ecclesiastica della regalità, come potere impegnato a garantire l’ordine, la pace, la giustizia una legittimazione che le riconosce un’autonoma sfera di supremo comando e di indirizzo che la pone al di sopra dì tutti gli ordini, ma nello stesso tempo subisce il condizionamento della grandissima influenza che la Chiesa esercita nella società e che essa fa valere in occasione della successione al trono, soprattutto quando questa è contesa fra più pretendenti. La politica di Enrico II fu informata al principio di << spezzare il potere del clero, che ciascuno dei suoi predecessori, sin da Edoardo, aveva cercato di alzare e di deprimere, prima con lo scopo di guadagnare quel potente ordine ai propri interessi e poi per preservarsi di diventare soggetti a quella stessa autorità che proprio loro gli avevano conferito. I vescovi avevano eletto Stefano; essi avevano deposto Stefano ed eletto Matilde; e nelle formule che essi usarono in quelle occasioni avevano riconosciuto a se stessi il pieno diritto di eleggere i re d'Inghilterra. Il loro contributo sia nel promuovere che nel deprimere quel principe dimostrò che essi possedevano un potere che non poteva sussistere con la sicurezza e la dignità dello Stato >>. Il conflitto scaturiva dall’interno dell'ordinamento politico feudale ed era caratterizzato dalla contemporanea affermazione e negazione del potere regio e quindi dalla necessità di trovare una soluzione di carattere giuridico - istituzionale che potesse garantire la continuità e l'autonomia del potere monarchico, nel rispetto dei privilegi e quindi delle libertà, dell’aristocrazia, della Chiesa e del popolo, che cominciava a far valere le sue esigenze. In questa prospettiva la Chiesa è una forza storica: la considerazione dei suoi fondamentali motivi ispiratori è indispensabile per intendere la vita politica medioevale, la consistenza culturale - istituzionale della storia di quel periodo. La storia medioevale non può essere ricostruita con il criterio proprio della storiografia protestante, e continuato per tanti aspetti da quella illuministica, di “svelare” e denunciare le invenzioni superstiziose della Chiesa per i suoi fini di dominio spirituale e politico: in tal modo ci precludiamo la conoscenza dei termini reali con cui si svolse il processo storico e finiamo per far valere anacronisticamente esigenze, idee, convinzioni proprie del nostro tempo nella storia del passato. La storia rischia in tal modo di perseguire fini di propaganda religiosa o politica, invece di cercare di ricostruire gli avvenimenti con uno studio attento delle fonti. La società medievale, secondo Burke, non è caratterizzata solamente dal particolarismo proprio dell’ordinamento feudale, ma anche dall’avvertenza di essere partecipi di una società di gran lunga più ampia, che comprende altri popoli, altre genti, altre città, altri regni, l’Europa. Il medioevo è il periodo storico in cui si forma una nuova “entità politica”, cioè una società di popoli, di “nazioni”, di città, di regni che riconosce comuni principi di unione che si risolvono in due supreme autorità: la Chiesa e l’Impero. L’Europa, esposta agli attacchi e alle invasioni degli Arabi, disgregata al suo interno da guerre continue, sembrava condannata ad uno stato di totale anarchia: eppure al suo interno erano operanti due principi grazie ai quali si sarebbe costituita la nuova società europea: <<Nondimeno, nel mezzo di questo caos furono attivi principi che ridussero le cose ad una certa forma e gradualmente espressero un sistema in cui i principali promotori e le prime cause erano il potere del Papa e quello dell’Imperatore; L’aumento o la diminuzione dì questi poteri furono la tendenza di quasi tutte le scelte politiche, gli intrighi e le guerre che impegnarono e sconcertarono l’Europa in quel tempo >>. Il centro propulsore di questo nuovo ordinamento e di questa nuova società è la Chiesa di Roma, che rappresenta con la sua dottrina e con il suo sapere il punto di riferimento del processo storico di formazione dei vincoli religiosi, spirituali culturali e politici dei popoli europei. La ricostituzione e il rafforzamento della monarchia in Francia con Pipino e Carlomagno, la vittoria di quest’ultimo sui Longobardi