Relazione all`Incontro Diocesano del Clero

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Cari Confratelli!
1. Riprendiamo il cammino dopo la pausa estiva, che spero sia servita,
almeno per qualche giorno, a rinfrancarvi nel corpo e nello spirito. Dinanzi a
noi sta la Chiesa di Roma e la sua missione in questa città: una città in
continua evoluzione, con la sua vita complessa, frenetica, anonima, nella
quale c’è gente che sta bene e tanta sta male, dove il tessuto sociale è irritato
per gli scandali, i privilegi e i ripetuti spietati delitti, con persone che vivono
gioiosamente l’appartenenza alla comunità ecclesiale e altre sono indifferenti
e lontane. E noi siamo i pastori di tutto questo gregge.
Si apre un nuovo anno pastorale, alla vigilia dell’Anno della Fede e del
Sinodo mondiale che rifletterà sulle sfide all’evangelizzazione a 50 anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II. Nella nostra diocesi stiamo portando
avanti con impegno, da quattro anni, un progetto pastorale che mira ad
adeguare la pastorale ordinaria alle urgenze di una Chiesa più incisivamente
missionaria. Dopo il Convegno diocesano dello scorso giugno ci cimentiamo
con una più aggiornata pastorale battesimale che aspira a coinvolgere le
famiglie. Siamo dentro un cantiere aperto; ci è richiesto coraggio e fantasia,
senza mai cedere alla rassegnazione. Guardando le cose più in profondità,
sorgono spontanee alcune domande: a 50 anni dal Concilio, dove va la nostra
Chiesa? Come risponde al mandato di Cristo di evangelizzare Roma?
Naturalmente non ho la pretesa di rispondere a interrogativi così
impegnativi, ma solo di suscitare attenzione e di aprire prospettive su uno
sfondo più generale.
2. Questa assemblea presbiterale di inizio d’anno mi offre l’occasione
per riflettere su alcuni aspetti che riguardano soprattutto noi sacerdoti: in un
mondo dispersivo e confuso è importante ritornare ai fondamentali della
nostra vita. L’Anno della fede è un forte invito a riaffermare e fortificare
anzitutto la nostra identità presbiterale. Viviamo in un tempo in cui c’è crisi
d’identità un pò dappertutto: nelle famiglie (chi è oggi il padre? cosa vuol dire
fare la madre?), nella scuola, nelle istituzioni, nella politica. E chi siamo noi
sacerdoti in una società secolarizzata, ormai multietnica e multireligiosa? Che
ne è di noi come credenti? Prima di ogni questione pastorale c’è il nostro
essere discepoli. Per rapidi cenni vorrei richiamare il vissuto presbiterale di
questi decenni, con lo sguardo rivolto al Concilio e al momento presente.
3. Nelle intenzioni e nelle parole del Beato Giovanni XXIII il Concilio
doveva “trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o
travisamenti… [perché venga] approfondita e presentata in modo che
1
corrisponda alle esigenze del nostro tempo”1. Il Vaticano II ha aperto nuovi
sentieri, ha fatto scaturire onde di acque sepolte e fresche, ha acceso luci
brillanti per rischiarare il cammino della Chiesa nel terzo millennio.
Considerando solo le quattro Costituzioni conciliari, la Chiesa è stata
presentata come una comunità orante che trova nella liturgia il culmine e la
fonte della sua vita (SC, 10), che ascolta la Parola per mettere al centro il
primato di Dio(DV,1), che si riscopre popolo di Dio, plebs adunata, con una
vocazione comune, prima di ciò che distingue secondo i carismi e i ministeri
(LG, 4), e come una comunità per gli uomini, che guarda al mondo con uno
sguardo nuovo, non per condannarlo ma per prendere coscienza che lo Spirito
di Dio è sempre all’opera (GS, 22).
Che cosa è successo negli anni del post-Concilio? La ricezione della
dottrina conciliare non è avvenuta sempre e dovunque nel modo giusto. L’
“ermeneutica della discontinuità e della rottura”, contrapposta all'
“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità - come ha
affermato il Papa Benedetto XVI nel famoso discorso alla Curia Romana il
22 dicembre 2005 - ha portato disorientamento, ha dato spazio ad estrosità,
così che il vero messaggio rinnovatore del Concilio non è stato sempre bene
interpretato e talvolta è stato stravolto. Chi di noi è avanti negli anni ricorda
che, in quel periodo, anche la figura del presbitero è stata descritta in modo
non sempre confacente e corretto con le linee conciliari. Il Vaticano II non ha
proposto un modello prefabbricato di prete; piuttosto ha indicato alcuni
lineamenti, opportuni adattamenti, ha accentuato aspetti prima poco
evidenziati, che però non andavano assolutizzati ma armonizzati nell’insieme.
Le principali linee di tendenza emerse dai documenti del Concilio sono state le
seguenti:
1) il ministero ordinato non precede il popolo di Dio ma è all’interno e
al servizio della missione di tutta la Chiesa. Al tempo stesso è stata attenuata
la prevalenza cultuale della figura del presbitero ed esaltata una sua più
incisiva affermazione ministeriale. Il sacerdote è un “messo a parte”, ma
“vive in mezzo agli altri uomini” (PO, 3) per l’opera a cui il Signore lo ha
chiamato. Egli non potrebbe essere ministro di Cristo se non fosse testimone e
dispensatore di una vita diversa da quella terrena; ma non potrebbe
nemmeno servire gli uomini se si estraniasse dalla loro vita e dal loro
ambiente. Dunque non è al di fuori o al di sopra del popolo, ma è collocato
nell’unità diversificata del popolo di Dio.
