SCOCA:DIRITTO AMMINISTRATIVO
PARTE 1
Organizzazione amministrativa
Capitolo 1
La pubblica amministrazione e la sua evoluzione
1. L’unificazione amministrativa
A seguito dell’unificazione politica del Regno d’Italia come Stato unitario si è
avvertita l’esigenza di unificare le diverse organizzazioni preunitarie sotto il
profilo delle strutture e delle funzioni tanto che le singole discipline
amministrative allora vigenti hanno subito un processo di uniformazione al
diritto vigente in Piemonte (c.d. piemontesizzazione).
Dunque, con la prevalenza del sistema piemontese rispetto agli altro è avvenuta
la soppressione del vecchio ordinamento e la sua sostituzione nell’ambito del
diritto amministrativo,
in quanto il Regno sabaudo era il solo stato costituzionale al momento della
formazione del Regno d’Italia ed il Governo piemontese, a partire dalla
legislazione del 1859, aveva provveduto ad emanare leggi fondamentali, quali
quelle sull’ordinamento comunale e provinciale, sul Consiglio di Stato e
sull’ordinamento giudiziario ed erano inoltre stati pubblicati i codici penale, di
procedura penale e di procedura civile, tanto che l’ordinamento piemontese
risultava il più aggiornato anche se non in tutti i settori del diritto.
Inoltre, con l’annessione delle antiche province del Piemonte (che furono
sancite con plebisciti) e le preoccupazioni legate alla politica interna, da cui
l’unificazione amministrativa del 1865, ed esterna relative alle Potenze europee,
il processo di integrazione territoriale e di unificazione politica era oggetto di
forte accelerazione al fine della unificazione giuridica ed organizzativa.
L’unificazione amministrativa interna, infatti, fu definitivamente attuata con
legge 20 marzo 1865, n. 2248, costituita da un solo articolo e da sei allegati,
distinti con le lettere da A a F, ed in particolare l’allegato E riportava l’abolizione
del contenzioso amministrativo.
In particolare, il 1859 ed il 1865 segnano la conformazione del sistema
amministrativo dello Stato italiano al modello piemontese, nonostante le
resistenze dei rappresentanti lombardi, toscani napoletani e siciliani che
rivendicavano una propria autonomia, mentre il Veneto nel 1866 ed il Lazio nel
1870 trovarono, al tempo della loro annessione, un sistema in vigore già
unificato rispetto al quale si estesero automaticamente e così Trento e Trieste, a
seguito della prima guerra mondiale.
2. La fisionomia originaria dell’amministrazione pubblica italiana.
L’amministrazione delineata dalla legge di unificazione del 1865 non si
differenzia di molto da quella adottata nel Regno di Sardegna.
In particolare, a partire dagli anni cinquanta del secolo XIX, l’amministrazione
piemontese era stata oggetto di riforme semplificatrici e razionalizzatrici, per cui
l’avvento dell’amministrazione unitaria, presentava caratteri di semplicità,
uniformità, accentramento ed accentuata gerarchia.
Questi caratteri furono trasmessi anche all’organizzazione amministrativa del
Regno d’Italia, per cui le strutture organizzative furono concentrate negli enti
territoriali di Stato, Provincia e Comuni. Vi erano poi altri enti, diversi dagli enti
territoriali, caratterizzati da una struttura associativa, quali gli ordini
professionali e le Camere di Commercio.
1
In tale contesto, la qualificazione pubblica dell’organizzazione amministrativa
veniva identificata con quella statale e viceversa lo Stato veniva a comprendere
ogni amministrazione che poteva essere considerata pubblica, per cui le
province ed i comuni veniva considerati enti dotati di personalità giuridica
propria e definiti quali “membra dello Stato”. L’organizzazione pubblica dello
Stato si divideva in amministrazione facente capo alla persona giuridica Stato ed
amministrazione indiretta, relativa agli enti territoriali minori.
L’organizzazione interna della Provincia e del Comune è dominata da organi
dello Stato ed al vertice della Provincia vi è un organo collegiale, la Deputazione
provinciale presieduta dal Prefetto, organo periferico dello Stato. Il Consiglio
provinciale, elettivo, era convocato soltanto per brevi sessioni e la Deputazione
provinciale era l’autorità tutoria sui Comuni e sulle Opere pie. Al vertice del
Comune, invece, vi era il Sindaco, nominato dal Governo, formalmente dal Re,
tra i consiglieri comunali e gli veniva riconosciuta la qualifica di Ufficiale del
Governo. Anche il Consiglio comunale, inoltre, era elettivo e si riuniva in via
ordinaria soltanto due volte all’anno.
La struttura organizzativa dell’amministrazione pubblica italiana rispondeva al
criterio di assoluta uniformità, in quanto fortemente accentrata nell’effettiva
unitarietà dell’ordinamento e dell’unità politica del Paese che è anche propria
dell’amministrazione diretta dello Stato, la quale si struttura a livello centrale
nei Ministeri, organizzati in direzioni e sezioni ed a livello periferico nelle
Prefetture e nelle Sottoprefetture, da cui la rigidità delle relazioni gerarchiche
che rendono l’amministrazione un corpo compatto nelle sue strutture interne
estremamente semplificate.
3. Evoluzione dei modelli organizzativi.
A seguito dell’aumento delle funzioni dell’amministrazione pubblica,
l’organizzazione della pubblica amministrazione italiana viene a subire una
progressiva evoluzione.
Si verifica, infatti, dapprima un processo di dilatazione e diversificazione delle
strutture organizzative dello Stato e degli enti territoriali minori con massiccio
incremento degli enti pubblici ausiliari e strumentali tanto che, in tempi recenti,
si assiste all’introduzione di nuovi modelli organizzativi, quali dipartimenti,
agenzie, autorità indipendenti, società a partecipazione pubblica e organismi di
diritto pubblico ognuna. Tali innovazioni hanno avuto una loro stagione di
fioritura, come nel caso dell’agenzia autonoma delle Ferrovie dello Stato,
istituita con la nazionalizzazione delle strade ferrate fin lì gestite da società
private, sulla base di concessioni e che si erano rilevate inadatte a svolgere
compiti di carattere operativo – aziendale e tale esigenza venne parimenti
avvertita nel caso delle aziende municipalizzate di Comuni e Province nei servizi
di illuminazione delle strade urbane, degli acquedotti, del trasporto pubblico
fino ai forni comunali.
Primi esempi di differenziazione del modello organizzativo sono stati l’azienda
autonoma dello Stato e l’azienda municipalizzata, in risposta all’ingresso degli
enti pubblici nei settori economici e soprattutto in quello dei servizi.
Negli ultimi anni del secolo XIX si assiste alla moltiplicazione degli enti
funzionali, ossia strutture organizzative dotate di personalità giuridica pubblica,
destinate a svolgere funzioni specifiche e determinate. Durante il ventennio
fascista furono istituiti enti pubblici nazionali, quali INPS (Istituto Nazionale
per la Previdenza Sociale), INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattie),
INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro),
IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) in risposta alle esigenze derivanti
2
dall’allargamento dei compiti dello Stato che ha visto altresì la trasformazione di
organismi privati, quali le Opere pie in I.p.a.b. (Istituzioni Pubbliche di
Assistenza e Beneficienza) e di organismi totalmente nuovi in numerosi settori
che vanno dal credito all’assistenza, alla previdenza, alle attività culturali ed
artistiche. Fu pubblicizzato l’I.N.A. (Istituto Nazionale di Assicurazioni).
A partire dagli anni Cinquanta si assiste, invece, all’abolizione degli enti c.d.
inutili.
In definitiva, i modelli di aziende autonome e di enti pubblici funzionali hanno
avuto una intensa utilizzazione fino agli ultimi decenni del XIX secolo, per poi
essere progressivamente trasformati dapprima in enti pubblici economici e poi
in società a partecipazione pubblica, ritenute più agili ed efficienti nella propri
struttura organizzativa.
4. L’organizzazione regionale
La Carta costituzionale, in vigore dal 1 gennaio 1948, ha arricchito il panorama
degli enti pubblici territoriali, inserendovi la Regione ex art. 114 Cost., designato
quale ente dotato di potere legislativo, in determinate materie di cui all’art. 117
Cost, nonché di potere statutario e con attribuzione di funzioni amministrative
previa devoluzione alla sua competenza legislativa. La Regione, di fatto,
esercitava le sue funzioni amministrative mediante delega alle Provincie, ai
Comuni ed agli altri enti locali ovvero mediante propri uffici, rimanendo un
centro di indirizzo, promozione e coordinamento di attività operative demandate
ad enti già esistenti.
Istituite tardivamente nel 1970, le Regioni hanno sviluppato le loro strutture
operative, invece di delegare le loro funzioni agli enti locali ovvero di avvalersi
dei loro uffici, con l’effetto di appesantire l’organizzazione pubblica complessiva
al punto che numerosi organi vengono a decidere, fornire pareri, sviluppare
intese in modi e forme diverse.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, legge cost. 18 ottobre 2001, n.3, è
stato modificato l’art. 114 Cost, per cui si è delineata una nuova potestà
legislativa in capo alle Regioni che si estende ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 4, Cost.), e
cioè si è invertito il previgente sistema che lasciava allo Stato la competenza
generale e residuale ed attribuiva alle Regioni la potestà legislativa solo nelle
materie tassativamente elencate.
Il nuovo criterio generale di distribuzione delle funzioni amministrative tra enti
di governo territoriali si basa sui principi di sussidiarietà1, differenziazione2
ed adeguatezza3, per cui le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni
Sussidiarietà significa che le attività amministrative devono essere svolte in via ordinaria dall’entità
territoriale amministrativa più vicina ai cittadini (i comuni) mentre i livelli amministrativi territoriali
superiori (Stato, Regioni, Province, Città metropolitane, Comunità montane ed isolane e Unioni di
comuni) intervengono solo come sussidio (dal latino subsidium, aiuto) nei casi in cui il cittadino o
l’entità sottostante siano impossibilitati ad agire per conto proprio.
2
Differenziazione significa che la distribuzione delle funzioni non deve necessariamente avvenire in
modo uniforme fra enti territoriali dello stesso livello. Di conseguenza, per procedere nell'attribuzione
delle funzioni occorre tener conto delle dimensioni e di diverse caratteristiche, anche associative,
demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi.
3
L’adeguatezza richiede che l’attribuzione delle funzioni avvenga nel modo più adeguato per lo
svolgimento delle stesse; si tiene, quindi, conto che l’ente, da solo o in associazione con altri enti, abbia a
disposizione un’organizzazione adatta a garantire l'effettivo esercizio delle funzioni)
1
3
salvo che, per assicurare l’esercizio unitario, siano conferiti a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato (art. 118, comma 1, Cost.4).
Tale nuovo criterio non è stato ancora pienamente attuato, in quanto sono
presenti forti resistenze nella ripartizione delle funzioni amministrative.
5. Le riforme dell’ultimo decennio del secolo scorso.
A partire dagli anni Novanta sono stati aggiornati i vecchi modelli organizzativi e
ne sono stati disegnati di nuovi.
Le riforme si sono ispirate ai principi della separazione delle funzioni di
indirizzo e controllo (che spettano all’organo politico: Sindaco-Presidente
della Provincia, Giunta, Consiglio) dalle funzioni operative e di gestione
(che spettano ai dirigenti o ai responsabili del servizio), della
razionalizzazione e della flessibilità organizzativa nonché della
semplificazione amministrativa.
In particolare, il principio della separazione delle funzioni politico –
amministrative da quelle prettamente amministrative è stato affermato in sede
di privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche, per cui gli organi di ogni amministrazione si distinguono in organi
politico – amministratici, c.d. organi di governo, ed in organi tecnico –
amministrativi, identificati nella dirigenza.
E’ stata altresì riordinata la Presidenza del Consiglio come struttura destinata ad
assicurare l’unità di indirizzo politico ed amministrativo del Governo, con
compiti di impulso, indirizzo e coordinamento nonché l’organizzazione interna
dei Ministeri con riduzione del relativo numero da 19 a 12, poi a 14 ed infine a
18, in attesa di successiva riduzione.
La struttura organizzativa del Ministero trova strutture di primo livello, quali
dipartimenti o direzioni generali. Viene disciplinata la figura del Segretario
generale, ma solo per i Ministeri articolati in direzioni generali e sono previsti
uffici di diretta collaborazione con il Ministro.
Dato saliente è l’introduzione delle Agenzie, strutture organizzative autonome,
talvolta dotate di personalità giuridica, che svolgono attività di carattere tecnico
– organizzativo di interesse nazionale, operando al servizio della
amministrazioni pubbliche comprese quelle regionali e locali e sottoposte ai
poteri di indirizzo e vigilanza del Ministro.
Ulteriori modificazioni sono state introdotte nel periodo 2002 – 2004.
In particolare, è stata disposta la trasformazione della Prefettura in Ufficio
territoriale di Governo (UTG), con relativo ridimensionamento dei compiti di
mero coordinamento con gli altri uffici periferici dello Stato.
A partire dagli anni Novanta, agli enti territoriali minori, quali Province e
Comuni, è stata attribuita autonomia normativa, organizzativa e d
amministrativa, nonché impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e
regolamenti e leggi di coordinamento con la finanza pubblica.
Il Sindaco ed il Presidente della Provincia sono eletti direttamente dal corpo
elettorale e l’assetto organizzativo interno degli enti territoriali minori è
disciplinato dalla legislazione nazionale che regola altresì il sistema elettorale
degli organi di governo e delle funzioni fondamentali ai sensi di cui all’art. 117
Cost.
4
Art. 118 comma 1 , Cost: Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
4
In definitiva, alla luce delle ultime riforme del quadro amministrativo pubblico,
questo si presenta assai diverso da quanto previsto originariamente, in quanto
alla semplicità è seguita la complicazione, alla uniformità la differenziazione dei
modelli, all’accentramento il decentramento e l’affermazione delle autonomie,
per cui il risultato non può essere ritenuto soddisfacente in quanto l’evoluzione
del sistema si è rilevato affatto lineare per i molteplici ritardi e cambiamenti di
indirizzo. Così nel caso della riforma della distinzione tra funzioni politico –
amministrative e funzioni prettamente amministrative, laddove la finalità
espressa era propriamente quella di garantire il ruolo di indirizzo e direzione da
parte delle forze politicamente maggioritarie e l’imparzialità da sottrarre agli
organi politici, per cui i dirigenti (organi tecnici) sono stati posti alle dipendenze
degli organi politici.
6. Lo sviluppo delle autonomie
L’evoluzione del quadro organizzativo ha visto la modificazione dell’originario
corpo amministrativo compatto e riferibile allo Stato in una serie di corpi
separati, e ciò a seguito del mutare dei rapporti tra Stato ed enti territoriali
minori che da “membra dello Stato” si evolvono in enti autonomi, elevati ad enti
equiordinati rispetto allo Stato.
In tale processo evolutivo s’individuano due tappe, di cui la prima riguarda lo
Stato in posizione dominante quale centro di indirizzo unitario del sistema
complessivo e le strutture amministrative degli enti territoriali non sono più
considerate amministrazione indiretta dello Stato centralista; la seconda fase
vede l’amministrazione complessiva presentarsi come “policentrica”, ossia
articolata in più centri di elaborazione di indirizzi politico – amministrativi
facenti capo agli enti territoriali ai quali è riconosciuta ampia autonomia, dove lo
Stato non ha più una posizione dominante ma diventa una componente
equiparata alle altre.
La prima tappa prende avvio con le riforme crispine (Crispi rende elettiva la
carica di Sindaco nei comuni maggiori, in seguito ci sarà l’estensione a tutti i
comuni, abolisce la Deputazione provinciale, rende elettivo il presidente della
Provincia) e s’interrompe nel ventennio fascista per poi concludersi nel 1948
con la Costituzione. La seconda fase, invece, si estende a tutto il periodo
successivo e trova pieno riconoscimento con la legge n. 3 del 2001 di riforma
costituzionale.
Resta ferma l’ingerenza dello Stato nell’amministrazione degli enti territoriali di
Comuni e Province soprattutto nell’ambito dei controlli riconosciuti di
competenza del Prefetto ed alla Giunta provinciale da lui presieduta al fine di
indirizzare e dirigere le amministrazioni locali.
Tale situazione non cambia granché fino all’avvento del regime fascista, che
s’ispira alla sostanziale unità dell’amministrazione pubblica, per cui il Sindaco,
ora denominato Podestà, torna ad essere organo nominato dallo Stato e alla
Provincia è preposto il Presidente, carica governativa.
Dopo la caduta del regime fascista, nel 1943 vengono ripristinati gli organi
elettivi.
La Costituzione, all’art. 5, comma 1, stabilisce che “la Repubblica, una ed
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, e all’art. 130 è
prevista la modifica del sistema dei controlli di merito da sanzionatorio a
collaborativo ed affida alla Regione i controlli sugli enti territoriali minori
(articolo poi abrogato con la legge di riforma costituzionale n. 3 del 2001).
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Negli anni Novanta del XX secolo la potestà statutaria è riconosciuta anche a
Comuni e Province e sono ridotti i controlli statali sulle Regioni e quelli regionali
sugli enti locali.
Il punto d’arrivo è la legge costituzionale n. 1 del 2003 di riforma del Titolo
V della parte II della Costituzione che all’art. 114, comma 2 ha sancito che i
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione.
Pertanto, il principio autonomistico non viene soltanto enunciato, ma è
disciplinato nelle sue linee essenziali realizzandosi in concreto mediante
l’attribuzione agli enti autonomi sia della potestà statutaria che della potestà
regolamentare con conseguente riduzione dell’ambito riservato alla legge dello
Stato e delle Regioni in ordine al disegno organizzativo di comuni e province.
Le Regioni, infatti, hanno anche potestà legislativa e non altri limiti nel
disegnare la loro organizzazione, loro attribuzioni e modo di operare se non
quelli previsti nella Costituzione e sono dotate di potestà statutaria, di potestà
regolamentare in ordine alla loro organizzazione e svolgimento delle loro
funzioni.
Tale percorso non
può ritenersi compiutamente attuato, in quanto la
trasformazione del sistema organizzativo è ancora in fase di evoluzione.
7. La fisionomia attuale dell’amministrazione pubblica.
A seguito del passaggio dal tipo di amministrazione concentrata tutta nello Stato
al sistema attuale caratterizzato dal principio autonomistico, il panorama
dell’amministrazione pubblica risulta fortemente caratterizzato intorno agli enti
territoriali che, nel quadro di una eccessiva complessità, incidono negativamente
sul frazionamento delle competenze degli uffici delle varie amministrazioni da
cui i diversi tentativi di ridurre i medesimi enti territoriali mediante l’abolizione
delle Province, al fine di rendere più semplice il quadro amministrativo generale
e più spedita l’azione amministrativa.
Infatti, intorno agli enti territoriali operano numerose strutture pubbliche e
private, a volte ritenute inutili, tanto che migliaia sono i soggetti che vanno a
comporre il quadro dell’organizzazione amministrativa pubblica con relativo
sovrappeso nella spesa per il mantenimento degli stessi.
Negli ultimi anni si è avviato un processo di privatizzazione che ha comportato la
trasformazione di molti enti pubblici e di tutte le aziende autonome statali e
della aziende municipalizzate in società private in società per azioni. Invero, non
si è avuta una completa privatizzazione in quanto tali società restano disciplinate
secondo il diritto pubblico ed il relativo controllo resta affidato alla Corte dei
Conti.
Si parla, infatti, di pubblica amministrazione in senso sostanziale, in quanto la
P.A. in senso formale è costituita dai soli enti di natura pubblica.
Inoltre, è stato introdotto il modello delle Autorità indipendenti, ossia di
strutture dirette da un organo collegiale, costituito da persone competenti e di
moralità ineccepibile, che opera al riparo dall’indirizzo politico di governo
assicurando la massima imparzialità. Così l’Autorità per l’energia elettrica e il
gas, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Garante per la protezione
dei dati personali, la Commissione nazionale per le società e la borsa, l’Autorità
garante della concorrenza e del mercato.
L’amministrazione pubblica, dunque, ha cambiato completamente la sua
fisionomia originaria seguendo le tendenze razionalizzatrici nell’eliminazione di
strutture organizzative ritenute superflue e di quelle preesistenti si è inteso
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modificare il loro modo di operare secondo l’integrazione europea, in quanto
molte funzioni dell’amministrazione interna sono state trasferite agli organi
dell’Unione europea e molte loro attività sono state rimesse alla disciplina
comunitaria.
Pertanto, l’Unione europea ha influito decisamente sull’impostazione della
politica economica nazionale consentendo il superamento del precedente
sistema c.d. di economia mista (pubblico- privata).
8. Sul modello costituzionale dell’amministrazione pubblica
Ulteriore problema è quello di verificare se dalla Costituzione possa ricavarsi un
modello di amministrazione pubblica, nonostante le poche disposizioni ad essa
dedicate nella Carta.
La dottrina, in particolare Mario Nigro, ha sostenuto che i modelli di
amministrazione emergenti dalla Costituzione sono tre, di natura disomogenea e
tra loro perfino configgenti, in quanto l’amministrazione si presenta come
apparato servente del Governo ex art. 95 Cost., come complesso autocefalo
regolato direttamente dalla legge ex. artt. 97 e 98 Cost. e ancora come modello
autonomistico e comunitario ex artt. 5 e 114 e ss. Cost.
Eppure, nonostante le critiche, un modello di amministrazione ricavabile dalla
Costituzione è individuabile seguendo un altro insegnamento, che prende in
considerazione gli articoli 97 e 98 Cost, per cui si distingue tra funzione di
governo e funzione di amministrazione, laddove la prima sta nella
determinazione dell’indirizzo politico – amministrativo e nell’individuazione
degli obiettivi da raggiungere secondo il principio autonomistico presente in
tutti gli enti territoriali; mentre la seconda consiste nella gestione concreta,
ispirata ai principi di buon andamento ed imparzialità, secondo gli obiettivi
fissati dal governo.
L’amministrazione, dunque, dal punto di vista soggettivo, risulta articolata in
una struttura tecnica, autonoma rispetto alla funzione di governo ad essa
collegata, laddove quest’ultima è ormai svolta a diversi livelli di governo
mediante i molteplici enti territoriali. Pertanto, anche gli atti degli organi di
governo sono assimilati ai provvedimenti amministrativi anche sotto il regime
delle impugnazioni.
Di rilievo è l’intervento del legislatore del ’90 che, nel rispetto del dettato
costituzionale, ha delineato la chiara distinzione tra politica ed amministrazione.
Purtroppo, tale tendenza si è arrestata bruscamente in quanto gli organi
amministrativi sono finiti per dipendere sostanzialmente dagli organi politici,
così nello spoils system, dichiarato costituzionalmente illegittimo ex artt. 97 e 98
Cost (Corte cost. sent. 23 marzo 2007, nn. 103 e 104).
Capitolo 2
Le amministrazioni come operatori giuridici.
1. Le amministrazioni come figure soggettive
Fin qui abbiamo considerato le amministrazioni pubbliche come strutture
organizzative, i cui modelli si sono evoluti nel tempo. Ora consideriamo le
amministrazioni pubbliche come operatori giuridici, alle quali è affidato il
compito di curare gli interessi pubblici mediante strumenti giuridici, ossia con
atti giuridici e ponendo in essere fattispecie giuridiche.
7
Le amministrazioni pubbliche, pertanto, si presentano come figure
soggettive, ossia centri di riferimento di situazioni giuridiche soggettive che
consentono loro di operare giuridicamente.
La soggettività giuridica è riconosciuta sia a persone fisiche che giuridiche, da
cui la distinzione tra centro di azione e centro di responsabilità nell’agire
giuridico che implica non soltanto la soggettività giuridica, ma altresì l’avere il
riconoscimento della personalità giuridica.
In particolare, M.S. Giannini indica la soggettività giuridica immateriale allorché
si pongono problemi di ordine patrimoniale ai fini della tutela della sicurezza dei
traffici che deve avere una struttura giuridica di riferimento ai fini della tutela
dei terzi.
Le amministrazioni pubbliche, di fatto, possono anche non avere personalità
giuridica ma restano pur sempre figure soggettive.
Tuttavia, numerose sono le amministrazioni pubbliche aventi personalità
giuridica, quali lo Stato e tutti gli enti pubblici, sia territoriali che funzionali.
Le figure soggettive non personificate, invece, sono molto più numerose
nell’ambito del diritto pubblico, in quanto la legge attribuisce loro la personalità
giuridica secondo i principi del diritto pubblico.
Invero, l’elemento che contraddistingue la persona giuridica è l’essere un centro
di imputazione giuridica, da cui derivano atti ed effetti giuridici, con la
consequenziale responsabilità patrimoniale di cui essa risponde soprattutto nel
campo degli affari economici.
Nel settore pubblico, restando essenziale la nozione di soggetto giuridico, appare
meno rilevante la nozione di persona giuridica, mentre ciò che conta è che vi
siano centri di imputazione dell’attività diretta alla cura degli interessi pubblici,
tanto che il legislatore ha previsto che le amministrazioni acquistino o perdano
la personalità giuridica senza conseguenze sul piano sistematico. Così le aziende
autonome dello Stato che nel tempo hanno acquistato personalità giuridica
ovvero le USL che da articolazioni del Comune sono diventate Aziende dotate di
personalità giuridica.
2. Nozione di imputazione giuridica
Le figure soggettive sono tali in quanto agiscono, svolgono azione giuridica,
ossia pongono in essere atti rilevanti per il diritto. Esse restano semplici
organismi, apparati amministrativi che vengono inseriti nel loro quadro
organizzativo secondo apposite norme di organizzazione ed a tali figure sono
imputati gli atti che esse compiono.
Il problema dell’imputazione veniva originariamente risolto mediante il
modello della rappresentazione necessaria, per cui l’atto giuridico
compiuto da una persona fisica produce direttamente effetto nei confronti della
persona giuridica, ai sensi di cui all’art. 1388 c.c.
Dunque, alla persona giuridica vengono imputati soltanto gli effetti giuridici
prodotti dagli atti compiuti dal rappresentante, così come accade nella
rappresentanza delle persone fisiche incapaci.
Nella seconda metà del secolo scorso si è posto anche il problema della capacità
di agire della persona giuridica unitaria dello Stato, in quanto il previgente
modello della rappresentanza è apparso inadeguato per la struttura
organizzativa della persona giuridica dello Stato, che comporta un numero
rilevante di rappresentanti e per le limitazioni proprie del modello della
rappresentanza che riguarda soltanto gli atti volontari e quelli negoziali, per cui
l’atto compiuto dal rappresentante resta come atto del rappresentante e non
viene considerato come atto del rappresentato
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Viene allora elaborato un diverso modello di imputazione giuridica, la c.d.
teoria organicistica dello Stato, per cui lo Stato viene inteso come organismo
superiore, amplificazione dell’organismo umano, e come questo capace di volere
ed agire attraverso i propri organi, per cui gli effetti dell’atto compiuti dalla
persona giuridica sono imputati all’organo che viene riconosciuto titolare
dell’azione compiuta.
Con la figura dell’organo, infatti, si ha un rapporto di imputazione rispetto al
quale l’effetto giuridico dell’atto non viene soltanto imputato alla persona
giuridica, ma anche l’atto giuridico che lo produce, per cui si ha imputazione di
effetti e di atti nei termini di imputazione formale.
Tuttavia, la persona giuridica è anche il soggetto titolare dell’atto, in quanto
autore del medesimo, per cui si delinea un rapporto di immedesimazione
organica tra l’organo e la persona giuridica.
Di immedesimazione organica si può parlare a condizione che tale nozione sia
intesa nel rapporto di imputazione svincolata dalla sua concezione originaria, in
cui essa serviva ad attribuire la capacità di agire alle persone giuridiche che
attraverso gli organi in esse immedesimati acquistavano esse stesse la capacità
di agire
La figura soggettiva, infatti, diventa titolare di atti giuridici, ma per avere la
capacità di compierli deve sussistere il rapporto organico tra gli atti ed i suoi
organi.
Di qui l’imputazione indiretta dell’atto ad un soggetto diverso dal suo autore che
dipende necessariamente dalla naturale inidoneità in cui il soggetto della
imputazione si trova nel produrre fattispecie giuridiche.
Nella teoria organicistica, infatti, l’organo è inserito necessariamente nel quadro
organizzativo della persona giuridica, per cui si presenta come ufficio ovvero
come titolare dell’ufficio, con attribuzione e delimitazione dei relativi compiti.
L’organo, peraltro, è necessariamente una o più persone fisiche, in quanto la
persona fisica è termine essenziale per il rapporto di immedesimazione dal
momento che è la sola ad avere la idoneità naturale di agire, di compiere atti
giuridici. Pertanto, è la sola alla quale è possibile imputare atti giuridici da essa
materialmente compiuti.
Nel rapporto di imputazione corre il termine attivo, ossia il centro di
imputazione, ed il termine passivo, ossia il centro cui si imputa.
Le figure soggettive diverse dalle persone fisiche sono i termini passivi del
rapporto di immedesimazione e l’imputazione degli atti e degli effetti riguarda i
loro organi, quali termini attivi del rapporto.
L’imputazione organica, fondata sull’idea della immedesimazione dell’organo
nella struttura organizzativa della persona giuridica, comporta che sia
quest’ultima titolare delle situazione giuridiche attive e passive nonchè di poteri
e doveri da cui l’adozione di atti giuridici imputati alla persona giuridica.
3. L’organo come strumento di imputazione.
Imputazione organica corrisponde ad imputazione alla figura soggettiva di atti
ed effetti giuridici, per cui l’imputazione dell’atto è compiuta in capo all’organo
e con essa la tutela di coloro che entrano in rapporto con la figura soggettiva, che
non potrà sottrarsi alla responsabilità degli atti viziati in quanto attribuiti
all’organo e non a se medesima.
Di qui il problema della imputazione dei meri atti ed, in particolare dei fatti
illeciti, in quanto secondo alcuni l’imputazione giuridica concerne tutti i
comportamenti giuridicamente rilevanti, sia leciti che illeciti, e perfino atti di
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conoscenza. Invece, secondo altri l’organo imputa alla persona soltanto atti e
non fatti, dato che le imputazioni di fattispecie fattuali non richiedono che il
fatto sia naturalisticamente riferibile all’organo.
Tale ultima tesi sembra preferibile, in quanto è propriamente alla figura
soggettiva che il diritto riconosce la possibilità di curare i suoi interessi
attraverso il compimento di atti rilevanti rispetto al soggetto e non già di meri
fatti. Inoltre, per i fatti illeciti civili, l’imputazione segue regole generali di diritto
privato, mentre regole specifiche sono previste dal diritto pubblico per le
persone giuridiche dell’amministrazione pubblica.
Dunque, per l’imputazione organica di atti illeciti è preferibile parlare di
“ascrizione”, lasciando il termine imputazione alla responsabilità. L’imputazione
di fatti illeciti si fonda sul nesso di causalità materiale, per cui essi non sono
espressione della soggettività giuridica, ma significa che sono compiuti
materialmente da un soggetto che ne è riconosciuto autore.
4. Organo ed ufficio
La nozione di organo (es. dirigente del Comune) rileva soltanto rispetto al
tema delle imputazioni giuridiche, in quanto l’organo è un centro operativo di
imputazione di atti ed effetti della persona giuridica.
Tale nozione di organo non attiene al tema della organizzazione in senso
proprio, in quanto esso si qualifica come ufficio di imputazione.
Infatti, l’organo quale strumento di imputazione deve essere riguardato come
ufficio (es. ufficio tecnico del Comune), e cioè come entità organizzativa.
Di qui il problema del rapporto di imputazione che si radica nell’organo
oggettivamente considerato come ufficio, ovvero nella persona fisica preposta a
tale ufficio?
In tale ottica, il rapporto di imputazione corre tra la persona fisica c.d. titolare
dell’organo e la figura soggettiva, per cui organo in senso proprio dovrebbe
essere considerata la persona fisica indicata come titolare dell’organo, inteso
come ufficio.
Di fatto, l’organo è parte integrante della complessa struttura organizzativa della
figura soggettiva, per cui tale può essere inteso come ufficio e costituisce una
specie del più ampio genere di uffici.
Inoltre, dal punto di vista funzionale, l’organo è strumento di imputazione, in
quanto è soltanto la persona fisica che è titolare dell’ufficio ad essere indicata
come titolare dell’ufficio, c.d. unità organizzativa.
La persona fisica resta termine attivo del rapporto di imputazione che agisce
anche come tale e per se stessa, per cui ogni organo può imputare alla persona
giuridica tutti e solo tutti gli atti ed i relativi effetti che egli compie nell’ambito
della competenza che gli spetta secondo il disegno organizzativo della persona
giuridica.
Infine, con la riforma del 1992 – 1993 si distinguono le funzioni politico –
amministrative da quelle prettamente amministrative ed il numero degli organi
si è incrementato con l’acquisizione di ruolo da parte di tutti i dirigenti, ai quali
spetta adottare gli atti ed i provvedimenti amministrativi compre gli atti che
impegnano l’amministrazione all’esterno (art. 4, comma 2, d. lgs. n. 165/
20015).
Art. 4, comma 2 dlgs 165/2001: Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi,
compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria,
tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane,
5
10
Capitolo 3
Le strutture organizzative
1. Il disegno organizzativo delle strutture.
Le strutture delle amministrazioni pubbliche sono il supporto necessario per lo
svolgimento di attività complesse a queste demandate in funzione del risultato
finale.
Secondo la scienza dell’organizzazione, il tema dell’organizzazione investe il
problema della divisione, coordinamento e razionalizzazione del lavoro di più
persone. Problema avvertito da ogni struttura operati e non soltanto nelle
amministrazioni pubbliche, in quanto si pone la questione della distribuzione
dei compiti differenziati su una pluralità di centri di lavoro secondo criteri e
principi idonei ad assicurare il raggiungimento di propri scopi.
Le strutture organizzative pubbliche, in particolare, sono organizzazioni formali,
costituite per raggiungere scopi determinati sulla base di atti formali di
costituzione, modificazione e di estinzione secondo il principio di legalità che le
avvolge. Inoltre, queste sono burocratiche, in quanto l’attività lavorativa
fondamentale è regolata dal principio procedimentale costituita dalle fasi di
iniziativa, acquisizione e valutazione dei dati di conoscenza, decisione ed
esternazione degli atti giuridici finali nonché delle attività a queste strumentali.
Ciascuna di tali attività costituisce una funzione in senso atecnico, finalizzata al
raggiungimento del risultato finale unitario.
Invero, il disegno organizzativo di qualsiasi struttura organizzativa si articola in
centri di lavoro, che ne costituiscono le unità strutturali elementari tanto che il
disegno organizzativo risulta composto dalla somma di uffici, quali centri di
lavoro, e dai compiti ovvero ruolo ad essi assegnati, nonché dalle relazioni
esistenti tra essi.
L’indicazione del numero, dimensione e ruolo degli uffici è regolata secondo il
principio di legalità.
2. La nozione di ufficio
Gli uffici sono le unità elementari di base di qualsiasi struttura organizzativa, che
investe il piano organizzativo, risultando estranei al tema della soggettività e
delle impugnazioni, laddove all’interno di essi è ricondotta la figura dell’organo.
La distinzione tra ufficio ed organo è stata caricata di diversi significati tanto che
l’ufficio è stato considerato dalla dottrina come “astratta sfera di competenze” in
quanto riferito allo svolgimento di funzioni ed esercizio di poteri. Considerato,
poi, in termini di competenza, la dottrina successiva ha riguardato all’ufficio sul
piano strettamente giuridico con riferimento alle persone fisiche ivi operanti,
per cui l’ufficio è stato valorizzato come centro di lavoro, ossia servizio personale
prefigurato, predeterminato di un’attività lavorativa coordinata con altri centri
di lavoro che, nel loro insieme, consentono alla figura soggettiva di svolgere le
loro funzioni.
Ciascun ufficio, infatti, è dotato di un proprio ruolo, per cui il soggetto ad esso
preposto è centro della dinamica giuridica ed il suo ruolo, assegnato secondo un
disegno organizzativo, risulta modellato sulla base delle risorse umane e
strumentali di cui si compone.
strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della
gestione e dei relativi risultati.
11
3. Rapporto d’ufficio. Rapporto di servizio. Munus ed officium.
L’ufficio è composto di servizi di persone fisiche che prestano ivi la propria
attività lavorativa e che fanno capo al titolare dell’ufficio, il quale è la persona
fisica che, assegnando compiti specifici agli addetti, dirige il lavoro dell’ufficio di
cui è responsabile anche nei rapporti con gli altri uffici.
All’interno dell’ufficio si determina una relazione organizzativa denominata
gerarchia propria, dal contenuto variabile secondo i modelli organizzativi e
modulato secondo le diverse esigenze.
L’attività degli addetti è giuridicamente dovuta ed assume il carattere di dovere
d’ufficio, un quanto gli addetti devono prestare il loro lavoro nell’ambito
dell’organizzazione di una figura operativa.
Di qui la distinzione con il c.d. munus, ossia con l’ufficio in senso soggettivo,
che rappresenta la figura attiva nel rapporto di imputazione costituito dalla
figura soggettiva investita della cura dell’interesse altrui. Titolare del munus,
infatti, è il titolare della funzione sottoposta alle direttive ed ai controlli di altri
soggetti anch’essi investiti della cura del medesimo interesse alieno a quello del
munus. Pertanto, il rapporto organizzativo in tale ambito può essere assunto da
un soggetto privato.
Dal munus si distingue l’officium, ossia l’ufficio in senso oggettivo, che
rappresenta lo strumento mediante il quale una data collettività, priva di
personalità giuridica (ente di fatto), riesce ad agire giuridicamente.
Di conseguenza, mentre l’officium è centro attivo di imputazione che gode di
propria soggettività in forza della quale è titolare anche di legittimazione
sostanziale e processuale per la cura di interessi propri; il munus, invece,
riguarda ad interessi alieni rispetti a quelli che sono insiti nella propria struttura
organizzativa.
Il titolare dell’ufficio, incardinato nell’ufficio, svolge un’attività lavorativa
soltanto strumentale allo svolgimento della funzione che resta attribuita alla
persona giuridica.
Nello specifico, il rapporto d’ufficio sembra estendersi a tutti i componenti
dell’ufficio e, dunque, al titolare dell’ufficio e a tutti gli addetti che, tramite
l’ufficio, sono legati alla persona giuridica soggettiva. Tale rapporto trova
maggiore rilievo nei confronti del titolare dell’ufficio rispetto al quale si rivolge il
dovere d’ufficio che gli addetti devono prestare durante la propria attività
lavorativa.
Distinto dal rapporto d’ufficio è il rapporto di servizio che investe il pubblico
dipendente, ossia colui che svolge attività lavorativa in modo professionale,
continuativa, permanente ed esclusivo dietro corresponsione di una retribuzione
da parte dell’amministrazione pubblica.
Sul piano della responsabilità amministrativa, il rapporto d’ufficio si radica nella
giurisdizione della Corte dei Conti.
L’atto di investitura del titolare del rapporto d’ufficio deriva da procedimento di
nomina o mediante elezione e la nomina può anche derivare da fiducia sulla
base di requisiti ritenuti idonei allo specifico ufficio.
Quanto al procedimento elettorale, la nomina investe i rappresentanti del corpo
elettorale.
Per il conferimento degli incarichi dirigenziali, invece, l’atto di investitura
dell’ufficio rientra nell’ambito degli atti di esercizio di poteri privati come
ravvisato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, di cui a seguito si
tratterà.