in difesa della Chiesa furono la premessa per la ricostituzione dell’Impero da parte del Papa nella persona del vincitore. L’autorità imperiale, prima appartenuta alla Francia, poi divisa con la Germania ed a questa definitivamente attribuita, rappresenta l'unità, la legittimità e l’autonomia del potere temporale nei confronti di quello spirituale: il conflitto fra Impero e Chiesa, determinato dalla rispettiva pretesa alla propria supremazia, contrappose la 'forza delle armi, l'Impero, alla forza dell’influenza ecclesiastica: poteri che in quel periodo si bilanciavano. Impero e Chiesa non furono l’espressione del “primitivismo’, dell’ignoranza, della superstizione dei popoli europei, ma erano due forze storiche che con la loro dialettica concorrevano alla formazione ed all’organizzazione della società europea. La divisione e le lotte fra i partigiani dell’Impero e quelli della Chiesa, per quanto riguarda l’Italia, ebbero come risultato la formazione di liberi ordinamenti cittadini, come le repubbliche di Venezia, Genova, Firenze, Pisa, che conquistarono ben presto con i loro commerci (un’attività « abbandonata e disprezzata dalla gente rozza dei governi marziali » « a considerable degree of wealth, power, and civility >>. L’insediamento dei Danesi in Inghilterra e in Normandia, che consentì l'ulteriore “movimento” verso il Sud dell'Europa, con la conquista di Napoli e della Sicilia, per dar vita ad un nuovo regno, completò nel primo secolo dopo il .mille il quadro politico europeo. L’Europa delle città, dei comuni, delle repubbliche, dei regni, dei ducati, dell'Impero e della Chiesa cominciava ad esprimere un sistema politico in cui le iniziative e gli avvenimenti politici dei singoli soggetti erano per tanti aspetti caratterizzati da mutua dipendenza o influenza. La guerra delle investiture e le Crociate avevano creato una generale situazione europea in cui occorreva tener in conto, per conservare il potere o per assumere con successo un’iniziativa politica, la politica e gli interessi degli altri soggetti politici. Ciò era valido soprattutto per l’Inghilterra: la conquista normanna fu preceduta da un’accorta preparazione diplomatica da parte di Guglielmo per ottenere il consenso dei conti d’Anjou, di Bretagna, di Ponthieu; << dopo di ciò - precisa ancora Burke -fu egualmente necessario conciliare alla sua impresa le tre grandi potenze di cui si è parlato, il cui atteggiamento avrebbe avuto la più grande influenza sui suoi affari »: il regno di Francia, l’Impero ed infine il Papa: un consenso praticamene da parte di tutta l’Europa che contava. La politica della monarchia normanna fu per molti aspetti, soprattutto per quanto riguardo la politica ecclesiastica, strettamente connessa alle situazioni politiche che si determinavano a livello europeo. In particolare le vicende politiche inglesi che portarono alla concessione della Magna Carta, furono influenzate a volte in modo decisivo dal regno di Francia e dalla Chiesa di Roma. Con un sottinteso riferimento alla tesi montesquieviana sulla diffusione europea del feudalesimo, Burke osserva che un altro importante vincolo politico, per la società europea era rappresentato dal consolidamento del sistema feudale nei regni del “continente europeo" e dalla diffusione dei “modi' e maniere” della disciplina e del valore militare, dello spirito marziale, propri dell’istituzione feudale: « The feudal discipline extented itself every where, and influenced the conduct of the Courts, and the manners of the people, with its irregular martial spirit ». Si tratta pertanto di rendersi conto delle ragioni storiche delle istituzioni feudali e dell'influenza che esercitarono non solamente sulla “condotta delle Corti”, cioè sul modo di governare, ma anche sulle “maniere del popolo", sul comportamento e sulle convinzioni che lo ispiravano. Burke non partecipa della polemica voltairiana e humiana nei confronti del feudalesimo e del suo spirito marziale, ritiene invece che la disciplina militare è una componente necessaria e primaria nella organizzazione delle comunità umane, e tende ad esprimere una propria etica di comportamento: in questa prospettiva si tratta di comprendere la “generale disposizione delle menti degli