2) Il sacerdote non è solo a servizio della comunità dei credenti, è anche
il primo responsabile dell’evangelizzazione di tutti gli uomini. In un tempo in
cui la maggioranza erano battezzati e credenti il suo compito principale era
quello del catechista; ora che la parrocchia è terra di missione, il prete è
chiamato a essere di più evangelizzatore.
1
Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962.
2
3) In una Chiesa tutta ministeriale, non è più esclusiva la figura del
prete unico ministro nella comunità, è sottolineata quella del sacerdote
suscitatore e promotore di ministeri e carismi per l’edificazione del popolo di
Dio (PO, 9). Egli deve armonizzare i diversi doni senza rinunciare ad essere
essenziale al tutto secondo una propria specificità, in virtù del sacramento
dell’Ordine.
4) La tradizionale figura del sacerdote indipendente e autonomo (si
pensi, ad esempio, agli effetti del sistema beneficiale sulla vita sacerdotale) ha
ceduto il posto a quella di membro del presbiterio, a cui fare riferimento non
occasionale e formale, ma un riferimento qualificante in ragione del legame
sacramentale e del vincolo con il Vescovo, successore degli apostoli, centro di
unità nella Chiesa particolare. Di qui il superamento dello stile
individualistico nell’esercizio del ministero per condividere le fatiche e le
speranze di un cammino comune.
4. Queste linee di tendenza, negli anni successivi al Concilio, hanno
portato ad un’autocomprensione della figura del presbitero espressa in alcuni
casi con teorie e prassi manifestamente problematiche, con crisi esistenziali
sul piano psicologico e sociologico. Il tessuto presbiterale non di rado è stato
lacerato da forzature fuorvianti ed estreme fino a perdere il nucleo essenziale
irrinunciabile voluto dalla volontà fondativa di Cristo. Il grande pontefice
Paolo VI così si esprimeva al riguardo: "E’ nata come una incertezza che ha
investito la natura stessa del sacerdozio, la sua formazione umana ed
ecclesiastica, la sua funzione apostolica, la sua posizione gerarchica e
sociologica"2. Si ponevano domande inquietanti sull'essere o meno il
sacerdozio un carisma sacramentale, oppure se il presbiterato non dovesse
essere considerato una semplice funzione di servizio alla comunità di cui era
emanazione, con discussioni infinite sul rapporto tra sacerdozio comune e
sacerdozio ministeriale. A mettere in dubbio la concezione tradizionale del
sacerdote contribuì anche il crescente processo di secolarizzazione e le
pressioni antistituzionali che in quel tempo erano molto forti. In una società
secolarizzata, la figura del prete diventava sempre più contestabile, a
differenza del passato in cui egli aveva una funzione sociologicamente
riconosciuta. Alcuni sacerdoti, non volendo dare l'impressione di restare
indietro, si abbandonarono ad un progressismo avanzato; altri, all’opposto,
ad una resistenza tenace contro tutto ciò che si presentava come nuovo,
dimenticando che difendere la fede non vuol dire non esprimerla in maniera
adeguata ai tempi.
In quella temperie la gran parte dei sacerdoti abbiamo vissuto nella
fedeltà al Magistero della Chiesa che, attraverso la voce di Paolo VI e di
Giovanni Paolo II, in continuità con i testi del Concilio, ha continuato a
2
Discorso ai Cardinali, 15 dicembre 1969.
3
testimoniare la sollecitudine per la vita e il ministero dei presbiteri, facendo
chiarezza sui problemi che di volta in volta si presentavano. Le occasioni più
solenni sono state le Assemblee del Sinodo dei Vescovi del 1971, del 1974 e del
1990. Negli anni successivi l’attenzione al problema dell’identità si è
attenuata, si è trovato un equilibrio tra i diversi tratti somatici così che la
fisionomia del sacerdote adombrata dal Concilio è emersa più chiara. Oggi,
nella dottrina come nella spiritualità, nella pastorale come nella disciplina, il
sacerdote è pacificamente descritto uomo di Dio a servizio della Chiesa,
evangelizzatore e catecheta, promotore di carismi e vocazioni senza
rinunciare al suo ministero specifico di pastore, membro dell’unico
presbiterio. Gli organismi pastorali di partecipazione, regolati
canonicamente, hanno fatto e continuano a fare la loro parte, seppure
talvolta non mancano fatiche e lentezze.
5. I problemi semmai sono altri e derivano non dalla teologia del
sacerdozio, ma per un verso dalla poco approfondita conoscenza e
assimilazione di tutto il corpo della dottrina conciliare e del vero spirito del
Concilio, e per l’altro dal contesto socio-culturale in cui siamo immersi.
Conservano piena attualità le parole che Giovanni Paolo II ha scritto
nell’introduzione dell’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis (1992): “I
sacerdoti… sembrano oggi soffrire di eccessiva dispersione nelle sempre
crescenti attività pastorali e, di fronte alle difficoltà della società e della
cultura contemporanea, si sentono costretti a ripensare i loro stili di vita e le
priorità degli impegni pastorali, mentre avvertono sempre più la necessità di
una formazione permanente capace di sostenere in modo realistico ed efficace
il ministero e la vita spirituale”. Pertanto, le questioni che ci stanno davanti
potremmo compendiarle così: come resistere al pericolo della dispersione?
