Cari Confratelli! 1. Riprendiamo il cammino dopo la pausa estiva, che spero sia servita, almeno per qualche giorno, a rinfrancarvi nel corpo e nello spirito. Dinanzi a noi sta la Chiesa di Roma e la sua missione in questa città: una città in continua evoluzione, con la sua vita complessa, frenetica, anonima, nella quale c’è gente che sta bene e tanta sta male, dove il tessuto sociale è irritato per gli scandali, i privilegi e i ripetuti spietati delitti, con persone che vivono gioiosamente l’appartenenza alla comunità ecclesiale e altre sono indifferenti e lontane. E noi siamo i pastori di tutto questo gregge. Si apre un nuovo anno pastorale, alla vigilia dell’Anno della Fede e del Sinodo mondiale che rifletterà sulle sfide all’evangelizzazione a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Nella nostra diocesi stiamo portando avanti con impegno, da quattro anni, un progetto pastorale che mira ad adeguare la pastorale ordinaria alle urgenze di una Chiesa più incisivamente missionaria. Dopo il Convegno diocesano dello scorso giugno ci cimentiamo con una più aggiornata pastorale battesimale che aspira a coinvolgere le famiglie. Siamo dentro un cantiere aperto; ci è richiesto coraggio e fantasia, senza mai cedere alla rassegnazione. Guardando le cose più in profondità, sorgono spontanee alcune domande: a 50 anni dal Concilio, dove va la nostra Chiesa? Come risponde al mandato di Cristo di evangelizzare Roma? Naturalmente non ho la pretesa di rispondere a interrogativi così impegnativi, ma solo di suscitare attenzione e di aprire prospettive su uno sfondo più generale. 2. Questa assemblea presbiterale di inizio d’anno mi offre l’occasione per riflettere su alcuni aspetti che riguardano soprattutto noi sacerdoti: in un mondo dispersivo e confuso è importante ritornare ai fondamentali della nostra vita. L’Anno della fede è un forte invito a riaffermare e fortificare anzitutto la nostra identità presbiterale. Viviamo in un tempo in cui c’è crisi d’identità un pò dappertutto: nelle famiglie (chi è oggi il padre? cosa vuol dire fare la madre?), nella scuola, nelle istituzioni, nella politica. E chi siamo noi sacerdoti in una società secolarizzata, ormai multietnica e multireligiosa? Che ne è di noi come credenti? Prima di ogni questione pastorale c’è il nostro essere discepoli. Per rapidi cenni vorrei richiamare il vissuto presbiterale di questi decenni, con lo sguardo rivolto al Concilio e al momento presente. 3. Nelle intenzioni e nelle parole del Beato Giovanni XXIII il Concilio doveva “trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti… [perché venga] approfondita e presentata in modo che 1 corrisponda alle esigenze del nostro tempo”1. Il Vaticano II ha aperto nuovi sentieri, ha fatto scaturire onde di acque sepolte e fresche, ha acceso luci brillanti per rischiarare il cammino della Chiesa nel terzo millennio. Considerando solo le quattro Costituzioni conciliari, la Chiesa è stata presentata come una comunità orante che trova nella liturgia il culmine e la fonte della sua vita (SC, 10), che ascolta la Parola per mettere al centro il primato di Dio(DV,1), che si riscopre popolo di Dio, plebs adunata, con una vocazione comune, prima di ciò che distingue secondo i carismi e i ministeri (LG, 4), e come una comunità per gli uomini, che guarda al mondo con uno sguardo nuovo, non per condannarlo ma per prendere coscienza che lo Spirito di Dio è sempre all’opera (GS, 22). Che cosa è successo negli anni del post-Concilio? La ricezione della dottrina conciliare non è avvenuta sempre e dovunque nel modo giusto. L’ “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, contrapposta all' “ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità - come ha affermato il Papa Benedetto XVI nel famoso discorso alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 - ha portato disorientamento, ha dato spazio ad estrosità, così che il vero messaggio rinnovatore del Concilio non è stato sempre bene interpretato e talvolta è stato stravolto. Chi di noi è avanti negli anni ricorda che, in quel periodo, anche la figura del presbitero è stata descritta in modo non sempre confacente e corretto con le linee conciliari. Il Vaticano II non ha proposto un modello prefabbricato di prete; piuttosto ha indicato alcuni lineamenti, opportuni adattamenti, ha accentuato aspetti prima poco evidenziati, che però non andavano assolutizzati ma armonizzati nell’insieme. Le principali linee di tendenza emerse dai documenti del Concilio sono state le seguenti: 1) il ministero ordinato non precede il popolo di Dio ma è all’interno e al servizio della missione di tutta la Chiesa. Al tempo stesso è stata attenuata la prevalenza cultuale della figura del presbitero ed esaltata una sua più incisiva affermazione ministeriale. Il sacerdote è un “messo a parte”, ma “vive in mezzo agli altri uomini” (PO, 3) per l’opera a cui il Signore lo ha chiamato. Egli non potrebbe essere ministro di Cristo se non fosse testimone e dispensatore di una vita diversa da quella terrena; ma non potrebbe nemmeno servire gli uomini se si estraniasse dalla loro vita e dal loro ambiente. Dunque non è al di fuori o al di sopra del popolo, ma è collocato nell’unità diversificata del popolo di Dio. 2) Il sacerdote non è solo a servizio della comunità dei credenti, è anche il primo responsabile dell’evangelizzazione di tutti gli uomini. In un tempo in cui la maggioranza erano battezzati e credenti il suo compito principale era quello del catechista; ora che la parrocchia è terra di missione, il prete è chiamato a essere di più evangelizzatore. 