12
4. Uffici monopersonali e pluripersonali (collegiali).
Se la titolarità è assegnata ad una pluralità di persone fisiche, l’ufficio si
caratterizza per la collegialità, la cui disciplina è rimessa al suo ordinamento.
In particolare, per la costituzione del collegio è necessaria la presenza fisica
di un certo numero di componenti, c.d. quorum strutturale, stabilito dalla
legge che, in assenza di previsioni specifiche, deve permanere per tutta la durata
della seduta.
Il collegio si qualifica perfetto se la normativa prevede la presenza di tutti i
componenti del collegio ai fini della validità della riunione.
La proposta di deliberazione acquista la dignità di deliberazione del collegio
quando sono si espressi favorevolmente i componenti del collegio nel medesimo
numero richiesto dalla norma ed il quorum è funzionale (cioè il quorum
richiesto per il funzionamento del collegio) a seconda il tipo di collegio ovvero
del tipo di deliberazione e che corrisponde alla metà dei membri votanti più uno,
c. d. maggioranza semplice sebbene siano previste maggioranze qualificate
diverse.
Durante la votazione può accadere che uno dei componenti si astenga per
ragioni di opportunità o perché obbligatovi, per cui l’astenuto viene computato
tra i votanti e risulta ininfluente ai fini del quorum funzionale, salto diversa
indicazione normativa.
I collegi sono costituito da un numero fisso di persone ma possono anche variare
nella loro composizione. Il Presidente è titolare di ulteriori poteri strumentali
finalizzati al funzionamento del collegio. La deliberazione assunta dalla presenza
dei soli membri del collegio si ritiene assunta nel momento in cui i componenti
del collegio esprimono la loro volontà e non già quando è approvato il verbale
della relativa seduta.
La verbalizzazione, infatti, integra un’attività successiva all’approvazione volta a
tradurre per iscritto quanto discusso, per cui l’attività tradotta nel verbale è
attività capace di produrre certezza giuridica.
La dottrina distingue tra collegi di ponderazione, che si riuniscono in un unico
corpo più capacità professionali, e collegi di composizione, se la ragione è quella
di comporre in unica sede interessi molteplici e diversi tra loro. Inoltre, i primi
riguardano ponderazioni di tipo tecnico e sono composti da persone capaci di
tale attività laddove i secondi valutano, e non ponderano, fatti e comportamenti
relativi a comportamenti differenziati. I primi funzionano soltanto con la
partecipazione di tutti i componenti, mentre i secondo possono funzionare
anche in assenza di alcuni componenti.
5. Le vicende del rapporto. Il funzionario di fatto.
L’ordinamento prevede che, qualora il titolare dell’ufficio si trovi in
situazioni di temporanea incapacità di prestare la propria attività
lavorativa, sia assicurata la necessaria continuità nel servizio dei compiti
dell’ufficio strumentale al conseguimento della funzione.
Le due figure che assolvono a tale funzione sono quella della supplenza e della
reggenza.
Il supplente è il titolare di un altro ufficio dell’amministrazione che subentra
automaticamente nella titolarità dell’ufficio al verificarsi della vacanza senza
specifico atto di nomina.
La reggenza, invece, ricorre nei casi di mancata previsione della supplenza,
presuppone la nomina interinale del titolare di altro ufficio individuato secondo
procedure stabilite.
13
L’incaricato temporaneo conserva la medesima ampiezza di compiti
dell’incarico assegnato in origine anche se possono essere previste limitazioni.
La cessazione del rapporto d’ufficio, invece, può derivare da varie ragioni
ed in passato si consentiva al titolare dell’ufficio di continuare ad esercitare il
proprio ruolo anche dopo la scadenza dell’investitura e fino all’insediamento del
suo successore, come prevedono alcune leggi di settore. A livello generale,
invece, le funzioni attribuite agli organi generali hanno un loro termine di durata
previsto per ciascuno di essi entro il quale possono essere ricostituiti e in caso di
mancata ricostituzione è prevista la prorogatio per non più di 45 giorni
decorrenti dalla loro scadenza, in cui possono adottare soltanto atti di
ordinaria amministrazione a pena di nullità.
Tale sistema trova fondamento giuridico nell’esigenza di continuità
nell’esercizio delle funzioni amministrative, per cui l’invalidità di nomina dei
membri del collegio vizia l’investitura dell’intero collegio e la delibera adottata
da collegi imperfetti risulta irrilevante ai fini della validità della delibera.
Ulteriore figura è quella del c.d. usurpatore d’ufficio, ossia colui che con
coscienza e volontà assume la titolarità dell’ufficio pubblico prescindendo da
formale investitura. Tale figura trova limitazione nel funzionario di fatto laddove
manchi la reale volontà usurpatrice.
6. L’ufficio del responsabile del procedimento.
La figura del responsabile del procedimento6 rappresenta un esempio di
aggregazione e concentrazione di più ruoli all’interno di un unico ufficio o
6
legge 241/90 Capo II
Responsabile del procedimento - Articolo 4. (Unità organizzativa responsabile del procedimento)
(1)
1. Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche amministrazioni sono
tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l'unità
organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale.
2. Le disposizioni adottate ai sensi del comma 1 sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli
ordinamenti.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 5. (Responsabile del procedimento) (1)
1. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto
all'unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento
nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale.
2. Fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma 1, è considerato responsabile del
singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma del comma 1
dell'articolo 4.
3. L'unità organizzativa competente e il nominativo del responsabile del procedimento sono comunicati
ai soggetti di cui all’articolo 7 e, a richiesta, a chiunque vi abbia interesse.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 6. (1) (Compiti del responsabile del procedimento)
1. Il responsabile del procedimento:
a) valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che
siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento;
b) accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e adotta ogni misura
per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di
dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti
tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali;
c) propone l'indizione o, avendone la competenza, indìce le conferenze di servizi di cui all'articolo 14;
d) cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le modificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti;
e) adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all'organo
competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal
14
meglio dell’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni
adempimento procedimentale nonché dell’adozione del provvedimento finale.
Tale figura risponde alle esigenze di funzionalità e trasparenza dell’azione
amministrativa, per cui ciascuna amministrazione determina, in prima fase, per
ciascun procedimento l’unità organizzativa responsabile dello svolgimento
procedimentale e dell’adozione del provvedimento finale. Fin qui vi è
distribuzione di ruoli secondo il principio di articolazione dell’attività
amministrativa ex art. 97 Cost.
In seguito, il dirigente dell’unità organizzativa individua il responsabile del
procedimento assegnando a sé o ad altro dipendente addetto a tale unità, la
responsabilità dell’istruttoria e di ogni altro adempimento relativo al
procedimento nonché eventualmente dell’adozione del provvedimento finale,
per cui fino a tale assegnazione il funzionario resta responsabile del singolo
procedimento.
Il ruolo assegnato all’ufficio è individuato dalla legge n. 241 del 1990 e dalle
norme regolamentari che nello specifico disciplinano la materia per ciascun tipo
di procedimento.
Il responsabile può essere sia il titolare dell’ufficio che qualsiasi altro addetto
scelto tra gli uffici interessati dall’attività procedimentale o anche fuori di essi.
Quanto al dirigente dell’unità organizzativa, ai sensi degli artt. 4, 5 e 6 della
legge n. 241 del 1990, non è richiesto che egli rivesta la qualifica di dirigente e
neppure avere la competenza ad adottare il provvedimento finale che, invece, è
predeterminata dalla legge. Pertanto, il dirigente che omette di indicare,
all’avvio del procedimento, un diverso responsabile, assumerà egli stesso il ruolo
di tale ufficio temporaneo nell’ambito di una responsabilità limitata alla fase
procedimentale in senso stretto.
7. Le fonti e i criteri di organizzazione.
Nelle organizzazioni complesse, in cui operano molteplici uffici al fine di
raggiungere uno scopo comune, le strutture sono disciplinate e realizzate con
leggi, regolamenti ed atti organizzativi soprattutto Statuti degli enti territoriali
minori con la riforma del Titolo V della Costituzione (attuata con la legge cost.le
3/2001).
In particolare, gli atti organizzativi si distinguono tra atti di
macrorganizzazione e microrganizzazione quanto alla loro natura
giuridica pubblica o privata, in virtù dei principi costituzionali di imparzialità e
buon andamento, mentre le unità organizzative (gli uffici) si aggregano in senso
verticale, secondo la rilevanza del ruolo assunto e in senso orizzontale secondo
la differenza tipologica delle attività svolte, tale da formare un relazione
piramidale di autorità – responsabilità all’interno del medesimo sistema
organizzativo.
La struttura organizzativa, infatti, si articola in una pluralità di uffici coinvolti
nel perseguimento dell’obiettivo comune dello svolgimento di attività e scelte
che ciascuno opera nel rispetto reciproco.
A ciascun livello decisionale, infatti, sono ascritti profili di autorità e
responsabilità differenti a seconda del grado della scelta effettuata e per
agevolare il perseguimento dell’obiettivo comune è riconosciuta la piena
attuazione del principio della trasparenza del responsabile del procedimento e
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal
responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
15
della creazione di Uffici per le relazioni con il pubblico e dei servizi di
comunicazione pubblica a favore dei cittadini.
In relazione al tipo di attività svolta si distingue tra amministrazioni
burocratiche deputate all’esercizio delle funzioni pubbliche, ed amministrazioni
dal carattere aziendalistico per l’esercizio di pubblici servizi.
In relazione alla rilevanza dei compiti assegnati viene distribuito il lavoro tra i
vari uffici all’interno delle strutture organizzative, per cui la cura degli interessi
pubblici è affidata a ciascuna amministrazione agli uffici centrali e quelli di
minor rilievo agli uffici di base, i c.d. uffici periferici.
Di qui si parla di accentramento nel primo tipo di struttura amministrativa e di
decentramento per i sistemi globali del secondo tipo sovraindicato.
In relazione agli interessi pubblici sono assegnati compiti alle strutture
amministrative ed il coordinamento e controllo di tali funzioni e competenze
avviene mediante raccordo di organi cui spetta elaborare indirizzi unitari ovvero
attraverso il finanziamento unitario della attività inerenti all’amministrazione.
Lo Stato rappresenta il modello di persona giuridica unitaria che si presenta, al
suo interno, come aggregato di una pluralità di strutture organizzative, quali i
ministeri, che esprimono ciascuno una propria attività con propri organi senza
poter risalire ad una struttura unificata. Si tratta di un modello disaggregato in
cui s’instaurano rapporti intersoggettivi nei confronti dei terzi con imputazione
delle fattispecie in capo alle singole strutture anziché direttamente allo Stato.
Inoltre si rileva il trasferimento a livello comunitario di funzioni in precedenza
spettanti in via esclusiva allo Stato, in quanto i soggetti chiamati a rappresentare
lo Stato nei rapporti comunitari si sono moltiplicati e ciò è un ulteriore fattore di
disaggregazione dell’amministrazione pubblica.
8. L’Amministrazione dello Stato: caratteri generali.
All’interno della struttura delle amministrazioni pubbliche si distingue tra
amministrazioni pubbliche, quale concetto generale ed amministrazioni dello
Stato, concetto specifico.
Invero gli organi dello Stato sono stati considerati dalla dottrina come organi
dalla personalità giuridica imperfetta, in quanto il carattere della soggettività
risultava inadeguata.
Tuttavia, con la maturata consapevolezza che trattasi di centri di imputazione di
situazioni soggettive seppure prive di personalità giuridica, le singole
amministrazioni in cui si articola lo Stato, quale unico soggetto di diritto, hanno
una propria consistenza separata sul piano organizzativo e non anche sul piano
della soggettività. Infatti, ciascun ministero ha organi dotati di rappresentanza
legale che agiscono nell’ambito delle fattispecie compiute dal ministero e non
genericamente dallo Stato, per cui le amministrazioni dello Stato acquistano il
carattere di figure soggettive laddove lo Stato è persona giuridica unitaria.
Il modello ministeriale, anche grazie ai rapporti con l’Unione europea, è venuto
a frammentarsi in tanti altri uffici del Ministero secondo diversi disegni
organizzativi, fermo restando che l’amministrazione dello Stato segue la
disciplina specifica tipica delle amministrazioni pubbliche relativamente ai
procedimenti contabili, finanziari, negoziali, processuali.
9. Le amministrazioni autonome
Le amministrazioni, svolgendo attività di produzione di beni e servizi
nell’ambito di organizzazioni complesse di tipo burocratico, restano collegate
agli organi di vertice cui coincidono i titolari della struttura di riferimento.
16
Il grado di compiutezza del loro disegno organizzativo ne determina il
riconoscimento come figure soggettive, per cui la legge in alcuni casi le istituisce
come veri e propri enti pubblici.
In particolare, il modello organizzativo dell’amministrazione autonoma è
ricondotto a quello delle aziende autonome dello Stato e da quelli delle aziende
municipalizzate degli enti locali.
La dottrina, a riguardo, ne indica il carattere derogatorio della disciplina del
modello organizzativo burocratico.
Tale modello, in definitiva, è stato pressoché abbandonato a seguito dei recenti
processi di trasformazione delle amministrazioni pubbliche in società pubbliche.
Parte I
Capitolo 4
Le relazioni organizzative e formule organizzative
In relazione alle strutture compiute che fanno capo ad una organizzazione
avente personalità giuridica, si pone un’esigenza di razionalità del sistema che
consiste nel raccordare tra loro tali strutture al fine di ricomporla a livello
funzionale nell’unitarietà dell’organizzazione complessiva.
Molteplici rapporti si pongono tra loro, creando una trama che abbraccia
l’intera organizzazione amministrativa.
Tali rapporti sono, appunto, le relazioni organizzative, rispetto alle quali si
struttura l’organizzazione formale disciplinata dal diritto, quali rapporti
giuridici caratterizzati da situazioni giuridiche soggettive correlate e
contrapposte di cui sono titolari le diverse strutture organizzative.
Questi rapporti si articolano in potestà ed interessi protetti e la consistenza delle
relazioni organizzative risulta costante per le strutture dotate di personalità
giuridica, viceversa non è costante nelle strutture prive della personalità
giuridica.
Tale differenza si riflette nella struttura sottordinata che, nel primo caso, può
chiedere tutela dell’interesse protetto anche in sede giudiziale, laddove nel
secondo caso essa deve accontentarsi dei soli rimedi amministrativi.
Nel quadro generale delle relazioni organizzative si specificano due tipi di
formule: un rapporto potestà – interesse protetto ed un rapporto potestà –
soggezione.
In particolare, si parla di relazioni infrastrutturali o interne quanto alle relazioni
tra uffici della medesima struttura e relazioni tra strutture o amministrazioni
diverse per indicare le relazioni intersoggettive tra amministrazioni dotate di
personalità giuridica. Queste ultime sono le relazioni organizzative che
interessano maggiormente.
Invero le relazioni tra strutture compiute sono rapporti giuridici aventi
contenuti diversi, quali potestà di direzione, indirizzo, controllo e così via e
l’insieme di queste caratterizza la posizione nella quale le une si collocano
rispetto alle altre.
Tali posizioni relazionali danno luogo a modelli o formule organizzative
raggruppabili nella posizione di autonomia o indipendenza ovvero in
dipendenza nelle sue forme di ausiliarietà, strumentalità, dipendenza in senso
stretto.
La posizione di autonomia si caratterizza per la limitata consistenza delle
relazioni organizzative, mentre quella di dipendenza si caratterizza per la forte
consistenza delle relazioni organizzative.
17
Quanto ai rapporti o relazioni organizzative dotate di stabilità, si rinviene la
posizione in cui un ufficio, struttura compiuta, si trova rispettivamente nei
confronti dell’ufficio parte della struttura amministrativa, da cui la posizione di
ciascun ufficio nei confronti degli altri uffici nell’ambito della medesima
struttura organizzativa.
La dottrina ha ravvisato nelle organizzazioni equiordinate una relazione di
reciproca indifferenza, in quanto si rinviene tra queste il coordinamento delle
azioni rispettive, che invece è escluso nelle relazioni tra uffici caratterizzate da
sovra ordinazione – subordinazione.
Con il termine “formula organizzativa”, dunque, si fa riferimento ad un modello
organizzativo complesso considerato sia rispetto alle strutture che lo
compongono sia alle relazioni tra tali strutture. Pertanto, attraverso lo studio
delle relazioni organizzative si considera il modo in cui le singole strutture
interagiscono tra di loro.
Occorre altresì considerare che le relazioni organizzative infrastrutturali, ossia
tra uffici della medesima struttura organizzativa, riguardano gli uffici “di line” di
una struttura organizzativa e non già gli uffici “di staff”, i quali sono collegati alla
struttura compiuta per le funzioni di supporto che ad essa prestano, quali la
programmazione, la consulenza, il controllo.
Le posizioni relazionali, c.d. formule organizzatorie, si rinvengono anche negli
enti territoriali per i quali si è posto il rilievo del diverso grado di dipendenza
rispetto allo Stato.
In definitiva, esistono tante specifiche disposizioni organizzative quante sono le
posizioni relazionali secondo le diverse discipline organizzative positive da cui la
consistenza delle medesime relazioni organizzative.
2. La gerarchia
La nozione di gerarchia ha subito negli anni una modificazione nella sua
applicazione e nei suoi contenuti. Il primo modello di organizzazione
amministrativa, infatti, era ispirato ad un modello fortemente accentrato, per
cui la gerarchia era l’unica formula organizzativa positivamente utilizzata.
Successivamente, tale modello si è andato riducendo nella sua applicazione, per
cui si sono preferite soluzioni pluralistiche e decentrate tanto che oggi la
gerarchia non attiene più alle relazioni interstrutturali seppure con residua
traccia nelle relazioni tra uffici della medesima amministrazione.
In particolare, la gerarchia caratterizza oggi i rapporti tra organi ed uffici
serventi e tra dirigenti di vario livello nell’ambito della distribuzione dei
compiti, per cui all’ufficio inferiore viene fatta rientrare la competenza di
specifici compiti secondo disposizioni generali in qualsiasi momento
modificabili dall’ufficio sovraordinato.
Di fatto, le competenze degli uffici inferiori si sono andate modificando nel
tempo tanto da essere individuate in via formale e la gerarchia ha subito una
prima evoluzione, dal momento che gli atti del primo vengono ad essere oggetti
di controllo sotto il profilo della legittimità.
La gerarchia è formula organizzativa che contiene in sé tutte le potestà di sovra
ordinazione, quali indirizzo, programmazione, controllo, per cui si può
affermare che le relazioni organizzative di sovra ordinazione riflettono
l’isolamento di potestà contenute nella formula della gerarchia.
Tipica della gerarchia è la potestà d’ordine, quale possibilità dell’ufficio
sovraordinato di prescrivere le modalità di comportamento all’ufficio
sottordinato mediante atti generali ovvero puntuali nonché potere di revoca e
riforma degli atti emanati dall’ufficio inferiore.
18
Tuttavia, a seguito della formazione dello Stato moderno si assiste alla
spersonalizzazione degli uffici e del potere gerarchico, per cui la tendenza è
quella di valorizzare il rapporto tra uffici.
Invero, sotto il profilo giuridico la relazione di sovra ordinazione –
subordinazione tra uffici fa riferimento al rapporto di poteri di ordine o di
comando nei confronti dell’ufficio inferiore, per cui è necessario che tra i vari
uffici vi sia un’identità di competenza, quale presupposto necessario di ogni
rapporto giuridico.
Considerata la competenza degli uffici gerarchicamente ordinati, infatti, si
rinviene che la responsabilità del titolare di un ufficio presuppone la competenza
dell’ufficio distinta da quella dell’ufficio sovraordinato, da cui la distinzione
delle sfere di competenza che comporta determinazione nell’esercizio più o
meno attenuato dei poteri.
In proposito la riforma della dirigenza statale di cui al d. lsg. n. 29 del 1993 e d.
lgs. n. 165 del 2001, ha attribuito competenze esclusive ai dirigenti ma ha altresì
attenuato i poteri di ingerenza del Ministro, il quale non ha più potere d’ordine
generale, bensì potere di impartire direttive agli organi, centrali e periferici,
dell’Amministrazione.
La gerarchia, infatti, tende oggi ad avvicinarsi al rapporto di direzione tanto che
ormai sembra sia scomparsa dall’ordinamento amministrativo. A riprova di ciò
si consideri il rapporto di gerarchia tra dirigenti di uffici dirigenziali generali e
dirigenti delle strutture di livello inferiore nelle quali questi sono articolati, per
cui i primi definiscono i compiti dei secondi individuando obiettivi e delegando
le specifiche competenze e possono sostituirsi ad essi in caso di inerzia,
decidono sui ricorsi gerarchici contro i loro atti e ne organizzano gli uffici, ex art.
16, comma 1, d. lgs. n. 165 del 2001 e art. 5, comma 5, d. lgs. n. 3 del 2004.
3. La direzione
La relazione di direzione è la relazione organizzativa tra uffici della
medesima struttura ovvero tra strutture e persone giuridiche diverse.
Tale relazione fa capo all’ufficio sovraordinato al quale spetta il potere di
emanare atti con i quali, a differenza del potere di ordine, indica scopi concreti
da perseguire, stabilisce ordini di priorità e lascia all’ufficio inferiore la scelta di
raggiungere tali scopi.
La relazione gerarchica si va trasformando in relazione di direzione che, nei
rapporto intersoggettivi, rappresenta uno strumento organizzativo idoneo a
raccordare le figure soggettive pubbliche diverse dallo Stato.
La direzione, infatti, costituisce un rapporto di sovra ordinazione caratterizzato,
a differenza della gerarchia, dal rispetto di una più o meno ampia sfera di
autonoma determinazione dell’ufficio o dell’ente subordinato, per cui al potere
di ordine si sostituisce il potere di impartire direttive ovvero il potere di
indirizzo con cui vengono fissati gli obiettivi da perseguire e l’ufficio o l’ente
subordinato resta però libero di determinare i modi ed i tempi dell’azione in uno
spazio limitato positivamente. Parimenti, il controllo non è più controllo sugli
atti, bensì controllo sull’attività svolta dall’ufficio o ente soggetto alla direzione.
L’elaborazione della nozione di direzione nell’ambito del diritto amministrativo
risale agli inizi del Novecento, allorché il dirigente venne considerato non più
come un soggetto della supremazia o della subordinazione. La gerarchia, infatti,
venne ridimensionata dalla dottrina successiva che offrì della direzione una
versione più obiettiva riassunta in poteri, potestà o atti giuridici di direttiva,
19
specialmente quelli svolti dagli organi di governo nell’esercizio di funzioni di
indirizzo politico – amministrativo.
Di fatto, la direzione è un rapporto di sovra ordinazione - subordinazione che,
secondo la dottrina più recente, riguarda soprattutto la disciplina giuridica dei
rapporti tra Ministro – dirigenti, titolari degli uffici dirigenziali, generali e tale
relazione si fonda sul criterio della competenza con esclusione della
configurabilità di una relazione di sovra ordinazione – sottordinazione.
Tale relazione, infatti, ruota attorno alla più ampia funzione di indirizzo politico
– amministrativo che trova nei dirigenti generali l’attività di programmazione
strategica che si attua sul piano operativo mediante l’utilizzo razionale delle
risorse e la fissazione delle strategie medesime. Tale processo interessa gli
organi di governo e gli organi di gestione, nelle varie tappe, per cui il concetto di
strategia, a differenza di quello di direzione, si precisa nella durevolezza e nella
stabilità degli obiettivi assegnati.
4. Il coordinamento.
Il coordinamento non è di per sé una relazione organizzativa, bensì il risultato
dell’esercizio di poteri inerenti ai diversi tipi di rapporti organizzativi.
La dottrina parla di rapporto di equiordinazione tra soggetti preposti ad attività
che, pur essendo distinte, sono destinate ad essere ordinate secondo un disegno
unitario in vista di risultati di interesse comune. Esso risponde al fine di
assicurare coerenza ed organicità all’attività amministrativa.
In dottrina si è ritenuto che il coordinamento sia un rapporto non precisato da
norme ordinarie, per cui tutte le parti sarebbero vincolate a comportamenti
conseguenti a quelle istanze equiordinate prefissate, in quanto esso realizza il
risultato di raccordo tra figure soggettive che esprimono attività di
partecipazione ad uguale titolo in tutti gli uffici ovvero enti chiamati
contestualmente alla valutazione degli interessi in gioco.
Il coordinamento, dunque, non è né un potere, né un tipo di relazione
organizzativa, bensì il risultato al quale si può pervenire attraverso relazioni di
sovra ordinazione ovvero di equiordinazione.
5. Il controllo
Nel dibattito dottrinale, il controllo trova significato nel garantire la regolarità
formale e sostanziale del processo di formazione delle decisioni amministrative,
per cui esso risulta connaturato al modo di essere della organizzazione
amministrativa e si fonda sull’esigenza di verificare la rispondenza dell’attività
di strutture pubbliche alle regole formali ovvero al vincolo funzionale.
Sotto il profilo giuridico, i controlli possono essere interni, sia interorganici che
intersoggettivi, e si distinguono in controlli interni, relativi alla medesima
struttura, ovvero controlli esterni. Rispetto all’oggetto, i controlli possono essere
controlli sui singoli atti oppure sull’attività dell’ufficio o della struttura soggetta
a controllo.
Il controllo sugli atti può essere preventivo o successivo, a seconda che sia
esercitato prima o dopo che gli effetti siano diventati esecutivi.
A seconda del parametro assunto per la verifica, i controlli possono essere di
legittimità se il parametro è la legge, ovvero controllo di merito se è
l’opportunità dell’attività amministrativa, infine controllo di gestione e
controllo strategico se i parametri sono l’economicità, l’efficienza e la
20
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congruità dell’attività posta in essere o programmata rispetto ai risultati
raggiunti o prefissati.
Il sistema dei controlli è disciplinato dalla legge generale di contabilità di Stato,
r.d. n. 2330 del 1923 e dal testo unico della Corte dei conti, r.d. n. 1214 del 1834
e dal testo unico delle leggi comunali e provinciali, r.d. n. 383 del 1934 oltre a
varie leggi di settore. Si tratta di un sistema incentrato soprattutto sul controllo
esterno di competenza della Corte dei Conti per gli atti amministrativi statali e
su quelli dei Comuni e delle Province i controlli sono soprattutto quelli di
legittimità e di merito.
La Carta costituzionale ha ridotto il controllo di merito a semplice richiesta di
riesame da parte degli enti di controllo affidandoli alla Commissione di controllo
sugli atti delle regioni, ai Comitati regionali di controllo sugli atti degli enti
locali.
Tale assetto ha subito modificazioni a partire dagli anni ’90 sia per gli atti delle
Regioni sia per gli atti dei Comuni e delle Province.
In linea generale, i controlli preventivi di legittimità si esercitano nei soli
confronti degli atti del governo in virtù dell’art. 100, comma 2, Cost. di
competenza della Corte dei conti7.
La tipologia dei controlli si è arricchita con il d.lgs. n. 286 del 1999:
controllo di regolarità amministrativa e contabile, per la legittimità, regolarità
e correttezza dell’azione amministrativa, avente carattere preventivo nei soli casi
espressamente previsti dalla legge;
controllo di gestione, per la verifica dell’efficacia, efficienza, economicità
dell’azione amministrativa al fine di consentire ai dirigenti di ottimizzare il
rapporto tra costi e risultati;
valutazione dei dirigenti, quale presupposto per la responsabilità dirigenziale
di cui all’art. 21, commi 1 e 2, d. lgs. n. 165 del 20018.
valutazione e controllo strategico, per la verifica dell’attività degli organi di
indirizzo politico – amministrativo e valutare le scelte dei dirigenti rispetto agli
obiettivi stabiliti dalle norme ed individuare eventuali fattori di ostacolo al
raggiungimento di tali obiettivi;
7
Art. 100. Cost:
Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia
nell'amministrazione.
La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello
successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge; al
controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria.
Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito.
La legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo.
8
Articolo 21 d. lgs. n. 165 del 2001-Responsabilita' dirigenziale
1. I risultati negativi dell'attivita' amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli
obiettivi, valutati con i sistemi e le garanzie determinati con i decreti legislativi di cui all'articolo 17 della
legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, comportano per il dirigente
interessato la revoca dell'incarico, adottata con le procedure previste dall'articolo 19, e la destinazione ad
altro incarico, anche tra quelli di cui all'articolo 19, comma 10, presso la medesima amministrazione
ovvero presso altra amministrazione che vi abbia interesse.
2. Nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente o di ripetuta
valutazione negativa, ai sensi del comma 1, il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, puo'
essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello
revocato, per un periodo non inferiore a due anni. Nei casi di maggiore gravita', l'amministrazione puo'
recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.
3. Restano ferme le disposizioni vigenti per il personale delle qualifiche dirigenziali delle Forze di
polizia, delle carriere diplomatica e prefettizia e delle Forze armate
21
6. Delegazione di funzioni ed utilizzazione degli uffici
Le figure soggettive pubbliche possono risultare legate a vicende che implicano
rapporti di collaborazione tra figure soggettive diverse.
Tali vicende possono raggrupparsi in due modelli fondamentali, quali la
delegazione di funzioni e l’utilizzazione di uffici altrui.
Nella delegazione la figura soggettiva è titolare di un potere o funzione e ne
trasferisce l’esercizio ad altra figura soggettiva, per cui il delegante resta titolare
dei poteri o delle funzioni e conserva il potere di indirizzo e controllo sull’attività
del delegato.
La delegazione può aversi tra enti diversi, tra strutture compiute e tra organi
della stessa struttura.
La delegazione dà luogo all’esercizio indiretto della funzione amministrativa
ovvero amministrazione indiretta e tale modello è tipico delle amministrazioni
c.d. aperte così come previsto dall’art. 118, ultimo comma, Cost9.
L’utilizzazione degli uffici, infatti, riguarda attività istruttorie e preliminari e non
già le funzioni in senso proprio, da cui la fondamentale distinzione rispetto alla
delegazione.
Tuttavia, alla delegazione ed all’utilizzazione degli uffici si può fare ricorso
soltanto in presenza di una espressa disposizione di legge.
Capitolo 5
L’organizzazione amministrativa
1. L’organizzazione amministrativa nell’architettura costituzionale
L’organizzazione pubblica, sotto il profilo statico del complesso di soggetti che la
compongono, presenta un dato di complessità relativo alla sua correlazione con
il sostrato sociale sul quale va ad innestarsi, in quanto essa è espressione della
scelta politica del ruolo riconosciuto allo Stato in un determinato momento
storico nell’ambito del suo intervento nel settore pubblico.
Il sistema della pubbliche amministrazioni è articolato in modo complesso
composta da una pluralità di soggetti variamente collocati sul territorio
nazionale essenzialmente per ragioni di competenza (per materia o per
territorio) loro riconosciute dalle rispettive leggi istitutive.
Il richiamo costituzionale alle singole figure soggettive delle pubbliche
amministrazioni riguarda il modello ministeriale che pone una riserva di legge
sotto il profilo istitutivo di cui all’ultimo comma dell’art. 95 Cost10. Tale riserva è
altresì richiamata all’art. 97 Cost11 in relazione all’organizzazione dei pubblici
uffici.
9
Art. 118 Cost ultimo comma: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono
l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà.
10
Art. 95 Cost: Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è
responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando
l'attività dei ministri.
I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli
atti dei loro dicasteri.
La legge provvede all'ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e
l'organizzazione dei ministeri.
11
Art. 97.Cost: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano
assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità
proprie dei funzionari.
22
A livello costituzionale, infatti, si rinviene la determinazione dell’indirizzo
politico amministrativo, ossia l’individuazione degli obiettivi e delle finalità che
la comunità statale intende perseguire in un determinato momento storico
secondo la determinazione fissata a livello di politica generale.
Significativo è il riordino degli enti pubblici di cui alla legge. n. 404 del 1956, con
la quale sono stati soppressi gli enti di diritto pubblico e gli altri enti in qualsiasi
forma istituiti, soggetti alla vigilanza dello Stato e interessati comunque alla
finanza statale i cui scopi risultavano “cessati o non più perseguibili” o “in
condizioni economiche di dissesto” o fossero “nell’incompatibilità di attuare i
propri fini statutari”.
Negli anni Settanta, il tema della soppressione dei c.d. enti inutili tornò nel
dibattito parlamentare con l’emanazione della legge sul parastato – legge n. 70
del 1975 – con la quale furono inseriti strumenti per la soppressione dei c.d. enti
inutili e, con d.p.r. n. 616 del 1977, venne disposta la soppressione o la
trasformazione in enti di diritto privato di quasi tutti gli enti pubblici nazionali
rimasti privi delle funzioni da svolgere in ragione del trasferimento o della
delega delle medesime ragioni ordinarie. Venne riordinato il S.S.N. (Sistema
Sanitario Nazionale) con leggi n. 386 del 1974 e n. 349 del 1977 e n. 833 del
1978.
Negli Novanta viene riavviato il dibattito sulla privatizzazione degli enti pubblici
e fu indicato il federalismo amministrativo a Costituzione invariata secondo il
principio di sussidiarietà, in quanto con le leggi Bassanini (legge n. 59 del 1997 e
ss.) si è inteso garantire la semplificazione dell’azione amministrativa e
realizzare una forma più accentuata di federalismo amministrativo nel rispetto
delle esigenze e delle spinte provenienti dalle sedi europee. Tale percorso ha
trovato una puntuale definizione dei compiti, delle funzioni amministrative da
dismettere e conferire agli enti territoriali con reciproca delimitazioni delle sfere
di competenza delle Regioni, Province e Comuni riservando alle prime compiti
di programmazione, regolamentazione ed indirizzo, mentre agli Enti locali sono
state riconosciute funzioni di gestione.
Il decentramento amministrativo di cui alla legge n. 59 del 1997 è stato attuato
con d.lgs. 112 del 1998 al fine di garantire una allocazione delle funzioni e dei
compiti amministrativi (c.d. federalismo amministrativo a Costituzione
invariata) relativi alla cura ed alla promozione dello sviluppo delle rispettive
comunità nonché tutte le funzioni ed i compiti amministrativi localizzabili nei
rispettivi territori in capo alle amministrazioni e agli Enti più vicini ai cittadini.
Allo Stato, dunque, sono rimaste affidate soltanto le funzioni che gli Enti locali e
le Regioni non potevano svolgere rispettando in ciò il principio di sussidiarietà
in senso verticale.
Il decentramento amministrativo si rinviene:
-nella clausola di apertura di cui all’art. 128 Cost12;
-nell’art. 5 Cost., che consacra il principio autonomistico13;
- 118 Cost.14, comma 1 e 2, Cost. che prevede la delega di funzioni amministrative
da parte dello Stato alle Regioni in aggiunta a quelle elencate nell’art. 117 Cost.15
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla
legge.
12
Art. 128 Cost: Le Province e i Comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi
generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni, ora abrogato dall'articolo 9 della Legge 18
ottobre 2001, n. 3.
13
Art. 5 Cost: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
23
14
Art. 118 Cost: Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne
l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Citta' metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei
principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza.
I Comuni, le Province e le Citta' metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle
conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e
h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella
materia della tutela dei beni culturali.
Stato, Regioni, Citta' metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attivita' di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarieta'.
15
Art. 117 Cost: La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato;
rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non
appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema
tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Citta'
metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a:
rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza
del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e
della formazione professionale; professioni;
ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute;
alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili;
grandi reti di trasporto e di navigazione;
ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia;
previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e
organizzazione di attivita' culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione
concorrente spetta alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Spetta alle Regioni la potesta' legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano
alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e
all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalita' di esercizio del potere sostitutivo in
caso di inadempienza.
La potesta' regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni. La potesta' regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le
24
-
-
-
e d.p.r. n. 616/ 1977 con esclusione di quelle di interesse locale attribuite con
legge della Repubblica agli Enti locali.
Federalismo che ha trovato richiamo nella riforma del Titolo V Cost. operata con
legge cost. n. 3/ 2001.
La scelta del costituente è stata di non consacrare a livello di Carta costituzionale
un modello rigido di organizzazione amministrativa, lasciando libero il
legislatore di individuare la struttura organizzativa consona al perseguimento
degli obiettivi che s’intendono perseguire con quella organizzazione.
La dottrina rinviene tre modelli costituzionale di organizzazione amministrativa:
il primo tipo di amministrazione è quello ministeriale di matrice cavouriana, in
quanto apparato servente il Governo dal quale dipende come richiamato all’art.
95 Cost.;
il secondo tipo è il modello di amministrazione c.d. autocefala secondo gli artt.
97 e 98 Cost., per cui non è prevista alcuna indicazione sulla struttura
dell’amministrazione che, invece, è affidata alla discrezionalità del legislatore;
il terzo tipo è il modello c.d. autonomistico o comunitario riconducibile all’art.
5 Cost, che consacra i principi di autonomia e decentramento amministrativo
specificati dal Titolo V della Costituzione.
Citta' metropolitane hanno potesta' regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parita' degli uomini e delle donne
nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parita' di accesso tra donne e uomini alle
cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie
funzioni, anche con individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione puo' concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali
interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
(1) Articolo cosi' modificato dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (G.U. del 24
ottobre 2001, n. 248).
Nel testo originario l'articolo 117 della Costituzione, disponeva:
"La Regione emana per le seguenti materie norme legislative neilimiti dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato,sempreche' le norme stesse non siano in contrasto con l'interessenazionale e con
quello di altre Regioni:
ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione;
circoscrizioni comunali;
polizia locale urbana e rurale;
fiere e mercati;
beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera;
istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica;
musei e biblioteche di enti locali;
urbanistica;
turismo ed industria alberghiera;
tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale;
viabilita', acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale;
navigazione e porti lacuali;
acque minerali e termali;
cave e torbiere;
caccia;
pesca nelle acque interne;
agricoltura e foreste;
artigianato.
Altre materie indicate da leggi costituzionali.
Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro
attuazione".)
25
In conclusione, nel corso degli anni il principio di imparzialità ha coinvolto non
soltanto i soggetti operanti nell’attività amministrativa, ma anche le scelte
politiche di Governo, per cui il dato strutturale viene a risultare il rispetto dei
principi costituzionali disciplinati dalla funzione amministrativa secondo le
disposizioni richiamate.
-
2. Il sistema delle pubbliche amministrazioni
Un primo criterio per sistemare le diverse pubbliche è stato individuato dalla
dottrina nel criterio territoriale, per cui si distingue tra amministrazione statale
a livello generale costituita dai Ministeri ed amministrazione regionale e locale
rappresentata da Enti locali.
Un secondo criterio è stato rinvenuto dalla dottrina nell’ambito di intervento
distinguendo tra enti pubblici ed enti pubblici economici, laddove i primi
sono competenti dell’amministrazione diretta ed indiretta dello Stato, i secondi,
invece, svolgono prettamente attività di natura economica.
La complessità del sistema delle pubbliche amministrazioni, seppure riordinato
con delega al Governo di cui alla legge finanziaria per il 2007, ha impedito di
addivenire ad una nozione unitaria di pubblica amministrazione, per cui la
dottrina ha individuato ulteriori indici di riconoscimento della pubblicità
dell’ente, quali:
il regime giuridico dei soggetti, da cui la costituzione ad iniziativa pubblica
dell’ente secondo le disposizioni costituzionali;
il
loro
inserimento
istituzionale
all’interno
dell’organizzazione
amministrativa.