Come salvare le priorità essenziali della vita sacerdotale quotidiana senza
venir meno alla generosità di essere a tempo pieno a servizio del popolo? E
come custodire l’identità che, senza atteggiamenti di chiusura, sappia
discernere negli uomini di oggi i richiami impliciti al Vangelo e vi trovi
materia di dialogo? Ripercorrendo gli apporti della dottrina conciliare, a me
sembra che dovremmo difendere e sviluppare i lineamenti essenziali del
presbiterato che fanno bella e ricca di significato e di passione apostolica la
nostra vita.
6. Il presbitero nell’autocomprensione della Chiesa. Un primo aspetto è di
ancorare la vita sacerdotale all’autocomprensione del mistero della Chiesa
“sacramento di salvezza”, cioè della Chiesa “segno e strumento dell’intima
unione (degli uomini) con Dio e dell’unità del genere umano” (LG, 1). Che
cosa vuol dire? Che alla radice della Chiesa - dunque del nostro essere preti c’è la chiamata a realizzare l’unione degli uomini con Dio e tra di loro,
4
un’unione iscritta nel disegno del Creatore, che risponde alle più profonde
aspirazioni del cuore umano ed è la sintesi della perfezione cristiana. Come
tutti i ministeri, il presbiterato contribuisce a far vivere la Chiesa, nella quale
noi siamo i cooperatori di Dio, e perché tali dobbiamo interiorizzare e
personalizzare le grandi finalità della Chiesa, che illuminano la nostra
spiritualità e danno ragione e sostanza alla nostra vita personale.
Naturalmente non va dimenticato che la realizzazione storica di questo
progetto è attraversata da spinte contrastanti e contraddittorie prodotte
variamente dalla libertà e dal peccato degli uomini. La sfida è impegnativa,
perché la cultura contemporanea, da Nietzsche in poi, ha scardinato la
relazione degli uomini con Dio e tra di loro; e dunque dobbiamo sapere di
dover remare contro vento. Nonostante ciò, non possiamo venir meno alla
realizzazione di questo disegno, motivato dal precetto dell’amore di Dio e del
prossimo e dalla certezza che solo Cristo risana le ferite della creazione
corrotta dal peccato. In un mondo lacerato dall’egoismo, dalla violenza e dalle
ingiustizie, come suoi ministri, forti della profezia del Vangelo, dobbiamo
porci come uomini di riconciliazione e di pace. Dunque ottimismo e fiducia!
Siamo in prima fila, con tutti gli uomini di buona volontà, per essere artefici
di unità attraverso la nostra capacità di dialogo, di condivisione, di
comprensione, di perdono, sentendoci “realmente e intimamente solidali con il
genere umano” (GS, 1). L’inno alla carità di San Paolo (cfr. 1 Cor 13, 1-13) è
un importante riferimento per sentirci dentro un disegno di carità e saper
cogliere il positivo nelle vicende umane, valorizzare ciò che unisce, sentire e
far sentire il senso di umanità3.
7. Il volto del prete è quello di Cristo. E’ di tutta evidenza, cari
Confratelli, che sono cambiati i tempi e le sensibilità culturali, anche solo
rispetto a dieci anni fa; è cresciuta la coscienza della soggettività della
persona, le esigenze individuali hanno assunto carattere di quasi necessità; lo
stile di vita è diventato più libero; sono entrate con sempre maggiore
invadenza nella vita privata le nuove tecnologie, ma la fisionomia essenziale
del sacerdote non muta, il volto del presbitero non potrà mai discostarsi dal
rassomigliare a Cristo4. L’invito dell’apostolo Pietro ci riguarda: “Ad
Ciò che il Concilio dice di tutta la Chiesa, vale a maggior ragione per noi sacerdoti: “Nel suo dovere di
promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa considera qui anzitutto ciò che gli uomini
hanno in comune e li spinge a vivere insieme il loro comune destino”: Dich. Nostra aetate, n. 1.
3
“E’ importante superare pericolosi riduzionismi, che, nei decenni passati, utilizzando categorie più
funzionalistiche che ontologiche, hanno presentato il sacerdote quasi come un “operatore sociale”, rischiando di
tradire lo stesso Sacerdozio di Cristo. Come si rivela sempre più urgente l’ermeneutica della continuità per
comprendere in modo adeguato i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, analogamente appare necessaria
un’ermeneutica che potremmo definire “della continuità sacerdotale”, la quale, partendo da Gesù di Nazaret,
Signore e Cristo, e passando attraverso i duemila anni della storia di grandezza e di santità, di cultura e di pietà,
che il Sacerdozio ha scritto nel mondo, giunga fino ai nostri giorni”: Benedetto XVI, Discorso al Convegno
teologico “Fedeltà di Cristo, Fedeltà del Sacerdote”, promosso dalla Congregazione per il Clero 12 marzo 2010.
4
5
immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la
vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo (Lev
11, 44)” (1 Pt 1, 15-16). I principali testi biblici di riferimento li conosciamo
bene: noi siamo stati scelti e costituiti da Cristo per “rimanere” con lui (cfr.