1 Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962. 2 3) In una Chiesa tutta ministeriale, non è più esclusiva la figura del prete unico ministro nella comunità, è sottolineata quella del sacerdote suscitatore e promotore di ministeri e carismi per l’edificazione del popolo di Dio (PO, 9). Egli deve armonizzare i diversi doni senza rinunciare ad essere essenziale al tutto secondo una propria specificità, in virtù del sacramento dell’Ordine. 4) La tradizionale figura del sacerdote indipendente e autonomo (si pensi, ad esempio, agli effetti del sistema beneficiale sulla vita sacerdotale) ha ceduto il posto a quella di membro del presbiterio, a cui fare riferimento non occasionale e formale, ma un riferimento qualificante in ragione del legame sacramentale e del vincolo con il Vescovo, successore degli apostoli, centro di unità nella Chiesa particolare. Di qui il superamento dello stile individualistico nell’esercizio del ministero per condividere le fatiche e le speranze di un cammino comune. 4. Queste linee di tendenza, negli anni successivi al Concilio, hanno portato ad un’autocomprensione della figura del presbitero espressa in alcuni casi con teorie e prassi manifestamente problematiche, con crisi esistenziali sul piano psicologico e sociologico. Il tessuto presbiterale non di rado è stato lacerato da forzature fuorvianti ed estreme fino a perdere il nucleo essenziale irrinunciabile voluto dalla volontà fondativa di Cristo. Il grande pontefice Paolo VI così si esprimeva al riguardo: "E’ nata come una incertezza che ha investito la natura stessa del sacerdozio, la sua formazione umana ed ecclesiastica, la sua funzione apostolica, la sua posizione gerarchica e sociologica"2. Si ponevano domande inquietanti sull'essere o meno il sacerdozio un carisma sacramentale, oppure se il presbiterato non dovesse essere considerato una semplice funzione di servizio alla comunità di cui era emanazione, con discussioni infinite sul rapporto tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale. A mettere in dubbio la concezione tradizionale del sacerdote contribuì anche il crescente processo di secolarizzazione e le pressioni antistituzionali che in quel tempo erano molto forti. In una società secolarizzata, la figura del prete diventava sempre più contestabile, a differenza del passato in cui egli aveva una funzione sociologicamente riconosciuta. Alcuni sacerdoti, non volendo dare l'impressione di restare indietro, si abbandonarono ad un progressismo avanzato; altri, all’opposto, ad una resistenza tenace contro tutto ciò che si presentava come nuovo, dimenticando che difendere la fede non vuol dire non esprimerla in maniera adeguata ai tempi. In quella temperie la gran parte dei sacerdoti abbiamo vissuto nella fedeltà al Magistero della Chiesa che, attraverso la voce di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, in continuità con i testi del Concilio, ha continuato a 2 Discorso ai Cardinali, 15 dicembre 1969. 3 testimoniare la sollecitudine per la vita e il ministero dei presbiteri, facendo chiarezza sui problemi che di volta in volta si presentavano. Le occasioni più solenni sono state le Assemblee del Sinodo dei Vescovi del 1971, del 1974 e del 1990. Negli anni successivi l’attenzione al problema dell’identità si è attenuata, si è trovato un equilibrio tra i diversi tratti somatici così che la fisionomia del sacerdote adombrata dal Concilio è emersa più chiara. Oggi, nella dottrina come nella spiritualità, nella pastorale come nella disciplina, il sacerdote è pacificamente descritto uomo di Dio a servizio della Chiesa, evangelizzatore e catecheta, promotore di carismi e vocazioni senza rinunciare al suo ministero specifico di pastore, membro dell’unico presbiterio. Gli organismi pastorali di partecipazione, regolati canonicamente, hanno fatto e continuano a fare la loro parte, seppure talvolta non mancano fatiche e lentezze. 