uomini” soggetti a quella disciplina. I grandi feudatari, i vassalli, i cavalieri, le categorie che partecipavano al potere feudale, erano subordinati gli uni agli altri da un vincolo di fedeltà e di lealtà ma i limiti dell’obbedienza erano fissati dal vassallo e dal cavaliere, perché nella “generale disposizione delle menti" la professione delle armi parificava tutti i soggetti del rapporto feudale. Di qui la dialettica interna al sistema feudale che lo caratterizzò e fu' uno dei motivi della sua trasformazione: al re, fonte del potere feudale, si contrapponevano spesso i grandi feudatari, che, nota Burke, pur soggetti alle << complicate leggi di una varia e rigorosa servitù esercitavano tutte le prerogative di un potere sovrano >> del quale erano i soli giudici. Esempi ci sono offerti dalle vicende degli ultimi anni dei regni di Gugliemo il conquistatore e di Enrico II, che dimostrano come l’investitura feudale conferiva un senso di autonomia e di indipendenza e nel contempo suscitava un così forte sentimento di fedeltà nei confronti del signore o re cui si prestava omaggio da infrangere e sostituire i vincoli tradizionali fondati sull’autorità,paterna; Così si spiegano, secondo Burke, le tensioni, i conflitti sino allo scontro armato nella famiglia dei due re Guglielmo ed Enrico II., che rappresentarono non solamente un pericolo gravissimo per la stabilità del regno ma anche un’esperienza amarissima e tormentata per i due re la cui vita era stata coronata da tanti successi e vittorie: avevano conseguito un potere tanto forte ed esteso quanto mai conseguito prima in Inghilterra. Guglielmo rischiò di essere ucciso dal figlio Roberto se, per un caso fortuito, non fosse stato riconosciuto proprio quando stava per essere sopraffatto; Enrico II, sistemato nella bara nell'imminenza della morte e lasciato ai piedi dell'altare della chiesa, morì in totale solitudine: dopo la morte la salma, depredata e privata degli stessi vestiti, fu abbandonata per giorni nella chiesa. La monarchia era impegnata a “far valere” le sue prerogative per garantire la stabilità e l’efficienza del suo governo, e finiva per scontrarsi il più delle volte con i suoi feudatari, che nei loro feudi amministravano a proprio piacimento la giustizia e suscitavano spesso conflitti con i loro vicini, diventando così in più di un’occasione arbitri della pace del regno. Il feudalesimo fu un regime politico che oscillava, come osserva Montesquieu, fra la “norma”, cioè l’ordine, << con una certa tendenza all’anarchia, e l'anarchia con una certa tendenza all’ordine e all’armonia ». Secondo Burke questa contraddizione interna all’ordina mento feudale è .i1 principio dinamiche spiega gran parte degli avvenimenti politici di quel periodo e del lento progressivo affermarsi sulla scena politica delle categorie “popolari”, che sino ai tempi di Guglielmo vivevano in uno stato di soggezione simile alla servitù. La contraddizione deve essere compresa nel suo ruolo storico, per spiegare storicamente l’origine della dialettica ordine-anarchia, come il dominio tende a tramutarsi in anarchia, e per individuare i motivi per cui nell’anarchia si esprime la tendenza all'ordine e all'armonia. L’anarchia di poteri si manifestò in tutta la sua crudezza ed oppressione durante il regno di Stefano nel corso della guerra civile fra il re e il pretendente al trono Enrico, nipote di Guglielmo H, fra il 1138 e il 1153. Ed è in questa situazione, osserva Burke, che si manifestò una presa di coscienza del significato etico della virtù militare, dell’onore militare come tutela e difesa delle persone per le quali si esercitava il mestiere delle armi; Si affermò così e si diffuse lo spirito di cavalleria, la professione delle armi impegnava a combattere in difesa dei deboli, degli indifesi, contro coloro che si servivano delle armi per usare violenza, commettere rapine, uccidere, opprimere. Era una manifestazione della “tendenza” ad uscire dall’anarchia per cercare di dar vita a un ordine e un'armonia di intenti, di cui si rendevano interpreti le classi popolari, che, grazie ai conflitti che finivano per indebolire la monarchia e i feudatari, cominciarono a richiedere e poi a pretendere in quanto soggetti all'obbligo feudale