Ger 1, 4-5; Mc 3, 13-15; Gv 15, 4-7; Gal 1, 15-16); ci ha assicurato la sua
costante presenza (cfr. Mt 28, 18-20) e la forza dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,
19-23); lui è il buon pastore, a cui siamo ontologicamente configurati per
l’unzione dello Spirito e per questo siamo mandati per dare la vita (cfr. Gv 10,
1-18; Fil 3, 4-9). L’indole cristologia del presbiterato non potrà mai essere
messa in discussione.
Nondimeno il rischio che possiamo correre per non essere soltanto
“uomini del sacro” e “separati”, è di essere risucchiati, senza volerlo, e
lentamente svuotati del nostro essere “messi a parte” interamente per Cristo e
per la Chiesa, soprattutto nella mentalità, trascurando la dimensione
pneumatologica del nostro vivere e operare.
Ma come rassomigliare a Cristo, rimanendogli fedeli e non restare
lontani dagli uomini? Trovare il punto di equilibrio è sempre difficile. D’altra
parte la relazione personale con il Signore è lo spazio santo che ci modella e
l’ossigeno che rianima le nostre giornate: solo una robusta base spirituale è il
cardine della vita sacerdotale che la fa stare in piedi e la rende feconda. In
essa si esprime il nostro essere veri credenti, persone che sanno vedere,
giudicare e agire secondo il pensiero di Cristo. Tutto ciò potrebbe sembrare
scontato per un prete: purtroppo non lo è. Il problema si pose fin dai primi
giorni della Chiesa e i Dodici decisero di dedicarsi anzitutto alla preghiera e al
ministero della Parola per rappresentare il Signore nella comunità(cfr At 6, 24). Deve essere così anche per noi. Se ogni giorno la preghiera ha la priorità,
la fede non si inaridisce e la nostra presenza tra la gente sarà segno e voce
della presenza di Cristo. Quanto più siamo uomini di Dio nello Spirito Santo,
tanto più siamo guide e pastori della comunità e non solo animatori5.
Nondimeno la preghiera – lo sappiamo bene – non è esercizio facile: è
impegno, fatica, resistenza a mille sollecitazioni e distrazioni che erodono il
tempo da dedicare ad essa. Domandiamoci: nella vita quotidiana che qualità
“Nel tempo in cui viviamo è particolarmente importante che la chiamata a partecipare all’unico Sacerdozio
di Cristo nel Ministero ordinato fiorisca nel “carisma della profezia”: c’è grande bisogno di sacerdoti che
parlino di Dio al mondo e che presentino a Dio il mondo; uomini non soggetti ad effimere mode culturali, ma
capaci di vivere autenticamente quella libertà che solo la certezza dell’appartenenza a Dio è in grado di
donare. … Oggi la profezia più necessaria è quella della fedeltà, che partendo dalla Fedeltà di Cristo
all’umanità, attraverso la Chiesa ed il Sacerdozio ministeriale, conduca a vivere il proprio sacerdozio nella
totale adesione a Cristo e alla Chiesa. Infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo
sacramentale ricevuto (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.1563; 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo
“essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza”: Benedetto
XVI, Ibidem.
5
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e profondità ha la relazione con il Signore nella preghiera? Naturalmente la
risposta è personale. Ma solo chi sa ascoltare Dio6, può stare davanti alla
comunità in nome di Dio e davanti a Dio a intercedere per la comunità. La
gente confida molto nella nostra preghiera e ce la chiede con insistenza.
L’intercessione è la prima forma di carità pastorale. La fedeltà alla preghiera
fortifica la nostra identità e l’efficacia del ministero.
8. Il prete è a servizio del Vangelo. Un altro aspetto che segna l’identità
del sacerdote di oggi è certamente lo slancio missionario. Seppure la missione
della Chiesa si è espressa lungo i secoli con modalità e forme diverse,
accentuando ora l’una ora l’altra esigenza, il punto focale da cui tutto muove
è che, per natura, la Chiesa è estroversa e proiettata verso il mondo e nel dna
del prete deve esserci il coraggio di uscire, di essere uomo universale.
Annunciare il Vangelo prima di essere un dovere, è legato alla nostra
esperienza personale: infatti la Parola di Dio serve per capire noi stessi, gli
altri e per guardare il mondo come lo guarda Dio. Non possiamo dunque non
sentire il bisogno vitale di estendere l’azione evangelizzatrice. Ne siamo tutti
convinti. Io stesso su questo argomento ho avuto occasione di dire molto
negli incontri degli anni passati e nelle relazioni ai Convegni pastorali
annuali.
Riconosciamo tuttavia che non ci è facile modificare la maniera di
svolgere il ministero incentrato ancora prevalentemente nella cura dei
credenti e dei praticanti attraverso la celebrazione dei sacramenti, il culto e la
cura dei poveri. E’ vero pure che l’impegno per portare avanti la pastorale
tradizionale è già molto gravoso e per innovare sono necessarie idee, risorse e
perseveranza. D’altra parte è sotto gli occhi di tutti che la situazione della
fede è molto cambiata anche a Roma e non possiamo rimanere soltanto
dispiaciuti spettatori di un fenomeno che avanza. Qualcuno potrebbe dire:
perché darsi tanta pena se la salvezza di Cristo può raggiungere tutti anche
attraverso percorsi che non passano attraverso l’opera della Chiesa, in quanto
la grazia lavora invisibilmente nel cuore degli uomini di buona volontà (cfr.