5. I problemi semmai sono altri e derivano non dalla teologia del sacerdozio, ma per un verso dalla poco approfondita conoscenza e assimilazione di tutto il corpo della dottrina conciliare e del vero spirito del Concilio, e per l’altro dal contesto socio-culturale in cui siamo immersi. Conservano piena attualità le parole che Giovanni Paolo II ha scritto nell’introduzione dell’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis (1992): “I sacerdoti… sembrano oggi soffrire di eccessiva dispersione nelle sempre crescenti attività pastorali e, di fronte alle difficoltà della società e della cultura contemporanea, si sentono costretti a ripensare i loro stili di vita e le priorità degli impegni pastorali, mentre avvertono sempre più la necessità di una formazione permanente capace di sostenere in modo realistico ed efficace il ministero e la vita spirituale”. Pertanto, le questioni che ci stanno davanti potremmo compendiarle così: come resistere al pericolo della dispersione? Come salvare le priorità essenziali della vita sacerdotale quotidiana senza venir meno alla generosità di essere a tempo pieno a servizio del popolo? E come custodire l’identità che, senza atteggiamenti di chiusura, sappia discernere negli uomini di oggi i richiami impliciti al Vangelo e vi trovi materia di dialogo? Ripercorrendo gli apporti della dottrina conciliare, a me sembra che dovremmo difendere e sviluppare i lineamenti essenziali del presbiterato che fanno bella e ricca di significato e di passione apostolica la nostra vita. 6. Il presbitero nell’autocomprensione della Chiesa. Un primo aspetto è di ancorare la vita sacerdotale all’autocomprensione del mistero della Chiesa “sacramento di salvezza”, cioè della Chiesa “segno e strumento dell’intima unione (degli uomini) con Dio e dell’unità del genere umano” (LG, 1). Che cosa vuol dire? Che alla radice della Chiesa - dunque del nostro essere preti c’è la chiamata a realizzare l’unione degli uomini con Dio e tra di loro, 4 un’unione iscritta nel disegno del Creatore, che risponde alle più profonde aspirazioni del cuore umano ed è la sintesi della perfezione cristiana. Come tutti i ministeri, il presbiterato contribuisce a far vivere la Chiesa, nella quale noi siamo i cooperatori di Dio, e perché tali dobbiamo interiorizzare e personalizzare le grandi finalità della Chiesa, che illuminano la nostra spiritualità e danno ragione e sostanza alla nostra vita personale. Naturalmente non va dimenticato che la realizzazione storica di questo progetto è attraversata da spinte contrastanti e contraddittorie prodotte variamente dalla libertà e dal peccato degli uomini. La sfida è impegnativa, perché la cultura contemporanea, da Nietzsche in poi, ha scardinato la relazione degli uomini con Dio e tra di loro; e dunque dobbiamo sapere di dover remare contro vento. Nonostante ciò, non possiamo venir meno alla realizzazione di questo disegno, motivato dal precetto dell’amore di Dio e del prossimo e dalla certezza che solo Cristo risana le ferite della creazione corrotta dal peccato. In un mondo lacerato dall’egoismo, dalla violenza e dalle ingiustizie, come suoi ministri, forti della profezia del Vangelo, dobbiamo porci come uomini di riconciliazione e di pace. Dunque ottimismo e fiducia! Siamo in prima fila, con tutti gli uomini di buona volontà, per essere artefici di unità attraverso la nostra capacità di dialogo, di condivisione, di comprensione, di perdono, sentendoci “realmente e intimamente solidali con il genere umano” (GS, 1). L’inno alla carità di San Paolo (cfr. 1 Cor 13, 1-13) è un importante riferimento per sentirci dentro un disegno di carità e saper cogliere il positivo nelle vicende umane, valorizzare ciò che unisce, sentire e far sentire il senso di umanità3. 7. Il volto del prete è quello di Cristo. E’ di tutta evidenza, cari Confratelli, che sono cambiati i tempi e le sensibilità culturali, anche solo rispetto a dieci anni fa; è cresciuta la coscienza della soggettività della persona, le esigenze individuali hanno assunto carattere di quasi necessità; lo stile di vita è diventato più libero; sono entrate con sempre maggiore invadenza nella vita privata le nuove tecnologie, ma la fisionomia essenziale del sacerdote non muta, il volto del presbitero non potrà mai discostarsi dal rassomigliare a Cristo4. L’invito dell’apostolo Pietro ci riguarda: “Ad Ciò che il Concilio dice di tutta la Chiesa, vale a maggior ragione per noi sacerdoti: “Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa considera qui anzitutto ciò che gli uomini hanno in comune e li spinge a vivere insieme il loro comune destino”: Dich. Nostra aetate, n. 1. 3 “E’ importante superare pericolosi riduzionismi, che, nei decenni passati, utilizzando categorie più funzionalistiche che ontologiche, hanno presentato il sacerdote quasi come un “operatore sociale”, rischiando di tradire lo stesso Sacerdozio di Cristo. Come si rivela sempre più urgente l’ermeneutica della continuità per comprendere in modo adeguato i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, analogamente appare necessaria un’ermeneutica che potremmo definire “della continuità sacerdotale”, la quale, partendo da Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, e passando attraverso i duemila anni della storia di grandezza e di santità, di cultura e di pietà, che il Sacerdozio ha scritto nel mondo, giunga fino ai nostri giorni”: Benedetto XVI, Discorso al Convegno teologico “Fedeltà di Cristo, Fedeltà del Sacerdote”, promosso dalla Congregazione per il Clero 12 marzo 2010. 