di fedeltà al re la concessione di privilegi inerenti al loro status di abitanti di città e di comunità, alle quali si cominciò a riconoscere un'autonoma giurisdizione di carattere amministrativo, sul modello di quelle feudali. Lo spirito marziale che caratterizzava l’ordinamento feudale aveva finito per informare di sé le “maniere” e `le menti del popolo, sottraendolo ad un stato di mera passività e soggezione ed impegnandolo nella lotta per la difesa dei suoi diritti. Con il regno di Enrico I la richiesta e la concessione di carte delle libertà alle città, a quella di Londra in particolare, ed al "popolo” divennero una condizione necessaria per il riconoscimento e la consacrazione del successore al trono d’Inghilterra, il che secondo Burke cominciò a formare una sorta di prassi costituzionale, che avrebbe avuto il suo pieno riconoscimento con la Magna Carta e con la Carta delle foreste, << due memorabili documenti; che per la prima volta disarmarono la Corona delle sue illimitate prerogative e posero il fondamento della libertà inglese>>. Burke tiene ad evidenziare la specificità storica delle due Carte, di documenti che debbono essere interpretati con riferimento all’ordinamento feudale dal quale in sostanza promanano: essi pertanto non possono essere considerati, come ritengono i nostri storici (compreso Hume), un ritorno o un rinnovamento delle leggi di Sant Edward o delle antiche leggi sassoni. Le due Carte invece ebbero lo scopo preciso di correggere l'ordinamento politico feudale”, la “feudal policy” e pertanto si avvalsero di principi, di norme propri dell’ordinamento feudale. Secondo la consuetudine feudale i baroni richiesero che le “libertà" fossero “garantite a loro ed ai loro eredi dal re e dai suoi eredi": ciò dimostra, rileva Burke, che la dottrina di un possesso feudale inalienabile fu sempre dominante nelle loro menti. Anche la loro idea di libertà non era perfettamente libera: essi non rivendicarono i loro privilegi sulla base di un principio di natura o altro indipendente fondamento, ma, in virtù del possesso delle loro terre, li pretesero dal re. Secondo la legge feudale, la proprietà della terra derivava dalla Corona, per concessione immediata o derivata. La Magna Carta e la Carta delle foreste sono il risultato dell'interna dialettica del sistema feudale, della “feudal policy”,. o della monarchia feudale inglese. Esse sono la testimonianza, la prova, chele lotte, i conflitti, persino all'interno della famiglia reale per la successione al trono dei figli contro il padre, come nel caso di Enrico II, e poi fra il re e i grandi feudatari, fra il re e la Chiesa, furono i principi della dinamica interna della “feudal polìcy”, che ebbe come risultato la prima “correzione” o riforma del sistema feudale. Si provvide così a delimitare e definire le prerogative della monarchia, a riconoscere e ad inserire nell'ordinamento costituzionale i poteri dei grandi feudatari, a sancire le essenziali garanzie di libertà degli uomini liberi. I principi fondamentali dello Stato costituzionale inglese ebbero per Burke una lunga “gestazione” storica che. Durò circa seicento anni dalla fondazione dei regni sassoni e dalla loro successiva unificazione sino alla Magna Carta. La monarchia sassone, inizialmente una sorta di irregolare “repubblica”, costituita dalle tribù che riconoscevano un unico capo, si trasformò lentamente in una monarchia altrettanto irregolare, in cui non erano, definiti né i poteri del re né le regole di successione al trono, e il suo ordinamento politicoamministrativo aveva le caratteristiche di una confederazione dei “grandi distretti”, borougs. L’autorità e il potere di governo e di coordinamento della monarchia sassone si affermò a poco a poco nel corso dei quattro secoli della sua durata quando fu assunta e rafforzata da una più rigida organizzazione feudale da parte della monarchia normanna. L'istituzione di un potere unitario e della sua organizzazione politica, amministrativa, giudiziaria e fiscale procedette con estrema lentezza secondo i ritmi di un processo storico in cui tutti i membri della comunità sono “chiamati” a fare la “policy”, lo Stato, secondo le proprie condizioni, convinzioni e capacità storiche dal