Accanto a tali indici formali, la dottrina ha poi individuato ulteriori criteri di
natura sostanziale che attengono al profilo funzionale, per cui un ente si
considera pubblico se e nella misura in cui è funzionale al perseguimento di
determinati interessi della società.
Diversa interpretazione emerge dal diritto comunitario, in quanto il giudice
comunitario ha sottolineato come la nozione di pubblica amministrazione deve
essere limitata a quelle organizzazioni incaricate dell’esercizio di pubblici poteri
cui è attribuito lo svolgimento di mansioni che hanno ad oggetto la tutela di
interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche.
3. L’organizzazione ministeriale e le Agenzie
Il modello principale dell’organizzazione dello Stato è stato rappresentato, per
lungo tempo, dal modello ministeriale risalente alla legge Cavour del 1853, con
vertice nei Ministri, quale membri del corpo politico previsti espressamente a
livello costituzionale.
Le leggi istitutive disciplinavano i Ministeri e tale modello venne superato dalla
legge n. 400 del 1988 in cui è stata prevista la possibilità di nominare Ministri
senza portafoglio, cioè Ministeri privi di un proprio apparato organizzativo che
si avvalgono della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’esercizio delle
funzioni loro attribuite.
Successivamente, con d.lsg. n. 300 del 1999 si è operata la riforma
dell’organizzazione del Governo in esecuzione della legge delega n. 59 del 1997,
per cui è stato ridotto il numero dei Ministeri a 12 e viene individuata dalla legge
la missione e le aree funzionali di competenza di ciascun ministero.
Con la riforma del 1999, inoltre, si disciplina la struttura interna delle pubbliche
amministrazioni in base a:
26
-
dipartimenti, cui sono attribuiti compiti su grandi materie omogenee e
compiti strumentali, ivi compreso quelli di indirizzo e coordinamento delle unità
di gestione in cui si articolano i medesimi dipartimenti. Ogni dipartimento è
retto da un dirigente generale, nominato con decreto del Presidente della
Repubblica su deliberazione del Consiglio dei Ministri e su proposta del
Ministro competente. Il Capo del dipartimento opera a diretto contatto con il
Ministro e risponde dei risultati raggiunti dagli uffici dipendenti sulla base degli
obiettivi assegnati, coordina, controlla e dirige gli uffici di livello dirigenziale
generale assicurando la continuità delle funzioni dell’Amministrazione.
In ottemperanza alla nuova configurazione dei rapporti tra vertice politico e
vertice amministrativo, ispirata al principio di separazione, al Capo del
dipartimento spettano anche poteri di allocazione delle risorse nonché la
promozione ed il mantenimento delle relazioni con gli organi competenti
dell’UE per la trattazione degli affari di competenza del proprio Dipartimento
-
direzioni generali, in cui il Segretario generale opera alle dirette dipendenze
del Ministro e provvede alla elaborazione degli indirizzi e dei programmi di
competenza del Ministro ponendo in essere un’attività svolta dai Capi di
Gabinetto. Gli uffici dirigenziali generali trovano il loro vertice i Dirigenti
generali, nominati dai dirigenti.
Al di fuori di tale struttura, la riforma ha previsto uffici di staff, che collaborano
direttamente con Ministri, Vice-ministri e Sottosegretari ed uffici di line che non
gestiscono direttamente affari amministrativi in quanto non appartengono alla
struttura dell’amministrazione del ministero.
In particolare, in dette strutture rientrano soggetti dotati di particolare
esperienza e specializzazione professionale, che possono essere scelti anche
all’esterno dell’amministrazione.
La struttura amministrativa si arricchisce delle Agenzie, quali strutture che
svolgono attività di carattere tecnico operativo a livello nazionale, esercitate da
Ministeri ed Enti pubblici. Sono sottoposte al controllo della Corte dei Conti e
sono soggette alla vigilanza del Ministro, pur essendo separate dal Ministero.
Ad eccezione delle Agenzie fiscali e di quelle di protezione civile e della Agenzie
industrie e difesa, che hanno personalità giuridica, risultano istituite l’Agenzia
per le normative ed i controlli tecnici, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente
e per i servizi tecnici, l’Agenzia dei trasporti terrestri e delle infrastrutture,
l’Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale.
Quanto alle Agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, delle dogane, del territorio e
del demanio) sono attribuite specifiche competenze nei rispettivi ambiti
assegnati,
L’Agenzia per la formazione dei dirigenti e dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni (legge finanziaria per il 2007) risponde all’obiettivo della
formazione dei dirigenti e dipendenti nella pubblica amministrazione al fine di
garantire
un
adeguato
sostegno
alle
pubbliche
amministrazioni
nell’ammodernamento e miglioramento delle attività formative.
Tale struttura di governo e coordinamento al sistema di organizzazione pubblica
si completa con la Scuola superiore della pubblica amministrazione assumendo
il coordinamento dell’attività dell’Istituto diplomatico, della Scuola superiore
dell’amministrazione dell’interno e della Scuola superiore dell’economia e delle
finanze.
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4. L’organizzazione statale periferica.
Sulla base delle funzioni loro assegnate, alcuni Ministeri presentano
articolazioni territoriali rientranti nella c.d. amministrazione statale periferica e
che determinano una forma di decentramento burocratico.
Si distinguono, infatti, organi di competenza generale, quali lo Stato nella sua
totalità ed organi a competenza speciale che svolgono funzioni statali inerenti,
ad esempio, l’istruzione, la pubblica sicurezza, la gestione finanziaria.
In particolare, l’amministrazione pubblica periferica è stata riformata con le
leggi Bassanini che hanno portato ad una riduzione del numero di dette
amministrazioni e accentramento presso le Prefetture – Uffici territoriali di
Governo della maggior parte delle funzioni statali. Ne sono esempio,
l’amministrazione statale finanziaria articolata a livello locale e dipendente dal
Ministero delle Finanze ed incentrata sulle Direzioni Regionali delle entrate con
sede nei capoluoghi di regione come da d. lsg. n. 300 del 1999.
5. Strutture di raccordo interne ed esterne all’amministrazione
A livello statale l’amministrazione si presenta come struttura compiuta con una
propria “mission” seppure disaggregata in diversi ministeri. Questi presentano
elementi interni ed esterni alla loro struttura istituiti allo scopo di raccordare tra
loro i Ministeri, gran tendone l’articolazione organica.
Strumento di raccordo interno alle singole amministrazioni è rappresento dagli
Uffici centrali di bilancio, ex Ragionerie, che, pur essendo estranei ai Ministeri
presso i quali sono incardinati, dipendono dal Ministero dell’economia e delle
finanze al fine di garantire unitarietà sotto il profilo della spesa e controllano la
regolarità economico – finanziaria dell’azione svolta presso i Ministeri, sotto la
responsabilità dei dirigenti competenti.
Accanto a tali Uffici vi sono strutture organizzative che coagulano le iniziative
generali dell’azione politico – amministrativa quali il Consiglio dei Ministri, i
Comitati interministeriali ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, coadiuvate
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il Consiglio dei Ministri è comporto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri,
art. 9216, comma 1, Cost., con il compito di determinare la politica generale del
Governo fissando l’indirizzo politico – amministrativo – interno ed esterno – del
paese nonché la politica normativa e finanziaria del Governo e soluzione dei
conflitti di attribuzione dei vari Ministeri (art. 2, legge n. 400/ 1988).
Il Consiglio dei Ministri si avvale dell’Ufficio di segreteria diretto dal
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio che cura altresì la
verbalizzazione delle singole deliberazioni del Consiglio.
I Comitati dei Ministri, composti esclusivamente da Ministri, sono designati dal
Presidente del Consiglio allo scopo di coadiuvare quest’ultimo.
Tra i soggetti di raccordo esterno, invece, troviamo i Comitati interministeriali a
composizione mista, tra cui i Ministri, gli esperti ed i rappresentanti delle
amministrazioni interessate. Si tratta di organi collegiali non necessari del
Governo istituiti per soddisfare esigenze particolari nei settori della P.A.
operando un coordinamento dell’attività amministrativa. Con legge n. 537 del
1993 si è operato il riordino dei comitati interministeriali nel CIPE (Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica), con il compito di
16 Art. 92 Cost: Il Consiglio dei ministri. Il Governo della Repubblica e' composto del Presidente del
Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri.
Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i
ministri.
28
programmazione e politica economia nazionale; CICR (Comitato
Interministeriale per il credito e il risparmio), con il compito di vigilanza per la
tutela del risparmio e l’esercizio del credito; e CESIS (Comitato esecutivo per i
servizi di informazione e di sicurezza), che esercita la funzione di Autorità
nazionale per la tutela propria del Presidente del Consiglio dei Ministri.
5.1. La Presidenza del Consiglio dei Ministri
Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo,
mantenendo l’unità di indirizzo politico – amministrativo, coordinando l’attività
dei Ministri, ex art. 95, comma 1, Cost. Egli è posto a capo della struttura
organizzativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, centro motore
dell’azione di governo e che è stata riordinata per la prima volta con legge n.
400/ 1988 al fine di garantire l’unità di indirizzo gestionale di cui all’espressa
previsione costituzionale,
Successivamente, con il d. lgs. n. 300/ 1999 si è inteso rendere maggiormente
funzionale l’intera struttura mediante l’accrescersi di compiti amministrativi
attribuiti ai servizi tecnici e quelli di protezione civile, turismo e spettacolo. Tale
assetto è stato oggetto di revisione altresì con legge n. 233/ 2006 di conversione
del d.l. n. 181/ 2006.
Il nuovo quadro normativo ha inteso offrire al Presidente del Consiglio un più
incisivo compito di impulso, indirizzo e coordinamento delle funzioni
costituzionalmente attribuitegli secondo i principi di cui alla legge Bassanini 1,
legge n. 59/ 1997, quali:
- assicurare il coordinamento funzionale e operativo della Presidenza con le
amministrazioni;
- potenziare le funzioni autonome e tipiche;
- trasferire a Ministeri o Enti o organismi autonomi i compiti operativi e
gestionali, con il relativo personale;
- garantire autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria;
- trasferire alla Presidenza anche funzioni attribuite direttamente dalla legge ai
Ministri senza portafoglio.
Tali sono le funzioni proprie della Presidenza individuate dal legislatore
delegato, tra cui risulta altresì la progettazione delle politiche generali e
l’assunzione di decisioni di indirizzo politico generale.
Nell’ambito della riforma è stata prevista l’istituzione, con Decreto del
Presidente del Consiglio, di una Unità tecnica per la semplificazione e la qualità
della regolazione, con la relativa segreteria tecnica composta dal capo del
dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio
dei Ministri e da professori universitari, magistrati amministrativi, contabili ed
ordinari, avvocati dello Stato, funzionari parlamentari, avvocati del libero foro
con almeno quindici anni di iscrizione all’albo professionale, dirigenti delle
amministrazioni pubbliche ed esperti di elevata professionalità.
Secondo il disposto di cui all’art. 7 del d. lgs. n. 303/1999 al Presidente del
Consiglio spetta autonomia organizzativa e contabile, in quanto con propri
decreti può individuare aree funzionali omogenee cui affidare compiti e attività.
Inoltre, egli può istituire strutture di missione con durata temporanea e con
cadenza triennale può, anche attraverso strutture specializzate, procedere alla
verifica della razionalità dell’ordinamento e dell’organizzazione della
Presidenza.
Distinto dagli uffici di staff del Presidente, il Segretario gode di una propria
autonomia in quanto svolge funzioni di snodo tra Presidenza e strutture
amministrative. Egli, infatti, indica i parametri organizzativi e funzionali nonché
29
gli obiettivi di gestione e di risultato cui sono tenuti i dirigenti generali ad essi
preposti impartendo direttive generali per l’azione amministrativa di cui al
d.p.c.m. 4 agosto 2000.
Al personale della Presidenza, ai sensi di cui all’art. 9, comma 1, del d. lgs. n.
3030/ 1999, sono attribuiti compiti di diretta collaborazione con i Ministri
secondo la disciplina del t.u. sul pubblico impiego ed il rimanente personale di
cui si avvale la Presidenza sono elencate al comma 2 della norma richiamata.
-
-
-
5.2. CNEL, Consiglio di Stato e Corte dei conti.
Organi ausiliari che operano con funzioni consultive sugli atti e sulle attività
delle amministrazioni e che la dottrina indica come organi di rilevanza
costituzionale:
il C.N.E.L.(Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), ex art. 99 Cost.17, è
stato istituito nel 1957 e riformato in ultimo con legge n. 383 del 2000 è un
organo collegiale, composto da 121 membri, ha funzione consultiva delle Camere
e del Governo ed iniziativa legislativa limitata alle sole materie dell’economia e
del lavoro, mentre la funzione consultiva è obbligatoria nella richiesta del parere
alla relazione previsionale e programmatica che il Ministro dell’economia e della
finanze è tenuto ad inviare al Parlamento.
il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico – amministrativa e di
tutela della giustizia amministrativa. Istituito nel Regno di Sardegna nel 1831,
con la riforma del 1865 ha assunto la duplice funzione giurisdizionale e
consultiva. Fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed è dotato di un
organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza, composto da Magistrati dei
T.A.R. e del Consiglio di Stato, competente in materia di stato giuridico dei
magistrati, provvedimenti disciplinari ed incarichi esterni dei magistrati. E’
articolato in sette sezioni, di cui le prime e la settima con funzioni consultive e le
rimanenti tre con funzioni giurisdizionali, cui si aggiungono l’Adunanza
generale con funzioni consultive e l’Adunanza plenaria con funzioni
giurisdizionali. L’attività consultiva ha carattere generale, in quanto riguarda la
legittimità ed il merito dell’azione amministrativa. Quanto alla richiesta del
parere al Consiglio di Stato, questa è trasmessa dal Segretario generale alla
Sezione competente che, in assenza di contraddittorio delle parti interessate,
esprime la volontà del Consiglio di Stato mediante congrua motivazione sulla
base della iniziativa spettante al Ministro o al Sottosegretario su proposta del
dirigente del servizio della materia oggetto della relazione.
la Corte dei Conti coadiuva gli organi titolari di funzioni legislative, di
controllo ed indirizzo politico, esecutive e di amministrazione attiva. E’
indipendente dal Governo e dal Parlamento ed è composto da impiegati
amministrativi e magistrati. L’art. 100 Cost. attribuisce alla Corte dei conti
funzioni di controllo e funzioni giurisdizionali nella materie di contabilità
pubblica e nelle altre specificate dalla legge, ex art. 103 Cost. Essa svolge
funzioni amministrative, quali i provvedimenti che adotta sullo stato giuridico
dei propri dipendenti. Inoltre, essa svolge un controllo preventivo di legittimità
sugli atti del Governo onde accertarne la conformità alle norme di legge, in
17 Art. 99 Cost: Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla
legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro
importanza numerica e qualitativa.
È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono
attribuite dalla legge.
Ha l'iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale
secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.
30
-
particolare sulla legge di bilancio ed un controllo successivo sulla gestione del
bilancio dello Stato al fine di valutare la legittimità e regolarità delle gestioni
tenute da ciascuna amministrazione. La Corte, infine, opera un controllo sulla
gestione finanziaria degli Enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Alla
Corte sono altresì riconosciute funzioni giurisdizionali in materia di giudizi di
conto e di responsabilità contabile ed in materia pensionistica.
l’Avvocatura di Stato, fa capo al Segretario generale della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, ha il compito di provvedere alla tutela legale, mediante
patrocinio in giudizio delle amministrazioni. E’ articolata in Avvocature
distrettuali a livello regionale ed è composta da Procuratori ed Avvocati dello
Stato e da personale amministrativo con vertice nell’Avvocato generale,
nominato con D.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.
6. Le Amministrazioni Indipendenti.
Le Amministrazioni indipendenti o autorità di regolazione sono state istituite a
partire dal 1974, con la Consob (Commissione nazionale per la società e la borsa,
d. lg. n. 95 del 1974) che, accanto alla Banca d’Italia, era preposta al risparmio
secondo la previsione di cui all’art. 47 Cost18.
In generale, tutte le amministrazioni indipendenti sono espressione
dell’esigenza di garantire il corretto funzionamento di un settore di mercato nel
quale operano soggetti pubblici e privati, per cui esse intendono garantire che
un determinato servizio sia offerto a favore della collettività nel corretto
funzionamento dello stesso.
A differenza dei Ministeri, non esiste un modello predeterminato di
organizzazione di tali amministrazioni, in quanto i caratteri essenziali delle
stesse sono l’indipendenza sia nell’attività di regolazione sia nella previsione di
scelta dei vertici riconosciuti in base a specifiche competenze di alta
professionalità.
Accanto al requisito dell’indipendenza si pone la neutralità, per il fatto che tali
amministrazioni non appartengono ad un determinato settore cui le stesse sono
chiamate a predisporre la regolazione.
Infine, si ricorda l’istituzione con legge n. 146 del 1990 della Commissione di
garanzia della legge sull’esercizio del diritto di sciopero al fine di contemperare
l’esercizio di tale diritto co il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati, nonché l’Autorità delle telecomunicazioni do cui alla
legge n. 249/1997 ed il Garante per la protezione dei dati personali di cui alla
legge n. 675 del 1996 modificata da d. lgs. n. 123 del 1997 e successive modifiche.
7. Gli enti pubblici
Con legge n. 70/ 1975 sono stati soppressi i c.d. enti inutili e sono stati
individuati i rispettivi enti necessari, il c.d. parastato, quali INPS (Istituto
Nazionale Previdenza Sociale), Cassa per il Mezzogiorno, ENEA, enti lirici, ACI.
Accanto a tali enti, sono stati individuati enti non soggetti alla legge sul
parastato, quali enti pubblici economici, enti locali territoriali (Province,
comuni, ed altri enti locali) e gli altri enti pubblici, considerati non necessari né
a statuto di specie che continuano ad esistente come enti privati.
18
Art. 47 Cost: La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina
e controlla l'esercizio del credito.
Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice
e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese
31
In particolare, i c.d. enti inutili non sono stati ricompresi nelle categorie
menzionate in quanto ritenuti non meritevoli di sopravvivere e, dunque, sono
stati soppressi.
Inoltre, con la legge. n. 59/ 1997 (Legge Bassanini) il Governo è stato delegato ad
operare il riordino degli enti pubblici nazionali. Pertanto, con legge n. 191/ 1998
si è provveduto a riordinare e razionalizzare gli enti pubblici mediante fusione e
soppressione di enti ed organi aventi finalità omologhe o complementari nonché
mediante trasformazione in pubblica amministrazione di enti per i quali
l’autonomia non risultava necessaria ovvero mediante privatizzazione di enti
che presentavano alto indice di autonomia finanziaria.
Sempre nel quadro del riordino il D.lgs 419/99 ha riorganizzato diversi enti
(ANAS, SIAE, ecc), ed affidato alcuni settori prima disciplinati per legge, allo
strumento del Regolamento.
8. Gli enti pubblici economici e l’impresa pubblica
Gli enti pubblici economici sono presenti già nel periodo fascista nel settore
ferroviario, tanto che nel 1905 si assistette alla riassunzione di tali enti da parte
dello Stato, in quanto essi rappresentano una figura cardine dell’intervento
pubblico in economia e con l’affidamento della loro gestione alla direzione del
Ministero dei lavori pubblici che, nel 1948, divenne parte del Ministero dei
trasporti.
Analoga sorte toccò al settore dei tabacchi, che passò all’Amministrazione
autonoma dei monopoli di Stato ed all’Amministrazione delle poste e delle
telecomunicazioni per il settore postale.
Gli enti preposti in tali settori rientrarono nella categoria delle c.d. Aziende
autonome, quali strutture organizzative autonome sotto il profilo strutturale ma
non funzionale, in quanto organo di vertice delle stesse era individuato nel
Ministro di settore.
Le Aziende autonome sono state interessate da un processo di privatizzazione
che le ha viste trasformate in enti pubblici economici e poi in s.p.a. con loro
graduale collocazione sul mercato.
Così l’IRI che, a partire dagli anni Sessanta, è divenuta una holding
raggruppando imprese nella propria struttura societaria operante in ambito
finanziario. Fuori dalle holding, invece, restano Alitalia, Rai, autostrade e
banche di interesse nazionale.
Occorre altresì sottolineare che la direttiva 93/ 38/CEE ha riconosciuto che le
autorità pubbliche possono esercitare, direttamente o indirettamente,
un’influenza dominante riguardo ad un’impresa, in quanto possono controllare
la maggioranza dei voti cui danno diritto alle parti di essere ammesse
all’impresa oppure il diritto di nominare più della metà dei membri del C.d.A.,
del Consiglio direttivo o del Consiglio di vigilanza. Pertanto, alla luce di tale
richiamo normativo, si ritiene che gli elementi caratterizzanti l’impresa pubblica
vanno indipendentemente considerati dalla sua forma giuridica, in quanto si
deve tener conto delle regole di mercato.
9. il processo di privatizzazione e le società pubbliche.
A partire dagli anni Novanta, la situazione descritta nel paragrafo precedente
risulta cambiata, in quanto lo Stato inizia a rinunciare al proprio ruolo di
imprenditore.
Il primo settore interessato dal processo di privatizzazione fu quello bancario, in
quanto con la legge Amato n. 218/ 1990 gli enti pubblici creditizi sono stati
trasformati in s.p.a. controllati da enti pubblici conferenti, le c.d. Fondazioni
32
-
bancarie, titolari dell’azione bancaria. La successiva fase di trasformazione
diretta dell’ente, la c.d. privatizzazione formale, era prevista successivamente
con la dotazione del fondo capitale all’ente mediante attribuzione della titolarità
delle azioni ai possessori del fondo di dotazione, come nel caso della B.N.L.
Invero, in presenza di privatizzazione formale si assiste alla trasformazione della
forma giuridica dell’ente pubblico con successiva soppressione del Ministero
delle partecipazioni statali di cui al d.l. n. 41 del 1993. Sempre nel 1993 si è
provveduto, inoltre, alla dismissione di ENEL, INA, Banca commerciale italiana,
Credito italiano, IMI, Stet e Agip.
Con legge n. 474/ 1994 si è provveduto ad accelerare le procedure di dismissione
delle partecipazioni statali in s.p.a. e si sono create le Authorities di settore, al
fine di regolare e controllare i servizi di pubblica utilità anche in un momento
successivo alla privatizzazione sostanziale.
Dottrina e giurisprudenza si sono mostrate in contrasto con la tesi privati stiva,
in quanto dette società sarebbero di diritto privato, anche in caso di detenzione
della maggioranza del pacchetto azionario da parte di un soggetto pubblico
laddove i sostenitori della tesi pubblicistica del pacchetto azionario di
maggioranza da parte del soggetto pubblico avrebbero riconosciuto la
permanenza della natura pubblicistica di tali enti.
Invero, si tratta di un cambiamento della sola veste giuridica, in quanto, come
ribadito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 446 del 1993) l’assoggettamento
di tali società al controllo della Corte dei conti dimostra l’innegabile rilievo
pubblicistico che tali società manentengono.
Pertanto, le procedure pubblicistiche di evidenza pubblica, evidenziano tale
natura pubblicistica anche nella sottoposizione dei contratti stipulati dalle
FF.SS: s.p.a..
Ulteriore figure compresa nei soggetti nazionali è l’organismo pubblico,
introdotto a partire dalla direttiva 89/440/CEE e che comprende soggetti
nazionali, indipendentemente dalla loro natura giuridica, che presentano
caratteristiche proprie operanti secondo logiche diverse da qualsiasi
imprenditore da cui l’applicazione della disciplina sull’evidenza pubblica.
Invero, si tratta di una nozione ampia ma che può essere riassunta in tre punti
essenziali:
natura pubblica dei bisogni che l’ente intende soddisfare;
personalità giuridica di diritto pubblico o di diritto privato;
decisioni dell’ente assunte sotto l’influenza dominante dell’ente pubblico.
In numerose sentenza del giudice comunitario si rinviene, nel caso dell’Ente
fiera di Milano che ha ad oggetto attività volte all’organizzazione della fiera, non
si svolgono attività lucrative per cui non si rinviene il carattere della reddititività
e pertanto esso non costituisce un organismo di diritto pubblico, ma laddove
l’ente svolge attività di promozione dei beni degli espositori allora esso svolge
attività di offerta di servizi sul mercato che si qualifica come attività economica.
10. Gli organismi di diritto pubblico
A seguito dei cambiamenti occorsi nelle pubbliche amministrazioni degli stati
membri le strutture amministrative organizzative si presentano differenziate e
con l’avanzare del sistema comunitario si è giunti alla scelta di implementare un
sistema concorrenziale in diversi settori. In particolare, nel settore degli appalti,
il legislatore comunitario ha elaborato la figura di organismo di diritto pubblico,
facendo leva sull’azione dei soggetti privati o pubblici tesa a garantire la piena
efficacia del principio di libera circolazione, di amministrazione aggiudicatrice
secondo un’interpretazione funzionale.
33
Introdotta dalla direttiva 89/ 440/ CEE, la figura di organismo di diritto
pubblico comprende tutti i soggetti nazionali, indipendentemente dalla loro
natura giuridica che presentano caratteristiche tali da operare secondo logiche
diversa da qualsiasi imprenditore privato e che, sotto il profilo funzionale,
giustificano l’applicazione della disciplina sull’evidenza pubblica.
La normativa comunitaria recepita dal d. lgs. n. 163/ 2006 definisce l’organismo
di diritto pubblico come qualsiasi organismo dotati di personalità giuridica, la
cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici
territoriali o da organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta
al controllo di quest’ultimi, oppure il cui organi di amministrazione, direzione o
vigilanza sia costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo
Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
Invero, si tratta di una nozione ampia che si può riassumere in tre punti
essenziali:
a) la natura dei bisogni alla cui soddisfazione il soggetto è istituito, ossia per
soddisfare interessi generali aventi carattere non industriale o commerciale;
b) la personalità giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato;
c) la presenza di una serie di elementi che fanno presumere che le decisioni
dell’ente siano sotto l’influenza determinante di un soggetto pubblico, che
seguono logiche diverse da quelle dell’imprenditore privato.
Invero, la preoccupazione della giurisprudenza è stata quella di evitare che l’ente
pubblico, avvalendosi di società o di enti privati, possa provocare distorsioni
nella concorrenza del mercato, favorendo imprese che lo Stato membro possa
favorire. Pertanto, si è ritenuto legittimo escludere la circostanza che i bisogni
siano soddisfatti da soggetti operanti sul mercato tali da assumere un ruolo
determinante nella qualificazione dell’aspetto funzionale.
In tale ambito si spiega il caso dell’Ente fiera di Milano, in quanto organismo di
diritto pubblico competente per l’organizzazione di fiere, esposizioni ed altre
iniziative analoghe che costituisce attività economica nell’offrire servizi sul
mercato e gli espositori, d’altro lato, beneficiano della promozione dei beni e dei
servizi che espongono. In generale, la giurisprudenza ha affermato che l’attività
di organizzazione fiere ed esposizioni ancorché soddisfi bisogni di interesse
generale, non presenta carattere industriale e commerciale per cui tale attività
va inquadrata nell’ambito di un ente rientrante nella categoria di organismo di
diritto pubblico.
11. Soggetti privati esercenti pubbliche funzioni.
Nell’ambito dei soggetti privati esercenti pubbliche funzioni rientrano le
Fondazioni, presenti soprattutto nel settore della ricerca ed in quello bancario,
con prevalenza dell’elemento patrimoniale vincolato allo scopo che è altruistico,
non di lucro e soprattutto di pubblica utilità, in quanto teso a soddisfare
interessi diversi dal fondatore.
La giurisprudenza ha introdotto precisi limiti sull’ammissibilità dello
svolgimento di attività imprenditoriale svolta dalle Fondazioni, quanto
conseguano i propri fini ideali nell’ambito delle attività imprenditoriali a
condizione che tali attività siano strumentali alla realizzazione degli scopi
istituzionali della medesima Fondazione.
Vi rientrano le fondazioni bancarie, quali persone giuridiche private senza scopo
di lucro dotate autonomia statutaria e gestionale laddove la giurisprudenza
costituzionale, in ultimo, le ha riqualificato in termini privatistici.
34
In tale categoria rientrano altresì le S.O.A., società organismi di attestazione, che
certificano la qualità delle imprese contraenti della P.A: secondo il modello
previgente di iscrizione all’Albo Nazionale dei Costruttori. Tali organismi hanno
struttura giuridica privatistica con lo scopo di offrire un servizio di rilascio di
attestazioni di qualità volte a garantire un determinato livello di qualità da parte
degli imprenditori nell’esecuzione dell’appalto.
Lo svolgimento di dette attività da parte delle S.O.A. è subordinato
all’autorizzazione dell’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici, sentita la
commissione consultiva cui fanno parte i rappresentanti dei Ministeri di lavori
pubblici, beni culturali, lavoro, ambiente, trasporti e difesa.
L’attestazione rilasciata ha valore di atto pubblico e l’Autorità di Vigilanza può
sostituirsi alle S.O.A. nel caso di loro mancato adempimento all’onere di
indicare previamente l’atto da adottare, e cioè in caso di inerzia della stessa
S.O.A.
12 Gli enti territoriali minori.
La riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, operata con legge cost. n. 3
del 2001 rappresenta un’importante riforma per il sistema delle autonomie
locali sancendo, ai sensi di cui all’art. 5 Cost.19, un assetto policentrico della
Repubblica.
Il nuovo art. 114 Cost. ha riconosciuto pari dignità costituzionale a Comuni,
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato e si è confermata la scelta del
legislatore di abrogare i Commissari di governo e gli organi regionali di controllo
di cui agli artt. 124 (abrogato dalla legge 3/2001), 12520 , comma 1 e 130 Cost
(anch’esso abrogato).
La legge di riforma, infatti, ha rovesciato l’andamento dei pubblici poteri,
facendo partire il nuovo sistema dalle istituzioni più prossime ai cittadini,
secondo il principio della sussidiarietà orizzontale e risalendo a quello più
elevato secondo il principio della sussidiarietà verticale.
La complessità della riforma costituzionale pone un nuovo equilibrio tra Stato,
Regioni e Autonomie locali in sintonia con l’art. 118 Cost. che sancisce
l’autonomia dei Comuni e delle Province secondo i principi fissati dalle leggi
della Repubblica, che ne determinano le funzioni.
Di qui la legge n. 131 del 2003 di delega al Governo per la revisione delle
disposizioni sugli Enti locali e la stessa ratio è rinvenuta nell’abrogazione
dell’art. 129 Cost che qualifica Province e Comuni come circoscrizioni di
decentramento statale e regionale.
Con la riforma del Titolo V, infatti, gli enti locali hanno funzioni proprie che
trovano il loro fondamento direttamente nella Costituzione ovvero sono
destinatari di un conferimento di funzioni da parte dello Stato o della Regione
secondo il principio di sussidiarietà.
12.1. Potestà legislativa delle Regioni e potestà normativa delle Autonomie locali.
Regioni, Province e Comuni presentano un Consiglio, titolare della potestà
normativa, ed una Giunta, titolare della rappresentanza dell’Ente.
19
Art. 5 Cost: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
20
Art. 125 Cost: Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo
l'ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal
capoluogo della Regione.
35
In particolare, il novellato art. 117 Cost. ha riconosciuto alle Regioni la potestà
legislativa esclusiva che si aggiunge a quella concorrente con lo Stato, per cui si
determina un sistema ripartito di competenze secondo le materie
rispettivamente attribuite ai sensi del comma 2 dell’art. 117 Cost.
Il comma 3, dell’art. 117 Cost. suddivide le competenze tra Stato e Regione
riservando al primo la determinazione, mediante leggi quadro o cornice, dei
principi fondamentali ed alle seconde l’emanazione della legislazione specifica
di settore.
Invero, il nuovo articolo 117 Cost riconosce in capo alle Regioni una potestà
legislativa piena in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato, per cui la Regione ha potestà legislativa non solo nelle
competenze trasversali, ma anche in base a quanto è indicato nelle pronunce
della Corte costituzionale secondo il principio della sussidiarietà legislativa.
Con la legge n. 142/1990 è stata prevista la possibilità per i Comuni e le Province
di adottare, mediante regolamento, uno statuto con il quale stabilire i limiti
fissati dalla legge, le norme fondamentali dell’organizzazione e la
determinazione delle attribuzioni degli organi, l’ordinamento degli uffici e dei
servizi pubblici, la partecipazione popolare, l’accesso dei cittadini ai
procedimenti amministrativi.
La potestà regolamentare riconosciuta agli enti locali, è riconosciuta a livello
costituzionale all’art. 114 Cost. e concerne l’organizzazione dell’ente, la relativa
disciplina e lo svolgimento della gestione delle funzioni attribuire ai Comuni ai
sensi dell’art. 118 Cost. al fine di assicurare uniformità del sistema
Infine, l’art. 4 della legge n. 131/ 2003, c.d. legge La Loggia, ha previsto che, fino
all’adozione dei regolamenti locali, continuano ad applicarsi le norme statali e
regionali vigenti.
12.2. Le funzioni amministrative degli Enti locali
Nell’originaria previsione dell’art. 118 Cost., le funzioni amministrative degli
Enti locali erano attribuite alle Regioni in base al principio del parallelismo tra
competenza legislativa e competenza amministrativa.
Il nuovo sistema, delineato a partire dalla legge n. 59/1997, ha fornito una nuova
chiave interpretativa prevedendo il conferimento alle Regioni ed agli enti locali
di tutte le funzioni e compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e
promozione dello sviluppo delle rispettive comunità.
Tale sistema segue il principio di sussidiarietà in virtù del quale le funzioni
amministrative dovrebbero assegnarsi a quegli Enti che, in ragione della loro
vicinanza ai luoghi o ai gruppi di soggetti, risultano meglio rispondere ai bisogni
della collettività organizzata.
L’assetto delineato dalla legge Bassanini è confluito nel contenuto del nuovo art.
118 Cost., le cui linee guida per la relativa attuazione sono state indicate dall’art.
7 della legge n. 131/ 2003 (c.d. legge La Loggia) che dispone che lo Stato e le
Regioni, sulla base delle loro rispettive competenze, conferiscono le funzioni
amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della legge sulla
base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Quanto all’individuazione delle funzioni proprie dei Comuni e delle funzioni
conferite alle Autonomie locali, la definizione è riservata alla legislazione statale
esclusiva, in quanto si tratta di funzioni la cui titolarità spetta allo Stato ed alle
Regioni.
Invero, dall’attuale assetto costituzionale risulta che le autonomie locali siano
dotate di funzioni amministrative a seconda delle loro rispettive competenze,
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funzioni che per i Comuni si presentano come proprie, mentre per Province e
Città metropolitane presentano la natura di funzioni conferite con legge dello
Stato o della Regione.
Il comma 4 dell’art. 118 Cost introduce nell’ordinamento la sussidiarietà
orizzontale. Il governo favorisce l’iniziative autonoma dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, pertanto tale
principio: nella sua classica concezione prescrive che il pubblico potere
intervenga solo laddove l’autonomia privata risulti inefficace e inadeguata per il
raggiungimento dell’interesse pubblico, ma questo non può essere il significato
inteso dal legislatore costituzionale, che ha piuttosto voluto incentivare la
partecipazione dei cittadini alla gestione degli interessi e dei servizi pubblici,
senza che essi si sostituiscano del tutto ai pubblici poteri.
-
12.3. Gli strumenti di raccordo tra i diversi livelli di governo: Stato – Regioni;
Regioni – Autonomie locali.
La legge n. 3 del 2001 ha delineato un nuovo assetto di governo prevedendo
altresì strumenti di raccordo, collaborazione e concertazione.
In tale ottica va considerato l’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, concernente
l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con
rappresentanti delle Regioni, Province Autonome ed Enti Locali nelle ipore di
leggi di determinazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione
concorrente nonché nella nuova formulazione di cui all’art. 119 Cost.
In tali ipotesi, infatti, la Commissione integrata partecipa al procedimento
legislativo chiedendo alla Commissione parlamentare in sede referente di
accogliere le modificazioni richieste, il cui accoglimento non è obbligatorio.
Ulteriori sedi di raccordo delle istanze dei diversi organi di governo sono le
Conferenze:
la Conferenza Stato –Regioni;
la Conferenza c.d. unificata, Stato – Regioni e Stato – città ed autonomie locali.
Nel sistema previgente, tali istituzioni avevano mantenuto la loro posizione
soprattutto al momento della concertazione, venendo a rappresentare il luogo
privilegiato per il momento della definizione dell’indirizzo politico –
amministrativo del governo.
La riforma costituzionale, riconoscendo la pari dignità costituzionale delle
Autonomie locali, ha provveduto a coinvolgere maggiormente tali enti in
ottemperanza ai principi costituzionali di leale collaborazione e partecipazione
degli stessi alle decisioni statali e regionali.
Pertanto, in virtù della legge n. 59/ 1997 e d. lgs. n. 112/ 1998 sono sorti
organismi di raccordo, denominati Conferenze Regioni – Autonomie locali e
Consigli delle Autonomie locali.
Si tratta di organismi con funzioni consultive, con competenza per materie
riguardanti atti regionali e piani di sviluppo nonché compiti di proposta, studio e
informazione.
Scelta del legislatore, dunque, è quella di preveder un coinvolgimento delle
Autonomie locali nella vita della Regione mediante attività consultiva che ben
può incidere sull’indirizzo politico – amministrativo della Regione.
Parte II
Le situazioni giuridiche soggettive
Capitolo 1 – Nozioni generali
1. Considerazioni introduttive
37
Molti dibattiti sono stati affrontati in dottrina sul tema delle situazioni
giuridiche soggettive tanto che alcuni autori parlano di posizione giuridica
soggettiva, in quanto ogni società è un insieme di persone, fisiche e giuridiche,
con i loro interessi e progetti che l’ordinamento giuridico intende qualificare nel
realizzare l’ordine nella vita di relazione della comunità.
L’ordinamento giuridico, infatti, attribuisce ai soggetti giuridici il complesso di
qualificazioni relative ai loro interessi ed al loro agire, tali sono le situazioni
giuridiche soggettive.
Per situazione giuridica soggettiva s’intende la situazione o posizione in cui
viene a trovarsi un soggetto, per effetto della applicazione di una o più regole di
diritto.
Molteplici sono le classificazioni offerte dalla dottrina, ma si ritiene, in generale,
che nell’individuazione del criterio giuridico di individuazione delle situazioni
giuridiche soggettive si debba riguardare secondo alcuni all’interesse, secondo
altri ai comportamenti umani.
In generale, vi è concordia nel ritenere che le situazioni giuridiche soggettive
hanno un sostrato materiale che secondo alcuni sarebbe l’interesse riconosciuto
o qualificato, mentre per altri si riguarda ai comportamenti umani classificati
come consentiti, doverosi, vietati.
Di seguito si illustrano le classificazioni ritenute le più convincenti nel diritto
amministrativo in tema di situazioni giuridiche soggettive.
2. Distinzioni delle situazioni giuridiche soggettive.
Le situazioni giuridiche soggettive si distinguono a seconda che siano valutate
positivamente o negativamente con riferimento all’interesse del titolare ovvero
secondo l’entità materiale o metagiuridica che è l’oggetto della qualificazione.
Secondo il primo criterio, le situazioni si presentano come situazioni di
vantaggio o di svantaggio a seconda che qualifichino utilità(interesse) o pesi
(obbligo) per i loro titolari.