4 5 immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo (Lev 11, 44)” (1 Pt 1, 15-16). I principali testi biblici di riferimento li conosciamo bene: noi siamo stati scelti e costituiti da Cristo per “rimanere” con lui (cfr. Ger 1, 4-5; Mc 3, 13-15; Gv 15, 4-7; Gal 1, 15-16); ci ha assicurato la sua costante presenza (cfr. Mt 28, 18-20) e la forza dello Spirito Santo (cfr. Gv 20, 19-23); lui è il buon pastore, a cui siamo ontologicamente configurati per l’unzione dello Spirito e per questo siamo mandati per dare la vita (cfr. Gv 10, 1-18; Fil 3, 4-9). L’indole cristologia del presbiterato non potrà mai essere messa in discussione. Nondimeno il rischio che possiamo correre per non essere soltanto “uomini del sacro” e “separati”, è di essere risucchiati, senza volerlo, e lentamente svuotati del nostro essere “messi a parte” interamente per Cristo e per la Chiesa, soprattutto nella mentalità, trascurando la dimensione pneumatologica del nostro vivere e operare. Ma come rassomigliare a Cristo, rimanendogli fedeli e non restare lontani dagli uomini? Trovare il punto di equilibrio è sempre difficile. D’altra parte la relazione personale con il Signore è lo spazio santo che ci modella e l’ossigeno che rianima le nostre giornate: solo una robusta base spirituale è il cardine della vita sacerdotale che la fa stare in piedi e la rende feconda. In essa si esprime il nostro essere veri credenti, persone che sanno vedere, giudicare e agire secondo il pensiero di Cristo. Tutto ciò potrebbe sembrare scontato per un prete: purtroppo non lo è. Il problema si pose fin dai primi giorni della Chiesa e i Dodici decisero di dedicarsi anzitutto alla preghiera e al ministero della Parola per rappresentare il Signore nella comunità(cfr At 6, 24). Deve essere così anche per noi. Se ogni giorno la preghiera ha la priorità, la fede non si inaridisce e la nostra presenza tra la gente sarà segno e voce della presenza di Cristo. Quanto più siamo uomini di Dio nello Spirito Santo, tanto più siamo guide e pastori della comunità e non solo animatori5. Nondimeno la preghiera – lo sappiamo bene – non è esercizio facile: è impegno, fatica, resistenza a mille sollecitazioni e distrazioni che erodono il tempo da dedicare ad essa. Domandiamoci: nella vita quotidiana che qualità “Nel tempo in cui viviamo è particolarmente importante che la chiamata a partecipare all’unico Sacerdozio di Cristo nel Ministero ordinato fiorisca nel “carisma della profezia”: c’è grande bisogno di sacerdoti che parlino di Dio al mondo e che presentino a Dio il mondo; uomini non soggetti ad effimere mode culturali, ma capaci di vivere autenticamente quella libertà che solo la certezza dell’appartenenza a Dio è in grado di donare. … Oggi la profezia più necessaria è quella della fedeltà, che partendo dalla Fedeltà di Cristo all’umanità, attraverso la Chiesa ed il Sacerdozio ministeriale, conduca a vivere il proprio sacerdozio nella totale adesione a Cristo e alla Chiesa. Infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.1563; 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo “essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza”: Benedetto XVI, Ibidem. 5 6 e profondità ha la relazione con il Signore nella preghiera? Naturalmente la risposta è personale. Ma solo chi sa ascoltare Dio6, può stare davanti alla comunità in nome di Dio e davanti a Dio a intercedere per la comunità. La gente confida molto nella nostra preghiera e ce la chiede con insistenza. L’intercessione è la prima forma di carità pastorale. La fedeltà alla preghiera fortifica la nostra identità e l’efficacia del ministero. 8. Il prete è a servizio del Vangelo. Un altro aspetto che segna l’identità del sacerdote di oggi è certamente lo slancio missionario. Seppure la missione della Chiesa si è espressa lungo i secoli con modalità e forme diverse, accentuando ora l’una ora l’altra esigenza, il punto focale da cui tutto muove è che, per natura, la Chiesa è estroversa e proiettata verso il mondo e nel dna del prete deve esserci il coraggio di uscire, di essere uomo universale. Annunciare il Vangelo prima di essere un dovere, è legato alla nostra esperienza personale: infatti la Parola di Dio serve per capire noi stessi, gli altri e per guardare il mondo come lo guarda Dio. Non possiamo dunque non sentire il bisogno vitale di estendere l’azione evangelizzatrice. Ne siamo tutti convinti. Io stesso su questo argomento ho avuto occasione di dire molto negli incontri degli anni passati e nelle relazioni ai Convegni pastorali annuali. Riconosciamo tuttavia che non ci è facile modificare la maniera di svolgere il ministero incentrato ancora prevalentemente nella cura dei credenti e dei praticanti attraverso la celebrazione dei sacramenti, il culto e la cura dei poveri. E’ vero pure che l’impegno per portare avanti la pastorale tradizionale è già molto gravoso e per innovare sono necessarie idee, risorse e perseveranza. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti che la situazione della fede è molto cambiata anche a Roma e non possiamo rimanere soltanto dispiaciuti spettatori di un fenomeno che avanza. Qualcuno potrebbe dire: perché darsi tanta pena se la salvezza di Cristo può raggiungere tutti anche attraverso percorsi che non passano attraverso l’opera della Chiesa, in quanto la grazia lavora invisibilmente nel cuore degli uomini di buona volontà (cfr. GS, 22). Si, è vero; ma proprio per questo non deve attenuarsi la spinta missionaria della Chiesa che resta la via ordinaria, più sicura e feconda di salvezza; semmai è necessario darle nuova vitalità e nuova profezia. La metafora biblica del pastore, che Gesù ha prediletto, ci sprona ad agire, a muoverci, ad andare: Gesù camminava sempre, cambiava villaggio di continuo. Annunciare a tutti la Parola per suscitare la fede come incontro con Cristo vivo, motivarla, irrobustirla, è lo scopo originario del nostro sacerdozio. Passi avanti negli anni del post-Concilio sono stati fatti; la nostra Leggiamo nel profeta Isaia: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina [Egli] fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50, 4). 6 7 diocesi con il Sinodo diocesano ha marcato fortemente questa prospettiva, ma dobbiamo camminare ancora, sia sviluppando l’intonazione di annuncio del Vangelo a tutto il ministero presbiterale, sia promuovendo nei laici la mentalità e la responsabilità missionaria7. Vi chiedo un pò più di coraggio per ripensare il modello organizzativo della pastorale parrocchiale, il calendario e gli orari settimanali delle attività, valutando se c’è proporzione tra la cura gregis e l’azione a favore dell’annuncio del Vangelo e cercando di ritagliare per voi e per i vostri collaboratori capaci un po’ di tempo da dedicare all’evangelizzazione dei lontani. Nel dilagante “analfabetismo religioso” - per usare un’eufemismo – anche tanti battezzati hanno bisogno di scoprire la fede come compagnia di Cristo e di conoscerlo non in modo vago e incerto, ma come Verità; solo allora sentiranno il comportamento morale come vincolante in coscienza. A esperienze come i gruppi di ascolto della Parola, così fortunati ai tempi della Missione cittadina, alla lectio divina o a forme simili, alle periodiche catechesi che facciano vivere con maggiore frutto l’Eucaristia domenicale e prendere coscienza di una vita di carità, e adesso agli itinerari di accompagnamento dei genitori dei bambini battezzati, non dobbiamo rinunciare, liquidando sbrigativamente queste indicazioni pastorali per effetto di qualche insuccesso o perché pregiudizialmente ritenute irrealizzabili. Sul tema del generare alla fede arricchiamo la pastorale ordinaria aiutando la gente a pensare, avvalendoci del Catechismo della Chiesa Cattolica e soprattutto del Compendio dello stesso Catechismo. Mi domando se non si dovrà ritornare anche a trasmettere con formule sintetiche da far imparare a memoria i contenuti essenziali della fede, dopo che sono stati ben spiegati e capiti, visto che l’esperienza ci dice che conclusi i percorsi di catechesi tutto svanisce. Apriamo un dibattito su questo tema. Sento poi, cari Confratelli, di esprimere pubblica riconoscenza ai Parroci che si impegnano nella formazione dei collaboratori pastorali o che li incoraggiano a partecipare ai percorsi formativi diocesani, apprezzandone anche i frutti. Semmai vorrei dirvi ancora una volta di non scoraggiarvi se la risposta ai vostri inviti e sollecitazioni non è sempre numericamente ripagata. Perseveriamo, con pazienza. 9. Dal presbitero al presbiterio. La rivisitazione del presbiterato alla luce del Concilio mi porta a dire ancora una parola sull’essere presbiterio. Anche Cost. Lumen gentium, n. 30:. “I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, all’opera comune”. 7 8 su questo punto la teologia non sembra costituire un problema8; è la vita ad essere messa alla prova. Non è infatti scontato che il presbiterio sia sempre espressione di comunione vissuta, capace di apportare benessere alla vita personale e di tessere relazioni che qualificano e sostengono il corpo sacerdotale. Ho già toccato questo argomento nell’incontro dell’anno scorso, allorché vi parlavo della necessità di praticare il discernimento spirituale e di far crescere l’uomo interiore con lo sguardo fisso alla persona di Gesù. Mi soffermavo pure sul bisogno della fraternità e dell’amicizia tra noi preti9. Permettete che ritorni ancora sull’argomento da un particolare angolo di osservazione, quello delle relazioni interpersonali. Nel contesto della società secolarizzata, in larghi strati indifferente e talvolta perfino ostile verso la Chiesa per effetto di una ingiusta perdita di considerazione e di fiducia sociale, le relazioni presbiterali assumono un valore ancora più importante, guardando anche alle nuove generazioni di sacerdoti, i quali nella società complessa sono particolarmente esposti ai rischi di un presbiterato più vulnerabile. In verità, se guardiamo a tanti nostri presbitèri parrocchiali o di altri ministeri, dobbiamo ringraziare il Signore per la vita che vi regna, improntata ad uno stile fraterno e cordiale, sincero, aperto