GS, 22). Si, è vero; ma proprio per questo non deve attenuarsi la spinta
missionaria della Chiesa che resta la via ordinaria, più sicura e feconda di
salvezza; semmai è necessario darle nuova vitalità e nuova profezia. La
metafora biblica del pastore, che Gesù ha prediletto, ci sprona ad agire, a
muoverci, ad andare: Gesù camminava sempre, cambiava villaggio di
continuo. Annunciare a tutti la Parola per suscitare la fede come incontro con
Cristo vivo, motivarla, irrobustirla, è lo scopo originario del nostro
sacerdozio. Passi avanti negli anni del post-Concilio sono stati fatti; la nostra
Leggiamo nel profeta Isaia: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare
allo sfiduciato una parola. Ogni mattina [Egli] fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come gli iniziati”
(Is 50, 4).
6
7
diocesi con il Sinodo diocesano ha marcato fortemente questa prospettiva, ma
dobbiamo camminare ancora, sia sviluppando l’intonazione di annuncio del
Vangelo a tutto il ministero presbiterale, sia promuovendo nei laici la
mentalità e la responsabilità missionaria7.
Vi chiedo un pò più di coraggio per ripensare il modello organizzativo
della pastorale parrocchiale, il calendario e gli orari settimanali delle attività,
valutando se c’è proporzione tra la cura gregis e l’azione a favore
dell’annuncio del Vangelo e cercando di ritagliare per voi e per i vostri
collaboratori capaci un po’ di tempo da dedicare all’evangelizzazione dei
lontani. Nel dilagante “analfabetismo religioso” - per usare un’eufemismo –
anche tanti battezzati hanno bisogno di scoprire la fede come compagnia di
Cristo e di conoscerlo non in modo vago e incerto, ma come Verità; solo allora
sentiranno il comportamento morale come vincolante in coscienza. A
esperienze come i gruppi di ascolto della Parola, così fortunati ai tempi della
Missione cittadina, alla lectio divina o a forme simili, alle periodiche catechesi
che facciano vivere con maggiore frutto l’Eucaristia domenicale e prendere
coscienza di una vita di carità, e adesso agli itinerari di accompagnamento dei
genitori dei bambini battezzati, non dobbiamo rinunciare, liquidando
sbrigativamente queste indicazioni pastorali per effetto di qualche insuccesso
o perché pregiudizialmente ritenute irrealizzabili. Sul tema del generare alla
fede arricchiamo la pastorale ordinaria aiutando la gente a pensare,
avvalendoci del Catechismo della Chiesa Cattolica e soprattutto del Compendio
dello stesso Catechismo. Mi domando se non si dovrà ritornare anche a
trasmettere con formule sintetiche da far imparare a memoria i contenuti
essenziali della fede, dopo che sono stati ben spiegati e capiti, visto che
l’esperienza ci dice che conclusi i percorsi di catechesi tutto svanisce. Apriamo
un dibattito su questo tema.
Sento poi, cari Confratelli, di esprimere pubblica riconoscenza ai
Parroci che si impegnano nella formazione dei collaboratori pastorali o che li
incoraggiano a partecipare ai percorsi formativi diocesani, apprezzandone
anche i frutti. Semmai vorrei dirvi ancora una volta di non scoraggiarvi se la
risposta ai vostri inviti e sollecitazioni non è sempre numericamente ripagata.
Perseveriamo, con pazienza.
9. Dal presbitero al presbiterio. La rivisitazione del presbiterato alla luce
del Concilio mi porta a dire ancora una parola sull’essere presbiterio. Anche
Cost. Lumen gentium, n. 30:. “I sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene
di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della
missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro
missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera
tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, all’opera comune”.
7
8
su questo punto la teologia non sembra costituire un problema8; è la vita ad
essere messa alla prova. Non è infatti scontato che il presbiterio sia sempre
espressione di comunione vissuta, capace di apportare benessere alla vita
personale e di tessere relazioni che qualificano e sostengono il corpo
sacerdotale.
Ho già toccato questo argomento nell’incontro dell’anno scorso,
allorché vi parlavo della necessità di praticare il discernimento spirituale e di
far crescere l’uomo interiore con lo sguardo fisso alla persona di Gesù. Mi
soffermavo pure sul bisogno della fraternità e dell’amicizia tra noi preti9.
Permettete che ritorni ancora sull’argomento da un particolare angolo di
osservazione, quello delle relazioni interpersonali.
Nel contesto della società secolarizzata, in larghi strati indifferente e
talvolta perfino ostile verso la Chiesa per effetto di una ingiusta perdita di
considerazione e di fiducia sociale, le relazioni presbiterali assumono un
valore ancora più importante, guardando anche alle nuove generazioni di
sacerdoti, i quali nella società complessa sono particolarmente esposti ai
rischi di un presbiterato più vulnerabile.