Per il secondo criterio, le situazioni si distinguono in attive o dinamiche e
situazioni inattive o statiche, in quanto le prime hanno come sostrati interessi,
mentre le secondo riguardano comportamenti.
Differenza fondamentale, oltre all’elemento metagiuridico, è il tipo di
qualificazione di tutela nel primo caso per gli interessi, mentre nel secondo caso
per i comportamenti che attengono atti giuridici. Infatti, le situazioni dinamiche
elevano comportamenti umani relativi ad atti giuridici, per cui si distingue tra
semplici fatti giuridici ed atti giuridici in senso stretto che esprimono, invece,
situazioni giuridiche soggettive, a differenza dei meri fatti giuridici,
Invero, le modificazioni giuridiche sono collegate a fattispecie giuridiche, per cui
si parla di qualificazioni dinamiche relative alle fattispecie di rilevanza giuridica
che ne sono elementi costitutivi. Le situazioni statiche, invece, attengono assetti
di interessi in quiete e consentono il godimento degli interessi riconosciuti ed
attengono interessi irrilevanti per il diritto, quali interessi facoltativi ovvero
meramente leciti; laddove le situazioni dinamiche consentono la trasformazione
degli interessi e si esercitano in atti giuridici.
Esempio di situazione statica o inattiva è il diritto soggettivo, assoluto o
relativo, in quanto interesse giuridicamente riconosciuto e protetto;
esempio di situazione dinamica è il potere, in quanto situazione giuridica
soggettiva diversa dal diritto.
38
Invero, nel diritto soggettivo gli interessi costituiscono il sostrato materiale o
metagiuridico della rispettiva qualificazione giuridica, i quali possono essere
interessi di conservazione o interessi di modificazione giuridica e che, in ogni
caso, non possono essere confusi con i poteri, in quanto essi esprimono atti
giuridici tesi a soddisfare i loro titolari, per cui hanno a contenuto pretese
giuridicamente protette.
Gli interessi di “quiete”, infatti, corrispondono a diritti reali o, in generale, a
diritti assoluti, mentre gli interessi della seconda specie si riferiscono a diritti di
obbligazione o, in genere, a diritti relativi, i quali presuppongono un rapporto
giuridico con altri soggetti in quanto risultano dal collegamento tra la situazione
statica ed il comportamento altrui rispetto alla situazione dinamica sottesa al
comportamento atteso.
3. Il potere giuridico
Il potere è la situazione giuridica soggettiva dinamica per eccellenza, che nasce
dal diritto soggettivo inteso come “agere licere” o meglio come “facultas agendi”,
cioè come situazione giuridica dinamica.
Il problema dell’identificazione del potere come situazione soggettiva è stato
studiato dalla teoria generale inizialmente con riferimento a diritti reali e, in
particolare, al diritto di proprietà inteso come “diritto di godere e disporre” di
cose ex art. 832 c.c. Tuttavia, dato che il godimento implica attività di mero fatto
e da assenza di modificazione dell’assetto degli interessi, si è ritenuto che la
facoltà di disporre di un diritto non è mai contenuto di tale diritto, bensì esso va
considerato come potere giuridico, ossia come diritto potestativo.
Nell’ambito del diritto amministrativo, infatti, il potere ha assunto nel tempo
rilievo di una situazione di genus comprensiva di situazioni di species, quali il
potere in senso stretto ed il diritto soggettivo, in quanto il potere è inteso come
energia giuridica che consente al titolare di porre in essere atti aventi rilievo
giuridico e, come tale, capace di comprendere appieno situazioni giuridiche
soggettive che consento all’amministrazione di porre in essere atti giuridici
unilaterali.
L’amministrazione pubblica, infatti, è titolare di diritti soggettivi – reali e
obbligatori – e di poteri giuridici – paritetici e autoritativi, ovvero di
poteri ad esercizio consensuale e ad esercizio unilaterale. Tuttavia, nel caso di
soddisfazione dell’interesse pubblico, i diritti soggettivi sono tutelati alla stregua
di oggetti di poteri discrezionali, per cui non vi è né libertà di godimento né
libertà di disposizione, ma entrambi gli aspetti sono disciplinati dalla legge e
gestiti mediante atti formali, quali provvedimenti autoritativi ovvero negozi
giuridici privati, conclusi mediante procedimenti amministrativi.
4.Situazioni dinamiche e rapporto giuridico
Le situazioni di svantaggio possono essere statiche o dinamiche a seconda
che riguardino il dovere di conservazione di situazioni giuridiche altrui o si
collochino in vicende di modificazione di precedenti assetti di interessi. Ad
esempio l’obbligazione di “pati” e di non fare relative alla prima categoria ed il
dovere di provvedere e l’obbligazione di fare o di dare che appartengono alla
seconda.
In particolare, il dovere di provvedere è la situazione soggettiva tipica
dell’amministrazione mediante la quale non si da luogo ad un rapporto giuridico
tra situazioni soggettive. Di fatto, il dovere di provvedere è una situazione
autonoma che rende giuridicamente necessario l’esercizio del potere.
39
Le situazioni giuridiche soggettive dinamiche costituiscono un rapporto
giuridico in senso stretto, in quanto pretese di comportamenti altrui, quali il
diritto di credito che implica l’obbligazione del debitore ovvero l’interesse
legittimo che implica il dovere ed il potere dell’amministrazione di provvedere o
di non provvedere.
Rapporti giuridici sono ravvisabili anche tra amministrazione e cittadini allorché
tra loro si stabiliscono reciproci diritti soggettivi ed obblighi, ma anche quando
l’amministrazione è titolare di poteri autoritativi ed il cittadino è titolare di
interessi legittimi, per cui si genera una facoltà di protezione che stimola il
comportamento altrui.
Il rapporto giuridico, che potremmo chiamare di diritto amministrativo, tra
situazione soggettiva di potere (autoritativo), situazione dinamica e l’interesse
legittimo, situazione statica si rinviene essenzialmente nel procedimento
amministrativo, quale spazio entro il quale tali situazioni soggettive si
confrontano e dialogano tra loro.
L’amministrazione pubblica, infatti, determina in concreto l’interesse pubblico
da curare e prosegue in tal senso nella scelta dei mezzi migliori per soddisfarlo,
il privato partecipa a contribuire alla determinazione degli interessi, pubblici e
privati, da soddisfare.
Di conseguenza, entrambe gli interessi, pubblici e privati, convivono nel
procedimento amministrativo, in quanto l’’interesse privato non è estraneo
all’amministrazione in quanto esso può funzionare come limite all’interesse
pubblico da cui il potere discrezionale dell’amministrazione.
5. L’autonomia privata dell’amministrazione.
L’amministrazione può compiere negozi giuridici ovvero altri atti giuridici
privati.
Recentemente l’art. 1 della legge n. 15 del 2005 (che ha modificato l’art. 1 della
legge 241/90) ha stabilito che la pubblica amministrazione adotta atti di natura
non autoritativa ed agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge
disponga diversamente. Pertanto, si ritiene che la pubblica amministrazione può
porre in essere atti di diritto privato21.
Invero fin dai tempi antichi si è distinto tra atti che fossero esercizio di potestà
pubbliche ed atti sottoposti alla disciplina di diritto privato e tale distinzione
servì a sottoporre a disciplina giuridica e controllo giurisdizionale buona parte
degli atti del Potere esecutivo.
A seguito dell’avvento dello Stato di diritto, tale distinzione è stata estesa agli
atti di imperio, soggetti a disciplina pubblicistica, distinguendoli dagli atti di
gestione, soggetti a disciplina privatistica.
Tuttavia, alla fine degli anni Trenta, la dottrina ha chiarito che anche l’attività di
diritto privato deve considerarsi attività amministrativa, in quanto finalizzata
21
Art. 1 legge 241/90: Principi. 1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è
retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le
modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti,
nonché dai princìpi dell’ordinamento comunitario.
1-bis. La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le
norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.
1-ter. I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei princìpi di
cui al comma 1.
2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.
40
alla cura dell’interesse pubblico, tanto da potersi parlare di autonomia privata
dell’amministrazione.
Tale attività, infatti, sostanzialmente amministrativa e formalmente privatistica,
consente di riconoscere l’amministrazione secondo l’autonomia negoziale o
privata negli stessi termini in cui è riconosciuta ai privati.
Negli ultimi decenni, peraltro, si è fatta strada una diversa concezione secondo
la quale gli atti negoziali compiuti dall’amministrazione non presuppongono che
l’amministrazione abbia autonomia privata, in quanto l’autonomia privata
esprime un potere libero di soddisfare i propri interessi, per cui si viene a negare
che tale regola possa essere applicata agli atti amministrativi.
In definitiva, si desume che l’autonomia privata, quale potere libero di
regolamentare i
propri interessi,
non può
essere
riconosciuta
all’amministrazione in quanto essa risulta vincolata a curare gli interesse che le
sono affidati. Tuttavia, se per autonomia privata s’intende la capacità di porre in
essere atti di natura privatistica, allora si può pienamente ritenere che
l’amministrazione ne sia dotata.
In ogni caso, l’amministrazione deve agire curando l’interesse pubblico e
seguire le procedure tipiche previste dalla legge, sia che agisca nella stipulazione
di contratti per cui deve seguire il procedimento di evidenza pubblica sia che
deve agire mediante atti autoritativi ovvero atti consensuali e privatistici.
Capitolo 2
Situazioni giuridiche soggettive dell’amministrazione
a)
b)
c)
d)
e)
1. Precisazioni sul potere giuridico e caratteri essenziali del potere della pubblica
amministrazione
Il potere è termine che designa oggetti diversi e che nel diritto amministrativo
individua come pubblici poteri i soggetti dell’apparato amministrativo in quanto
potere che la pubblica amministrazione esercita quale autorità nell’ambito
dell’attività regolata dal diritto amministrativo classificata con il concetto di
“potere giuridico”, che ha rappresentato una diversa funzione in quanto volontà
del soggetto indirizzata ad ottenere determinati effetti giuridici consentiti dalla
norma.
Il concetto di potere giuridico ha raggiunto una sua autonomia misurandosi
con il diritto soggettivo, in quanto ad oggi il potere si definisce come
l’attitudine a determinare uno o più effetti giuridici previsti
dall’ordinamento.
Caratteri specifici del potere esercitato dalla pubblica amministrazione sono:
esso non è attribuito a tutti i soggetti dell’ordinamento, ma sono
titolari del potere soltanto soggetti individuati dalla norma;
determina gli effetti giuridici previsti dall’ordinamento, senza che
occorra il consenso del soggetto interessato, costituendo, modificando,
estinguendo situazioni giuridiche soggettive;
si esercita mediante l’adozione di un atto tipico denominato
provvedimento amministrativo, disciplinato da norme che ne stabiliscono i
presupposti, il procedimento, l’oggetto e gli effetti;
si confronta con la situazione giuridica soggettiva dell’interesse
legittimo, diverso dal diritto soggettivo sia per struttura che per tutela;
è sindacabile, di solito, dal giudice amministrativo e la giurisdizione
del T.A.R. e del Consiglio di Stato riguarda la legittimità, che si articola in vizi di
violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.
41
2. Distinzione del potere della pubblica amministrazione in relazione al
contenuto.
Nella disciplina giuridica del potere della pubblica amministrazione rientra
l’assetto degli interessi stabilito con l’esercizio del potere che si distingue sotto
tre profili.
a)
Poteri di trasformazione e poteri di conservazione.
Riguardano gli effetti che possono derivare dall’esercizio del potere, quali gli
effetti di costituzione, modifica, estinzione di situazioni giuridiche soggettive e la
sua esecuzione incide nel reale producendo effetti materiali.
In particolare, l’effetto di trasformazione si produce mediante la produzione
dell’atto amministrativo positivo, mentre quello di conservazione si produce
con l’atto amministrativo negativo e cioè con atto che non produce effetti sul
piano materiale. Tali poteri, non trovando alcun approfondimento in dottrina ed
in giurisprudenza operano esclusivamente sul piano delle previsioni in quanto
stabiliscono che non si proceda ad alcuna modificazione e non incidono nel
reale, per cui non vengono coinvolti interessi legittimi.
b) Poteri di indirizzo e poteri di gestione.
Tale distinzione risale agli anni Novanta allorché tra gli organi politici, elettivi ed
amministrativi si distribuisce il potere che, in precedenza, spettava all’organo
politico.
Gli organi politici, infatti, pongono indirizzi, gli scopi e i risultati che gli
organi amministrativi devono seguire nell’esercizio dei loro poteri di gestione, e
ciò ha determinato una rivoluzione nell’apparato amministrativo della pubblica
amministrazione.
Peraltro, il modello della c.d. responsabilità ministeriale sono individuati
nel rapporto di gerarchia tra dipendenti ed organo politico: i dipendenti, assunti
nell’amministrazione attraverso un pubblico concorso (salvo le eccezioni di
legge), prestano il loro servizio presso gli uffici e non hanno il potere di
esternare la volontà dell’amministrazione. I dipendenti svolgono attività
preparatoria e istruttoria, redigono atti e danno ad essi esecuzione, atti che sono
prodotto della volontà dell’organo politico. I dipendenti esercitano le loro
funzioni a tempo indeterminato, ed in essi coincide il rapporto d’ufficio (cioè la
pubblica funzione da essi svolta) e il rapporto di servizio (cioè la prestazione
lavorativa); inoltre essi sono sostanzialmente “irresponsabili”, in quanto sono gli
organi politici responsabili degli atti assunti sul piano civile, penale ed
amministrativo e sul piano politico per i risultati dell’azione amministrativa.
La distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di gestione riguarda
altresì l’eliminazione della concentrazione negli organi politici dell’attività di
indirizzo, gestione e controllo con attribuzione ai dirigenti dei poteri di
gestione ed agli organi politici il potere di indicare gli obiettivi da
perseguire. Pertanto, i dirigenti divengono responsabili degli atti adottati sul
piano amministrativo, civile e penale oltre che dell’efficienza della gestione e del
raggiungimento degli obiettivi.
c) Discrezionalità amministrativa o pura, discrezionalità c.d. tecnica (valutazioni
tecniche) e potere vincolato.
Il potere della pubblica amministrazione si distingue in potere vincolato,
discrezionale puro, discrezionale tecnico o valutazione tecnica.
Invero, la pubblica amministrazione dovrebbe eseguire la legge come specchio
della previsione normativa, ma così non è in quanto essa opera nel concreto del
42
divenire dell’esperienza in cui rileva l’interesse pubblico specifico che la legge
non può prevedere in tutte le sue possibili evenienze.
L’amministrazione, pertanto, deve scegliere la soluzione più opportuna in
quanto esercita un potere di scelta che consiste nella discrezionalità
amministrativa (che permette di scegliere la soluzione più opportuna per
soddisfare l’interesse pubblico, valutando il peso degli interessi pubblici,
collettivi e privati, che verranno toccati dal provvedimento amministrativo) che
si contrappone al potere vincolato, che si ha quando la norma risolve la
valutazione degli interessi e stabilisce il contenuto del provvedimento da
adottare.
La discrezionalità c.d. tecnica, invece, è frutto di un giudizio di ordine
tecnico, che la norma stabilisce di effettuare e che il giudice amministrativo
assimila alla discrezionalità amministrativa.
La dottrina, peraltro, ha inteso sottoporre a regole giuridiche il potere
discrezionale, anche quello tecnico, a tutela delle situazioni giuridiche soggettive
dei cittadini altrimenti rimesse all’arbitrio della pubblica amministrazione.
3. Potere vincolato e potere discrezionale puro.
La distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale è stata già spiegata
dalla dottrina sin dagli inizi, ma la questione che si è venuta a profilare sta nella
riflessione se la norma disciplina in modo compiuto l’azione amministrativa
ovvero se non vi siano ulteriori margini di scelta in presenza di potere vincolato
per cui si è di fronte ad un potere discrezionale.
Non si può ripercorrere la complessa indagine della scienza del diritto
amministrativo sul tema, ma si può considerare la tesi dominante della dottrina,
per cui l’amministrazione deve agire per il soddisfacimento dell’interesse
pubblico specifico, quale interesse primario, in quanto imposto dalla norma
ovvero che la scelta sia eseguita valutando comparativamente tutti gli interessi
pubblici secondari, collettivi e privati, per poi decidere l’assetto degli
interessi a seconda dell’interesse prevalente per il singolo caso e che può
risultare diverso da quello pubblico primario.
In tal senso si spiega l’esercizio del potere discrezionale della pubblica
amministrazione che ha portato alla previsione di nuovi istituti giuridici, come
la conferenza di servizi.
In generale, gli enti a fini generali non hanno attribuzione di uno specifico
interesse pubblico, mentre lo Stato presenta un’attribuzione di un ben
determinato interesse pubblico che viene predeterminato dalla legge in capo ad
ogni Ministero, invece per gli enti territoriali sono gli organi politici a fissare
indirizzi e scopi da perseguire nell’esercizio del loro potere discrezionale.
Invero, quando in un procedimento amministrativo occorre effettuare un esame
contestuale dei vari interessi pubblici, ex art. 14 della legge n. 241/ 199022,
22 Legge 241 del 1990 Capo IV- Semplificazione dell'azione amministrativa - Articolo 14. (1)
(Conferenza di servizi)
1. Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un
procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente può indire (2) una conferenza di servizi.
2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese,
concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga,
entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La
conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più
amministrazioni interpellate ovvero nei casi in cui è consentito all'amministrazione procedente di
provvedere direttamente in assenza delle determinazioni delle amministrazioni competenti. (2)
43
l’amministrazione procedente indice una conferenza di servizi per arrivare ad
una decisione che è frutto dell’insieme dei titolari dei diversi interessi pubblici
coinvolti che contestualmente esprimono il loro avviso nella comparazione degli
interessi primari e secondari che ivi si presentano.
Viene, dunque, in rilievo l’interesse pubblico determinato in concreto nella
specifica situazione valutata dalla diverse amministrazioni, per cui la soluzione
opportuna può essere più di una, che l’amministrazione è libera di scegliere tra
le diverse soluzioni tutte ragionevoli e legittime: essa prenderà in
considerazione gli interessi di tutti ed effettuerà la loro valutazione comparativa,
in ordine all’interesse primario o secondario in concreto valutato nel
procedimento di partecipazione alla conferenza medesima.
4. La disciplina del contenuto del potere discrezionale
Secondo una parte della dottrina dall’agire della pubblica amministrazione
andrebbe escluso il merito della scelta amministrativa, in quanto sfera
inviolabile dell’agire libero dell’amministrazione i cui criteri sarebbero, invece,
rinvenibili nell’ambito delle scienze sociali presupposte dalla norma.
Invero, la giurisprudenza amministrativa ha da sempre sostenuto l’impossibilità
di svolgere un sindacato sulla opportunità della scelta rimessa alla pubblica
amministrazione, salvo che nelle materie espressamente indicate dalla legge in
cui è esercitata la più ampia giurisdizione estesa al merito.
In particolare, la giurisprudenza ha individuato i criteri che la discrezionalità
deve rispettare, pur in assenza di espressa previsione normativa, e cioè la non
contraddittorietà, la consequenzialità logica di ogni processo
decisionale sotto forma di illogicità manifesta, disparità di
trattamento, ecc. Il metro utilizzato dalla giurisprudenza per valutare il
contenuto del potere discrezionale consiste nella griglia delle regole
disciplinanti il potere discrezionale della pubblica amministrazione che si ritiene
vincolata per evitare la sanzione di annullamento in caso di impugnativa e che lo
stesso giudice assume come principi che causano l’illegittimità del
provvedimento.
In definitiva, il giudice, in assenza di previsione normativa sull’esercizio del
potere discrezionale, ha costruito le proprie regole che costituiscono un reticolo
di norme di origine giurisprudenziale tali da confinare in ambiti sempre più
ristretti l’agire libero della pubblica amministrazione.
5. La discrezionalità tecnica.
3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l'esame contestuale di interessi coinvolti in
più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o risultati. In tal caso, la
conferenza è indetta dall'amministrazione o, previa informale intesa, da una delle amministrazioni che
curano l'interesse pubblico prevalente. L'indizione della conferenza può essere richiesta da qualsiasi altra
amministrazione coinvolta.
4. Quando l'attività del privatosia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza
di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell'interessato,
dall'amministrazione competente per l'adozione del provvedimento finale.
5. In caso di affidamento di concessione di lavori pubblici la conferenza di servizi è convocata dal
concedente ovvero, con il consenso di quest'ultimo, dal concessionario entro quindici giorni fatto salvo
quanto previsto dalle leggi regionali in materia di valutazione di impatto ambientale (VIA). Quando la
conferenza è convocata ad istanza del concessionario spetta in ogni caso al concedente il diritto di voto.
5-bis. Previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza di servizi è convocata e svolta
avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità stabiliti dalle medesime
amministrazioni.
44
La discrezionalità tecnica, in assenza di previsioni normative, è stata riferita
alla norma c.d. imprecisa, ossia a quella regola non univoca mediante la quale
vengono definiti fatti complessi rispetto a quelli semplici, presupposti
dell’applicazione della norma.
La dottrina ha rilevato che l’accertamento del fatto ed il suo apprezzamento
rappresentano un’attività svolta dalla pubblica amministrazione mediante la
quale il fatto è ricondotto alla norma precisa e tale da distinguersi dalla
discrezionalità amministrativa, in quanto atti di volontà di un precetto.
Il trattamento giuridico della norma imprecisa è l’insindacabilità del potere
discrezionale esercitato dalla pubblica amministrazione e tale fattispecie risulta
ancora più complessa laddove la norma stabilisce che si debbano operare
valutazioni, che trovano il loro parametro in scienza c.d. esatte o
umanistiche, come la medicina ( ad esempio la pa può vietare la vendita di
sostanze tossiche, e per determinare la tossicità, applicherà conoscenze riferibili
alla chimica, o potrà dichiarare il valore artistico di un bene culturale, facendo
riferimento ai parametri artistici, storici, archeologici, ecc).
Ebbene in tutti questi casi si parla di discrezionalità tecnica, in quanto il giudice
amministrativo la ritiene sindacabile soltanto in sede di legittimità attraverso le
c.d. figure sintomatiche di eccesso di potere.
La discrezionalità tecnica è manifestazione di un giudizio
conseguente ad un accertamento di fatto, in cui rileva l’applicazione
di criteri e parametri scientifici e tecnici e da regole che sono
presupposte dalla norma che “incorpora” la tecnica.
Invero, il giudice ordinario, civile o penale, può disporre consulenze tecniche per
rivalutare le operazioni eseguite e se convenuta la pubblica amministrazione è
possibile un accertamento del rapporto con l’attore, soggetto privato, anche in
ordine agli accertamenti tecnici mediante consulenza tecnica.
Il giudice amministrativo, invece, conosce gli interessi legittimi incisi dall’atto
della pubblica amministrazione per cui egli può limitarsi a sindacare la
correttezza dell’accertamento e delle valutazioni compiute da questa compiute
senza peraltro sostituirsi ad essa. Del resto il giudice amministrativo ha
oggi
il potere di disporre consulenze tecniche in ambito di
giurisdizione di legittimità ed esclusiva.
Il giudizio di legittimità, infatti, riguarda il rispetto che la pubblica
amministrazione eserciti il potere secondo le regole stabilite dalla norma e se
questa richiama valutazioni tecniche il giudice amministrativo sarà legittimato a
valutarle.
In definitiva, il giudice amministrativo ha perso la sua posizione in ordine alla
insindacabilità della discrezionalità tecnica, da cui la possibilità di un sindacato
che affondi la sua indagine sino alla verifica diretta della attendibilità delle
operazioni tecniche.
Invero, di recente di è distinto tra giudizi tecnici opinabili e quindi
soggettivi, e giudizi tecnici su dati univoci e non opinabili. Il giudizio
per i primi sarebbe un sindacato di tipo “debole” attraverso l’eccesso di
potere e le sue figure c.d. sintomatiche e come tale rimesso all’amministrazione
nell’ambito del suo potere di provvedere.
In tal modo si esclude il sindacato sulle prove concorsuali e sugli esami di
abilitazione professionale.
Invero, l’amministrazione non fa altro che interpretare il dato normativo ed
accertare di fatto e valutare , secondo parametri tecnici richiamati dalla norma,
45
la posizione da assumere da cui resta escluso che il giudice possa esprimere un
giudizio che, come tale, è riservato al potere dell’amministrazione.
Infatti, il giudice se compie un’indagine piena e diretta alla valutazione tecnica
dà esecuzione alla norma, la cui tutela, ex art. 24 e 113, comma 1, Cost., deve
essere piena ed effettiva in quanto il sindacato giudiziario deve tutelare sia diritti
che interessi legittimi.
6. L’autonomia privata della pubblica amministrazione.
Il tema dell’autonomia privata della pa è molto discusso, come è discusso il fatto
che un soggetto giuridico possa auto-determinarsi sulla base di scelte libere, così
come fa un soggetto privato, magari attraverso lo strumento tipico di autonomia
privata, cioè il contratto.
Oggi la pubblica amministrazione sottoscrive contratti, da ciò ne deriverebbe
che essa è dotata di autonomia privata? In realtà tale autonomia non appare
riferibile alla pa, per la mancanza della libertà di autodeterminarsi e scegliere
i fini da perseguire.
Lo stesso interesse pubblico che essa persegue, rappresenta un limite alla
sua autonomia, ed un vincolo per l’azione amministrativa. Coloro che
non considerano l’elemento della libera scelta imprescindibile per l’autonomia
privata, non hanno difficoltà a riconoscerla anche alla pa: essi osservano inoltre
che anche le persone giuridiche private (es società) spesso sono limitate nello
svolgere le attività inerenti i fini da raggiungere, e ciò non toglie che esse siano
dotate di autonomia privata.
Quindi, a seconda della tesi che si assume, può riconoscersi o meno autonomia
privata alla pa.
Capitolo 3
Le situazioni giuridiche soggettive dei privati.
1. Diritti soggettivi dei privati nei confronti dell’amministrazione.
Seguendo l’indagine relativa alle situazioni giuridiche di vantaggio si può
affermare che i soggetti privati sono titolari, nei confronti dell’amministrazione,
di diritti soggettivi – assoluti, relativi, reali ed obbligatori - e di
interessi legittimi.
Al privato, proprietario di un bene immobile spetta il rispetto che l’ordinamento
prevede per tutti i soggetti e se, per esigenze di pubblica utilità, il bene deve
essere espropriato, l’amministrazione deve agire nel rispetto del principio di
legalità per lo svolgimento del procedimento di espropriazione.
In tale ambito, infatti, i diritti soggettivi dei privati sono tali anche nei confronti
dell’amministrazione che ha il potere di limitarli o di estinguerli, in quanto tale
potere viene in essere mediante l’iter procedimentale in cui vengono tutelati il
diritto soggettivo ed il potere avente ad oggetto la limitazione o l’estinzione di
quel diritto.
Invero, il privato, titolare del diritto soggettivo, non resta privo di tutela in
quanto l’ordinamento attribuisce al titolare del diritto una diversa situazione
giuridica soggettiva, e cioè l’interesse legittimo che gli consente di partecipare al
procedimento al fine di evitare o ridimensionare l’incidenza negativa sul suo
diritto.
Non può, dunque, parlarsi di trasformazione (affievolimento o
degradazione) del diritto soggettivo in interesse legittimo, in quanto si
tratta di due vicende separate dal momento che l’interesse legittimo nasce
con l’inizio del procedimento ed il diritto soggettivo si estingue solo al momento
46
della conclusione di esso e solo nel caso di provvedimento favorevole per il
privato.
Il diritto soggettivo può essere tutelato come tale solo se il potere autoritativo di
limitarlo o estinguerlo non sussiste o non viene in considerazione, per cui il
soggetto pubblico adotta provvedimenti ablatori di cui non ha la titolarità del
relativo potere, da cui la nullità del provvedimento adottato in carenza di potere
(difetto assoluto di attribuzione).
2. Il problema dei diritti c.d .resistenti.
Alla fine degli anni Settanta la Corte di cassazione ha individuato diritti non
limitabili né estinguibili ad opera dell’amministrazione, tanto da creare la
categoria dei diritti non degradabili, c.d. diritti resistenti alla quale venivano
ricondotti quei diritti costituzionalmente riconosciuti.
Primo tra tutti il diritto alla salute, esteso anche al diritto all’ambiente
salubre.
Invero, il carattere resistente del diritto deve comportare l’assenza di poteri
amministrativi che ne possano determinare l’ablazione, per cui
l’amministrazione risulta priva del potere di affievolire il diritto
costituzionalmente garantito.
Sul piano sostanziale, peraltro, la tutela degli interessi privati, in caso di
collisione con gli interessi pubblici, comporta l’impossibilità di soddisfare i
secondo e viceversa la soddisfazione dei primi impedisce di costruire una
categoria di diritti resistenti all’esercizio del potere.
La giurisprudenza ha ritenuto che le controversie relative resistenti siano di
competenza del giudice ordinario e non in quella del giudice amministrativo. In
pratica, però, questa ripartizione di competenza giurisdizionale non è possibile
in quanto il giudice ordinario non può annullare i provvedimenti
amministrativi che vengano riconosciuti illegittimi, ma può soltanto
condannare al risarcimento del danno ovvero applicare misure interdittive degli
interventi pubblici.
Il legislatore non ha mai riconosciuto tale categoria di diritti, ma si è limitato a
disciplinare i provvedimenti cautelari del giudice amministrativo in tema di
interessi essenziali della persona, quali il diritto alla salute, all’integrità
dell’ambiente, ovvero altri beni di primario rilievo costituzionale, affermando
altresì la giurisdizione del giudice amministrativo.
La Cassazione, invece, ha mantenuto fermo il suo orientamento e la Corte
costituzionale, di recente, ha affermato che non è ravvisabile alcun principio o
norma del nostro ordinamento giuridico, che riservi esclusivamente al giudice
ordinario la tutela dei diritti costituzionalmente protetti (sentenza n. 140 del
2007) e ciò consente una migliore composizione tra diritti privati ed interessi
pubblici.
3. L’interesse legittimo: considerazioni introduttive
In tema di interesse legittimo si pone la tutela giuridica dei privati che si trovano
di fronte all’amministrazione dotata di poteri autoritativi dal cui esercizio
possono derivargli vantaggi o svantaggi.
L’interesse legittimo, infatti, consente al privato di difendere il suo patrimonio
giuridico dall’azione intrusiva dell’amministrazione ovvero di sollecitare o
sostenere l’azione amministrativa diretta all’ampliamento del suo patrimonio.
In particolare, l’interesse legittimo si qualifica come oppositivo nel primo caso
(ex. espropriazione) ; mentre nel secondo caso si parla di interesse legittimo
47
pretensivo (esempio la richiesta di provvedimento favorevole, in caso di
concessione in uso esclusivo di bene demaniale).
Entrambe le due specie di interesse legittimo hanno la medesima struttura ed i
medesimi mezzi di tutela, per cui esso sussiste in tutti gli ordinamenti moderni
ove il potere autoritativo è retto dal principio di legalità ed è anche al riparo dal
controllo giurisdizionale.
Altri ordinamenti hanno risolto in maniera diversa il problema della tutela dei
privati nei confronti dell’azione amministrativa: come in Germania che si fa
riferimento a diritti pubblici soggettivi, quali species della categoria del diritto
soggettivo.
In Italia, invece, la necessita di elaborare una figura diversa dal diritto soggettivo
è stata determinata dall’evoluzione della tutela giurisdizionale prevista nei
confronti dell’amministrazione rendendo inevitabile il ricorso all’interesse
legittimo.
La tutela dei privati nei confronti dell’amministrazione, infatti, già nel periodo
del Regno d’Italia aveva carattere prettamente amministrativo in omaggio al
principio della separazione dei poteri, per cui i Tribunali del contenzioso
amministrativo erano gli organi che facevano capo al contenzioso
amministrativo.
In occasione della legge di unificazione amministrativa (legge n. 2248 del 1865)
il principio della separazione dei poteri venne superato e la tutela dei diritti
soggettivi venne affidata al giudice, che allora era soltanto il giudice ordinario e
gli interessi non riconosciuti come diritti soggettivi rimasero senza tutela,
amministrativa contenziosa.
In tale situazione venne istituita con la riforma del 1889 la IV Sezione del
Consiglio di Stato, c.d. perla giustizia amministrativa, che venne ad assicurare la
tutela contro atti e provvedimenti delle autorità amministrative o di corpi
amministrativi deliberanti che abbiano ad oggetto un interesse di individui o di
enti morali giuridici, ossia un interesse considerato dal legislatore quale
elemento metagiuridico che non può consistere di per sé in una situazione
giuridica soggettiva.
4. L’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva
L’”interesse” ha dato luogo ad un intensa ricerca teorica che, per tappe
successive, ha consentito di attribuire sostanza alla generica espressione
utilizzata dal legislatore del 1889.
I primi commentatori della legge, infatti, avevano escluso che si fosse creata una
nuova situazione giuridica soggettiva, per cui ove di diritti si fosse parlato
la tutela era quella offerta dal giudice in forza della legge del 1865.
Al fine di giustificare la tutela giurisdizionale, affidata alla IV Sezione del
Consiglio di Stato, si utilizzarono vari espedienti facendo ricorso alla tutela in
modo diretto dell’interesse pubblico ed in modo occasionale a quello privato,
ritenendo che l’interesse privato ricorrente fosse in verità un diritto soggettivo,
che veniva affievolito dagli atti e provvedimenti amministrativi contro i quali si
era presentato ricorso.
Da tale ricostruzione emerge, dunque, che l’interesse legittimo non era
concepito come una situazione giuridica soggettiva al pari del diritto
soggettivo, per cui la tutela giurisdizionale era nel senso pieno del termine.
L’interesse legittimo, allora, si distingue nelle due categorie di interessi
pretensivi ed interessi oppositivi, da cui si tenta di rendere concepibile la
tutela giurisdizionale anche ad interessi non riconosciuti come diritti soggettivi.
48
Di qui la tesi di Giuseppe Chiovenda che, all’inizio del secolo scorso, superando
la distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, portò al
riconoscimento di un bene, oggetto del diritto soggettivo sostanziale, al titolare
dell’azione, ossia del diritto di rivolgersi al giudice amministrativo in quanto
qualificazione giuridica da cui si riconosce altresì la tutela giurisdizionale.
Secondo tale tesi, infatti, l’interesse del privato si riduce ad un interesse di
ordine processuale, in quanto il titolare è legittimato a proporre ricorso al
giudice
amministrativo.
Tuttavia, l’interesse legittimo resta privo di qualsiasi rilevanza giuridica sul
piano sostanziale, seppure assume rilievo sul piano processuale nei termini di
potere di agire in giudizio.
Di qui, l’interesse legittimo assurge a dignità di situazione soggettiva sia pure
sotto il solo diritto processuale.
Successivamente l’interesse viene costruito come potere di agire in giudizio, e
poi ancora come potere di reazione contro il provvedimento (illegittimo)
sfavorevole, come potere di provocare l’annullamento del provvedimento
amministrativo lesivo.
Sia pure solo sotto il profilo processuale, l’interesse legittimo assurge a rango di
situazione giuridica soggettiva.
5. L’interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale.
Inteso come situazione processuale, l’interesse legittimo nasce a seguito
dell’adozione del provvedimento se favorevole, per cui si tutela l’interesse
pubblico curato dall’amministrazione e l’interesse legittimo si pone come
potere di reazione contro il provvedimento sfavorevole e come tale non
sussiste prima di quest’ultimo.
Ritenere sussistente una situazione soggettiva di diritto sostanziale richiede che
essa trovi riconoscimento e tutela prima del processo, per cui l’interesse del
privato doveva trovare legittimazione già nel momento dell’azione
amministrativa.
Si cercò, allora, di individuare quel valore del diritto oggettivo che garantisse il
privato nella titolarità dell’interesse legittimo e lo si individuò nella legittimità
dell’azione amministrativa.
Tuttavia, tale nozione di legittimità contrastava con il valore in concreto rimesso
al soggetto, in quanto essa riguardava in generale l’azione amministrativa che,
invece, andava collegata ad un interesse proprio del soggetto privato.
Abbandonata l’idea dell’interesse legittimo ancorato alla legittimità dell’azione
amministrativa, la dottrina ha preso atto dei limiti della relativa tutela per cui,
secondo una visione concreta e realistica, si è posto come oggetto dell’interesse
legittimo la stessa azione dell’amministrazione in quanto strumentale ad
acquisire un bene della vita, ossia un interesse sostanziale rappresentato da tale
comportamento.
La Costituzione ha definitivamente sanzionato il carattere di diritto
sostanziale dell’interesse legittimo con l’art. 24 Cost23 collocando
23 Art. 24 Cost: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
49
l’interesse legittimo accanto ai diritti soggettivi e parimenti gli artt.
10324, comma 1 e 113 Cost25.
Il contenuto dell’interesse legittimo risulta dalla giurisprudenza e dalle diverse
disposizioni legislative e dalla legge sul procedimento amministrativo.
6. L’interesse legittimo come situazione giuridica risarcibile
Riconosciuto il carattere sostanziale dell’interesse legittimo se ne è ricavata la
sua risarcibilità in caso di violazione da parte dell’amministrazione sia per il
mancato o ritardato esercizio del potere sia per l’illegittimo esercizio del potere.
La dottrina ha confermato la tutela risarcitoria avverso comportamenti dannosi
dell’amministrazione in caso di danno ingiusto per lesione di un interesse
giuridicamente rilevante , ossia di lesione di interesse legittimo.
Fino alla fine del secolo scorso, prima della sentenza n. 500 del 1999 delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la giurisprudenza non riteneva
possibile il risarcimento del danno soprattutto perché preoccupata di tutelare le
finanze pubbliche contro esborsi da risarcimento.
Successivamente, dopo circa 110 anni dalla sua introduzione nel nostro
ordinamento, l’interesse legittimo ha trovato riconoscimento sotto il
profilo risarcitorio seppure con diversi problemi.
Il primo problema attiene alla concezione di interesse legittimo, per cui se si
assume che esso abbia ad oggetto il bene della vita a cui aspira il suo titolare,
allora la misura del risarcimento deve parametrarsi a tale valore laddove tale
valore sarà prognostico in caso di interesse legittimo inteso come bene che il
titolare teme di perdere.
Viceversa, se l’interesse legittimo ha ad oggetto il comportamento
dell’amministrazione, allora esso vive nel procedimento e la misura del danno
risarcibile è dato dal valore di tale interesse che può derivare dalla
determinazione per la lesione dell’interesse finale avente ad oggetto il bene
illecitamente sottratto.
In giurisprudenza si seguono entrambi gli indirizzi della dottrina sovra
richiamati, ma la giurisprudenza amministrativa più consolidata ritiene che
l’azione risarcitoria sia strettamente dipendente dal favore dell’esito dell’azione
di annullamento del provvedimento lesivo, in quanto il risarcimento può essere
chiesto se il danneggiato non ne abbia tempestivamente chiesto e poi ottenuto
l’annullamento.
Parte 3
24 Art. 103 Cost Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione
per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie
indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.
La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla
legge.
I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno
giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate
25 Art. 113 Cost: Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o
amministrativa.
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.