e costruttivo, che sostiene e sviluppa relazioni di comunione e di reciproca edificazione. La vita di presbiterio è una grazia. Ciascuno vive serenamente, la dedizione al ministero è generosa e feconda e i rapporti tra i sacerdoti si conservano intensi anche quando per sopraggiunti trasferimenti si continua a frequentarsi. Ma potrebbe non essere sempre così. Uscire dal proprio particolare per sentirsi dentro la realtà del presbiterio, come luogo dove ognuno si ritrova migliore, è una meta per raggiungere la quale è necessaria una forte determinazione, frutto di fede, di chiari e condivisi principi, di disposizione psicologica, di fiducia reciproca, di buona volontà. Non è automatico che la vita di presbiterio riesca sempre ad attivare rapporti significativi e un ambiente umanamente ricco e di vera fraternità; potrebbe limitarsi al reciproco rispetto e alla collaborazione pastorale. Naturalmente 8 Leggiamo nel Libro del Sinodo della Diocesi di Roma: “La Chiesa di Roma curerà la crescita della comunione e della fraternità sacerdotale tra tutti i presbiteri presenti in essa a vario titolo, con particolare attenzione ai parroci, ai vicari parrocchiali, ai religiosi incaricati di servizi diocesani” (p.84). E nella parte espositiva si motiva questo obiettivo, citando un passaggio dell’Esort. Apost. Pastores dabo vobis, con queste parole: “La realtà della comunione è fondamentale anche per l’identità e l’esercizio del ministero presbiterale. Esso, «in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l’inserimento sacramentale nell’ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto come un’opera collettiva»” ( p. 69). 9 Incontro con il Presbiterio di Roma, 26 settembre 2011. 9 spero che da noi non succeda. Che cosa potrebbe avvenire? Mi limito a due esemplificazioni. Nell’esercizio del ministero presbiterale si incrociano almeno tre istanze: la mole del lavoro pastorale, il ruolo ministeriale e il modo con cui il sacerdote lo interpreta e lo vive e le aspettative dei confratelli e della comunità. Combinare insieme queste tre dimensioni e viverle in una sintesi serena e armonica, è un processo lento, non privo di ostacoli, che può realizzarsi o non realizzarsi, per cui le relazioni tra i presbiteri possono diventare difficili e sofferte. Può capitare, ad esempio, che il ministero assegnato sia vissuto come un peso rispetto a ciò che si desidererebbe fare; o che sia visto come un ingranaggio spersonalizzante e limitante; oppure come una pesante responsabilità. Da ciò può nascere insoddisfazione, malessere, scontento, che spinge ad evadere, a ritagliarsi ampi spazi di vita privata e perfino può portare ad una incrinatura tra identità personale e ruolo ministeriale. Di qui la perdita di passione e di convinzione nel fare le cose, fino ad un diffuso senso di disaffezione, a comportamenti che tendono allo sconforto e alla chiusura. Tutto ciò è vissuto male, oltre che dalla persona del sacerdote, anche dai confratelli e le relazioni in seno al presbiterio si deteriorano. Può darsi, al contrario, il caso di chi si identifica con il proprio ruolo ministeriale al punto da farlo pesare sugli altri sacerdoti, oppure che un normale insuccesso faccia nascere una profonda crisi o percepire come avverso l’ambiente sacerdotale che lo circonda. Vivere il ministero secondo visioni personalistiche con atteggiamenti rigidi, o al contrario ingigantire le difficoltà, può condurre ad infrangere le relazioni. La seconda esemplificazione non riguarda tanto l’azione pastorale quanto il modo di rapportarsi tra confratelli. Potrebbe avvenire che il sacerdote consideri come non riconosciuto l’impegno da lui profuso nel ministero, si senta giudicato e viva quasi come da estraneo la sua presenza nel presbiterio. Ciò può essere particolarmente acuto nel rapporto tra parroco e viceparroco, e quest’ultimo vive male la relazione per non sentirsi rispettato nei suoi modi di operare. Talvolta il mancato percepito apprezzamento non risponde al vero, ma il rapporto è bloccato. Così le relazioni si riducono al minimo e solo in funzione delle attività da svolgere, c’è poca stima, non si parla, non ci si ascolta, si considera più il ruolo che la persona e la superficialità dei rapporti favorisce il pregiudizio. Allora per quieto vivere ci si chiude, si ha paura di dire ciò che si pensa per il timore di essere giudicati. La solitudine sembra essere più rassicurante che una relazione difficile o addirittura conflittuale. Cresce pian piano un atteggiamento di sfiducia reciproca, di rinuncia, ciascuno resta nelle proprie idee e ci si isola. L’isolamento – dobbiamo dirlo con chiarezza - è il veleno della vita sacerdotale. Questo stato di cose può far emergere anche la questione 10 affettiva e chi vive in questo stato di disagio arriva a chiedersi: oltre il Signore, c’è qualcuno che mi vuole bene? 10. Domandiamoci: in che modo il presbiterio, categoria teologica e sociologica, può diventare un ambiente di vita buona dove il singolo presbitero si arricchisce e si esprime in pienezza? 