In verità, se guardiamo a tanti nostri presbitèri parrocchiali o di altri
ministeri, dobbiamo ringraziare il Signore per la vita che vi regna,
improntata ad uno stile fraterno e cordiale, sincero, aperto e costruttivo, che
sostiene e sviluppa relazioni di comunione e di reciproca edificazione. La vita
di presbiterio è una grazia. Ciascuno vive serenamente, la dedizione al
ministero è generosa e feconda e i rapporti tra i sacerdoti si conservano
intensi anche quando per sopraggiunti trasferimenti si continua a
frequentarsi. Ma potrebbe non essere sempre così. Uscire dal proprio
particolare per sentirsi dentro la realtà del presbiterio, come luogo dove
ognuno si ritrova migliore, è una meta per raggiungere la quale è necessaria
una forte determinazione, frutto di fede, di chiari e condivisi principi, di
disposizione psicologica, di fiducia reciproca, di buona volontà. Non è
automatico che la vita di presbiterio riesca sempre ad attivare rapporti
significativi e un ambiente umanamente ricco e di vera fraternità; potrebbe
limitarsi al reciproco rispetto e alla collaborazione pastorale. Naturalmente
8
Leggiamo nel Libro del Sinodo della Diocesi di Roma: “La Chiesa di Roma curerà la crescita della
comunione e della fraternità sacerdotale tra tutti i presbiteri presenti in essa a vario titolo, con particolare
attenzione ai parroci, ai vicari parrocchiali, ai religiosi incaricati di servizi diocesani” (p.84). E nella parte
espositiva si motiva questo obiettivo, citando un passaggio dell’Esort. Apost. Pastores dabo vobis, con queste
parole: “La realtà della comunione è fondamentale anche per l’identità e l’esercizio del ministero presbiterale.
Esso, «in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo
mediante l’inserimento sacramentale nell’ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica
con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto come
un’opera collettiva»” ( p. 69).
9
Incontro con il Presbiterio di Roma, 26 settembre 2011.
9
spero che da noi non succeda. Che cosa potrebbe avvenire? Mi limito a due
esemplificazioni.
Nell’esercizio del ministero presbiterale si incrociano almeno tre
istanze: la mole del lavoro pastorale, il ruolo ministeriale e il modo con cui il
sacerdote lo interpreta e lo vive e le aspettative dei confratelli e della
comunità. Combinare insieme queste tre dimensioni e viverle in una sintesi
serena e armonica, è un processo lento, non privo di ostacoli, che può
realizzarsi o non realizzarsi, per cui le relazioni tra i presbiteri possono
diventare difficili e sofferte. Può capitare, ad esempio, che il ministero
assegnato sia vissuto come un peso rispetto a ciò che si desidererebbe fare; o
che sia visto come un ingranaggio spersonalizzante e limitante; oppure come
una pesante responsabilità. Da ciò può nascere insoddisfazione, malessere,
scontento, che spinge ad evadere, a ritagliarsi ampi spazi di vita privata e
perfino può portare ad una incrinatura tra identità personale e ruolo
ministeriale. Di qui la perdita di passione e di convinzione nel fare le cose,
fino ad un diffuso senso di disaffezione, a comportamenti che tendono allo
sconforto e alla chiusura. Tutto ciò è vissuto male, oltre che dalla persona del
sacerdote, anche dai confratelli e le relazioni in seno al presbiterio si
deteriorano. Può darsi, al contrario, il caso di chi si identifica con il proprio
ruolo ministeriale al punto da farlo pesare sugli altri sacerdoti, oppure che un
normale insuccesso faccia nascere una profonda crisi o percepire come avverso
l’ambiente sacerdotale che lo circonda. Vivere il ministero secondo visioni
personalistiche con atteggiamenti rigidi, o al contrario ingigantire le
difficoltà, può condurre ad infrangere le relazioni.
La seconda esemplificazione non riguarda tanto l’azione pastorale
quanto il modo di rapportarsi tra confratelli. Potrebbe avvenire che il
sacerdote consideri come non riconosciuto l’impegno da lui profuso nel
ministero, si senta giudicato e viva quasi come da estraneo la sua presenza nel
presbiterio. Ciò può essere particolarmente acuto nel rapporto tra parroco e
viceparroco, e quest’ultimo vive male la relazione per non sentirsi rispettato
nei suoi modi di operare. Talvolta il mancato percepito apprezzamento non
risponde al vero, ma il rapporto è bloccato. Così le relazioni si riducono al
minimo e solo in funzione delle attività da svolgere, c’è poca stima, non si
parla, non ci si ascolta, si considera più il ruolo che la persona e la
superficialità dei rapporti favorisce il pregiudizio. Allora per quieto vivere ci
si chiude, si ha paura di dire ciò che si pensa per il timore di essere giudicati.
La solitudine sembra essere più rassicurante che una relazione difficile o
addirittura conflittuale. Cresce pian piano un atteggiamento di sfiducia
reciproca, di rinuncia, ciascuno resta nelle proprie idee e ci si isola.
L’isolamento – dobbiamo dirlo con chiarezza - è il veleno della vita
sacerdotale. Questo stato di cose può far emergere anche la questione
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affettiva e chi vive in questo stato di disagio arriva a chiedersi: oltre il
Signore, c’è qualcuno che mi vuole bene?
10. Domandiamoci: in che modo il presbiterio, categoria teologica e
sociologica, può diventare un ambiente di vita buona dove il singolo
presbitero si arricchisce e si esprime in pienezza?