50
Capitolo 1
L’attività amministrativa
1. Verso la costruzione di una disciplina speciale dell’azione amministrativa.
Con la formazione dello Stato unitario la dottrina e la giurisprudenza hanno
messo in luce come la sola disciplina applicabile agli atti amministrativi fosse il
diritto privato e che, pertanto gli atti che comportavano il consenso dei privati
non potevano che essere costruiti come atti consensuali.
Lo schema consensuale venne esteso alle convenzioni pubblicistiche e gli atti
c.d. ablatori vennero ritenuti validi pur in assenza della volontà della parte
privata in quanto compensata dalla volontà di legge.
In tale contesto, in assenza di una disciplina speciale, gli atti dello Stato
venivano intesi come atti sovrani e laddove si richiedevano atti consensuali si
applicava la disciplina di diritto privato.
In particolare, l’attività di diritto privato svolta dallo Stato si caratterizzava per
lo sdoppiamento tra Stato e Fisco, in quanto idoneo ad operare in posizione
paritetica rispetto ai cittadini e, in secondo tempo, ricomposta ad unità la
personalità dello Stato in quanto dotato di una doppia capacità di diritto
pubblico e di diritto privato da cui la distinzione tra atti di imperio e atti di
gestione.
Di qui, l’amministrazione inizia ad essere pensata come titolare di poteri
unilaterali, in quanto capace di esercitare il relativo potere pur in assenza del
consenso dei destinatari dei provvedimenti e, parimenti, si è affermato il
principio di legalità, per cui l’amministrazione veniva ritenuta idonea dei soli
poteri unilaterali previsti dalla legge e che doveva esercitarli sempre e comunque
nel rispetto della legge.
Conseguentemente, la tutela dei privati nei confronti degli atti unilaterali
dell’amministrazione si spostava nell’ambito della tutela offerta dal principio di
legalità e si riteneva che l’atto amministrativo, caratterizzato da esecutività ed
esecutorietà, poteva essere ritenuto viziato seppure atto legittimo in quanto
oggetto di eventuale annullamento.
Riassumendo, il mutamento fondamentale (a cui hanno contribuito il
legislatore, la dottrina e la giurisprudenza) consiste nel fatto che l’attività
amministrativa, inizialmente disciplinata dal diritto privato (comune a tutti i
soggetti giuridici), è stata progressivamente sottoposta a regole particolari
dettate espressamente per l’adozione dei suoi atti, fino alla costruzione di un
diritto speciale dell’amministrazione, detto appunto, diritto amministrativo.
2. L’azione amministrativa tra disciplina privatistica e disciplina pubblicistica
Nell’ultimo decennio del secolo XIX si forma il diritto amministrativo e, accanto
agli atti unilaterali, si specificano insieme agli atti consensuali anche i contratti,
disciplinati dalla leggi di contabilità di Stato.
L’attività amministrativa dall’essere soggetta al diritto pubblico ed in parte al
diritto privato, trova un doppio statuto giuridico, in quanto dottrina e
giurisprudenza si concentrano per l’attività amministrativa di diritto pubblico
nella nozione di provvedimento amministrativo e per quella di diritto privato
nelle forme proprie di diritto privato, ossia nella stessa posizione assunta dal
soggetto privato.
Massimo Severio Giannini, in particolare, definisce ogni ente pubblico dotato di
autonomia privata sol perché è persona giuridica, in quanto le norme sulla
51
plurisoggettività non distinguono tra soggetti persone fisiche e soggetti persone
giuridiche.
La giurisprudenza, inoltre, ha evidenziato come le regole di diritto pubblico si
estendano alla formazione del contratto in quanto tese a tutelare il
perseguimento dell’interesse pubblico tanto che la dottrina ha ravvisato come
l’amministrazione non possa utilizzare poteri di autonomia privata ma debba
pur sempre esercitare poteri amministrativi.
Negli anni Ottanta, la dottrina afferma che l’attività amministrativa può
esprimersi con strumenti privatistici in quanto attività funzionalizzata e
soggetta a regole generali diverse dall’attività dei soggetti privati.
Nell’ambito delle nuove riflessioni si pone l’attenzione al contratto di diritto
pubblico, in quanto si espressione del potere unilaterale del potere
dell’amministrazione anche in atti bilaterali in cui convergono poteri diversi ma
coincidenti nel regolamento di interessi cui l’atto giuridico da vita.
In definitiva, accanto ai contratti di diritto privato in cui l’amministrazione si
pone in fattispecie bilateriali, si riconosce in capo all’amministrazione un
potere unilaterale non privatistico in cui si delineano gli accordi
pubblicistici, le convenzioni pubblicistiche.
3. L’attività amministrativa tra autorità e consenso. Il valore precettivo del
potere amministrativo.
La concezione attuale della dottrina maggioritaria considera l’attività
amministrativa sia autoritaria che consensuale.
Sotto il primo profilo, si designa una nozione strettamente tecnico – giuridica, in
cui si spezza la nozione di sovranità, quale potere autoritativo nel disciplinare
interessi altrui e si riguarda al potere precettivo dell’amministrazione
nell’elaborazione di regolamentazione di interessi pubblici e privati rispetto al
quale l’atto amministrativo si pone come imperativo.
Il potere autoritativo, infatti, si esprime mediante atti precettivi unilaterali
ed anche in atti bilaterali – consensuali, così negli accordi previsti dalla
legge sul procedimento, laddove per la prima tipologia di atti il consenso non è
necessario.
Nel caso in cui l’atto consensuale è indispensabile per il raggiungimento di un
determinato regolamento di interessi, allora, il potere amministrativo non può
considerarsi autoritativo, in quanto il consenso del privato condiziona tale
regolamento.
Al potere precettivo, dunque, si riconosce il c.d. vincolo di scopo, in quanto
finalizzato al raggiungimento di un interesse pubblico rispetto a quello degli
amministrati e tale principio si fonda sulle regole di imparzialità, proporzionalità
e trasparenza dell’azione amministrativa, in quanto l’amministrazione agisce
tendendo conto dell’applicazione dei suddetti principi nel perseguire l’interesse
pubblico e nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei privati.
4. Segue. L’attività consensuale dell’amministrazione
Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza l’attività consensuale
dell’amministrazione riguarda la posizione del privato che assume nelle
obbligazioni nei confronti dell’amministrazione, per cui consensuali
possono essere anche atti sfavorevoli al privato ed in tal caso si esercita un
potere autoritativo.
52
L’amministrazione ha facoltà di scegliere tra accordi o per provvedimenti
e si tratta di una scelta discrezionale che va operata secondo il criterio
dell’interesse pubblico.
Inoltre, non vi è alcuna corrispondenza tra atti di autorità ed atti consensuali ed
atti di diritto pubblico ed atti di diritto privato, in quanto entrambe le categorie
possono essere configurate come atti consensuali di diritto pubblico e viceversa.
Nell’ambito delle fattispecie consensuali, i contratti prevedono la necessità
del consenso dei privati laddove gli accordi non lo richiedono.
Nell’attività di programmazione e di pianificazione, invece, l’accordo assume
carattere centrale, in quanto si sostituisce agli atti autoritativi nella negoziabilità
dell’assetto degli interessi in gioco.
L’attività amministrativa è stata oggetto di numerose operazioni di
classificazione in senso oggettivo ed in senso soggettivo. Alcune di tali
distinzioni sono state tradizionalmente tralasciate, in quanto l’attenzione si è
spostata sugli atti e sui provvedimenti, mentre altre trovano ancora piena
validità.
Rileva, infatti, il criterio teleologico, in merito all’interesse pubblico perseguito,
in quanto l’attività amministrativa, al di là delle sue denominazioni, è attività
necessariamente razionale nel suo esplicarsi nelle fasi di ideazione,
programmazione, progettazione, decisione, realizzazione, esecuzione e
valutazione dei risultati. Pertanto, in linea astratta, va considerata l’attività
amministrativa in quanto tale al di là delle sue specificazioni.
5. Attività e funzione amministrativa.
L’attività amministrativa in senso stretto ha una sua configurazione
materiale o pregiuridica, in quanto l’ordinamento giuridico attribuisce
efficacia a determinati suoi atti e si specifica come attività amministrativa diretta
in quanto cura di interessi pubblici.
Molteplici sono i modi in cui l’attività amministrativa viene presa in
considerazione, ma è evidente che l’interesse pubblico si pone come interesse
non appartenente all’amministrazione, ossia al soggetto che pone in essere
l’attività di cura, per cui occorre domandarsi chi ne sia il titolare.
In modo più aggiornato si ritiene che gli interessi pubblici sono interessi di cui
sono titolari le collettività di riferimento degli apparati amministrativi che li
hanno in cura e, in ultima istanza, il popolo al quale viene riferita la sovranità.
6. Modi e forme della rilevanza giuridica dell’attività amministrativa
L’attività amministrativa consiste nel complesso di atti puntuali che assurge a
fattispecie in quanto considerate dal diritto.
Oggetto della valutazione giuridica, infatti, è l’attività amministrativa di volta in
volta considerata nel suo insieme ovvero in segmenti separati secondo criteri
diversi.
In definitiva, l’attività amministrativa assunta come tale pone il problema della
consistenza del principio di legalità e della relativa riserva di
amministrazione, in quanto attività finalizzata all’emanazione del
provvedimento in cui si racchiude il procedimento ed al quale fanno riferimento
il controllo di gestione, il controllo strategico e la responsabilità dirigenziale e
così via.
Tali sono alcuni dei modi in cui si esprime l’attività amministrativa rispetto alla
quale, in ultimo, è stato aggiunto un nuovo istituto, la conferenza dei servizi
53
in cui convergono più procedimenti connessi al fine di conseguire un
determinato risultato concreto.
Dalla valutazione dell’attività amministrativa, può emergere la responsabilità
dell’amministrazione pubblica, presa in considerazione in quanto illecita: nella
fattispecie dell’illecito entra l’attività e non solo l’atto o il provvedimento
amministrativo.
Capitolo 2
Principi e azione amministrativa
1. Principi generali dell’azione amministrativa dalla legge b. 241/1990 alla legge
n. 15/ 2005.
L’art.1, comma 1, della legge 241/1990 enuncia i principi dell’azione
amministrativa in quanto determinati dalla legge ed è retta da criteri di
economicità, efficacia e pubblicità secondo le modalità previste dalla legge
e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti.
La novella di cui alla legge n. 15/2005 ribadisce tali principi ed affianca a quelli
nazionali i principi dell’ordinamento comunitario aggiungendo, in particolare,
la trasparenza e l’imparzialità dell’attività amministrativa.
Nulla di nuovo aggiunge il comma 1- bis della legge, in quanto
l’amministrazione adotta atti di natura non autoritativa secondo le
norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente.
Infine, il comma 1- ter prevede che i soggetti privati preposti all’esercizio di
attività amministrative assicurino il rispetto dei principi di cui al comma 1, ed in
tale disposizione si conferma l’orientamento giurisprudenziale da tempo
consolidato.
Invero, dall’art. 1 della legge emerge una crisi con il principio di legalità in
quanto sotto il profilo del primato della legge formale e sotto il principio
dell’applicazione del principio si rileva che il principio di legalità è fortemente
contraddetto dalla prevalenza delle fonti normative comunitarie e
dall’accrescimento delle fonti secondarie nonché dalla elaborazione di principi
da parte della giurisprudenza relativi all’attività amministrativa.
2.Principio di legalità.
Dalla crisi del principio di legalità emerge il tentativo da parte della dottrina
di estendere la portata del principio a tutte le disposizioni costituenti il diritto in
senso tecnico, ossia la possibilità di estendervi la sua applicazione fino al merito
dell’attività amministrativa.
Di qui, la legittimità dell’azione amministrativa viene a risolversi nella
conformità del provvedimento secondo parametri normativi o meno assunti
come precostituiti, per cui la stessa legittimità assume contenuto diverso e
sostanziale contrapponendosi al concetto di autorità.
Il principio di legalità si espande fino a comprendere i criteri e le regole
proprie dell’agire dell’amministrazione e a colmare eventuali lacune
dell’ordinamento
giuridico
anche
grazie
all’opera
della
giurisprudenza che ha contribuito a formulare i principi relativi all’azione.
3. Principi e norme non giuridiche: in dibattito antico
Il problema dei criteri di esercizio dell’azione amministrativa ha investito la
riflessione sulla discrezionalità amministrativa, ma è soprattutto all’inizio del
secolo scorso che l’attenzione della dottrina si è posta sulle regole sociali e sui
54
valori di giustizia capaci di indirizzare l’attività discrezionale della pubblica
amministrazione.
Nella riflessione sui criteri extra- giuridici, il dibattito degli anni Venti ha
riguardato al rispetto della legalità e al merito, un quanto attività assolutamente
vincolata oppure discrezionalmente libera e tale orientamento venne confermato
successivamente da M.S. Giannini che classificò dette regole in regole morali,
regole sociali, regole di buona amministrazione, regole di correttezza
amministrativa e principi di politica. Invero, tali regole venivano riconosciute
come regole giuda delle concrete scelte operate dall’amministrazione.
Si è infatti ritenuto che la pa sia determinata e vincolata anche da norme non
giuridiche: una buona amministrazione deve essere tale non solo rispetto alla
legalità, ma anche al c.d merito, cioè a quelle norme non giuridiche che sono
altrettanto rilevanti per l’ordinamento.
Giannini parlava a questo proposito di regole morali, sociali, di buona
amministrazione, di correttezza amministrativa, di principi della politica, ecc.
4. I principi alla ricerca della giuridicità.
In Francia la riflessione è stata diversa, in quanto i canoni di condotta
dell’azione amministrativa sono stati censurati in sede di sindacato di legittimità
da parte del Conseil d’Etat, che ha posto l’esigenza di porre un limite a tali
regole nella misura della stabilità che l’azione amministrativa deve assicurare
nella propria attività e di cui il giudice è tenuto a garantirne il legittimo esercizio.
Anche la cultura anglosassone e statunitense ha mosso un approccio realistico
all’analisi dei criteri guida dell’azione amministrativa, rinvenendo regole di
azione concrete e specifiche che offrono canoni capaci di controllo.
In Italia, il Consiglio di Stato ha affermato che le regole tecniche o sociali
sono necessaria per l’applicazione di norme giuridiche in quanto consentono un
ampliamento della sfera della legittimità. Pertanto, per soddisfare tali esigenze
di tutela la dottrina ha offerto una sistemazione teorica a tali regole e principi
dando rilevanza alla legittimità piuttosto che al merito.
Si afferma, infatti, che l’ultima fonte di tali criteri è data dall’esperienza, che
deve ritenersi desumibile dalla media degli uomini secondo
l’elaborazione propria delle discipline sociali oggettivamente
riconosciute capaci di produrre le singole fattispecie.
In definitiva, si afferma che è l’esperienza a fornire elementi sufficienti perché
l’agente possa esternare una norma ovvero una regola capace di disciplinare il
caso concreto suscettibile di accertamento oggettivo.
5. Principi e mutevolezza delle regole non giuridiche.
La dottrina è andata molto al di là dell’esistenza di tali criteri che guidano
l’azione amministrativa e tra le varie soluzioni proposte si è sostenuto la
rilevanza giuridica che non sia nella norma extra legem, ma nell’inosservanza di
essa tanto da parlare di invalidità esclusivamente amministrativa, in quanto
difformità dell’azione amministrativa nel rendersi efficiente secondo il principio
di opportunità.
Rinconsciuti come insuscettibili di identificazione, tali regole risultano flessibili
nel loro continuo adattarsi alla realtà mutevole, da cui si deve negare che i
medesimi canoni possano essere considerati norme giuridiche o norme dotate di
rilevanza giuridica.
55
Invero, non si contesta che qualsiasi regola possa avere contenuto di norma, ma
soltanto che tali criteri risultano di difficile inquadramento sistematico e,
dunque, privi di stabilità e certezza giuridica.
Tuttavia, le norme o regole sociali possono essere formulate anche in modo
indefinito e secondo principi scientifici ed assurgere a rilievo giuridico in sede di
controllo di legittimità in quanto riflesso di una disciplina più ampia
determinata da esigenze di ordine, correttezza che sono poste a fondamento
dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione.
Di qui, l’ampliamento operato dalla dottrina in riferimento al principio di
legalità che si pone quale fonte di esigenza di certezza dell’azione
amministrativa in sede di controllo di legittimità.
6. I principi generali dell’ordinamento
A tale esigenza offre risposta tutta la elaborazione teorica sui principi generali
dell’ordinamento che hanno contribuito ad ampliare il principio di legalità
nell’indirizzare l’azione amministrativa e che sono diventati guida dell’azione
amministrativa e parametro di valutazione per gli organi di controllo
dell’azione della pubblica amministrazione.
Lo stesso Mortati, infatti, afferma che tali criteri non devono essere intesi come
corpo di regole compiute nella loro formulazione, in quanto piuttosto criteri
generali o direttive d’azione da cui ogni persona dovrebbe ricavare
elementi necessari per stabilire la relativa disciplina d’azione.
Parimenti, negli ordinamenti di common law sono proprio i principi generali ad
essere il principale limite all’azione amministrativa, rispetto ai quali si pone
l’attenzione del giudice amministrativo.
La nostra giurisprudenza, inoltre, ha da tempo riconosciuto che i principi
generali costituiscono regole dell’azione amministrativa tali da caratterizzare il
diritto amministrativo in quanto tali principi sono stati elevati a valori guida
generali dell’azione amministrativa.
7. Segue, I principi di buona amministrazione in particolare.
Tra i principi generali dell’ordinamento meritano attenzione i c. d. principi di
buona amministrazione, in relazione ai quali si esclude che possano essere
considerati principi generali dell’ordinamento.
Invero, si tratta di regole di esperienza di cui già si è parlato che non possono
essere confusi con i principi generali dell’ordinamento.
In tal senso si spiega il c.d. principio di buona amministrazione, che già presente
nell’ordinamento giuridico fascista, assolve all’esigenza insita nell’ordinamento
giuridico statale di regolare l’attività delle persone giuridiche pubbliche.
Il principio è stato assunto all’art. 97 Cost26. insieme a quello di buon
andamento e di imparzialità, laddove il buon andamento concerne
l’ordinazione dell’amministrazione al suo fine primario, cioè
all’interesse pubblico specifico e si pone come canore di regolamentazione
primaria; il secondo riguarda il rispetto degli interessi secondari e si
atteggia più come limite che come criterio positivo.
26 Art. 47 Cost: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano
assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità
proprie dei funzionari.
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla
legge.
56
Anche l’imparzialità vige come principio positivo nell’attuale ordinamento
giuridico, in quanto essa è imposta dall’evoluzione dell’ordinamento.
Meno agevole è la conclusione per il buon andamento, in quanto si tratta di
una nozione che si riferisce specificamente agli uffici pubblici, per cui esso si
profila sotto il duplice profilo funzionale e strutturale negli elementi
organizzativi dell’amministrazione e che regge l’azione amministrativa nella
cura del pubblico interesse.
In conclusione, l’amministrazione trova un orientamento in regole precise e
puntuali stabilite dall’ordinamento giuridico ed in altri criteri guida della sua
azione che vincolano nel merito le proprie scelte e che fungono da misura di
valore di quelle scelte.
8. Ulteriori principi.
Da una parte quindi, abbiamo i principi che garantiscono il raggiungimento
del pubblico interesse, dall’altra quelli che assicurano che l’azione
amministrativa sia svolta nel rispetto degli interessi dei privati coinvolti
nell’esercizio del potere.
Riguardo il primo profilo, in aggiunta al buon andamento abbiamo i principi di
economicità ed efficacia e di semplicità e celerità.
Il principio di economicità indica l’obbligo per la pa di fare uso diligente delle
proprie risorse, utilizzando semplicità e celerità nell’azione amministrativa: a
ciò è legata anche la doverosità dell’azione amministrativa (con l’obbligo di
conclusione del procedimento amministrativo attraverso l’emanazione di un
procedimento espresso) e il divieto di aggravamento del procedimento di cui
all’art. 1 della legge 241/90.
Il principio di efficacia esprime l’idoneità dell’atto a soddisfare l’interesse
perseguito, mentre l’efficienza esprime la funzionalità delle scelte fatte dalla pa,
valutate in relazione al rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti.
Nel secondo profilo ritroviamo i principi di imparzialità, ragionevolezza,
proporzionalità,
trasparenza
e
tempestività
dell’azione
amministrativa.
La ragionevolezza, espressione dell’imparzialità, del buon andamento e
dell’eguaglianza, comporta che gli esiti dell’azione amministrativa devono
risultare coerenti e congrui rispetto alle premesse di fatto e di diritto poste alla
base della decisione.
La trasparenza rappresenta una garanzia del diritto ad essere informati e del
diritto alla difesa: tale garanzia deve essere assicurata in ogni fase dell’azione
amministrativa.
Il principio dell’affidamento esprime l’obbligo di correttezza e buona
fede nei rapporti tra cittadino e pa, nonché il principio di continuità funzionale,
con riferimento all’esercizio continuo e mai interrotto dell’azione
amministrativa.
Capitolo 3
Il procedimento amministrativo
1. La nozione di procedimento amministrativo
Le amministrazioni perseguono fini pubblici previsti dalla legge ed il
procedimento amministrativo è definito come la serie di atti ed attività
funzionalizzate all’adozione del provvedimento amministrativo, che
rappresenta l’atto finale della sequenza e che consiste nella decisione volta a
57
produrre un determinato assetto di interessi cui il medesimo procedimento è
predisposto nella cura dell’interesse pubblico.
Procedimento amministrativo, dunque, rappresenta il processo decisionale
formalizzato attraverso il quale le amministrazioni pubbliche esercitano i
poteri e le potestà ad esse attribuite dalla legge per la cura di un interesse
pubblico il cui esercizio deve avvenire nel rispetto dei principi di imparzialità,
ragionevolezza e proporzionalità.
Il procedimento garantisce la tracciabilità della decisione della pa, e serve
dunque a verificare, sulla base di dati e riscontri obiettivi, la legittimità del
provvedimento adottato e la sua conformità alla legge e ai principi che regolano
l’attività amministrativa in generale.
2. La disciplina giuridica del procedimento amministrativo
Con la legge n. 241/ 1990 sono state emanate norme che disciplinano il
procedimento amministrativo e l’azione amministrativa, in particolare il diritto
d’accesso ai documenti amministrativi. Il legislatore è intervenuto in seguito con
la legge 15/2005, la legge 80/2005 e la legge 69/2009.
2.1. Segue. La competenza legislativa e normativa in materia procedimentale.
Le disposizioni contenute nella legge del 1990 si applicano esclusivamente ai
procedimenti amministrativi che si svolgono tra amministrazioni statali e degli
enti pubblici nazionali, salvo quanto stabilito in materia di giustizia
amministrativa.
In particolare, il legislatore costituente delle riforma del Titolo V della nostra
Carta costituzionale, ha ridefinito il riparto delle competenze legislative tra Stato
e Regioni ed ha attribuito alla competenza esclusiva statale la sola materia
dell’ordinamento e dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti
pubblici nazionali, per cui in tale ambito deve ritenersi sussistente la
competenza legislativa delle Regioni relativamente all’ordinamento e
all’organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici ed ha attribuito
la titolarità delle funzioni amministrative proprie e la potestà regolamentare a
Comuni, Province e Città metropolitane in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117 e
118 Cost.).
In generale, la legge n. 241/1990 ha trovato applicazione generalizzata a tutte le
amministrazioni pubbliche.
Regioni ed enti locali sono tenuti, ai sensi dell’art. 29 della suddetta legge, a
regolare i propri procedimenti nel rispetto del sistema costituzionale e delle
garanzie del cittadino verso l’amministrazione. Il livelli essenziali delle
prestazioni dovute al cittadino, sono disciplinati dalla legge 241/90, e
riguardano gli obblighi per la pa di garantire la partecipazione dell’interessato al
procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro un termine
prefissato, di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, la durata
massima del procedimento, la dichiarazione di inizio attività, il silenzio assenso
e la conferenza di servizi.
3. Struttura e funzione del procedimento amministrativo.
La struttura del procedimento amministrativo non è definita dalla legge
241/1990.
La dottrina e la giurisprudenza hanno suddiviso il procedimento amministrativo
in fasi: la fase di iniziativa, la fase istruttoria e la fase decisoria.
58
Invero, la decisione amministrativa si forma durante lo svolgimento del
procedimento che termina con l’emanazione del provvedimento finale, per
cui durante l’iter decisionale si snoda un contiunuum di azioni e momenti che si
presentano unitari tra loro: si tratta di atti endoprocedimentali che in genere
non producono effetti al di fuori del procedimento..
Quanto all’atto interno al procedimento si rinviene la sua forza lesiva delle
posizioni giuridiche dei destinatari, in quanto si richiede l’adozione di un
parere, obbligatorio ma non vincolante, al fine dell’adozione del provvedimento
finale con effetto lesivo per il privato laddove detto parere non sia stato
legittimamente richiesto ovvero rilasciato.
Sotto il profilo funzionale, il procedimento amministrativo serve a rendere
palese il fatto di realtà da cui si ricava l’esigenza di cura dell’interesse pubblico,
c.d. interesse primario, verso cui indirizzare l’intero processo decisionale che si
conclude con il provvedimento ed acquisire agli altri interessi, pubblici e privati,
presenti nel fatto, c.d. interessi secondari. Inoltre, il procedimento serve ad
accertare l’esistenza e le caratteristiche del fatto e a valutare correttamente la
consistenza degli interessi coinvolti nonché individuare le norme che
disciplinano l’esercizio del potere rispetto al caso concreto.
4. L’apertura del procedimento e l’iniziativa procedimentale
Il procedimento si apre con il primo atto, l’atto di iniziativa
procedimentale.
Dall’art. 2 della legge 241/1990 si ricava che l’avvio del procedimento può
avvenire ad istanza di parte ovvero d’ufficio, per cui nel primo caso
l’amministrazione è sollecitata dal privato o da altra amministrazione, mentre
nel secondo caso è la stessa amministrazione a dare avvio al procedimento27.
27 Articolo 2. (1)
(Conclusione del procedimento)
1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato
d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un
provvedimento espresso.
2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un
termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni.
3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell'articolo 17,
comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i
Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, sono
individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di
competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri
ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di
propria competenza.
4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione
amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del
procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti
di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3
sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la
semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non
possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della
cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione.
5. Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza
disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva
competenza.
6. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal
ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte.
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Di regola, i procedimenti ad istanza di parte sono destinati a conclusione con
provvedimento che amplia la sfera giuridica del privato (ex. concessione d’uso di
bene demaniale). Tuttavia, nel caso di primo atto che l’amministrazione pone in
essere per il perseguimento di interesse pubblico, l’iniziativa procedimentale
viene a coincidere con il primo atto posto dall’amministrazione (ex.
espropriazione di terreno privato per realizzare opera pubblica).
5. L’istruttoria procedimentale e il responsabile del procedimento.
All’atto di iniziativa procedimentale segue la fase dell’istruttoria, durante la
quale si svolgono tutte le attività necessarie a chiarire le questioni rilevanti ai fini
dell’adozione della decisione finale.
Durante la fase istruttoria l’amministrazione accerta e valuta il fatto di realtà e la
sua rilevanza per l’interesse pubblico, acquisisce ulteriori fatti significativi e tutti
gli interessi, pubblici e privati, coinvolti nonché esercita potestà discrezionali
con valutazione comparativa degli interessi coinvolti.
Un ruolo decisivo in tale fase è svolto dal responsabile del procedimento
che, ai sensi di cui all’art. 4 della legge: ove non sia direttamente stabilito per
legge o per regolamento, le amministrazioni sono tenute a determinare per
ciascun procedimento relativo agli atti di propria competenza l’unità
organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale.
Ai sensi dell’art. 5 comma 1, il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede
ad assegnare a se o ad altro dipendente addetto all’unità, il ruolo di responsabile
del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 comma 2, fino a quando non è stata effettuata tale
assegnazione, è considerato responsabile del procedimento il dirigente preposto
all’unità organizzativa.
7. Fatto salvo quanto previsto dall'art. 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo
possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per
l'acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti
già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche
amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'art. 14, comma 2.
8. La tutela in materia di silenzio dell'amministrazione è disciplinata dal codice del processo
amministrativo. (2)
9. La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della
responsabilità dirigenziale.
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15 , dal Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35
e
successivamente dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
(2) Comma così modificato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Articolo 2-bis. (1)
(Conseguenze per il ritardo dell'amministrazione nella conclusione del procedimento)
1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione
del procedimento.
(...) (2)
(1) Articolo inserito dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
(2) Comma abrogato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Il testo precedente così recitava: "Le
controversie relative all'applicazione del presente articolo sono attribuite alla giusdizione esclusiva del
giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni."
60
Ai sensi dell’art. 5 comma 3, l’unità organizzativa competente ed il nominativo
del responsabile del procedimento, sono comunicati ai soggetti di cui all’art. 7
comma 1 (cioè quelli a cui deve essere inviato l’avviso del procedimento) e, a
richiesta, a chiunque vi abbia interesse.
Dunque, con l’introduzione nell’ordinamento amministrativo dell’istituto del
responsabile del procedimento il legislatore ha dato un volto alla pubblica
amministrazione ed ha individuato un polo certo di riferimento per il privato
che non può più smarrirsi nell’indistinto amministrativo.
Il responsabile del procedimento realizza, a livello di riorganizzazione della P.A.,
le esigenze di semplificazione e di efficienza alle quali la legge generale sul
procedimento si ispira, che segna un’evidente frattura con il sistema
antecedente caratterizzato dalla frammentazione delle competenze e
dall’inesistenza di una guida unitaria della sequenza procedimentale.
Mancava, prima della l. n. 241, un soggetto che si facesse carico di portare la
sequenza procedimentale al traguardo provvedi mentale, mancava una figura
organizzatoria funzionale alla semplificazione procedimentale.
Al responsabile del procedimento è affidato il corretto ed efficace svolgimento
della fase istruttoria ed è l’interlocutore con i privati nell’esercizio dell’azione
amministrativa.
L’art. 6 della legge indica i diversi compiti a lui affidati, che toccano tutti gli
adempimenti che l’amministrazione deve porre in essere durante il
procedimento, fino all’emanazione del provvedimento finale.
In particolare, egli è chiamato all’accertamento dei fatti ed è punto di
riferimento per i privati che partecipano al procedimento. Ai sensi dell’art. 6:
a) valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di
provvedimento;
b) accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo
necessari, e adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento
dell'istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la
rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire
accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali;
c) propone l'indizione o, avendone la competenza, indìce le conferenze di servizi
di cui all'articolo 14;
d) cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le modificazioni previste dalle leggi e
dai regolamenti;
e) adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette
gli atti all'organo competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione
del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non
può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
Dunque, il responsabile del procedimento è figura centrale sia nella fase
dell’istruttoria che in quella dell’emanazione del provvedimento nonché nello
svolgimento di tutti gli adempimenti procedimentali.
La semplificazione voluta dagli artt. 4 e ss. della l. 241 è stata condivisa e
assecondata dalla giurisprudenza e dalla legislazione regionale. Entrambe hanno
sottolineato la necessità che per ogni procedimento sia individuata un’unica
unità organizzativa al fine di rimuovere oggettivamente la preesistente
frammentazione delle competenze e gli inevitabili ritardi ed inefficienze che ne
derivano.
In aggiunta al testo:
61
L’art. 6 l. 241 inizia (lett. a) con l’attribuire al responsabile del procedimento il
potere-dovere di valutare, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità e i
requisiti di legittimazione nonché i presupposti rilevanti per l’emanazione del
provvedimento. Si tratta di verificare la sussistenza di tutti gli elementi di fatto e
di diritto necessari all’adozione dell’atto finale; al contrario, nel caso di loro
assenza, avrà luogo l’interruzione della sequenza procedimentale che sfocerà,
comunque, in un atto espresso (art. 2) e motivato (art. 3), avendo, comunque,
l’interessato diritto alla risposta.
Di seguito (lett. b) l’art. 6 attribuisce al responsabile del procedimento il
compito di accertare d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti
necessari, adottando ogni misura necessaria all’adeguato e sollecito svolgimento
dell’istruttoria. Questa disposizione, sulla quale si tornerà in seguito
approfondendo le innovazioni introdotte con la l. n. 15/2005, va coordinata con
quella di cui all’art. 18, secondo comma, secondo cui qualora l’interessato
dichiari che fatti, stati e qualità sono attestati in documenti già in possesso della
stessa amministrazione procedente o di altra pubblica amministrazione, il
responsabile del procedimento provvede d’ufficio all’acquisizione dei documenti
stessi o di copia di essi. Ne deriva un capovolgimento dell’antecedente assetto
circa la distribuzione dell’onere della prova tra privato e amministrazione alla
quale vengono trasferiti adempimenti istruttori che prima gravavano sul privato,
attenuandosi il formalismo prima dominante nella maggior parte dei
procedimenti quanto alle condizioni di ammissibilità, ai presupposti, stati e
qualità. Nella prospettiva di attenuare il formalismo e di migliorare i rapporti tra
privati e P.A. è stato pure previsto che il responsabile può chiedere il rilascio di
dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può
esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali. Il
responsabile del procedimento deve collaborare con il privato ponendolo in
condizione di rimuovere difetti, irregolarità, incompletezze, impedimenti
presenti nell’istanza da lui presentata, che, se non eliminati
o corretti, renderebbero l’iniziativa inefficace in quanto priva del requisito della
legittimazione o delle condizioni di ammissibilità.
Inoltre (lett. c) l’articolo in commento attribuisce al responsabile del
procedimento la facoltà di proporre l’indizione della conferenza di servizi o,
avendone la competenza, di convocarla direttamente, attivando questo
efficacissimo strumento di semplificazione essenziale per imprimere speditezza
all’azione amministrativa.28
28
Articolo 3.
(Motivazione del provvedimento) (1)
1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo
svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste
dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.
3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione
stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della
presente legge, anche l'atto cui essa si richiama.
4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile
ricorrere.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 3-bis. (1)
(Uso della telematica)
1. Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l'uso
della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati.
62
6. La partecipazione dei privati al procedimento amministrativo nella legge 241/
1990.
Con la legge 241/1990 muta radicalmente il ruolo dei privati nel procedimento
amministrativo, in quanto nel sistema previgente era centrale la posizione
assunta dall’amministrazione.
Con la legge sul procedimento, infatti, la partecipazione dei privati serve alla
migliore cura dell’interesse pubblico, in quanto l’amministrazione è
chiamata a valutare l’interesse privato rispetto all’interesse pubblico di cui
essa ha cura nell’esercizio del potere amministrativo.
La partecipazione procedimentale svolge dunque una funzione di
collaborazione ed una funzione di garanzia, frutto di un recente conquista
legislativa.
Infatti la dottrina ravvisava una lacuna in passato, per la mancata attuazione
dell’art. 97 Cost, ed in particolare del principio di imparzialità che secondo tale
norma doveva guidare tutta l’azione amministrativa.
Alla disciplina giuridica della partecipazione dei privati al procedimento è
dedicato il Capo III della legge del 1990, che esclude all’art. 13 commi 1 e 2,
(1) Articolo aggiunto dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Capo II
Responsabile del procedimento
Articolo 4.
(Unità organizzativa responsabile del procedimento) (1)
1. Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche amministrazioni sono
tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l'unità
organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale.
2. Le disposizioni adottate ai sensi del comma 1 sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli
ordinamenti.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 5.
(Responsabile del procedimento) (1)
1. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto
all'unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento
nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale.
2. Fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma 1, è considerato responsabile del
singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma del comma 1
dell'articolo 4.
3. L'unità organizzativa competente e il nominativo del responsabile del procedimento sono comunicati
ai soggetti di cui all’articolo 7 e, a richiesta, a chiunque vi abbia interesse.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 6. (1)
(Compiti del responsabile del procedimento)
1. Il responsabile del procedimento:
a) valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che
siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento;
b) accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e adotta ogni misura
per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. In particolare, può chiedere il rilascio di
dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti
tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali;
c) propone l'indizione o, avendone la competenza, indìce le conferenze di servizi di cui all'articolo 14;
d) cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le modificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti;
e) adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all'organo
competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal
responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
63
l’applicazione di tale istituto per i procedimenti diretti all’emanazione di atti
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e programmazione, nonché
di quelli tributari, in quanto ivi prevalgono esigenze di segretezza su quelle di
pubblicità.
Il bilanciamento tra principi di trasparenza e di pubblicità ha portato la
giurisprudenza ad ampliare le prescrizioni relative alla partecipazione dei privati
al procedimento tanto da interpretare in via estensiva la relativa disciplina.
Tuttavia, in presenza di discipline settoriali che si applicano a determinati
procedimenti, la legge 241/1990 viene a riconoscere una portata più ampia della
garanzia procedimentale, in quanto al privato sono riconosciuti strumenti più
incisivi di interloquire con l’amministrazione anche oralmente e non soltanto
mediante presentazione di memorie scritte e documenti come previsto dall’art.
10 della legge 241/1990, instaurando in tal modo un vero e proprio
contraddittorio con l’amministrazione procedente.29
7. La comunicazione di avvio del procedimento.
La partecipazione di avvio del procedimento richiede che i soggetti interessati
siano messi in condizione di avere conoscenza dell’avvio del procedimento e tale
circostanza è garantita dalla comunicazione di avvio del procedimento di
cui all’art. 7 della legge n. 241/1990.
Si tratta di un obbligo posto a carico dell’amministrazione procedente nei
confronti dei soggetti che sono indicati al comma 1, dell’art. 7 della legge, ossia a
coloro nei confronti dei quali il provvedimento finale è diretto a produrre effetti
diretti ovvero a quelli che per legge devono intervenirvi nonché a coloro
nei confronti dei quali il provvedimento può arrecare pregiudizio, qualora
siano individuati o facilmente individuabili.
I primi sono i destinatari del provvedimento finale, i quali devono essere avvisati
dell’apertura di un procedimento che potrebbe concludersi con un
provvedimento che tocca le loro situazioni giuridiche soggettive.
L’avvio del procedimento va altresì comunicato ai soggetti che debbono
partecipare al procedimento in virtù di previsione di legge.
Infine va comunicato a coloro che potrebbero subire un pregiudizio dal
provvedimento finale (c.d. controinteressati).
Deroghe a tale obbligo sono previste laddove l’amministrazione non è tenuta a
comunicare l’avvio del procedimento in quanto prevalgono esigenze di celerità
nell’urgenza di provvedere, comma 1, art. 7 della legge (così nel caso di
ordinanze di necessità) ovvero in caso di provvedimenti cautelari, art, 7 comma
2, ossia di provvedimenti di sospensione di efficacia di precedenti provvedimenti
(ex. la sospensione di autorizzazione a svolgere una determinata attività).30
29 Articolo 9.
(Intervento nel procedimento) (1)
1. Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà
di intervenire nel procedimento.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 10.
(Diritti dei partecipanti al procedimento) (1)
1. I soggetti di cui all'articolo 7 e quelli intervenuti ai sensi dell'articolo 9 hanno diritto:
a) di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall'articolo 24;
b) di presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano
pertinenti all'oggetto del procedimento.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
30 Articolo 7.
64
Il mancato adempimento dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del
procedimento costituisce una violazione di legge e può essere sanzionato nei
termini di responsabilità disciplinare del funzionario titolare dell’ufficio che è
incorso nella violazione.