1) A me sembra importante, in primo luogo, avere un rapporto equilibrato con l’ideale sacerdotale. Oggettivamente il sacerdozio è e resta un ideale altissimo, a cui mirare costantemente, ma con la consapevolezza che esso è prima di tutto un dono, una grazia da desiderare e chiedere con insistenza, più che una conquista umana di coerenza. Nei suoi confronti ci si deve atteggiare con umiltà e docilità e le difficoltà non devono farci cadere in continue crisi esistenziali. D’altra parte, bisogna fuggire quella che qualcuno ha chiamato giustamente “l’ipertrofia del giudizio”, vale a dire l’alto concetto del sacerdozio che porta a considerare il sacerdote come impeccabile per il solo fatto di essere sacerdote. E’ importante allora abbandonare il modello perfezionista di sacerdote per condividere quello del sacerdote “sulla via della perfezione”. Nel primo i limiti e le deficienze ufficialmente inaccettate possono generare giudizi severi, relazioni insincere e talvolta perfino ipocrite; nel secondo, muovendo dalla considerazione di ciò che realmente siamo per carattere, formazione, stili di vita, sensibilità generazionali, si è disposti a valutazioni comprensive e a prestarsi aiuto vicendevole. 2) E’ un errore ritenere che tutto dipende dalla persona. L’identità presbiterale è sì legata alle capacità e alle virtù di ciascuno, ma per il fatto che si esprime con comportamenti di natura relazionale - non si è sacerdoti per sé - insieme all’impegno della persona sono chiamati in causa anche gli altri, particolarmente i confratelli con i quali si condivide il ministero e la vita. Le gioie e le pene dei preti appartengono a tutti i preti. La fraternità presbiterale è una modalità specifica di appartenenza alla Chiesa che geneticamente trae origine dalla comunione trinitaria e l’ontologia del sacramento dell’ordine connota l’identità del prete così che le relazioni presbiterali non devono essere selettive ma inclusive. Sono importanti e da incoraggiare qualunque tipo di relazioni tra confratelli che nascono con motivazioni particolari (si pensi alla fraternità cresciuta negli anni di seminario o all’appartenenza ad un movimento spirituale), ma non bastano e non devono esaurirsi in esse. Per promuovere relazioni inclusive dobbiamo prestare attenzione anche alle condizioni umane che le favoriscono, quali la fiducia di base, l’accoglienza cordiale, l’attitudine ad evidenziare le qualità positive prima dei limiti, la disponibilità a fare sempre la verità con franchezza, a venirsi incontro, rispettando le diversità, il sentirsi corresponsabili, la tolleranza su ciò che non è essenziale, il trattarsi con sano 11 umorismo. E’ poi indispensabile coltivare le virtù cristiane: la carità10, la magnanimità, la pazienza, convinti di essere tutti fallibili, tutti in cammino e tutti bisognosi di aiuto. Quando un nuovo confratello arriva nel presbiterio parrocchiale non è bene che sia preceduto dal giudizio del presbiterio di provenienza, ma che sia accolto come un’opportunità offerta dal Signore a tutti per fare un pezzo di strada insieme a servizio della comune vocazione; allora la fraternità e l’amicizia avranno la strada spianata e prenderà forza la coscienza dell’unità come un bene personale. Certo, tutto ciò non è facile senza essere disponibili a rivedere i propri schemi mentali e atteggiamenti per costruirne dei nuovi. La comunità sacerdotale è la palestra in cui ognuno di noi sviluppa se stesso come discepolo di Cristo. La crescita della coscienza del presbiterio domanda un ambiente favorevole. Dobbiamo essere fiduciosi di riuscirci se consideriamo le relazioni tra noi come un bene primario da non sacrificare mai a nulla, neanche all’attività pastorale, che non porterebbe frutto senza il seme della testimonianza. Il Vangelo, messaggio di amore, non può essere efficacemente annunciato da persone che stanno male o non si vogliono bene. 11. Nella citata Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, il Beato Giovanni Paolo II affermava che oggi al sacerdote è necessaria una “formazione permanente capace di sostenere in modo realistico ed efficace il ministero e la vita spirituale”. La nostra Diocesi da molti anni ha assicurato percorsi di formazione permanente per le varie fasce d’età dei presbiteri. Da più di un anno il Consiglio presbiterale ha messo a tema la necessità di adeguare le iniziative alle esigenze di oggi. Confido che si possa arrivare in tempi ragionevoli a proposte efficaci e condivise: ne sentiamo tutti l’urgenza. Il Padre Amedeo Cencini, invitato a parlare sull’argomento al Consiglio Presbiterale, sottolineava che il ministero stesso è fonte inesauribile di formazione del presbitero, perché è esperienza sempre nuova di Dio che parla attraverso le umane vicissitudini. Per questo il prete deve allenarsi alla docilità spirituale, cioè a quell’atteggiamento interiore di voler imparare sempre dalla vita. A questa ordinaria formazione permanente si accompagna poi una formazione straordinaria, che può giovarsi di opportune iniziative. Vorrei raccomandarvi anche di utilizzare la nostra cosiddetta regola di vita – il libro Scelto da Dio per gli uomini – pubblicato e distribuito la scorsa Quaresima, frutto di un lungo e generoso lavoro del Consiglio presbiterale. E’ uno strumento che può aiutarci a riflettere sia sui fondamentali che sulle S. Teresa di Lisieux scrive nella sua autobiografia: “La carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, non stupirsi delle loro debolezze. Edificarsi nei piccoli atti di virtù che si vedono praticare, ma soprattutto nel comprendere che questa regina delle virtù non deve assolutamente restare chiusa in fondo al cuore”. 