1) A me sembra importante, in primo luogo, avere un rapporto
equilibrato con l’ideale sacerdotale. Oggettivamente il sacerdozio è e resta un
ideale altissimo, a cui mirare costantemente, ma con la consapevolezza che
esso è prima di tutto un dono, una grazia da desiderare e chiedere con
insistenza, più che una conquista umana di coerenza. Nei suoi confronti ci si
deve atteggiare con umiltà e docilità e le difficoltà non devono farci cadere in
continue crisi esistenziali. D’altra parte, bisogna fuggire quella che qualcuno
ha chiamato giustamente “l’ipertrofia del giudizio”, vale a dire l’alto concetto
del sacerdozio che porta a considerare il sacerdote come impeccabile per il
solo fatto di essere sacerdote. E’ importante allora abbandonare il modello
perfezionista di sacerdote per condividere quello del sacerdote “sulla via della
perfezione”. Nel primo i limiti e le deficienze ufficialmente inaccettate
possono generare giudizi severi, relazioni insincere e talvolta perfino ipocrite;
nel secondo, muovendo dalla considerazione di ciò che realmente siamo per
carattere, formazione, stili di vita, sensibilità generazionali, si è disposti a
valutazioni comprensive e a prestarsi aiuto vicendevole.
2) E’ un errore ritenere che tutto dipende dalla persona. L’identità
presbiterale è sì legata alle capacità e alle virtù di ciascuno, ma per il fatto
che si esprime con comportamenti di natura relazionale - non si è sacerdoti
per sé - insieme all’impegno della persona sono chiamati in causa anche gli
altri, particolarmente i confratelli con i quali si condivide il ministero e la
vita. Le gioie e le pene dei preti appartengono a tutti i preti. La fraternità
presbiterale è una modalità specifica di appartenenza alla Chiesa che
geneticamente trae origine dalla comunione trinitaria e l’ontologia del
sacramento dell’ordine connota l’identità del prete così che le relazioni
presbiterali non devono essere selettive ma inclusive. Sono importanti e da
incoraggiare qualunque tipo di relazioni tra confratelli che nascono con
motivazioni particolari (si pensi alla fraternità cresciuta negli anni di
seminario o all’appartenenza ad un movimento spirituale), ma non bastano e
non devono esaurirsi in esse. Per promuovere relazioni inclusive dobbiamo
prestare attenzione anche alle condizioni umane che le favoriscono, quali la
fiducia di base, l’accoglienza cordiale, l’attitudine ad evidenziare le qualità
positive prima dei limiti, la disponibilità a fare sempre la verità con
franchezza, a venirsi incontro, rispettando le diversità, il sentirsi
corresponsabili, la tolleranza su ciò che non è essenziale, il trattarsi con sano
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umorismo. E’ poi indispensabile coltivare le virtù cristiane: la carità10, la
magnanimità, la pazienza, convinti di essere tutti fallibili, tutti in cammino e
tutti bisognosi di aiuto. Quando un nuovo confratello arriva nel presbiterio
parrocchiale non è bene che sia preceduto dal giudizio del presbiterio di
provenienza, ma che sia accolto come un’opportunità offerta dal Signore a
tutti per fare un pezzo di strada insieme a servizio della comune vocazione;
allora la fraternità e l’amicizia avranno la strada spianata e prenderà forza la
coscienza dell’unità come un bene personale. Certo, tutto ciò non è facile
senza essere disponibili a rivedere i propri schemi mentali e atteggiamenti per
costruirne dei nuovi. La comunità sacerdotale è la palestra in cui ognuno di
noi sviluppa se stesso come discepolo di Cristo. La crescita della coscienza del
presbiterio domanda un ambiente favorevole. Dobbiamo essere fiduciosi di
riuscirci se consideriamo le relazioni tra noi come un bene primario da non
sacrificare mai a nulla, neanche all’attività pastorale, che non porterebbe
frutto senza il seme della testimonianza. Il Vangelo, messaggio di amore, non
può essere efficacemente annunciato da persone che stanno male o non si
vogliono bene.
11. Nella citata Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, il Beato
Giovanni Paolo II affermava che oggi al sacerdote è necessaria una
“formazione permanente capace di sostenere in modo realistico ed efficace il
ministero e la vita spirituale”.
La nostra Diocesi da molti anni ha assicurato percorsi di formazione
permanente per le varie fasce d’età dei presbiteri. Da più di un anno il
Consiglio presbiterale ha messo a tema la necessità di adeguare le iniziative
alle esigenze di oggi. Confido che si possa arrivare in tempi ragionevoli a
proposte efficaci e condivise: ne sentiamo tutti l’urgenza. Il Padre Amedeo
Cencini, invitato a parlare sull’argomento al Consiglio Presbiterale,
sottolineava che il ministero stesso è fonte inesauribile di formazione del
presbitero, perché è esperienza sempre nuova di Dio che parla attraverso le
umane vicissitudini. Per questo il prete deve allenarsi alla docilità spirituale,
cioè a quell’atteggiamento interiore di voler imparare sempre dalla vita. A
questa ordinaria formazione permanente si accompagna poi una formazione
straordinaria, che può giovarsi di opportune iniziative.