re, all’aristocratico, all’ecclesiastico, al libero, al servo. Nell’Abridgment il medioevo è “riscattato” dalla visione illuministica del “tempo” della barbarie, della inciviltà, della superstizione, della “notte della ragione”, ma è visto invece come il periodo storico in cui possiamo intendere le origini della nuova società europea, dei nuovi popoli e delle diverse nazioni che lentamente la formarono grazie ai principi, agli ideali della religiosità cristiana, che richiamarono l’istituzione tipica di quei tempi, il feudalesimo, ai suoi intrinseci ideali della lealtà, della fedeltà, della difesa dei deboli, degli inermi, di quanti, la stragrande maggioranza, non praticavano il mestiere delle armi. Pur con la sua ferocia e brutalità, con la sua propensione all’avventura, alla rapina, al dominio, il feudalesimo esprime con la “cavalleria” il sentimento dell’onore e dell'impegno disinteressato, insieme alla convinzione che la forza ha come fine la difesa del debole e` dell'oppresso, e pertanto promuove un rapporto dell’uomo con il potere fondato su quei principi e valori che sono per Burke alla base della vita civile e politica dell’Europa moderna. Il tema delle origini e della formazione della nazione inglese non può essere scisso, secondo Burke, da un sentimento di “venerazione" per l’antichità e quindi da una partecipazione simpatetica ai sentimenti, alle passioni e soprattutto alla “religiosità” di quelle popolazioni e di quei tempi, onde poter intendere il processo di lenta formazione ed integrazione delle nazioni europee come delle vere e proprie “totalità etiche” con proprie consuetudini, tradizioni in cui si esprimono le loro specifiche caratteristiche. Si precisa così ulteriormente il preromanticismo di Burke, che si era già manifestato nell’estetica con la teoria del sublime: nell’abridgment si esprime nella convinzione che la tradizione storica è un insostituibile fonda»mento delle istituzioni e degli ordinamenti politici di cui lo storico deve saper riconoscere il profondo contenuto di verità. Dal punto di vista del pensiero politico la conclusione dell'abridgment è che lo Stato non si “costituisce” con le delibere di un’Assemblea, né può essere ricostituito o rifondato con le rivoluzioni, che possono correggere e innovare nei limiti in cui si inseriscono e continuano il processo storico da cui promana l’istituzione che si intende riformare. È proprio questa la premessa essenziale delle considerazioni che saranno poi svolte nelle riflessioni sulla rivoluzione francese. Con l’abridgment Burke matura la convinzione che la politica è intimamente connessa con la storia, rappresenta per molti aspetti il principio dinamico della storia, ne spiega il movimento che connette le azioni degli uomini in un processo unitario che garantisce la continuità storica cioè il principio di identità delle grandi formazioni ed organizzazioni politiche. Di qui la caratteristica del pensiero politico burkiano di considerare la politica in una prospettiva storica, cioè di analizzare i fatti e gli eventi politici nel contesto della dinamica storica del suo tempo, con un preciso richiamo ai precedenti storici che ne spiegano le origini. La politica ha nella storia il suo intrinseco completamento: i fini che essa persegue possono essere compresi nel loro vero significato e valore solamente in una prospettiva storica. In conclusione la ragione “concreta” è la ragione storica che si commisura al corso degli avvenimenti storici per intendere come le necessità, le esigenze, le aspirazioni, gli ideali, le ragioni degli uomini si traducono nella realtà, diventano cioè mondo delle istituzioni, delle leggi, delle relazioni, del sapere e delle convinzioni umane. Perciò, in Burke, la realtà, il concreto non è altro che storia: la teoria della società e della politica non può prescindere dal problema storiografico, cioè dai criteri che presiedono alla ricostruzione storica degli avvenimenti e alla loro corrispondente valutazione storica. Alla ragione illuministica Burke contrappone la ragione storica, cioè quella che è in grado di comprendere << the necessity of the times », una necessità anch'essa storica, cioè la totalità e quindi l’unità delle_ situazioni e delle condizioni dei tempi.