10 12 articolazioni della nostra vita di preti romani. Mi permetto di incoraggiarvi ad usarlo personalmente e negli incontri di prefettura e di settore. 12. Ed ora molto brevemente qualche informazione sull’anno pastorale che oggi ufficialmente inauguriamo. 1) E’ giunta a tutti voi per e-mail (oggi è disponibile anche in cartaceo) la Lettera per l’attuazione del Convegno diocesano 2012 sulla pastorale battesimale. Pregherai di farne attenta lettura e riflessione con gli operatori pastorali per individuare le forme di attuazione. Don Andrea Lonardo e i suoi collaboratori hanno predisposto un sussidio di pastorale battesimale che, per una prima parte, troverete on-line nei prossimi giorni. Si tratta di uno strumento, una bozza di un futuro testo, da sperimentare nelle parrocchie. Invito i parroci ad usarlo e ad offrire i suggerimenti migliorativi che riterranno opportuni. Ringrazio di cuore chi lo ha preparato con vera passione pastorale. Al riguardo dirà subito qualcosa Don Andrea. 2) Per L’Anno della fede non abbiamo previsto, a livello diocesano, un programma intenso, per una ragione evidente: il progetto pastorale di questi anni ha come pietra angolare l’annuncio della fede per riscoprire e rinsaldare l’identità cristiana e molte iniziative già impegnano non poco: mi riferisco ai gruppi del Vangelo nelle case, alla lectio divina, ai percorsi di catechesi per formare alla fruttuosa celebrazione dell’Eucarestia domenicale e ora gli itinerari di catechesi post-battesimale. Pertanto è parso opportuno promuovere soltanto qualche iniziativa, che elenco rapidamente: - come Diocesi apriremo l’Anno della Fede partecipando, la sera dell’11 ottobre prossimo, in ricordo del 50° di apertura del Concilio, alla Fiaccolata da Castel S. Angelo a Piazza San Pietro dove saremo accolti dal Santo Padre; - ad ogni parrocchia o altra comunità è chiesto di organizzare un periodo di annuncio e di catechesi sul Credo, in forma di piccola missione popolare o di incontri11, che si concluda con un pellegrinaggio alle Basiliche di San Giovanni, di San Pietro, o alle Catacombe per rinnovare la professione di fede. Vorremmo aiutare i fedeli a riscoprire il Credo come gioiosa proclamazione dell’incontro con il Signore. Accogliendo la proposta del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione suggerisco poi che la preghiera del Credo possa diventare la preghiera Congregzione per la Dottrina della Fede, Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede, 6 gennaio 2012, n. 6. 11 13 quotidiana di ogni cristiano. Si suggerisce anche che i Centri culturali delle parrocchie e di altre realtà ecclesiali nel corso dell’anno programmino conferenze e dibattiti sui documenti del Concilio Vaticano II e sul Catechismo della Chiesa Cattolica. Nei prossimi giorni sarà messo on-line un vademecum con suggerimenti, proposte, formulari di celebrazioni per lo svolgimento delle iniziative che ogni parrocchia intenderà attuare. Per il pellegrinaggio l’Opera Romana Pellegrinaggi è disponibile ad aiutare con itinerari particolari; - negli ospedali la piccola missione si potrà concludere con la visita delle reliquie di San Pio da Pietrelcina e del Beato Giovanni Paolo II; - per noi sacerdoti sono previsti tre incontri diocesani (in sostituzione di altrettanti incontri di settore) durante i quali ascolteremo tre testimoni della fede. Il primo avrà luogo il 15 novembre alle ore 10 qui in San Giovanni e sarà guidato dal Signor Jean Vanier, fondatore della comunità L’Arche. Il secondo incontro è quello tradizionale con il Santo Padre, 14 febbraio 2013, giovedì dopo le Ceneri. Nel terzo, l’11 aprile, ascolteremo il Card. Camillo Ruini sul tema “Il Catechismo della Chiesa Cattolica come strumento di evangelizzazione oggi”. - All’Anno della Fede saranno dedicati anche i Dialoghi in Cattedrale di quest’anno e tutte le altre iniziative culturali diocesane organizzate dai vari uffici. 13. Cari Confratelli, ha scritto il Papa in Porta fidei, 6: “Il rinnovamento della Chiesa passa attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti”, che fanno “risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato”. Ciò vale tanto di più per noi sacerdoti, a cui il Signore ha affidato la sua Chiesa. Vi auguro di cuore di vivere con intensità la grazia di questo Anno della fede, perché la nostra testimonianza risplenda nella comunità a noi affidate. Agostino Card. Vallini 14