L’art. 8 comma 2, stabilisce i contenuti della comunicazione di cui all’art. 7
comma 1: nella comunicazione deve essere indicata l’amministrazione
competente, l’oggetto del procedimento, l’ufficio e la persona responsabile del
procedimento, nonché l’ufficio in cui si possono prendere visione degli atti e,
dopo la legge 15/ 2005, il temine di conclusione del procedimento e, nei
procedimenti ad iniziativa di parte, il termini di presentazione dell’istanza.
Secondo la giurisprudenza, ove la comunicazione non giunga a buon fine in
tempo utile, la pubblica amministrazione non perde il potere di svolgere il
procedimento e di adottare il provvedimento finale, che va emanato entro un
certo termine a pena di decadenza.
8. L’interventore procedimentale e le sue pretese partecipative.
Elencati i soggetti che devono ricevere la comunicazione dell’avvio del
procedimento, ove questi decidono di intervenire assumono la qualifica di
interventori e la legge 241/1990 garantisce la possibilità di partecipare al
procedimento amministrativo ad un certo insieme di soggetti che hanno il
diritto di ricevere la relativa comunicazione di avvio.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, della legge la facoltà di intervenire nel
procedimento è assicurata anche a qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici e privati nonché di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati
cui possa derivare pregiudizio dal provvedimento.
(Comunicazione di avvio del procedimento) (1)
1. Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai
soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che
per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora
da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili,
diversi dai suoi diretti destinatari, l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell'inizio del procedimento.
2. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell'amministrazione di adottare, anche prima
della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 8. (1)
(Modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento)
1. L'amministrazione provvede a dare notizia dell'avvio del procedimento mediante comunicazione
personale.
2. Nella comunicazione debbono essere indicati:
a) l'amministrazione competente;
b) l'oggetto del procedimento promosso;
c) l'ufficio e la persona responsabile del procedimento;
c-bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3, deve concludersi il
procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione;
c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza;
d) l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti.
3. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti
particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di cui al comma 2
mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima.
4. L'omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può esser fatta valere solo dal soggetto nel cui
interesse la comunicazione è prevista.
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
65
Il novero degli interventori è decisamente ampio in quanto vi rientrano anche
associazioni e comitati portatori di interessi diffusi con relativa loro
determinazione di legittimazione in sede processuale sempre che ne ricorra il
presupposto di lesione dell’interesse legittimo.
In ogni caso, soggetti legittimati ad intervenire nel procedimento sono
quelli indicati all’art. 7, comma 1 e all’art. 9, comma 1, della legge.
In virtù dell’art. 10 della legge tali soggetti hanno il diritto di prendere
visione degli atti del procedimento e il diritto di presentare memorie
scritte e documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove
pertinenti all’oggetto del procedimento.
In particolare, il diritto d’accesso agli atti del procedimento consente di
acquisire informazioni necessarie per poter interloquire con l’amministrazione e
si pone come strumentale al diritto di presentare memorie e documenti.
Dottrina e giurisprudenza ritengono, come già accennato, che la partecipazione
di cui alla legge 241/90, abbia una funzione di garanzia del privato e di
collaborazione nei confronti della pubblica amministrazione procedente.
Il contenuto della memoria, deve indicare asserzioni su fatti rilevanti per lo
svolgimento del procedimento in relazione alla posizione dell’interventore.
La pertinenza della memoria rispetto all’oggetto del procedimento è valutata
dall’amministrazion, in riferimento al fatto prospettato e dal punto di vista
dell’interesse di cui il soggetto ne sostiene la titolarità.
Con la presentazione di memorie e documenti si costituisce un contraddittorio
scritto tra interventori e l’amministrazione procedente, laddove le pretese
partecipative si qualificano in termini di diritti sebbene parte della dottrina li
qualifichi come interesse legittimo definibili come interessi procedimentali.
Tale ultima definizione sembra preferibile in quanto non tutti i soggetti
legittimati a partecipare al procedimento risultano titolari di un interesse
legittimo, in quanto lo sono soltanto i diretti destinatari del provvedimento
finale ed i controinteressati di cui all’art.7, comma 1, mentre non lo sono i
soggetti di cui all’art.9 della legge.
9. Istruttoria procedimentale e attività di consulenza di amministrazioni
pubbliche diverse da quella procedente
Nella fase istruttoria possono altresì intervenire altre pubbliche
amministrazioni, per cui si determina un’attività consultiva con atti che sono
resi sotto forma di pareri.
Il ricorso alla consulenza amministrativa avviene quando è necessario acquisire
e valutare interessi pubblici coinvolti nel procedimento e quando si tratta di
considerare fatti complessi rispetto ai quali l’amministrazione procedente non
possiede le necessarie conoscenze tecniche.
Ai sensi dell’art. 16, comma 1, della legge le pubbliche amministrazioni sono
tenute a rendere pareri ad esse obbligatoriamente richiesti entro quarantacinque
giorni dal ricevimento della richiesta e l’infruttuosa decorrenza del termine,
senza che l’amministrazione consultata abbia rilasciato il parere, autorizza
l’amministrazione a procedere indipendentemente dal parere, salvo che
quest’ultimo non debba essere rilasciato da pubbliche amministrazioni preposte
alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del territorio e della salute del
cittadino.31
31
Articolo 16.
(Attività consultiva) (1)
66
Inoltre, ai sensi dell’art. 17, comma 1, ove per espressa previsione di legge o di
regolamento sia previsto che l’adozione di un provvedimento debba avvenire
previa acquisizione delle valutazioni tecniche di altre pubbliche
amministrazioni e queste ultime non provvedano in tal senso ovvero non
manifestano esigenze istruttorie nei termini fissati, l’amministrazione
procedente, per il tramite del responsabile del procedimento, deve richiedere le
suddette valutazioni tecniche ad altre pubbliche amministrazioni che siano
dotate di capacità tecnica equipollente ovvero ad istituti universitari.
Si ricava, pertanto, che i pareri vengono richiesti in quanto previsti da una
disposizione normativa, c.d. pareri obbligatori; ovvero ritenuti utili
dall’amministrazione procedente, c.d. pareri facoltativi, al fine dell’adozione
del provvedimento finale ed è possibile richiedere l’intervento di altre pubbliche
amministrazione che diano garanzia di possedere conoscenze e competenze
adeguate al fatto accertato. In ogni caso, viene meno la possibilità di prescindere
da pareri obbligatori in caso di pareri aventi ad oggetto la tutela dell’ambiente,
del paesaggio, del territorio, della salute del cittadino.
1. Gli organi consultivi delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sono tenuti a rendere i pareri a essi obbligatoriamente richiesti entro
venti giorni dal ricevimento della richiesta. Qualora siano richiesti di pareri facoltativi, sono tenuti a dare
immediata comunicazione alle amministrazioni richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso,
che comunque non può superare i venti giorni dal ricevimento della richiesta.
2. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere obbligatorio o senza che
l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, è in facoltà dell’amministrazione richiedente di
procedere indipendentemente dall’espressione del parere. In caso di decorrenza del termine senza che sia
stato comunicato il parere facoltativo o senza che l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie,
l’amministrazione richiedente procede indipendentemente dall’espressione del parere. Salvo il caso di
omessa richiesta del parere, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli
eventuali danni derivanti dalla mancata espressione dei pareri di cui al presente comma.
3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano in caso di pareri che debbano essere rilasciati da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini.
4. Nel caso in cui l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie i termini di cui al comma 1
possono essere interrotti per una sola volta e il parere deve essere reso definitivamente entro quindici
giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate.
5. Qualora il parere sia favorevole, senza osservazioni, il dispositivo è comunicato telegraficamente o con
mezzi telematici.
6. Gli organi consultivi dello Stato predispongono procedure di particolare urgenza per l'adozione dei
pareri loro richiesti.
6-bis. Resta fermo quanto previsto dall'articolo 127 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni.
(1) Articolo modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15 e successivamente dalla Legge 18 giugno
2009, n. 69.
Articolo 17.
(Valutazioni tecniche) (1)
1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di un
provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti
appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza
dell'amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro
novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette
valutazioni tecniche ad altri organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di
qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari.
2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
3. Nel caso in cui l'ente od argano adito abbia rappresentato esigenze istruttorie all'amministrazione
procedente, si applica quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 16.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
67
Il termine per il rilascio del parere è fissato da legge o da regolamento in un
periodo massimo di novanta giorni.
Come già detto, i pareri possono essere obbligatori o facoltativi, i primi
producono effetti vincolanti e non vincolanti a seconda che possono essere o
meno disattesi dall’amministrazione procedente nella decisione finale.
In particolare, parere vincolante finisce per imprimere l’indirizzo specifico alla
decisione finale, mentre il parere non vincolante comporta per
l’amministrazione di dare specifica motivazione delle ragioni che giustificano
una decisione contraria alle valutazioni espresse nel parere a pena di illegittimità
del provvedimento stesso.
Il parere, in definitiva, è atto endoprocedimentale, che non possiede capacità
lesiva della sfera giudica del destinatario del provvedimento finale, per cui
l’amministrazione pubblica può sempre discostarsene (parere non vincolante) e
l’eventuale vizio potrà essere fatto valere soltanto mediante impugnazione del
provvedimento finale.
10. La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza
La legge n. 15/ 2005 ha introdotto l’art. 10 bis nel corpo della legge n. 241/1990,
per cui nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o
l’organo competente, prima dell’adozione del provvedimento di diniego,
comunica tempestivamente a coloro che hanno dato avvio al procedimento, i
motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della suddetta comunicazione i soggetti destinatari hanno
diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni eventualmente corredate da
documenti. La comunicazione interrompe i termini per la conclusione del
procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla scadenza del termine
di 10 giorni.
Dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni, è data ragione nella
motivazione del provvedimento finale. Tali prescrizioni non si applicano alle
procedure concorsuali e ai procedimenti in materia di previdenza ed assistenza.
La ratio della norma è garantire al destinatario del provvedimento, una ulteriore
fase di contraddittorio scritto con la pubblica amministrazione procedente: la
funzione principale di questa fase è perciò di tipo difensivo e non collaborativo,
infatti al privato è riconosciuta la possibilità di confutare e contestare la
proposta con asserzioni dirette a far valere l’illegittimità della decisione in
relazione a qualsiasi profilo rilevante a tale fine e ad indurre la pa ad assumere
una decisione diversa.
Il fatto che l’amministrazione assuma una diversa decisione, comporta per il
privato l’impossibilità di ricevere alcuna utilità dal procedimento avviato, tanto
che le osservazioni offerte risultano irrilevanti e non condivisibili, di modo che
l’amministrazione che sia indotta a modificare la decisione quest’ultima
risulterebbe illegittima ove non ritenga di poter accogliere le argomentazioni
offerte dal privato.32
32
Articolo 10-bis. (1)
(Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza).
1. Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima
della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi
che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della
comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente
corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in
mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di
68
La pubblica amministrazione, pertanto, comunica al privato il preavviso di
diniego, quale atto endoprocedimentale (esso non è infatti un provvedimento),
privo di autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario dal
momento che la pubblica amministrazione decide diversamente da quanto
comunicato da quest’ultimo.
11. La conclusione del procedimento attraverso l’adozione del provvedimento
L’amministrazione, completata l’istruttoria, è tenuta a decidere mediante il
provvedimento amministrativo espresso, di cui all’art. 2 della legge.
Lo svolgimento del procedimento è contenuto entro il termine previsto dalla
legge o dai regolamenti statali e che sono individuati tenendo conto della loro
sostenibilità in tema di organizzazione amministrativa ed in base alla natura
degli interessi pubblici tutelati.
In particolare, tali termini iniziano a decorrere dall’inizio d’ufficio del
procedimento o dal ricevimento dell’istanza di parte. Tale termine può essere
sospeso una sola volta per acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti,
stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione
procedente.
L’obbligo di procedere e di provvedere di cui all’art. 2 della legge è stato
oggetto di riflessione da parte della giurisprudenza che ha ravvisato come la p.a.
non sia tenuta a dare corso al procedimento ed adottare il provvedimento in
presenza di reiterate richieste aventi il medesimo contenuto, qualora sia stata già
adottata una decisione rispetto al caso concreto in un precedente procedimento
in oppugnato e non vi siano sopravvenuti mutamenti delle situazioni di fatto e di
diritto.
Infine, nell’ipotesi in cui il procedimento non si concluda nel termine
prescritto con il provvedimento espresso si determina il c.d. silenzio
inadempimento con conseguente possibilità per il privato, che ha avanzato
istanza di avvio del procedimento, di ottenere il risarcimento dei danni nonché,
nelle more della scadenza del termine, di ottenere sentenza dal g.a. al fine di
indurre la p.a. ad adottare il provvedimento.
12. Il silenzio inadempimento.
A volte, di fronte all’istanza di un privato, la pa non da corso ad un
procedimento o, dando corso ad esso, non arriva alla sua conclusione ordinaria:
ne risulta, in entrambi i casi, che il provvedimento finale non viene adottato.
Questo fenomeno è detto silenzio della pubblica amministrazione, in
realtà si tratta di un’inerzia alla quale, decorso un certo periodo di tempo
stabilito dalla legge, la legge stessa attribuisce il significato di assenso
all’istanza del privato, oppure di diniego della stessa.
In questi casi infatti il silenzio è significativo perché è la legge a prevederlo:
dall’inerzia della pa vengono a scaturire effetti giuridici di accoglimento o di
diniego dell’istanza, gli stessi che scaturirebbero dall’adozione di un
provvedimento espresso.
Quando però dall’inerzia amministrativa non scaturiscono effetti di
accoglimento o diniego, si ha una situazione grave e delicata perché l’istanza del
tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al
presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e
assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali".
(1) Articolo aggiunto dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
69
privato resta inevasa: è il caso del silenzio inadempimento, che si ha quando
la pa viene meno all’obbligo di svolgere il procedimento e di concluderlo entro il
termine stabilito con un provvedimento espresso di accoglimento o diniego,
dopo che il privato ha presentato regolare istanza.
Le conseguenze negative sono diverse: il privato resta in una situazione di
incertezza, egli non può realizzare quanto chiesto all’amministrazione, mentre la
pa viola l’obbligo di procedere e provvedere, ponendo in essere una
lesione alla situazione giuridica del privato.
L’intervento della dottrina e della giurisprudenza hanno oggi portato ad
individuare la norma base nell’art. 31 del Codice del processo amministrativo,
che prescrive che, decorso il termine per la conclusione del procedimento, il
soggetto interessato può chiedere l’accertamento in sede giudiziale dell’obbligo
di provvedere. Il giudice amministrativo potrà allora pronunciarsi sulla
fondatezza della pretesa dell’istanza solo però se si tratta di attività
vincolata o quando risulti che non residuino ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti
istruttori che debbano essere compiuti dalla pa.
Al di fuori da questi casi la tutela del privato contro il silenzio, si realizza con
l’accertamento dell’inadempimento e la conseguente condanna
dell’amministrazione a concludere il procedimento con un
provvedimento espresso. Il privato può inoltre chiedere la tutela risarcitoria
per il danno ingiusto subito, ai sensi dell’art. 30 comma 1 del Codice del
processo amministrativo.
Capitolo 4
L’accesso alla documentazione amministrativa
1. Natura giuridica del diritto di accesso.
L’art. 22, comma 1, lett. a) della legge n. 241/1990 definisce il diritto di
accesso come diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi, per cui tale diritto riveste natura di diritto soggettivo
perfetto.33
33
Capo V Accesso ai documenti amministrativi - Articolo 22. (1)
(Definizioni e princípi in materia di accesso)
1. Ai fini del presente capo si intende:
a) per "diritto di accesso", il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti
amministrativi;
b) per "interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che
abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata
e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso;
c) per "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del
documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza;
d) per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica
o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale;
e) per "pubblica amministrazione", tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.
2. L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne
l'imparzialità e la trasparenza.
3. Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi
1, 2, 3, 5 e 6.
70
4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano
forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n.
196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono.
5. L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non rientrante nella
previsione dell'articolo 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre
2000, n. 445, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale.
6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo di detenere i
documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
Articolo 23.
(Ambito di applicazione del diritto di accesso) (1)
1. Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle
aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi. Il diritto di accesso nei
confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell'ambito dei rispettivi ordinamenti,
secondo quanto previsto dall'articolo 24.
(1) Rubrica aggiunta dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 24. (1)
(Esclusione dal diritto di accesso)
1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive
modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal
regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del
presente articolo;
b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;
c) nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione;
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di
carattere psico-attitudinale relativi a terzi.
2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o
comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del comma 1.
3. Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle
pubbliche amministrazioni.
4. L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere
di differimento.
5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti
solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per
ogni categoria di documenti, anche l'eventuale periodo di tempo per il quale essi sono sottratti
all'accesso.
6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il
Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi:
a) quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, dalla
loro divulgazione possa derivare una lesione, specifica e individuata, alla sicurezza e alla difesa
nazionale, all'esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni
internazionali, con particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di
attuazione;
b) quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e di
attuazione della politica monetaria e valutaria;
c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente
strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con
particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza
dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini;
d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche,
gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario,
professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi
dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;
e) quando i documenti riguardino l'attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli
atti interni connessi all'espletamento del relativo mandato.
71
Invero la giurisprudenza ha qualificato il diritto d’accesso come diritto
soggettivo vero e proprio, mentre un orientamento minoritario lo aveva
qualificato come interesse legittimo presupposto che il giudizio proposto
contro il diniego di accesso avesse natura impugnatoria.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale".
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Articolo 25. (1)
(Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi)
1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei
modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è
subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di
bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura.
2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all'amministrazione
che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente.
3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti
dall'articolo 24 e debbono essere motivati.
4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego
dell'accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell'articolo 24, comma 4, il
richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5, ovvero
chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali, provinciali e
regionali, al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la
suddetta determinazione. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al
difensore civico competente per l'ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti
delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la Commissione
per l'accesso di cui all'articolo 27 nonché presso l'amministrazione resistente. Il difensore civico o la
Commissione per l'accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza. Scaduto
infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per
l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano
all'autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni
dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito.
Qualora il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di cui al
comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della sua istanza al
difensore civico o alla Commissione stessa. Se l'accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati
personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione
dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente
il quale il parere si intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I
della parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157, 158, 159 e
160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento pubblico di dati personali
da parte di una pubblica amministrazione, interessi l'accesso ai documenti amministrativi, il Garante per
la protezione dei dati personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del
Garante sino all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso inutilmente
detto termine, il Garante adotta la propria decisione".
5. Le controversie relative all’accesso ai documenti amministrativi sono disciplinate dal codice del
processo amministrativo. (2)
(...) (3)
Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15, dal Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 e
successivamente dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
Comma così modificato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Commi abrogati dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104. "5-bis. Nei giudizi in materia di accesso,
le parti possono stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore. L'amministrazione può
essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente,
autorizzato dal rappresentante legale dell'ente. 6. Il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti,
ordina l'esibizione dei documenti richiesti."
72
Il Consiglio di Stato, nel 1999, ha privilegiato tale ultima tesi, ritenendo che il
legislatore pur avendo qualificato come diritto tale posizione soggettiva, invero
si tratterebbe di interesse legittimo la cui tutela è riferita all’impugnazione di un
provvedimento autoritativo ovvero all’inerzia dell’amministrazione.
Successivamente, alcune decisioni hanno ribadito la natura di diritto soggettivo
sia sulla base della sua formale definizione sia sotto il profilo della sua concreta
disciplina ed in tali termini si è espressa anche l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
Questa nel 2006, ha ritenuto non utile prendere posizione sulla questione,
dovendo essere a suo dire, il diritto di accesso qualificato come una situazione
soggettiva strumentale che, più che fornire vantaggi finali, offre all’interessato
poteri di natura procedimentale volti a tutelare un interesse giuridicamente
rilevante (che sia esso diritto o interesse).
La giurisprudenza più recente, largamente maggioritaria, ha qualificato il diritto
di accesso come vero e proprio diritto soggettivo.
2 I soggetti attivi
L’art. 22, comma 1, lett. b della legge 241/ 1990 individua i soggetti
interessati all’accesso definendoli come soggetti privati, compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata
e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso. Essi possiedono pertanto la
legittimazione sostanziale all’esercizio di tale diritto.
L’istituto, dunque, richiedendo un interesse diretto, concreto e attuale, non
consente l’accesso indistintamente a tutti i privati, evitando che chiunque possa
esercitare un controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione
procedente: tale situazione non si riferisce indistintamente a tutti i cittadini nei
termini di buon andamento della p.a., in quanto non è uno strumento di
ispezione popolare sull’operato dell’amministrazione.
Il riferimento al diritto comunitario, inoltre, richiama la direttiva 90/313/CEE
che persegue il duplice scopi di garantire l’effettiva libertà di acceso a tutte le
informazioni relative all’ambiente in possesso delle pubbliche autorità onde
rendere disponibili tali informazioni a chiunque ne faccia richiesta.
Inoltre, l’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici,
si informa al principio di leale collaborazione istituzionale tale da trovare
giustificazione nella semplice richiesta di informazioni.
Tra i soggetti legittimati all’accesso rientrano i portatori di interessi pubblici o
diffusi ed anche qui la norma recepisce un orientamento giurisprudenziale che
riconosce in capo ai portatori di interessi diffusi l’accesso subordinato alla
verifica della rappresentatività dell’associazione o dell’ente esponenziale e della
pertinenza dei fini statutari rispetto all’oggetto dell’istanza.
Tale principio è altresì confermato dalla legge n. 281 del 1998, i tema di diritti
dei consumatori e degli utenti.
3 I soggetti passivi
L’art. 23 della legge n. 241/ 1990 stabilisce che il diritto d’accesso si esercita nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali,
degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi.
L’originaria formulazione della norma consentiva l’accesso nei confronti dei
concessionari dei pubblici servizi, ma tale tesi è stata ampiamente criticata in
dottrina in quanto dopo la modifica dell’art. 23 introdotta nel 1999 tale figura è
73
stata modificata con quella dei gestori di pubblici servizi, per cui si è riguardato
agli atti emanati dai concessionari come veri e propri provvedimenti
amministrativi.
Il servizio pubblico, pertanto, risulta finalizzato al soddisfacimento di interessi
pubblici cui si collegano funzionalmente i gestori dei pubblici servizi, ritenuti
soggetti passivi nell’ambito del diritto di accesso come confermato dalla legge. n.
15/2005 di modifica alla legge n. 241/ 1990.
4 Oggetto del diritto di accesso
L’art. 22, comma 3, della legge 241/ 1990 dispone che tutti i documenti
amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati dall’art. 24,
comma 1, 2, 3, 5 e 6.
Il problema che si pone riguarda il diritto di visionare i documenti quale
prerogativa partecipativa in quanto riconducibile all’istituto dell’accesso. Sul
punto la giurisprudenza, infatti, ha ritenuto che il diritto di prendere visione
degli atti si configura come il medesimo diritto di accesso ai documenti
amministrativi, in quanto forma di accesso partecipativo e accesso informativo.
La legge qualifica come documento amministrativo ogni rappresentazione
grafica, foto cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del
contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una p.a. e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privati stiva della loro disciplina
sostanziale.
Tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che i parerei forniti da consulenti esterni
sono esclusi dall’accesso, in quanto il segreto professionale p tutelato
dall’ordinamento, mentre gli scritti dell’Avvocatura di Stato sono atti coperti dal
segreto, per cui le amministrazioni possono esercitare il potere motivato di
diniego o di differimento.
Quanto all’accessibilità agli atti di diritto privato dell’amministrazione pubblica,
parte della giurisprudenza aveva affermato l’ostensibilità di tali atti, in quanto
essi riguarderebbero un’attività di valutazione soggetta al principio di
imparzialità; altro orientamento, invece, aveva affermato che il diritto d’accesso
rappresenta un’esigenza di perequare la posizione dell’amministrato rispetto a
quella del potere pubblico, per cui ne sarebbe giustificabile l’esercizio del diritto
di accesso in favore del privato. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha
privilegiato la prima soluzione, in quanto buon andamento ed imparzialità
dell’amministrazione attengono sia all’attività procedimentale che all’attività di
natura privatistica.
5 Limiti al diritto di accesso.
La legge 241/1990 contempla tre categorie di limiti all’esercizio del diritto di
accesso:
1) a)l’art. 24, comma 1, esclude il diritto di accesso per i documenti coperti da
segreto di Stato e nei casi di segreto o divieto di divulgazione espressamente
previsti dalla legge;
b)nei procedimenti tributari;
c) nei confronti dell’attività della p.a. diretta all’emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione;
d)nei procedimenti selettivi concernenti informazioni di carattere
psicoattitudinale di terzi.
2) ai sensi dell’art. 8 del d.p.r n. 352 del 1992 possono essere esclusi dal diritto di
accesso i documenti amministrativi:
74
a) quanto dalla loro divulgazione possa derivare una lesione alla sicurezza ed
alla difesa nazionale;
quando possa arrecarsi pregiudizio ai processi di formazione, determinazione e
di attuazione della politica monetaria e valutaria;
c) quando i documenti riguardino strutture, mezzi, dotazioni, personale ed
attività strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico e della
repressione della criminalità nonché alle attività di polizia e di conduzione delle
indagini;
quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone
fisiche, persone giuridiche, gruppi o imprese ed associazioni, con riferimento ad
interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e
commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti
all’amministrazione dagli stessi soggetti a cui si riferiscono.
Deve essere garantita ai richiedenti la visione degli atti dei procedimenti
amministrativi, la cui conoscenza è necessaria per curare o difendere i loro
interessi giuridici.
Il principio guida è l’interesse alla riservatezza, tutelato mediante la
limitazione del diritto di accesso che, però, recede quando l’accesso stesso sia
esercitato per la difesa di un interesse giuridico nei limiti in cui esso
è necessario alla difesa di quell’interesse: non bastano esigenze di difesa
generiche per garantire l’accesso: questo deve corrispondere ad una effettiva
necessità di tutela di interessi che si affermano essere stati lesi.
Riguardo il conflitto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza sui dati
personali, quest’ultimo può recedere se si tratta di dati idonei se si tratta di dati
idonei a rivelare lo stato di salute del soggetto controinteressato: in tal caso è
consentito l’accesso solo se la situazione giuridicamente rilevante che si vuole
tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, o consiste in un diritto
della personalità o altro diritto o libertà fondamentale o inviolabile.
6 Esercizio del diritto di accesso
Con d.p.r. 184/2006 sono disciplinate le modalità di esercizio del diritto di
accesso ai documenti amministrativi, materialmente esistenti al momento
della richiesta e detenuti alla stessa data dall’amministrazione. Tale diritto,
infatti, si esercita con riferimento ai documenti amministrativi
materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla
stessa data dall’amministrazione, nei confronti dell’autorità competente a
formare l’atto conclusivo o a detenerlo stabilmente; se i documenti non sono
ancora stati formati, l’amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo
possesso al fine di soddisfare la richiesta di accesso.
Ricevuta l’istanza di accesso agli atti, l’amministrazione, individuati i
controinteressati, deve darne loro comunicazione mediante invio di copia con
raccomandata con avviso di ricevimento o per via telematica. Entro i dieci giorni
successivi, i contro interessati possono presentare motivata opposizione,
anche per via telematica, alla richiesta di accesso e decorso tale termine,
l’amministrazione provvede sulla richiesta previo accertamento della ricezione
della comunicazione.
Inoltre, tramite istanza scritta l’amministrazione deve comunicare
all’interessato, entro dieci giorni dalla richiesta, se questa sia irregolare o
incompleta e ciò con qualunque mezzo idoneo a comprovare l’invio.
Il dpr 184/06 prevede la facoltà di esercitare il diritto di accesso c.d. informale,
che è ammesso solo quando, in base alla natura del documento cui accedere, non
75
risulta che esistano controinteressati: si effettua mediante richiesta, anche
verbale, all’ufficio competente.
Mentre l’art. 7 della 241/90 detta le formalità per la consultazione dei
documenti, l’art. 9 individua le fattispecie di non accoglimento, quali il rifiuto, la
limitazione o il differimento dell’accesso al fine di assicurare la temporanea
tutela degli interessi di cui all’art. 24, comma 6, della legge 241/1990.
Il differimento può essere disposto per un tempo sufficiente ad assicurare la
tutela degli interessi di cui all’art. 24 comma 6, o per salvaguardare specifiche
richieste dell’amministrazione, soprattutto nella fase preparatoria dei
provvedimenti, in relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere
il buon andamento dell’azione amministrativa. In tutti i casi, l’atto che dispone
il differimento dell’accesso, deve indicarne la durata.
Parte 4
Il provvedimento amministrativo
Capitolo 1.
Nozione, elementi, classificazione
1. Nozione di provvedimento amministrativo
Nell’indirizzo originario dello studio degli atti amministrativi si utilizzavano i
risultati raggiunti dalla dottrina privatistica, per cui si faceva riferimento agli atti
giuridici privati.
Successivamente, gli atti amministrativi vennero distinti in meri atti
amministrativi e negozi di diritto pubblico in base all’elemento psichico della
volontà, per cui i negozi di diritto pubblico venivano considerati come
dichiarazioni di volontà della p.a. diretta a conseguire fini determinati,
riconosciuti e protetti dal diritto (teoria negoziale delle dichiarazioni di volontà
della p.a.).
Invero, ponendo l’accento sul carattere precettivo dell’atto finalizzato a
realizzare un nuovo assetto di interessi, l’atto amministrativo venne inteso come
atto di autoregolamento.
Inoltre, ponendo in evidenza il carattere autoritativo dell’atto amministrativo se
ne escludeva il carattere di negozio privato.
Di qui la diversa disciplina relativa alla struttura, alla validità ed all’efficacia del
negozio privato rispetto a quella dell’atto amministrativo precettivo, in quanto
seppure entrambi sono atti a contenuto precettivo il secondo non può essere
considerato negozio sia pure di diritto pubblico.
In particolare, l’atto precettivo dell’amministrazione si qualifica come
provvedimento, in quanto esprime l’idea del provvedere al soddisfacimento di
interessi collettivo e segue la diversa disciplina del provvedimento rispetto a
quella del negozio privato.
L’azione amministrativa, infatti, avviene per sequenza di atti procedimentali in
cui si racchiude la diversa funzione dei singoli atti del procedimento che si
conclude con l’atto del provvedimento, laddove i precedenti atti sono finalizzati
all’adozione del provvedimento finale.
Secondo M.S. Giannini la nozione di provvedimento amministrativo si
spiega come atto autoritativo, nel senso che è idoneo a modificare situazioni
giuridiche altrui, senza necessità dell’altrui consenso.
Caratteri del provvedimento:
a) sotto il profilo strutturale è un atto unilaterale in quanto esercizio del potere
unilaterale ed autoritativo;
76
b)
c)
d)
sotto il profilo funzionale è atto di cura di interessi pubblici;
sotto il profilo della formazione è l’atto di conclusione del procedimento;
sotto il profilo della disciplina è un atto la cui validità è parametrata ai profili
funzionali e la cui efficacia è caratterizzata dalla sua esecutività.
2. Approfondimenti sulla nozione di provvedimento
La figura del provvedimento è stata messa in discussione sotto più profili.
In senso proprio il provvedimento è atto autoritativo che produce effetti
favorevoli per il destinatario, come le concessioni, le autorizzazioni, i
permessi e così via.
Si tratta di provvedimenti che richiedono la necessaria richiesta ed il consenso
dell’interessato, per cui l’amministrazione non può imporre una concessione di
uso di suolo demaniale ovvero un permesso da costruire senza che il destinatario
non ne abbia fatto richiesta.
Tuttavia, non si può escludere qualsiasi profilo di autoritatività, in quanto anche
il provvedimento favorevole può essere sfavorevole nei confronti di soggetti
diversi dal destinatario. Parimenti, se il provvedimento favorevole non viene
rilasciato, colui che lo ha richiesto potrà impugnare il provvedimento negativo al
pari di un qualsiasi provvedimento autoritativo.
L’autoritatività, dunque, sussiste anche in caso di provvedimenti favorevoli e di
provvedimenti negativo oltre che di silenzio su istanze dei privati.
Vieppiù, nel caso di atti vincolati, l’amministrazione non fa altro che attuare
disposizioni di rango superiore che possono essere considerati provvedimenti,
per cui è necessario verificare se sussistono o meno i presupposti di fatto cui la
disposizione vincolante collega l’adozione del provvedimento o, se si preferisce,
il compimento dell’atto di adempimento. Tale verifica è rimessa
all’amministrazione nell’ambito del procedimento, per cui se l’atto risulta atto
necessario, l’effetto sull’atto sarà di tipo vincolante in quanto il provvedimento
assume carattere imperativo.
Tuttavia, all’amministrazione non è riconosciuto un potere analogo a quello dei
privati in ambito di diritti potestativi, per cui di fronte ad una diversa situazione
giuridica al potere autoritativo dell’amministrazione si contrappone l’interesse
legittimo, mentre al diritto potestativo di natura privatistica si rinviene la mera
soggezione.
Il carattere autoritativo, non attiene propriamente al provvedimento, ma al
potere che si manifesta nel procedimento anche prima che il provvedimento
venga adottato, per cui l’autoritarietà non coincide con la regolazione degli
interessi sottesi al provvedimento.
Il provvedimento è anche detto imperativo, per indicarne il carattere
esecutivo.
3. La struttura del provvedimento.
In assenza di una specifica indicazione normativa sugli elementi costitutivi del
provvedimento, a differenza del contratto i cui elementi sono consacrati all’art.
1325 c.c., la dottrina ha preferito fare riferimento ai profili funzionali piuttosto
che a quelli strutturali nello studio della struttura del provvedimento.
Gli elementi essenziali del provvedimento, pertanto, sono davvero limitati e la
cui mancanza determina la relativa nullità. Essi sono:
a) il soggetto ( va considerato l’autore, per cui se il provvedimento non proviene
dall’organo che ha il potere di adottarlo, esso è nullo per difetto assoluto di
attribuzione)
77
b)
l’oggetto (se manca o è impossibile la sua individuazione o determinazione, il
provvedimento è nullo)
c) il contenuto;
d) la forma;
e) i motivi
4. Sui motivi e sulla forma del provvedimento
Quanto ai motivi, ossia al profilo funzionale del provvedimento, si è ritenuto
che la causa del provvedimento è funzione (economico-sociale) dell’atto, per
cui esso è un atto tipico e persegue interessi pubblici indicati dalla legge.
Tuttavia, seppure la funzione del provvedimento è predeterminata dalla legge,
l’interesse pubblico concretamente perseguito non è direttamente indicato dalla
legge, per cui si possono comporre più interessi pubblici rispetto ai quali
l’amministrazione individua e persegue un interesse concretamente
determinato.
Per legge i motivi devono essere esternati nel provvedimento o
desumibili da atti comunicati agli interessati nel provvedimento come
si rileva nell’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione. Pertanto, la mancanza dei motivi non dà luogo
a nullità.
L’esternazione, cioè la manifestazione all’esterno del contenuto decisionale
del provvedimento, è elemento essenziale dell’atto stesso.
Riguardo invece alla forma, per i provvedimenti amministrativi, salvo rare
eccezioni, vige la regola della forma scritta.
Potremo concludere che elementi essenziali del provvedimento sono il
contenuto decisionale (al quale è rapportabile l’oggetto) e la sua
esternazione.
In definitiva, perché il provvedimento sia considerato esistente occorre che sia
reso conoscibile o esternato nella sua regolazione di interessi (contenuto
decisionale) e riferibile ad un organo legittimato al potere di adottarlo.
5. Tipologia di provvedimenti
Secondo M.S. Giannini le classificazioni relative ai provvedimenti
riguarderebbero i procedimenti nei quali essi sono inseriti, da cui se ne ricavano
gli effetti ed il contenuto.
I procedimenti, infatti, sono disciplinati in modo differente tra loro, per cui si
distinguono provvedimenti costitutivi e dichiarativi, generali e particolari,
normativi e precettivi, di primo e di secondo grado e così via. Molte di queste
classificazioni si intrecciano tra loro.
In particolare:
a) i provvedimenti costitutivi modificano precedenti assetti di interessi
determinando la nascita, la modificazione o l’estinzione di situazioni giuridiche
soggettive;
b) i provvedimenti dichiarativi verificano o certificano situazioni di fatto;
c) i provvedimenti generali presentano un contenuto non specifico e particolare,
come quelli in ambito territoriale;
e) i provvedimenti particolari si riferiscono a situazioni singolari;
f) i provvedimenti normativi contengono precetti astratti;
g) i provvedimenti precettivi contengono precetti concreti (disposizioni);
h) i provvedimenti di secondo grado sono quelli che hanno ad oggetto
precedenti
provvedimenti
(annullamento
d’ufficio)
o
situazioni
precedentemente create (revoca);
78
i) provvedimenti in autentici, che non sono provvedimenti ma sono trattati nel
diritto positivo come se lo fossero (provvedimenti sanzionatori e provvedimenti
di gestione di beni pubblici).
In definitiva, il provvedimento è figura di carattere generale e disciplinata in
maniera unilaterale per la sua validità ed efficacia. L’amministrazione può agire
alternativamente mediante negozi (accordi, contratti) di diritto privato facendo
salva, in ogni caso, la cura dell’interesse pubblico.
6. I provvedimenti costitutivi
I provvedimenti costitutivi determinano modificazioni nelle situazioni
giuridiche soggettive di tipo positivo, provvedimenti favorevoli, ovvero di tipo
negativo, provvedimenti sfavorevoli per i destinatari.
In particolare, i provvedimenti favorevoli comportano che il privato è titolare di
interessi pretensivi laddove per i provvedimenti sfavorevoli si presentano
interessi oppositivi da parte del destinatario.
Invero, i provvedimenti favorevoli sono iniziati ad istanza del privato, mentre i
secondi dono iniziati con atti dell’amministrazione.
Inoltre, mentre i provvedimenti sfavorevoli sono inclusi nella categoria dei
provvedimenti ablatori, quelli favorevoli si distinguono in autorizzazioni e
concessioni.
Di qui si riguarda al fatto che i provvedimenti favorevoli sono accumunati in una
sola categoria ma suddivisi in due categorie diverse, per cui con le
autorizzazione si rimuove un ostacolo che impedisce l’esercizio dei
diritti da parte del privato, mentre con le concessioni si conferiscono
al privato nuovi diritti (se sono costitutive, ma se trasferiscono in capo al
privato un diritto dell’amministrazione, si dicono traslative).
Invero, si deve ritenere che una determinata attività è nella disponibilità del
privato in quanto titolare sì di un diritto, ma anche di una libertà che appartiene
alla sua autonomia laddove i beni e le attività siano nella disponibilità
dell’amministrazione.
In altri termini, l’autorizzazione serve a verificare preventivamente se
l’attività del privato sia nella sua disponibilità e se possa essere da lui
legittimamente svolta per non contrastare gli interessi pubblici (ci
deve essere compatibilità tra l’interesse del privato e quelli pubblici).
La concessione, invece, serve ad attribuire diritti, qualità. qualifiche
onorifiche ai privati, c.d. utilitates sia trasferendo diritti riservati
all’amministrazione sia costituendo ex novo diritti prima inesistenti.
Nel caso del passaporto, ad esempio, il nostro ordinamento riconosce che prima
del relativo rilascio il cittadino abbia la disponibilità di entrare ed uscire dal
territorio nazionale, da cui il relativo provvedimento autorizzatorio.