Vorrei raccomandarvi anche di utilizzare la nostra cosiddetta regola di
vita – il libro Scelto da Dio per gli uomini – pubblicato e distribuito la scorsa
Quaresima, frutto di un lungo e generoso lavoro del Consiglio presbiterale. E’
uno strumento che può aiutarci a riflettere sia sui fondamentali che sulle
S. Teresa di Lisieux scrive nella sua autobiografia: “La carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli
altri, non stupirsi delle loro debolezze. Edificarsi nei piccoli atti di virtù che si vedono praticare, ma soprattutto
nel comprendere che questa regina delle virtù non deve assolutamente restare chiusa in fondo al cuore”.
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articolazioni della nostra vita di preti romani. Mi permetto di incoraggiarvi
ad usarlo personalmente e negli incontri di prefettura e di settore.
12. Ed ora molto brevemente qualche informazione sull’anno pastorale
che oggi ufficialmente inauguriamo.
1) E’ giunta a tutti voi per e-mail (oggi è disponibile anche in cartaceo)
la Lettera per l’attuazione del Convegno diocesano 2012 sulla pastorale
battesimale. Pregherai di farne attenta lettura e riflessione con gli operatori
pastorali per individuare le forme di attuazione.
Don Andrea Lonardo e i suoi collaboratori hanno predisposto un
sussidio di pastorale battesimale che, per una prima parte, troverete on-line
nei prossimi giorni. Si tratta di uno strumento, una bozza di un futuro testo,
da sperimentare nelle parrocchie. Invito i parroci ad usarlo e ad offrire i
suggerimenti migliorativi che riterranno opportuni. Ringrazio di cuore chi lo
ha preparato con vera passione pastorale. Al riguardo dirà subito qualcosa
Don Andrea.
2) Per L’Anno della fede non abbiamo previsto, a livello diocesano, un
programma intenso, per una ragione evidente: il progetto pastorale di questi
anni ha come pietra angolare l’annuncio della fede per riscoprire e rinsaldare
l’identità cristiana e molte iniziative già impegnano non poco: mi riferisco ai
gruppi del Vangelo nelle case, alla lectio divina, ai percorsi di catechesi per
formare alla fruttuosa celebrazione dell’Eucarestia domenicale e ora gli
itinerari di catechesi post-battesimale. Pertanto è parso opportuno
promuovere soltanto qualche iniziativa, che elenco rapidamente:
- come Diocesi apriremo l’Anno della Fede partecipando, la sera dell’11
ottobre prossimo, in ricordo del 50° di apertura del Concilio, alla Fiaccolata
da Castel S. Angelo a Piazza San Pietro dove saremo accolti dal Santo Padre;
- ad ogni parrocchia o altra comunità è chiesto di organizzare un
periodo di annuncio e di catechesi sul Credo, in forma di piccola missione
popolare o di incontri11, che si concluda con un pellegrinaggio alle Basiliche di
San Giovanni, di San Pietro, o alle Catacombe per rinnovare la professione di
fede. Vorremmo aiutare i fedeli a riscoprire il Credo come gioiosa
proclamazione dell’incontro con il Signore. Accogliendo la proposta del
Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione
suggerisco poi che la preghiera del Credo possa diventare la preghiera
Congregzione per la Dottrina della Fede, Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della
fede, 6 gennaio 2012, n. 6.
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quotidiana di ogni cristiano. Si suggerisce anche che i Centri culturali delle
parrocchie e di altre realtà ecclesiali nel corso dell’anno programmino
conferenze e dibattiti sui documenti del Concilio Vaticano II e sul Catechismo
della Chiesa Cattolica.
Nei prossimi giorni sarà messo on-line un vademecum con
suggerimenti, proposte, formulari di celebrazioni per lo svolgimento delle
iniziative che ogni parrocchia intenderà attuare. Per il pellegrinaggio l’Opera
Romana Pellegrinaggi è disponibile ad aiutare con itinerari particolari;
- negli ospedali la piccola missione si potrà concludere con la visita delle
reliquie di San Pio da Pietrelcina e del Beato Giovanni Paolo II;
- per noi sacerdoti sono previsti tre incontri diocesani (in sostituzione di
altrettanti incontri di settore) durante i quali ascolteremo tre testimoni della
fede.
Il primo avrà luogo il 15 novembre alle ore 10 qui in San Giovanni e
sarà guidato dal Signor Jean Vanier, fondatore della comunità L’Arche.
Il secondo incontro è quello tradizionale con il Santo Padre, 14 febbraio
2013, giovedì dopo le Ceneri.
Nel terzo, l’11 aprile, ascolteremo il Card. Camillo Ruini sul tema “Il
Catechismo della Chiesa Cattolica come strumento di evangelizzazione oggi”.
- All’Anno della Fede saranno dedicati anche i Dialoghi in Cattedrale di
quest’anno e tutte le altre iniziative culturali diocesane organizzate dai vari
uffici.
13. Cari Confratelli, ha scritto il Papa in Porta fidei, 6: “Il
rinnovamento della Chiesa passa attraverso la testimonianza offerta dalla
vita dei credenti”, che fanno “risplendere la Parola di verità che il Signore
Gesù ci ha lasciato”. Ciò vale tanto di più per noi sacerdoti, a cui il Signore ha
affidato la sua Chiesa. Vi auguro di cuore di vivere con intensità la grazia di
questo Anno della fede, perché la nostra testimonianza risplenda nella
comunità a noi affidate.
Agostino Card. Vallini
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