Allo stesso modo, nel permesso di costruire (dapprima licenza edilizia) si
presuppone il diritto di costruire che inerisce al diritto di proprietà, per cui il
relativo provvedimento ha natura autorizzatoria. Successivamente, il legislatore
oltre a cambiare denominazione, ha ritenuto che il suddetto provvedimento
abbia natura concessoria ed ha imposto la corresponsione di un contributo per il
suo rilascio. La giurisprudenza, inoltre, ha ritenuto che tale modifica
terminologia comportasse una rilevante modifica sostanziale, in quanto la
concessione ad edificare viene a presupporre facoltà preesistenti cosicché il
relativo provvedimento ha carattere di autorizzazione che nella legislazione
successiva ha preso la nuova dizione di permesso da costruire.
79
7. I provvedimenti autorizzatori
Le autorizzazioni presuppongono la presenza, in capo al privato che le richiede,
di diritti, facoltà o possibilità di fatto per cui tali provvedimenti non sono
uniformi tanto che vi sono autorizzazioni che servono a verificare che il
richiedente sia nel possesso di requisiti tecnici, professionali o di moralità cui la
legge condiziona il rilascio del provvedimento, mentre in altri casi la verifica
riguarda le caratteristiche oggettive del bene sul quale il richiedente intende
esercitare il suo diritto, per cui questa composta scelte di discrezionalità tecnica
come nelle autorizzazioni paesaggistiche.
Altre volte le autorizzazioni servono ad attuare programmi ovvero il rispetto di
contingentamenti, come nell’autorizzazione alla vendita di carburanti.
Le diverse specie di autorizzazioni sono denominate in vario modo in licenze,
permessi, dispense, abilitazioni, nulla – osta, ma resta comune la valutazione tra
l’interesse privato e l’interesse pubblico nel relativo rilascio delle stesse.
In particolare, nella dichiarazione di inizio attività, c.d. d.i.a., poi sostituita dalla
s.c.i.a., introdotta in generale dalla legge sul procedimento, la dichiarazione,
corredata dalle relative certificazioni, può essere utilizzata al posto di atti di
autorizzazione nonché di domande per le iscrizioni in albi o ruoli sempre che
siano richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale. Condizione essenziale per il rilascio di tali atti è che questo dipenda
esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e dei presupposti di legge o di atti
amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o
contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale.
Quanto al procedimento di rilascio, una volta ricevuta la dichiarazione,
l’amministrazione può richiedere informazioni o certificazioni soltanto se i
relativi dati già disponibili da parte dell’amministrazione non siano contenuti in
documenti già disponibili da parte dell’amministrazione stessa o direttamente
acquisibili presso altre amministrazioni pubbliche.
Dopo trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. ha inizio l’attività che ne
costituisce l’oggetto e di cui è data comunicazione. Nei successivi trenta giorni,
ove vi sia carenza delle condizioni prescritte, l’amministrazione vieta la
prosecuzione dell’attività e provvede alla rimozioni dei suoi effetti.
La natura della d.i.a. ha trovato due diverse tesi interpretative: per la prima si
tratta di una dichiarazione al provvedimento autorizzatorio, mentre per altra
considerazione si tratta di un atto privato con il quale si richiede un
provvedimento amministrativo.
La legge devolve le relative controversie al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva, per cui anche i terzi possono impugnarlo.
A norma del Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, le espressioni «segnalazione
certificata di inizio attività» e «Scia» sostituiscono, rispettivamente, quelle di
«dichiarazione di inizio attività» e «Dia», ovunque ricorrano, anche come parte
di una espressione più ampia, e la disciplina di cui al citato Decreto Legge
sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del suddetto Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78 quella della
dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale.
8. I provvedimenti concessori.
Condizioni essenziali per l’emanazione dei provvedimenti concessori sono
determinati dal fatto che l’amministrazione è titolare di beni, attività ovvero
poteri esclusivi, ossia utilitates di cui il privato ha interesse ad acquisire.
80
Diversamente dalle autorizzazioni, nelle concessioni l’interesse pubblico è al
centro delle valutazioni da parte dell’amministrazione sia rispetto ai beni
coinvolti che rispetto alle attività riservate all’amministrazione.
Effetto tipico della concessione è l’attribuzione al privato di utilità patrimoniali,
quali utilizzazione di beni, esercizio di attività o anche non patrimoniali, quali
cittadinanza, cambiamento o aggiunta di cognomi e onorificenze. Il privato,
infatti, è titolare di interesse legittimo che nasce in conseguenza della
presentazione della domanda di concessione.
Tali atti sono disciplinati come provvedimenti e per la maggiore tutela dei
privati si riconosce la tutela del privato in quanto titolare di interesse legittimo
e, d’altronde, anche il terzo, contrario al rilascio della concessione, ha anch’esso
titolo a partecipare al procedimento e ad impugnare la concessione rilasciata ad
altri.
Le concessioni si distinguono in costitutive, in quanto assegnano utilitas di
nuova creazione, ed in traslative, in quanto trasferiscono una utilitas che è
nella disponibilità dell’amministrazione. Nel primo caso rientrano la
concessione di cittadinanza o di onorificenza, nel secondo caso le concessioni dei
diritti di godimento esclusivo su beni demaniali.
9. I provvedimenti ablatori
L’aggettivo ablatario deriva dal latino “auferre” (togliere, asportare) ed indica il
carattere di provvedimenti con i quali si priva il privato di una utilitas
(bene della vita) per esigenze di interesse pubblico.
In riferimento all’oggetto, i provvedimenti ablatori si distinguono in ablatori
personali, in quanto incidono sulla libertà o diritti personali ed ablatori
reali, se incidono su diritti reali.
Vi sono poi i provvedimenti ablatori obbligatori, che fanno sorgere
obbligazioni in capo ai loro destinatari.
Carattere comune ad entrambi è l’imposizione di una privazione strumentale
alla cura degli interessi pubblici, per cui si tratta di provvedimenti autoritativi
dal contenuto sfavorevole per il privato in quanto in essi si manifesta
pienamente il potere dell’amministrazione.
In particolare, i provvedimenti ablatori personali comprendono gli ordini
dell’amministrazione nei confronti dei privati, quali comandi (ordini di fare)
ovvero divieti (ordini di non fare) e ve ne sono di vario tipo, come gli ordini di
polizia, gli ordini ed i divieti sanitari e così via.
I provvedimenti ablatori reali, invece, sono considerati l’inverso dei
provvedimenti concessori su beni, in quanto essi estinguono o limitano diritti
reali e ne determinano l’acquisto da parte dell’amministrazione.
Esempio paradigmatico di provvedimento ablatorio reale è l’espropriazione
per pubblica utilità, con la quale viene estinta il diritto di proprietà del
privato ed esso viene acquisito a titolo originario da beneficiari, pubblici o
privati.
In tale ambito rientra altresì la requisizione che ha per presupposto situazioni
di emergenza e riguarda beni mobili e beni immobili nonché sequestri e
confische ed imposizioni di servitù.
I provvedimenti ablatori obbligatori producono l’effetto di far nascere un
rapporto obbligatorio tra amministrazione e privato in cui la prima ha il ruolo di
creditore ed il secondo quello di debitore e la prestazione consiste in somme di
denaro e talvolta in attività personali. Esempio del primo tipo è il tributo, mentre
quello del secondo tipo è il servizio militare obbligatorio, peraltro abolito.
81
A tali provvedimenti si applica l’art. 23 Cost. per cui tali prestazioni possono
essere applicate soltanto se previste dalla legge, in quanto espressione del
principio di legalità.
Capitolo 2
Il regime dei provvedimenti: l’efficacia
1. Nozioni di teoria generale in tema di efficacia degli atti giuridici
L’efficacia dell’atto giuridico esprime la sua idoneità a produrre effetti
nell’ordinamento giuridico di tipo costitutivi, modificativi, estintivi o
meramente dichiarativi.34
Presupposto dell’effetto giuridico è la sussistenza del rapporto causale tra il fatto
ed il valore sotteso al fatto, per cui l’effetto di un contratto, ad esempio, implica
il dovere di pagare il corrispettivo pattuito laddove tale prestazione può nella
realtà anche essere differita per diverse ragioni.
In riferimento all’efficacia, la dottrina distingue tra efficacia ed esecuzione
dell’atto, un quanto si è ritenuto che ogni effetto giuridico consegue ad una
conseguenza pratica dovuta, ma ciò non di mento l’effetto giuridico va tenuto
distinto dalla conseguenza pratica.
Quanto al perfezionamento dell’efficacia dell’atto è necessario che sussistano gli
elementi essenziali minimi che consento di ascriverlo al tipo normativo al quale
si imputano gli effetti voluti.
Invero, l’efficacia viene considerata in termini concreti di effettiva capacità
dell’atto di produrre conseguenze pratiche in quanto coincide con l’esecuzione
o la realizzazione degli effetti dell’atto.
Dal punto di vista temporale, l’efficacia è di regola istantanea, ma può essere
retroattiva o differita ovvero sottoposta a condizioni sospensive senza
pregiudizio per la validità dell’atto.
Differenza sostanziale tra inefficacia ed invalidità degli atti consiste nel fatto che
mentre la prima è il prodotto di taluni aspetti della volontà del privato, la
seconda è il risultato di vizi intrinseci dell’atto.
Invero, se l’efficacia di un atto presuppone la sua validità, non è vero il contrario
in quanto vi possono essere atti validi ma inefficaci. L’efficacia dell’atto, infatti,
non è preclusa dalla presenza di vizi di annullabilità che, fin quando non sono
fatti valere, non impediscono la produzione degli effetti giuridici previsti
dall’ordinamento.
L’inefficacia, di regola, è assoluta, ossia opponibile a tutti, ma vi sono ipotesi
di inefficacia relativa, come nel caso di negozio efficace tra le parti stipulanti
ma che non produce effetto verso i terzi.
34
(Art. 1 - principi generali dell’attività amministrativa.
1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di
efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge
e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princìpi dell’ordinamento
comunitario.
1-bis. La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le
norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.
1-ter. I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei princìpi di
cui al comma 1.
2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.)
82
Talvolta l’efficacia dell’atto è subordinata all’adozione di un ulteriore atto
preventivo (autorizzazione) o successivo (approvazione, omologazione, ratifica),
c.d. atti integrativi dell’efficacia.
Si distinguono tre tipi di efficacia:
a) efficacia costitutiva, come nel caso di contratto di compravendita che
determina la costituzione di un nuovo diritto di proprietà con estinzione del
precedente;
b) efficacia dichiarativa, per cui i precedenti atti conservano intanto il proprio
contenuto, ma vi è rafforzamento del riconoscimento della situazione oggetto
dell’atto con relativa specificazione del suo contenuto;
c) efficacia preclusiva che si produce allorché un atto rende incontestabile un
fatto che si è prodotto nell’ordinamento, per cui si previene qualsiasi tipo di
contestazione.
2. L’efficacia degli atti amministrativi: imperatività, esecutività, eseguibilità,
inoppugnabilità.
Nella teoria generale l’efficacia degli atti amministrativi riguarda soprattutto i
provvedimenti amministrativi, in quanto espressione del potere pubblico
predefinito e tipizzato esercitato dagli organi della p.a. Il provvedimento
amministrativo, infatti, ha la capacità di trasformare il proprio contenuto
dispositivo in conseguenze pratiche reali anche a prescindere dalla volontà del
privato e, ad ogni modo, esso esprime l’attitudine a produrre effetti giuridici in
senso unilaterale nella sfera giuridica altrui.35
Invero, la legge 241/1990 ha imposto il ricorso al procedimento amministrativo
solo laddove la tutela di finalità pubbliche determino la necessità di farvi ricorso
in quanto non altrimenti conseguibili attraverso gli ordinari mezzi posti a
disposizione del diritto privato.
La novella della legge 241/1990 riconosce l’efficacia del provvedimento al pari di
quanto previsto per i contratti di diritto privato, in quanto l’atto amministrativo
finisce, al pari di una sentenza passata in giudicato, con il fare stato tra le parti
ad ogni effetto di legge (art. 2909 c.c.), fermo restando il potere di autotutela
della p.a.
L’autorità esprime la qualità tipica del provvedimento, quale prerogativa degli
enti autarchici.
L’imperatività è sinonimo di autorità ed indica la capacità del provvedimento
di incidere in senso modificativo nelle situazioni soggettive.
35
(Capo IV-bis Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso
(1) Capo aggiunto dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15 e comprendente gli articoli da 21-bis a 21-nonies.
Articolo
21-bis.
(Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati)
1. Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun
destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli
irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile. Qualora per il numero dei destinatari la
comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede
mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima. Il
provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere sanzionatorio può
contenere una motivata clausola di immediata efficacia. I provvedimenti limitativi della sfera giuridica
dei privati aventi carattere cautelare ed urgente sono immediatamente efficaci.)
83
L’esecutività consiste nella produzione di effetti da parte di un provvedimento
efficace a prescindere dalla sua validità.
L’inoppugnabilità individua la caratteristica del provvedimento di cui sia
preclusa l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo ovvero innanzi
all’autorità amministrativa. Inoppugnabilità che non preclude l’esercizio di
eventuali poteri di annullamento o revoca da parte dell’amministrazione.
3. L’efficacia nello spazio.
Lo spazio, che insieme al tempo, costituisce le coordinate incidenti sull’efficacia
dell’atto amministrativo, si correla alla competenza amministrativa per
territorio, delimitandola.
Gli organi di enti territoriali, di articolazione di amministrazioni statali e di enti
pubblici nazionali emanano atti i cui effetti sono di norma limitati al rispetto di
un ambito territoriale di competenza. Così l’ordine di demolizione di un
manufatto abusivo dell’ufficio tecnico di un Comune è efficace soltanto se la
costruzione si trovi sul territorio di tale ente.
Eccezioni a tale principio possono rilevarsi, ad esempio, nel caso di carta
d’identità rilasciata dal Comune e valida su tutto il territorio nazionale.
4. L’efficacia nel tempo.
L’efficacia temporale rileva sotto un duplice profilo, quello della
decorrenza degli effetti e quello della loro durata sino all’eventuale
cessazione.
Quanto alla durata, gli effetti dell’atto possono distinguersi in atti ad effetto
istantaneo, come nell’ordine di demolizione; ed atti ad effetto prolungato,
come nella concessione d’uso di bene demaniale ovvero l’autorizzazione
all’esercizio di attività commerciale.
L’efficacia nel tempo può essere altresì prorogata in presenza di
determinati presupposti, mediante un atto che incida in senso modificativo sulla
mera durata del rapporto, ovvero rinnovata con un atti che instauri un nuovo
rapporto di durata del tutto uguale al precedente.
La proroga (o prorogatio), dunque, costituisce un provvedimento che va
adottato prima della scadenza del rapporto, salvo proroga tacita.
In caso di “prorogatio”, grazie alla quale il titolare di un organo competente
nell’esercizio delle sue funzioni ancorché sia scaduto il termine in carica e non
sia stato nominato o eletto il sostituto, può continuare nel mantenimento della
titolarità delle sue funzioni, per cui l’amministrazione, in prossimità della
scadenza del rapporto, è tenuta ad avvisare l’interessato.
Il provvedimento amministrativo inizia a produrre effetti al momento della sua
comunicazione.
In particolare, l’art. 21 – bis introdotto dalla novella legge 15/2005 prevede
l’obbligo di comunicazione del provvedimento quale condizione della sua
efficacia al fine di evitare il ruolo unilaterale tradizionalmente assunto
dall’amministrazione, laddove nel sistema previgente tale comunicazione
costituiva soltanto la condizione per la decorrenza del termine di impugnazione
dell’atto innanzi al g.a.
La novella, invece, riconosce in tale obbligo da parte dell’amministrazione la
condizione di efficacia del provvedimento, ma non della sua validità, in quanto
la mancata comunicazione agisce rispetto alla produzione degli effetti
dell’atto (inefficace) e di mancata decorrenza dei termini per l’impugnazione.
84
I terzi controinteressati, allora, sono tutelari rispetto al rilascio del
provvedimento favorevole, in quanto nei loro confronti è previsto l’obbligo di
comunicazione dei provvedimenti amministrativi e tale comunicazione
può avvenire anche in via telematica o mediante usi di appropriati strumenti di
comunicazione, quale ad esempio la pubblicazione dei bandi di progettazione su
riviste specializzate di ordini professionali.
Sfuggono all’obbligo di comunicazione quale condizione di efficacia, a
norma di legge, sia i provvedimenti aventi carattere cautelare ed
urgente, che quelli contenenti una motivata clausola di efficacia
immediata.
Non possono essere sottratti all’obbligo di comunicazione i provvedimenti
sanzionatori.
La comunicazione avviene di norma a ciascun destinatario, ed ove egli non
sia reperibile si applicano speciali disposizioni previste dal codice di procedura
civile,
In caso di situazioni di conflitto tra effetti ampliativi ed effetti restrittivi prodotti
dal provvedimento rispetto alla sfera giuridica del privato, la dottrina ritiene che
l’obbligo di comunicazione vada esteso anche ai provvedimenti di diniego di
provvedimenti ampliativi nonché al preavviso di rigetto a fronte di
provvedimenti comunque limitativi sia nei confronti di interessi oppositivi che
pretensivi.
In generale, si ritiene che tutti i provvedimenti amministrativi sono da
considerarsi tutti recettizi in vi di principio, in quanto spiegano i loro effetti solo
al momento in cui entrano nella sfera giuridica di conoscibilità degli interessati,
per cui l’atto amministrativo va notificato a tutte le persone interessate.
I
provvedimenti
amministrativi
efficaci
sono
eseguiti
immediatamente, salvo diversamente stabilito dalla legge o dal
provvedimento medesimo. Tale principio, di cui all’art. 21 – quater del novellato
testo della legge 241/1990, rileva come l’efficacia giuridica del provvedimento e
la sua esecuzione vanno considerato come effetti materiali conseguenti, seppure
può verificarsi che l’efficacia dell’atto sia sottoposta a condizione sospensiva o a
termine iniziale, ossia a momento temporale futuro e certo dal quale gli effetti
del provvedimento si producono (efficacia irretroattiva).
In caso di provvedimento sottoposto a procedimento di controllo di legittimità si
ritiene che in caso di esito positivo si determina l’efficacia del medesimo, per cui
il controllo opera come condizione sospensiva, ossia con effetti retroattivi.
L’efficacia retroattiva è tipica nei provvedimenti di secondo grado.
5. L’efficacia soggettiva
L’efficacia spaziale si correla, oltre alla competenza oggettiva degli enti
pubblici, all’ambito soggettivo passivo di riferimento.
Sotto il primo profilo, il provvedimento amministrativo può esprime la sua
efficacia in ordine a figure soggettive individuali o collettive, private o pubbliche.
Invero, l’evoluzione dell’attività amministrativa ha visto il proliferare di
destinatari dei provvedimenti amministrativi determinando una rete di rapporti
equiordinati tra soggetti istituzionalizzati di pari dignità posti a tutela di
interessi pubblici a volte configgenti tra loro.
Sotto il profilo soggettivo, i provvedimenti amministrativi possono rivolgersi ad
una pluralità di soggetti, per cui si distingue tra:
a) atto collettivo, che ha ad oggetto fatti relativi ad ordinamenti particolari e
produce effetti giuridici nei confronti di ciascun appartenente alla categoria di
riferimento;
85
b)
atto plurimo, in cui vi è una sola dichiarazione in cui si raccolgono molteplici
figure soggettive;
c) atto generale che produce effetti plurisoggettivi in quanto si rivolge a gruppi
indeterminati di figure soggettive.
L’art. 21 – bis della novellata legge 241/1990 prevede che, dal momento della
comunicazione del provvedimento si determina l’efficacia del medesimo, percui
i soggetti destinatari dell’atto vanno considerati come i soggetti nella cui sfera
giuridica l’atto è destinato direttamente a produrre effetti.
6. L’efficacia oggettiva
Il provvedimento amministrativo, al pari di tutti gli atti giuridici, può avere
efficacia costitutiva, modificativa, estintiva o anche dichiarativa.
Gli atti prodomici al provvedimento esercitano una funzione di supporto
limitato a situazioni giuridiche soggettive meramente procedimentali che hanno
luogo nella fase istruttoria del procedimento e dai quali il provvedimento finale
può motivatamente discostarsi.
Il provvedimento può produrre effetti reali (costituzione di nuova proprietà a
seguito di espropriazione) ed effetti obbligatori (determinazione di
corresponsione di un contributo pubblico o all’imposizione di un tributo).
I provvedimenti possono riguardare decisioni amministrative contenziose
(provvedimenti amministrativi espressione della potestà di risolvere
controversie) ovvero irrogare sanzioni amministrative ovvero ampliare
la sfera giuridica dei privati mediante autorizzazioni e concessioni nonché
attribuire qualità giuridiche mediante atti di certazione.
7. La sospensione dell’efficacia
L’art. 21 – quater, comma 2, della novellata legge 241/1990 prevede che
l’efficacia o l’esecuzione del provvedimento amministrativo può
essere sospesa per gravi ragioni e per il tempo strettamente
necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro
organo previsto dalla legge. La sospensione va accompagnata
dall’indicazione del termine prorogabile o differibile per una sola volta o
riducibile per sopravvenute esigenze.36
Prima della novella, il termine di sospensione veniva considerato come potere
implicito della p.a., in quanto insito nell’esercizio della pubblica funzione.
La novella, invece, ha ribadito che in tale ambito l’organo competente deve
coincidere con lo stesso che ha emanato l’atto in questione oppure con altro
organo espressamente previsto dalla legge, per cui si è riconosciuto il
progressivo dissolvimento del rapporto gerarchico della p.a. in quanto appare
quanto meno dubbio che il ministro, cui spetta il potere di annullare gli atti del
dirigente per motivi di legittimità di cui all’art. 14, comma 3 del d.lgs. 165/2001,
possa procedere alla loro sospensione in mancanza di disposizione normativa
espressa che espressamente la legittimi.
36
Articolo 21-quater.
(Efficacia ed esecutività del provvedimento)
1. I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.
2. L'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi
ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro
organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone
e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze.
86
Il provvedimento di sospensione costituisce espressione del potere cautelare tale
da innestarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado teso
all’annullamento ovvero alla revoca di un provvedimento.
Pertanto, l’amministrazione sarà legittimata a porre in essere provvedimenti di
sospensione atti ad evitare che si producano conseguenze irreversibili o
comunque gravi tali da compromettere l’efficacia del successivo potere di
autotutela.
Conseguentemente, se l’amministrazione non ritenga di dar luogo all’esercizio
di autotutela mediante annullamento o revoca del provvedimento, la
sospensione dovrà cessare dal produrre i propri effetti e potrà riprendersi
l’esecuzione dell’atto già sospeso in via cautelare.
Invero, la sussistenza delle “gravi ragioni” all’adozione del provvedimento di
sospensione consentono all’amministrazione di operare sia in situazioni di
legittimità di un provvedimento, la cui efficacia può essere sospesa
istantaneamente, in quanto gli effetti non si sono già prodotti, ovvero in senso
durevole, per cui il provvedimento di sospensione assume carattere cautelare in
quanto sospende le reciproche prestazioni.
8. L’esecutorietà del provvedimento amministrativo
La novella della legge 241/ 1990 ha sottoposto al principio di legalità anche la
fase esecutiva del provvedimento mediante apposita disciplina legislativa
dell’esecuzione.
L’esecutorietà, infatti, indica l’attitudine del provvedimento ad essere
portato ad esecuzione anche contro la volontà del soggetto obbligato
senza necessità di una pronunzia del giudice.
L’esecuzione coattiva di un obbligo è diversa dalla mera imposizione dello
stesso, infatti invade profondamente la sfera giuridica del soggetto passivo.
Fondamento della esecutorietà è ora ricondotto alla stessa essenza del potere
amministrativo di natura imperativa, in quanto espressione del principio di
legalità in relazione al quale è possibile ricondurre l’esecutorietà del
provvedimento allo specifico potere che la legge riconosce ai
provvedimenti amministrativi nella loro capacità di regolamentare le
molteplici fattispecie operative.
L’art. 21 – ter della novellata legge 241/1990 al comma 1 prevede che le
pubbliche amministrazioni, nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge,
possano imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti,
indicando ai destinatari tempi e concrete modalità esecutive e al comma 2 si
specifica che per le obbligazioni pecuniarie si applica la disciplina prevista per
l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato di cui al D.lgs. 146/1999.37
La norma, dunque, conferma il carattere eccezionale del potere di coazione della
p.a. che può esercitarlo nei soli casi previsti dalla legge e quest’ultima, ex art. 23
Cost. (Art. 23. Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta
37
Articolo 21-ter. (Esecutorietà) 1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche
amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il
provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto
obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono
provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge.
2. Ai fini dell'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le
disposizioni per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
87
a)
b)
c)
d)
se non in base alla legge.), è da intendersi in senso stretto con esclusione delle
fonti secondarie.
Pertanto, laddove la legge non disponga il potere di coazione
dell’amministrazione, essa dovrà rivolgersi al giudice amministrativo per vedere
soddisfatte le proprie pretese.
Invero, il g.a. deve valutare tra attività di tipo esecutivo cui si fonda l’obbligo
imposto al destinatario del provvedimento. In tale ambito rientrano:
gli obblighi di fare infungibili che necessitano di azione dell’obbligato e
l’amministrazione, nei casi previsti dalla legge, può procedere mediante
coercizione dirette (ex. espulsione di cittadino extracomunitario);
gli obblighi di fare fungibili, per cui si procede mediante esecuzione
d’ufficio (ex omessa demolizione di edificio abusivo da cui l’amministrazione si
sostituisce all’amministrazione comunale a spese del proprietario);
gli obblighi di consegna di una cosa, per cui si procede mediante
apprensione coattiva del bene da parte della p.a.;
gli obblighi di dare relativi a somme di denaro, l’esecuzione forzata ha
luogo mediante iscrizione in ruoli esattoriali.
L’art. 21 – ter della legge 241/1990 stabilisce altresì che il provvedimento
costitutivo di obblighi deve indicare tempi e modalità di esecuzione del
medesimo, per cui in caso di inottemperanza l’amministrazione agente può
procedere all’esecuzione coattiva laddove espressamente previsto dalla legge,
ma soltanto previa diffida.
Capitolo 3
L’invalidità del provvedimento amministrativo
1. Inquadramento teorico
I termini validità ed invalidità indicano situazioni di vita quotidiana prima
ancora che vicende giuridiche.
Tuttavia i due concetti indicano qualità dell’oggetto che scaturisce da un
giudizio di conformità dello stesso con un modello di riferimento e se tale
giudizio è positivo si avrà una fattispecie valida, altrimenti la fattispecie risulterà
invalida.
Entrambi i concetti sono di tipo relazionale, in quanto il loro significato risulta
condizionato dalla natura dell’oggetto interessato dal giudizio di conformità e
dalla natura del modello di riferimento ivi adottato.
Pertanto, a seconda che l’oggetto di valutazione sia una norma o meno, un atto
può risultare o meno caratterizzato da un contenuto precettivo di cui non è
necessario valutare il contenuto dispositivo per l’assetto degli interessi che ne
deriva.
Oltre all’aspetto causale, ossia alla relazione conformità – difformità dell’atto
rispetto al modello, la considerazione giuridica della validità – invalidità dell’atto
riguarda l’aspetto effettuale, ossia l’individuazione degli effetti giuridici
propri che l’oggetto della valutazione è idoneo a produrre a seconda che sia
valido o invalido.
In particolare, la teoria causale della invalidità ha comportato il superamento del
rapporto antinomico tra validità ed invalidità, in quanto non più considerate
come correlato negativo l’una dell’altra, bensì qualificazioni dell’atto giuridico e,
dunque, semplicemente diverse tra loro.
In tempi recenti, infatti, all’interno dell’ampia figura della invalidità il diritto
amministrativo ha ritrovato ipotesi di nullità e di annullabilità ciascuna
88
suscettibile di ulteriori specificazioni al proprio interno tali da rendere
evanescente qualsivoglia distinzione.
2. Validità ed invalidità in diritto amministrativo.
Nell’ambito del provvedimento amministrativo la legge sul procedimento ha
avvolto di precise prescrizioni formali il tema della relativa validità ed invalidità.
In particolare, nel diritto amministrativo l’invalidità è un tema antico formatosi
in ambito giurisprudenziale in riferimento all’art. 26 del t.u. Consiglio di Stato,
che indica i tre vizi di incompetenza, eccesso di potere e violazione di
legge, poi racchiusi dalla dottrina nella categoria della illegittimità. Poi, l’art.
45 prevede l’annullamento dell’atto impugnato.
Tali previsioni hanno trovato rilievo di diritto sostanziale, in quanto
l’annullamento d’ufficio e l’annullamento su ricorso amministrativo hanno
come presupposto tali vizi.
Invero, l’idoneità del provvedimento invalido a spiegare effetti giuridici si
accompagna all’idea dei sovranità. per cui prevale l’aspetto funzionale del
provvedimento insieme alla natura pubblicistica curati dall’amministrazione.
Di conseguenza, il giudizio di validità del provvedimento è venuto ad indicare la
correttezza dell’esercizio del potere della p.a., in quanto la condotta assunta da
quest’ultima viene valutata sotto il profilo funzionale, che porta all’esplicarsi
dell’attività amministrativa conclusasi nel provvedimento.
Invero, la giurisprudenza ha ritenuto che la nullità del provvedimento è da
ritenersi disarmonica rispetto al principio di stabilità dei rapporti giuridici, tanto
che la recente novella del 2005 ha inserito il Capo IV bis all’interno della
legge 241/1990, dedicato espressamente all’efficacia ed invalidità del
provvedimento amministrativo e con tale previsione sono state introdotto
disposizioni sulla nullità del provvedimento e specificazione della relativa
disciplina.
Tuttavia, all’invalidità del provvedimento non è stata dettata affatto una
disciplina generale, per cui la riforma sembra prevedere soltanto alcuni
frammenti normativi a riguardo, che però non hanno ostacolato la ridefinizione
della relativa disciplina sul piano sistematico.
In particolare, l’art. 21 – octies prevede che è annullabile il provvedimento
amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da
incompetenza, da cui la perfetta corrispondenza con i vizi di legittimità ed
annullabilità ad opera del g.a.38
Tra le cause di invalidità, infatti, vengono ridisegnati i confini della materia
mediante l’introduzione di cause di nullità di cui all’art. 21 – septies e di ipotesi
di annullabilità di cui al comma 2 dell’art. 21 octies.39
38
Articolo 21-octies. -(Annullabilità del provvedimento) 1. È annullabile il provvedimento
amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
39
Articolo 21-septies. (Nullità del provvedimento) 1.È nullo il provvedimento amministrativo che manca
degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in
violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. Il secondo
89
3. I tre vizi: violazione di legge ed incompetenza
L’annullabilità del provvedimento è stata mantenuta costante dalla novellata
legge nella tipologia ei vizi di legittimità.
Violazione di legge ed incompetenza, infatti, indicano entrambe casi di
difformità dell’atto rispetto alla disciplina normativa.
L’incompetenza deriva da violazione di disposizione di rango primario o
secondario, e la giurisprudenza vi assegna altresì i vizi relativi ai presupposti per
il corretto esercizio in concreto del potere amministrativo quale difetto assoluto
di attribuzione.
La violazione di legge, invece, riguardala violazione delle norme giuridiche sul
procedimento.
Diversa è la disciplina processuale relativa ai due vizi, in quanto in ogni caso si
ammette l’annullamento da parte del g.a. per motivi di incompetenza, la
remissione dell’affare all’autorità competente.
Alcune violazioni, come quelle relative alla motivazione, hanno assunto
rilevanza diretta grazie alla legge sul procedimento, laddove in precedenza
rientravano nell’eccesso di potere da cui l’accertamento c.d. sintomatico da
parte del g.a.
4. Eccesso di potere
L’eccesso di potere ha assunto un ruolo centrale nella ricostruzione della
illegittimità amministrativa e del sindacato sull’esercizio della
discrezionalità.
Attualmente, l’eccesso di potere si presenta come un vizio composito, che
comprende figure eterogenee emerse dalla elaborazione di dottrina e
giurisprudenza.
Nell’idea del legislatore del 1889, infatti, l’eccesso di potere indicava lo
straripamento del potere, per cui l’amministrazione adottava un provvedimento
superando i limiti del potere riconosciutogli dalla legge, tanto che la
giurisprudenza parlava di sviamento del potere, quale difformità tra scopo reale
e scopo legale del provvedimento.
Con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere fu
oggetto di ulteriori approfondimenti, per cui esso venne accostato al vizio della
volontà, in quanto aspetto patologico di formazione del volere
dell’amministrazione.
L’eccesso di potere, pertanto, si venne a caratterizzare quale vizio della
funzione, ossia forma di invalidità correlata all’uso non corretto del potere
discrezionale.
Nell’esperienza recente, l’eccesso di potere viene ricavato non ex se,
direttamente, ma soltanto mediante sintomi, c.d. figure sintomatiche data la
difficoltà teorica di controllare la legittimità del provvedimento rispetto alla
quale il g.a. deve operare una cognizione indiretta o mediata attraverso tali
figure.
In tali figure sintomatiche rientrano l’irragionevolezza dell’agire
amministrativo, la contraddittorietà tra gli atti del procedimento,
l’illogicità tra motivazione e dispositivo, la disparità di trattamento, il
travisamento dei fatti, l’incompletezza dell’istruttoria e l’ingiustizia
manifesta.
comma è stato abrogato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Il testo previgente così recitava:
"2. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo."
90
Va sottolineato proprio il mutamento di natura dell’eccesso di potere che da
vizio ad accertamento sintomatico si è andato trasformando in violazione di
principi generali di origine giurisprudenziale e, come tale, si afferma che vizio
a cognizione indiretta.
5. Ipotesi di nullità
Le fattispecie di nullità sono formalizzate nell’ambito della invalidità del
provvedimento accanto alla figura della annullabilità, in quanto il legislatore
della riforma ha recepito alcuni spunti giurisprudenziali nell’accoglimento dei
tre vizi di illegittimità e dalla presenza del g.a. dotato di poteri di annullamento.
In tema di provvedimenti nulli la giurisprudenza si è posta la questione del
riparto della giurisdizione, in quanto rileva la discriminazione processuale tra
controversie relative all’inesistenza o al cattivo esercizio del potere affermando
che, sul piano sostanziale, si viene ad affermare una distinzione tra
provvedimenti idonei a degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo, con
il relativo riconoscimento della competenza processuale in capo al g.a. e
provvedimenti inidonei in tal senso di competenza del g.o.
Sul versante normativo, invece, si è preferito fare riferimento alle ipotesi di
nullità come specificato dall’art. 288 t.u. legge comunale per cui sono
riconosciute nulle le deliberazioni prese in adunanze illegali, cui il legislatore del
pubblico impiego vi ha fatto ricorso.
Invero, si tratta di casi la cui violazione commessa comporta la nullità del
provvedimento, in quanto la sua validità non risulta condizionata dall’interesse
di parte.
Tuttavia, illegittimità e nullità risultano il risultato di tecniche normative fondate
su piani di interessi differenti, ispirate a logiche diverse, per cui le conseguenze
della nullità sono l’improduttività di qualsiasi effetto giuridico del
provvedimento in quanto tale, che è dunque insanabile.
La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di c.d. nullità virtuali derivanti da
violazione di norme imperative assoggettate all’art. 1418, comma1 c.c.
L’art. 21 septies individua la nullità nelle ipotesi di nullità la mancanza degli
elementi essenziali, nel difetto di attribuzione, nel provvedimento
adottato in violazione o elusione di giudicato nonché negli altri casi
previsti dalla legge.
A partire dagli anni Novanta, i giudici amministrativi hanno enucleato ulteriori
cause di nullità facendo riferimento agli schemi civilistici per la mancanza degli
elementi essenziali del contratto di cui all’art. 1325 c.c. (Art. 1325. Indicazione
dei requisiti. I requisiti del contratto sono: 1) l'accordo delle parti; 2) la causa; 3)
l'oggetto; 4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di
nullità. ) con riferimento all’aspetto funzionale del provvedimento.
Parimenti, ala funzionalità dell’atto sono ricondotte ulteriori fattispecie di
nullità del provvedimento, quali l’indeterminatezza, l’impossibilità o l’illiceità
del contenuto del provvedimento nonché della forma di cui all’art. 1325 c.c.
Il riferimento al difetto assoluto di attribuzione recepisce la carenza di potere,
coniata dalla giurisprudenza, per risolvere il riparto di giurisdizione
sollevando ulteriori questioni.
In effetti, la prima questione ha riguardato se il difetto di attribuzione possa
venire considerato così netto e differenziato tale da risultare un vizio di mera
incompetenza da meritare la disciplina della nullità. A riguardo si è sostenuto
che tale vizio rileva allorché il potere non sussiste, per cui si viene ad escludere il
91
difetto assoluto di attribuzione quando l’organo ha adottato l’atto e svolge
comunque alcune delle funzioni del settore oggetto del provvedimento.
In secondo luogo, la carenza di potere dovrebbe risultare ridimensionata in
ambito di provvedimenti ablatori coinvolgenti diritti soggettivi, per cui la regola
della nullità risulta idonea ad inficiare qualsiasi provvedimento amministrativo
anche se non riguardante diritti soggettivi.
La regola della nullità del provvedimento adottato in violazione o elusione di un
precedente giudicato avrebbero dovuto suggerire al legislatore un intervento sul
piano dei presupposti del giudizio di ottemperanza senza peraltro incidere sulla
validità dei provvedimenti amministrativi.
Da qui, in assenza di una specifica disciplina processuale e sostanziale,
l’interprete è costretto a trasportare nel diritto amministrativo regole
privatistiche, come invece è espressamente previsto in materia di accordi.
6. Vizi che non determinano la non annullabilità del provvedimento
Il comma 2 dell’art. 21 octies prevede le ipotesi di non annullabilità del
provvedimento.40
Secondo una prima ipotesi la norma in esame prevede la non annullabilità del
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Tale disposizione riguarda i soli provvedimenti vincolati.
La seconda ipotesi, che si estende anche ai provvedimenti discrezionali, prevede
la non annullabilità per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Invero, entrambe le violazioni attengono vizi procedimentali, per lungo tempo
trascurati dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
La norma, infatti, s’inquadra nell’ambito della maggiore incidenza del sindacato
di legittimità sostanziale con ridimensionamento consequenziale della
legittimità formale, per cui si afferma che i vizi formali e procedimentali possono
non determinare la non annullabilità del provvedimento.
Va poi evidenziato che la partecipazione del privato al procedimento svolge un
ruolo importante nell’iter decisionale dell’amministrazione, da cui potrebbe
fondarsi un giudizio prognostico tale da condizionare la legittimità della
partecipazione al medesimo procedimento con riferimento all’annullabilità del
provvedimento e non già all’illegittimità del medesimo.
Interessa pertanto verificare se, in assenza di espresso richiamo normativo,
l’illegittimità possa essere considerata come uno stato viziato del procedimento,
in quanto i provvedimenti da considerarsi irregolari, ad esempio per mancata
comunicazione di avvio del procedimento, ovvero illegittimi.
40
Articolo 21-octies.
(Annullabilità del provvedimento) 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in
violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
92
Sul punto si sono confrontate diverse opinioni, ma è favorevole la tesi della
illegittimità del provvedimento per cui, ai sensi del comma 1 dell’art. 21 octies, i
provvedimenti vanno considerati annullabili in quanto illegittimi ed anche i
provvedimenti non annullabili vanno altresì considerati illegittimi.
Parimenti, l’art. 21 nonies in tema di annullamento d’ufficio stabilisce che il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21 octies può essere
annullato d’ufficio se ricorrono determinate condizioni, per cui nella sua
interezza rileva pur sempre l’illegittimità del provvedimento.41
Il meccanismo dell’art. 21 octies richiede una valutazione in concreto, caso per
caso e non in via generale, per cui la novità della riforma consiste nell’aver
introdotto ipotesi di dissociazione tra illegittimità ed annullabilità che
impongono una verifica probatoria giustiziale tipica dei ricorsi amministrativi
così come nella valutazione dei procedimenti di riesame in caso di annullamento
d’ufficio e convalida.
7.Forme di invalidità: successiva, derivata
L’invalidità può essere totale o parziale.
Secondo la giurisprudenza l’invalidità di una singola clausola di un
provvedimento è idonea ad invalidarlo nella sua interezza nel caso rivesta
carattere di essenzialità.
L’invalidità parziale si distingue dalla invalidità che colpisce atti formalmente
unici ma sostanzialmente plurimi, come la graduatoria, per cui il vizio della
singola porzione dell’atto non inficia altre valutazioni. Tuttavia, se viene
sollevata una questione procedimentale, ne consegue l’invalidità dell’intero
provvedimento.
Anche la validità dell’atto va valutata con riferimento al modello normativo di
riferimento vigente al momento dell’adozione del provvedimento e tale regola
vige altresì per gli atti endoprocedimentali in ossequio al principio tempus
regit actum.
Le sopravvenienze normative, dunque, non incidono sull’invalidità dell’atto, per
cui a seguito dell’entrata in vigore di norme restrittive gli atti che risultano in
contrasto con tale nuova disciplina, saranno dichiarati invalidi soltanto se
successivamente emanati rispetto all’adozione del provvedimento.
Sotto il profilo processuale, dottrina e giurisprudenza hanno distinto tra
invalidità derivata ad effetto viziante e ad effetto caducante utile a fini
processuali, in quanto l’invalidità dell’atto precedente, non risultando lesivo,
non è direttamente impugnabile per cui viene fatta valere con l’impugnazione
dell’atto successivo.
In tal caso, pertanto, ci si è chiesti se l’atto precedente, dotato di carica lesiva,
diventi o meno autonomamente impugnabile con le modalità ordinarie del
ricorso giurisdizionale o amministrativo.
Invero, si è ritenuto che nel caso di invalidità caducante non è necessario
impugnare l’atto successivo in quanto quest’ultimo risulterà travolto dagli effetti
di annullamento del precedente.
41
Articolo 21-nonies. (Annullamento d'ufficio) 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro
un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. 2. È fatta salva la possibilità di convalida
del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole".
93
In tutte le altre ipotesi, invece, il privato potrà impugnare gli atti successivi al
primo impugnato in quanto colpiti da invalidità.
8. Irregolarità
Dottrina e giurisprudenza hanno isolato alcune ipotesi di mera irregolarità, ossia
di una difformità che non comporta conseguenze sul regime giuridico
dell’atto, che resta valido ma determina altre conseguenze di tipo
sanzionatorio (disciplinare e risarcitorio) in capo agli autori materiali dello
stesso.
Si tratta di violazioni di regole formali sulla corretta redazione dell’atto, come
l’intestazione dell’atto ovvero la data desumibile in maniera certa da altri
elementi ovvero la sottoscrizione che comunque renda possibile la riferibilità
dell’atto a chi ne appare l’autore. Parimenti per l’indicazione del responsabile
del procedimento.
Tali errori sono ascrivibili alla pubblica amministrazione.
9. Vizi di merito e principio di efficacia
I c.d. vizi di merito ancora oggi non hanno ricevuto una sistemazione condivisa,
per cui essi vengono collocati nell’area della legittimità o del merito.
Tali dubbi interpretativi sono stati determinati dalla questione relativa
all’individuazione dei parametri di riferimento, rinvenibili alternativamente in
norme giuridiche ovvero in norme non giuridiche relative all’azione
amministrativa.
Invero, si ritiene che l’espressa previsione legislativa del principio di
efficacia, che deve necessariamente informare l’azione amministrativa,
riguarda il dovere di buona amministrazione costituzionalizzato nel buon
andamento che oggi ha assunto valore di parametro di riferimento nella
valutazione della validità dell’azione amministrativa.
Pertanto, secondo un primo orientamento il legislatore avrebbe riconosciuto i
c.d. vizi di merito nell’ambito dei vizi di legittimità, da cui l’opportunità di
considerare l’efficacia quale requisito di validità di tutti i provvedimenti
amministrativi in quanto tali perché conformi all’interesse pubblico.
Secondo altra prospettazione, il criterio dell’efficacia rientra nell’ambito della
legittimità, che ne risulterebbe ampliata in quanto essa indica una relazione tra
contenuto dell’atto e risultati ottenuti che andrebbero adeguati al
soddisfacimento in concreto dell’interesse pubblico. Di qui il controllo sulla
buona amministrazione si presenta come controllo sulla scelta
dell’amministrazione secondo il principio di ragionevolezza mediante la figura
dell’eccesso di potere.
Il giudizio di adeguatezza, infatti, entra nel paradigma normativo di riferimento
e l’attuale assetto normativo considera l’azione amministrativa come vincolata
al perseguimento dei fini in quanto strumento di cura in concreto di interessi
pubblici.
Capitolo 4
I provvedimenti amministrativi di secondo grado
1. Considerazioni introduttive
a) i provvedimenti di secondo grado quali esplicazione del principio di buona
amministrazione.
I provvedimenti amministrativi di secondo grado sono provvedimenti
che hanno ad oggetto un precedente provvedimento amministrativo ovvero il
94
silenzio assenso, art. 20 legge 241/1990, modificato dall’art. 3 del D.L. 35/2005,
convertito in legge n. 80/2005.42
L’art. 19 della legge (modificato in ultimo con decreto 138/2011), ha ampliato
l’ambito di operatività, prevedendo poteri di revoca e di annullamento d’ufficio
in capo all’amministrazione competente, anche in materia di segnalazione
certificata di inizio attività (s.c.i.a).43
42
Articolo 20. (1) (Silenzio assenso)
1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di
accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima
amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il
provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2.
2. L'amministrazione competente può indire, entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza di cui al
comma 1, una conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche
soggettive dei controinteressati.
3. Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda,
l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21quinquies e 21-nonies.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio
culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e
la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone
l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio
dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più
decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di
concerto con i Ministri competenti.
5. Si applicano gli articoli 2, comma 7, e 10-bis.
5-bis. Ogni controversia relativa all'applicazione del presente articolo è devoluta alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo. (2)
Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15, dal Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 e
successivamente dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
(2) Comma aggiunto dal Decreto Legge 5 agosto 2010, n. 125
43
Articolo 19. (1) (Dichiarazione di inizio attività Scia)
1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque
denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività
imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei
requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun
limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli
atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la sola esclusione degli atti rilasciati dalle
amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla
cittadinanza, all'amministrazione della giustizia, alla amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti
concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla
normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli (2) imposti dalla normativa comunitaria. La
segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto
riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nonché dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle
imprese di cui all’ articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di
cui al primo periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per
consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la legge prevede
l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono
comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente
comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti. La segnalazione,
corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonchè dei relativi elaborati tecnici, può essere
presentata mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento, ad eccezioni dei procedimenti per cui
è previsto l'utilizzo esclusivo della modalità telematica; in tal caso la segnalazione si considera presentata
al momento della ricezione da parte dell'amministrazione. (3)
2. L'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data di presentazione della presentazione
della segnalazione all'amministrazione competente.
95
Ci si chiede se il recesso dell’amministrazione dagli accordi con i privati,
integrativi o costitutivi di provvedimento (art. 11, comma 4 della legge 241/90),
può considerarsi un provvedimento di secondo grado, il cui oggetto è costituito
da un accordo.
Invero, mentre con la scia il privato sostituisce gli atti amministrativi di assenso,
nella revoca e nell’annullamento sussiste il provvedimento precedente, per cui si
esclude che la revoca possa configurarsi come mero provvedimento
discrezionale in quanto il termine dei trenta giorni fissato perché
l’amministrazione adotti il relativo provvedimento comporta, in ogni caso, la
formazione di silenzio assenso.
Pertanto, se la revoca si configura rispetto al potere discrezionale
dell’amministrazione, la scia può avere ad oggetto soltanto atti amministrativi
dal cui rilascio dipende l’accertamento dei requisiti e presupposti di legge.
La revoca, inoltre, ha natura provvedimentale al pari del recesso, quale
manifestazione unilaterale del potere autoritativo ed è assicurato
3. L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al
comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma,
adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a conformare alla
normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni
caso non inferiore a trenta giorni. È fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di
assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. In caso di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci, l’amministrazione,
ferma restando l’applicazione delle sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui al capo VI
del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, può sempre e
in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo.
4. Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3,
all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio
artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione
dell’attività dei privati alla normativa vigente.
4-bis. Il presente articolo non si applica alle attività economiche a prevalente carattere finanziario, ivi
comprese quelle regolate dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e dal testo unico in materia di intermediazione finanziaria di cui al
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.
(...) (4)
6. Ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni
che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei
presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni.
6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma
3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 6, restano altresì
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle
sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 e dalle leggi
regionali. (5)
(1) Articolo così modificato dalla Legge 11 febbraio 2005, n. 15, dal Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35
e successivamente dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69, dal Decreto Legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e dal
Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78.
(2) Parole aggiunte dal Decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70.
(3) Periodo aggiunto dal Decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70.
(4) Comma abrogato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Il testo previgente così recitava: "5.
Ogni controversia relativa all'applicazione dei commi 1, 2 e 3 è devoluta alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. Il relativo ricorso giurisdizionale, esperibile da qualunque interessato nei termini
di legge, può riguardare anche gli atti di assenso formati in virtù delle norme sul silenzio assenso previste
dall'articolo 20."
(5) Comma aggiunto dal Decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70.
96
all’adeguamento continuo dell’azione amministrativa che si svolge attraverso
moduli consensuali al trasformarsi dell’interesse pubblico secondo il principio
dell’efficacia.
Invero si è ritenuto che revoca e recesso condividano stessa natura
provvedimentale, stessi presupposti, da cui anche il recesso costituisce un
provvedimento di secondo grado.
Nel nostro ordinamento sono presenti diversi tipi di provvedimenti di
secondo grado.
Sospensioni, proroghe, revoche, recessi, annullamenti d’ufficio,
convalide, conferme, conversioni, sanatorie in senso stretto riforme.
Alcune di esse (sospensione, la proroga e la revoca) incidono sul
precedente provvedimento o accordo, sospendono, prorogando ovvero
eliminando i relativi effetti.
Altri incidono eliminandone gli effetti (recesso) o il provvedimento/accordo
stesso (annullamento).
Se viene eliminato il vizio di legittimità che inficia il provvedimento, rendendo
l’atto in futuro inattaccabile in sede giudiziale, si ha la convalida, mentre gli
effetti che incidono sul contenuto confermandolo, danno luogo alla conferma,
quelli che incidono modificandolo, alla riforma.
Il potere nell’esercizio del quale è stato emanato il provvedimento o stipulato
l’accordo, non deve però essersi esaurito, in quanto l’amministrazione può
riesercitarlo quando il provvedimento è ritenuto illegittimo, rispetto alla cura
dell’interesse pubblico in concreto perseguito.
Ne deriva che i provvedimenti sopra elencati non possono essere emanati in
tutti quei casi in cui, con l’emanazione del primo atto, l’amministrazione ne ha
consumato il potere (ad esempio nel caso di atti di controllo, atti consultivi,
ecc,).
La legge 15/2005 ha previsto alcuni tra i più significativi provvedimenti di
secondo grado: l’annullamento d’ufficio e la revoca.
Nella prospettiva dell’efficacia dell’azione amministrativa, il buon andamento e
la corrispondenza dell’assetto degli interessi realizzato nel precedente
provvedimento per cui il relativo potere è stato attribuito, comporta in caso del
venir meno di tale adeguatezza un nuovo esercizio di tale potere per cui saranno
adottati provvedimenti di secondo grado, quali esplicazione del principio di
buona amministrazione, con conseguente riconduzione di tali provvedimenti
nell’area dell’amministrazione attiva anziché dell’autotutela, dove prima
venivano collocati da dottrina e giurisprudenza.
b) Il problema del fondamento giuridico
Il richiamo all’autotutela è stato fin dal passato ritenuto inidoneo a spiegare il
riesercizio del potere da parte dell’amministrazione che adotta un
provvedimento di secondo grado nella cura pur sempre dell’interesse pubblico.
Il problema del fondamento giuridico dei poteri di secondo grado è stato
risolto facendo ricorso oltre al principio di autotutela, alla posizione di
privilegio dell’amministrazione nei confronti degli amministrati, al quale si
collega l’imperatività dell’atto amministrativo.
Pertanto, tali poteri sono stati considerati compatibili con il principio di legalità
in quanto espressione di quello stesso potere nel cui esercizio è stato emanato
l’atto oggetto del provvedimento di secondo grado.
97
La legge 15/ 2005, e segnatamente per la revoca, la convalida e l’annullamento
d’ufficio di cui all’art. 21 – nonies, ha risolto il problema del loro fondamento
giuridico riconoscendone la compatibilità con il principio di legalità.44
c) La distinzione tra atti di riesame ed atti di revisione, tra atti ad esito
eliminatorio ed atti ad esito conservativo
Sotto il profilo funzionale parte della dottrina distingue i provvedimenti di
secondo grado in atti di riesame ed atti di revisione. Tra i primi rientrano
l’annullamento, la convalida, la conferma e la ratifica ed hanno per oggetto il
provvedimento sotto il profilo della validità. I secondi, invece, comprendono
la revoca, il recesso, la proroga, la sospensione ed incidono sull’efficacia
durevole del precedente provvedimento ovvero dell’accorso nonché sul
rapporto giuridico scaturito dal provvedimento di primo grado o
dall’accordo.
Tale orientamento trova conferma nella legge 15/2005 in quanto l’art. 21 –
quinquies in tema di revoca e l’art. 21 nonies, comma 1 e 2 in tema di
annullamento d’ufficio e convalida sono collocati nel Capo IV bis che disciplina
l’efficacia e l’invalidità del provvedimento, per cui subito dopo le norme
sull’efficacia e l’esecutività del provvedimento troviamo la disposizione sulla
revoca e subito dopo quelle sulla nullità ed annullabilità si rinviene la
disposizione sull’annullamento d’ufficio.
La dottrina oggi prevalente configura, invece tali atti come manifestazione
del potere di riesame, distinguendoli in atti ad esito conservativo (la
conferma, la convalida, la ratifica, la riforma, la conversione e la proroga) ed atti
ad esito eliminatorio (l’annullamento, la revoca, il recesso) e tra quest’ultimi
è fatta rientrare anche l’abrogazione dell’efficacia o dell’esecuzione di un
precedente provvedimento.
La sospensione, in particolare, è ricondotta tra gli atti ad esito eliminatorio, in
quanto strumentale all’annullamento e alla revoca, mentre l’abrogazione è
considerata atto amministrativo con il quale si fa cessare l’efficacia di un
precedente atto per mutamento sopravvenuto dell’originaria situazione di fatto
o per sopravvenute esigenze di pubblico interesse.
Pertanto, l’abrogazione finisce per risolversi nella revoca per sopravvenienza e
tale constatazione ha indotto la dottrina ad indicare con tale termine il
provvedimento che elimina o rimuove ex nunc un precedente provvedimento,
legittimo al momento della sua emanazione in quanto conforme al presupposto
indicato dalla legge, ma la cui permanenza sarebbe contra ius in quanto in
contrasto con le stesse norme che lo disciplinano.
d) Provvedimenti ad esito eliminatorio e tutela del legittimo affidamento
Gli atti di secondo grado, in particolare quelli ad esito eliminatorio, e tra questi
anche la convalida, hanno sempre posto il problema della tutela effettiva del
cittadino e del suo affidamento nella certezza e stabilità delle determinazioni
assunte in precedenza dall’amministrazione nei suoi confronti.
44
Articolo 21-nonies. (Annullamento d'ufficio)
1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto
degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro
organo previsto dalla legge.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole".
98
Invero, nel momento in cui la dottrina e la giurisprudenza hanno escluso
l’intangibilità delle situazioni giuridiche soggettive favorevoli nate dall’atto di
primo grado, si è posto il problema di ricavare ulteriori regole di bilanciamento
che ne legittimassero l’esercizio nella valutazione di tutti gli interessi in gioco,
compresi anche gli interessi dei privati.
Al pari del principio di legalità e del buon andamento, infatti, la certezza dei
rapporti giuridici costituisce un principio fondante l’ordinamento, per cui le
esigenze di certezza e stabilità assunte nell’assetto degli interessi dato dal
provvedimento costituisce espressione del principio di proporzionalità in cui si
contemperano legalità ed efficacia dell’azione amministrativa.
La tutela delle situazioni favorevoli, diritti ed interessi legittimi, sorte dal
provvedimento di primo grado è stato risolto dalla legge 15/2005 in cui è
previsto che soltanto per la revoca si fa espresso riferimento ai principi
dell’ordinamento comunitario, tra cui rientra il principio della tutela del
legittimo affidamento nella certezza e stabilità dei rapporti giuridici e tra le
possibili interpretazioni favorevoli per il privato rientrano l’annullamento
d’ufficio e la convalida.
Invero, già l’art. 11, comma 4 della legge 241/1990 aveva riconosciuto in capo
all’amministrazione l’obbligo di indennizzare il privato per il pregiudizio
subito a causa del recesso unilaterale dagli accordi integrativi o sostitutivi di
provvedimento amministrativo, per cui il legislatore aveva inteso tutelare il
privato con equivalente pecuniario e non già nell’assetto di interessi
precedentemente cristallizzato nell’accordo.
e) provvedimenti di secondo grado e omessa comunicazione di avvio del relativo
procedimento – art. 21 octies, comma 2.
Ai provvedimenti di secondo grado, e in particolare all’annullamento, revoca,
convalida e sospensione, non si applica la disposizione di cui al comma 2
dell’art. 21 octies della legge 15/ 2005, in forza della quale l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento non produce l’annullabilità del
provvedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che l’apporto del
privato sarebbe comunque ininfluente, in quanto il contenuto dispositivo del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
La partecipazione nei procedimenti di secondo grado, infatti, rispetto alla
quale la comunicazione di avvio del procedimento risulta strumentale, può
rilevarsi in una fase di comparazione tra gli interessi in gioco, consentendo ai
privati di manifestare i loro interessi e all’amministrazione di ponderare tutti gli
interessi coinvolti nel procedimento stesso.
Di conseguenza, la giurisprudenza ha ritenuto, subito dopo l’entrata in vigore
della legge 241/1990, legittimo limitare l’operatività della norma che prevede la
comunicazione dell’avvio del procedimenti di cui all’art.7 in quanto ha richiesto
per la sua legittimità la preventiva comunicazione dell’avvio del relativo
procedimento sia in materia di revoca che per l’annullamento d’ufficio.
Quanto detto trova conferma nella legge 15/2005, per cui, nonostante l’obbligo
dell’amministrazione di considerare gli interessi dei destinatari del
provvedimento e dei contro interessati, è stato espressamente previsto per
l’annullamento d’ufficio, ex art. 21 nonies, che tale obbligo valga anche per la
revoca, in quanto gli effetti dell’atto favorevole per il privato vengono meno sulla
base di un giudizio di adeguatezza del contenuto dell’atto alla soddisfazione
dell’interesse pubblico perseguito a prescindere dalla sussistenza di un vizio di
99
legittimità da cui la previsione dell’indennizzo nella revoca di cui all’art. 21
quinquies, quale conseguenza dell’obbligo per l’amministrazione di comunicare
l’avvio del procedimento.
f) procedimento di riesame e istanza dell’interessato
Nel considerare l’obbligo di avviare un procedimento di riesame da
parte dell’amministrazione, il privato richiede l’annullamento o la revoca del
provvedimento a lui pregiudizievole.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, maggioritario anche in dottrina, va
escluso l’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di revoca o di
annullamento di un provvedimento sfavorevole non impugnato e divenuto
inoppugnabile per scadenza dei termini, da cui si esclude la formazione del
silenzio rifiuto sull’istanza medesima.
Ove si ammettesse tale obbligo, invece, il privato potrebbe sollecitare, mediante
proposizione di nuova istanza, il relativo esercizio di riesame, che resta un
potere altamente discrezionale da parte dell’amministrazione in quanto dovere
morale.
Invero, il rifiuto dell’amministrazione di avviare un procedimento di
riesame su richiesta del privato viene ricostruito come atto meramente
confermativo di un precedente provvedimento, non impugnabile
autonomamente.
L’inoppugnabilità, peraltro, comporta la preclusione per l’interessato di esperire
rimedi amministrativi e giurisdizionali avverso il provvedimento, una volta
scaduti i rispettivi termini per la loro proposizione, ma non l’intangibilità del
provvedimento stesso, in quanto permangono le esigenze di tutela
dell’interessato.
Il principio di inoppugnabilità, pertanto, può cedere al principio di efficacia,
quale costante adeguatezza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico ma
ciò non comporta una diminuzione della tutela dell’interesse pubblico ma
semplice estensione delle garanzie delle quali gode il privato interessato.
2. I provvedimenti ad esito eliminatorio. L’annullamento d’ufficio.
Tra i provvedimenti ad esito eliminatorio si collocano l’annullamento
d’ufficio e la revoca, in quanto il primo comporta l’eliminazione del
provvedimento illegittimo ed in contrasto con l’interesse pubblico, la
seconda la cessazione degli effetti del provvedimento che, pur essendo
legittimo, non è più idoneo alla cura dell’interesse pubblico.
A tale categoria è stata ricondotto anche la sospensione, con la quale viene
sospesa in via cautelare l’efficacia di un provvedimento amministrativo ovvero il
recesso dagli accordi, in quanto atto che incide su un precedente accordo.
In riferimento a tali atti, annullamento d’ufficio e revoca, si tratti di istituti
studiati in relazione l’uno all’altro, per cui soltanto tra la fine del XIX e l’inizio
del XX secolo questi incominciarono ad assumere autonoma conformazione.
Invero, la recente legge 15/2005 ha attenuato la relativa distinzione
disciplinando in generale l’annullamento d’ufficio di cui all’art. 21 nonies con
accentuazione del carattere discrezionale laddove la revoca è stata rafforzata
nella sua funzione di cura dell’interesse pubblico.
L’annullamento d’ufficio, infatti, come già sostenuto da dottrina è
giurisprudenza, postula oltre alla illegittimità anche l’inopportunità
dell’atto, ovvero che il suo contenuto non sia più idoneo alla cura in concreto
dell’interesse pubblico.
100
Pertanto, l’illegittimità dell’atto non è da sola sufficiente a giustificare
l’annullamento d’ufficio, diversamente da quanto avviene per l’annullamento
giurisdizionale o su ricorso amministrativo, ma occorre fare riferimento
all’interesse pubblico, concreto ed attuale, in quanto l’atto illegittimo può
essere annullato soltanto quando l’interesse pubblico attuale è l’interesse
specifico considerato al momento dell’eliminazione del provvedimento
illegittimo rispetto al quale va valutato il precedente assetto di interessi.
Il principio, accolto dall’art. 20 della legge 241/1990 con riferimento
all’annullamento del silenzio – assenso, ancora il relativo potere all’esistenza di
ragioni di pubblico interesse ed è stato codificato dall’art. 21 nonies per cui l’atto
illegittimo può essere annullato sussistendone le ragioni di interesse pubblico.
L’interesse pubblico deve essere attuale, così come ribadito dalla
giurisprudenza, in quanto esso deve essere diverso rispetto a quello del mero
ripristino della legalità violata sotteso al provvedimento di primo grado.
Da qui la natura di atto discrezionale, per cui l’amministrazione conferisce un
nuovo assetto di rapporti giuridici suscettibile di continui cambiamenti
nell’ambito del riesercizio del potere rispetto all’atto con conseguente
inserimento nell’area dell’amministrazione attiva.
L’interesse pubblico all’annullamento va bilanciato con altri interessi pubblici e
privati, coinvolti nella scelta amministrativa.
Il potere di annullamento è stato configurato dall’art. 21 nonies della legge 15/
2005 come potere altamente discrezionale in cui si considerano gli
interessi pubblici secondari e gli interessi dei destinatari alla conservazione,
ovvero all’annullamento dell’atto sul quale hanno maturato un legittimo
affidamento. Ecco perché il provvedimento di annullamento deve essere sorretto
da un’ampia e articolata motivazione.
Il legislatore ha consacrato la natura discrezionale dell’annullamento e la
Corte costituzionale (sentenza 75 del 2000), ed ha previsto due fattispecie di
autoannullamento, una di tipo discrezionale finalizzata alla cura dell’interesse
pubblico e l’altra di tipo vincolata finalizzata al ripristino della legalità.
Tale orientamento trova conferma nell’orientamento che considera
l’annullamento del provvedimento per violazione di norme comunitarie, in
funzione del ripristino della legalità violata, per cui l’Italia, con l’adesione ai
Trattati comunitari, si è obbligata al rispetto del diritto comunitario da cui il
potere dell’amministrazione di valutare aspetti diversi dall’esigenza del
ripristino della legalità violata.
Dal combinato disposta dell’art. 21 nonies con l’art. 21 octies emerge che
l’illegittimità è esclusa per i c.d. vizi di merito e si estende a tutti i vizi di
legittimità, compreso l’eccesso di potere.
In particolare, il comma 2 dell’art. 21 octies ha portato all’eliminazione dal
panorama giuridico dei vizi formali e procedimentali con l’introduzione, invece,
di tecniche diretta a porre in luce il vizio denunciato nel dispositivo in ambito di
giudizio di legittimità dell’atto coinvolgendo il giudice sulla correttezza
sostanziale dell’atto stesso. Pertanto, l’atto pur essendo annullabile rimane
illegittimo e, pertanto, annullabile dalla stessa amministrazione in sede di
annullamento d’ufficio.
Quanto all’oggetto, qualunque tipo di provvedimento può essere
annullato, indipendentemente dalla sua efficacia, tranne che non si sia
consumato il potere nel cui esercizio lo stesso è stato emanato (atti
consultivi, di controllo, decisioni su ricorsi amministrativi, ecc)..
101
Il potere di annullamento non è soggetto a prescrizione, ma deve essere
esercitato entro termine ragionevole, salvo eccezioni previste dalla novella del
2005 esercitabili in ogni tempo.
La valutazione di ragionevolezza deve essere considerata caso per caso e
soprattutto con riferimento all’attualità dell’interesse pubblico alla caducazione
del provvedimento.
La decorrenza dei termini dell’annullamento hanno efficacia retroattiva, salvo
che tali effetti non siano stati completamente concretizzati prima della
caducazione dell’atto viziato.
Invero, l’art. 21 nonies non fa riferimento all’effetto retroattivo, per cui la
dottrina ha ritenuto che sussistano ragioni tali da escludere la decorrenza
temporale degli effetti di annullamento soltanto per il futuro con
eventuale rimessione alla discrezionalità amministrativa della possibilità di
limitare gli effetti retroattivi del provvedimento di annullamento a garanzia di
un più equilibrato rapporto tra istanze di tutela della legalità e dell’interesse
pubblico ed esigenze di tutela dell’affidamento del privato.
Secondo l’art. 21 nonies, la competenza spetta allo stesso organo che ha
emanato l’atto invalido, c.d. auto annullamento, ovvero ad altro organo
espressamente indicato dalla legge.
Pertanto, si esclude che in assenza di espressa previsione di legge detto potere
possa essere esercitato dall’organo gerarchicamente superiore a quello che ha
emanato l’atto o appartenente a differente ente territoriale. Ad esempio, il
permesso edilizio può essere annullato dalla competente autorità regionale entro
dieci anni dalla sua emanazione in presenza di espressa disposizione di legge, ex
art. 39 d.lgs. 380/ 2001.
Nonostante la riforma costituzionale del 2001 abbia notevolmente valorizzato le
autonomie locali, la dottrina è orientata a conservare il potere governativo di
annullamento degli atti illegittimi degli enti locali di cui all’art. 138 del d.lgs.
267/2000, in quanto potere previsto a tutela dell’unità dell’ordinamento.
Invero, si tratta di un potere discrezionale esercitabile in ogni tempo anche in
pendenza di ricorso giurisdizionale contro l’atto medesimo, purché ricorrano
gravi motivi di pubblico interesse e deve essere preceduto da una comunicazione
all’ente locale dell’avvio del procedimento.
La legge 400/1988 prevede altresì che il Governo è legittimato all’esercizio del
potere di annullamento degli atti illegittimi di qualunque amministrazione,
salvo gli atti delle regioni e delle province autonome. Tale potere deve svolgersi
secondo le forme e le garanzie del procedimento che ha portato
all’emanazione dell’atto annullando, e la sua natura discrezionale necessita la
presenza di un’adeguata motivazione sia sotto il profilo di legittimità che
può inficiare l’atto, che con riferimento alle ragioni di pubblico interesse che ne
giustificano la rimozione.
L’annullamento d’ufficio, dunque, a differenza della revoca, non dà luogo ad
indennizzo a favore del privato, salvo che tale annullamento sia disposto nei
confronti di provvedimenti illegittimi incidenti su rapporti convenzionali o
contrattuali con privati, di cui all’art. 1, comma 136 legge finanziaria 2005.
2.1. Segue: la revoca
Attraverso la revoca, l’autorità amministrativa competente, con decisione
unilaterale, elimina soltanto per il futuro – efficacia ex nunc – un
provvedimento i cui effetti sono considerati inopportuni, perché non più
102
adeguati alla cura dell’interesse pubblico che precedentemente mirava a
soddisfare.45
La revoca, quindi, prescinde dal vizio di legittimità dell’atto e può essere
disposta allorché il rapporto nato da quell’atto non è più opportuna da cui la
funzionalizzazione del potere amministrativo al perseguimento del pubblico
interesse.
La revoca garantisce l’adeguatezza costante della scelta
amministrativa con l’interesse pubblico in concreto perseguito
attraverso l’eliminazione di un rapporto inopportuno, per cui essa costituisce
espressione del principio di efficacia di cui all’art. 1 della legge 241/1990.
La revoca, pertanto, si colloca nell’ambito dell’amministrazione attiva, in
quanto atto sanzionatorio, di decadenza, rimozione il cui presupposto sta nel
venir meno dei requisiti cui la legge subordina la continuazione del rapporto con
obbligo da parte dell’amministrazione di indennizzare il pregiudizio subito dal
privato.
La revoca è disposta dall’organo che ha emanato l’atto o da altro
indicato dalla legge e, come per l’annullamento d’ufficio, è sempre possibile
considerare la legge in senso ampio tale da includervi anche le fonti normative
di secondo grado.
La revoca può essere legittimamente disposta oltre che con atto amministrativo,
anche con legge da cui la legge provvedimento n. 40 del 2007 con la quale sono
state revocate alcune concessioni rilasciate dall’Ente ferrovie dello Stato alla
TAV Spa per realizzare la linea ad alta velocità.
Il potere di revoca è ammesso in tre ipotesi:
a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) per mutamento della situazione di fatto che rende incompatibile l’assetto
originario degli interessi considerati;
c) per una diversa valutazione delle ragioni di pubblico interesse in base al quale
l’amministrazione ha adottato il provvedimento.
45
Articolo 21-quinquies.
(Revoca del provvedimento)
1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o
di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia
durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla
legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la
revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo
di provvedere al loro indennizzo. (1)
1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti
negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno
emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della
contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso
dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse
pubblico. (2)
1-ter. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti
negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno
emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della
contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso
dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse
pubblico. (3)
Comma così modificato dal Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Comma inserito dalla Legge 2 aprile 2007, n. 40.
Comma aggiunto dal Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112.)
103
Tali ipotesi sono ricondotte dalla dottrina alla revoca per sopravvenienza,
fondata su situazione di fatto che la rende incompatibile con l’assetto di
interessi definito nel provvedimento; e revoca c.d. ius poenitendi, quale
espressione di una diversa valutazione degli interessi in base ai quali
l’amministrazione aveva adottato il provvedimento.
In altri termini, la revoca del primo tipo sarebbe comprensiva della revoca per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse, laddove la revoca del secondo tipo si
fonda su un ripensamento dell’amministrazione di cui la stessa ne renderà conto
in sede di motivazione e con liquidazione dell’indennizzo.
La revoca, ex art. 21 quinquies, può avere ad oggetto soltanto provvedimenti ad
efficacia durevole per cui sono irrevocabili gli atti i cui effetti si sono realizzati ed
esauriti in quanto l’amministrazione non ha più la possibilità di provvedervi.
Sotto il profilo temporale, il legislatore del 2005 conferma il consolidato
orientamento della giurisprudenza che considera il potere di revoca
esercitabile in ogni tempo con il solo limite dell’attualità del pubblico
interesse sotteso all’esercizio di tale potere.
L’art. 21 quinquies riconosce che la revoca determina la inidoneità del
provvedimento revocato a produrre effetti ulteriori, operando la revoca effetti ex
nunc.
Quanto alle situazioni giuridiche soggettive favorevoli al privato, è
previsto l’indennizzo a tutela degli effetti pregiudizievoli conseguenti alla revoca
del provvedimento in funzione compensativa del pregiudizio economico subito
dal destinatario dell’atto di revoca. La giurisdizione, in tale ambito, è assegnata
al g.a. in funzione di giudice unico nell’ambito della giurisdizione esclusiva sulle
controversie relative all’indennizzo.
In riferimento alla misura dell’indennizzo, si ritiene che esso vada commisurato
alla perdita subita, c.d. danno emergente, con esclusione del mancato guadagno,
c.d. lucro cessante, al fine di evitare che vi sia coincidenza tra indennizzo,
presupposto nella revoca legittima, e risarcimento in caso di revoca illegittima.
A riguardo, la legge 40 del 2007 di conversione del c.d. decreto Bersani ha
aggiunto all’art. 21 quinques il comma 1-bis sulla disciplina della quantificazione
dell’indennizzo dei pregiudizi subiti dai privati in caso di revoca di
provvedimento amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incidente su
rapporti negoziali. Pertanto, si è affermato, anche nel caso della revoca delle
concessioni della TAV Spa, che l’indennizzo deve essere parametrato al solo
danno emergente con esclusione del lucro cessante, ossia senza collegamenti al
provvedimento revocato, in quanto gli eventuali danni collegati a tale atto
andranno risarciti e non già indennizzati.
Di fatto, il g.a. esclude la possibilità di cumulo di domande di
indennizzo e di risarcimento del danno, in quanto con la prima si
presuppone la legittimità della revoca, mentre con la seconda se ne presuppone
la rispettiva illegittimità procedimentale.
3. I provvedimenti ad esito conservativo: proroga ed atti ad effetto sanante
In tale categoria rientrano gli atti che mirano al mantenimento di un
precedente atto o eliminando il relativo vizio che ne mina efficacia ex
tunc e senza intaccarne il contenuto ovvero accertandone l’efficacia.
Tali provvedimenti si fondano sul principio di conservazione dei valori
giuridici dell’ordinamento, che è un’esplicazione del principio di economicità,
proiezione, a sua volta, del principio costituzionale del buon andamento.
104
Il principio di economicità, positivizzato dalla legge sul procedimento per cui
l’amministrazione prima di eliminare un atto illegittimo o inopportuno deve
valutare la possibilità di mantenerlo in vita secondo la ponderazione degli
interessi in gioco. In tale ambito rientrano la convalida, la rettifica, la
ratifica, la conferma, la conversione e la riforma e la proroga.
Quanto al suo fondamento giuridico, non vi è unanimità di opinioni in
dottrina, un quanto soprattutto la proroga è ritenuta espressione di un potere
generale mentre altra dottrina l’ammette nei soli casi previsti dalla legge.
La giurisprudenza, invece, configura la proroga come avvenimento espressione
dello stesso potere nel cui esercizio è stato emanato il provvedimento
prorogando, da cui la vigenza e l’efficacia del primo atto al quale essa si salda a
pena di illegittimità secondo il g.a. e a pena di inesistenza secondo il g.o.
Alla scadenza del termine, se non è consentita proroga, è comunque ammessa la
rinnovazione del provvedimento, che costituisce una tecnica volta alla
prosecuzione dell’originario rapporto che, a differenza della proroga, non
richiede rinnovata ponderazione degli interessi coinvolti.
I c.d. atti ad effetto sanante, non rientrano nella competenza di autorità diversa
da quella che ha emanato la decisione finale, per cui la conseguente sanatoria
del vizio ha funzione meramente servente rispetto al provvedimento considerato
dall’amministrazione agente.
3.1. Segue. La convalida e la rettifica
La convalida, come l’annullamento d’ufficio, ha ad oggetto un
provvedimento illegittimo ma, mentre l’annullamento elimina l’atto, la
convalida rimuove il vizio e consolida gli effetti dell’atto rendendolo
inattaccabile per il futuro.
Tale volontà di sanare l’atto illegittimo deve risultare da dichiarazione espressa
della competente autorità.
L’art. 21 nonies, in particolare, dopo aver disciplinato al comma 1
l’annullamento d’ufficio, fa salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse e ne circoscrive
l’esercizio entro un termine ragionevole.
Quanto al primo presupposto si considera che l’interesse pubblico può rinvenirsi
nel fatto stesso che con la convalida si evitano effetti negativi della illegittimità
dell’atto; mentre con il secondo presupposto si riguarda all’incertezza dei fattori
che vanno tenuti presenti nella valutazione della ragionevolezza.
Invero, la norma conferma che la convalida può avere ad oggetto soltanto
provvedimenti annullabili, affetti cioè da vizio di legittimità con esclusione
di provvedimenti nulli o inopportuni.
La competenza all’eliminazione del vizio attraverso la convalida spetta
all’organo che ha emanato l’atto viziato e l’interesse alla convalida dell’atto deve
risultare prevalente su tutti gli interessi coinvolti nell’esercizio del potere,
trattandosi di provvedimento discrezionale.
Quanto ai vizi oggetto di convalida,vi rientrano il vizio di incompetenza
relativa, i vizi di tipo formale, come l’insufficienza del quorum,
l’adozione di un sistema di votazione non previsto dalla legge.
Con l’emanazione dell’art. 21 octies, comma 2 non si ritengono più
convalidabili, bensì annullabili, i provvedimenti vincolati affetti da
vizi formali ininfluenti sul loro contenuto, così come non risultano
convalidabili i provvedimenti viziati da eccesso di potere o per mancanza di
presupposti cui, ad esempio, quello dell’urgenza.
105
Diversamente sono convalidabili gli atti affetti da vizi procedimentali, quali
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento o del preavviso di rigetto del
provvedimento ad istanza di parte.
Quanto agli aspetti temporali, la convalida ha efficacia retroattiva, per
cui il vizio viene sanato ex tunc fin dal momento dell’emanazione dell’atto
stesso.
La convalida, in ogni caso, deve intervenire in un termine ragionevole, per
cui va considerato che il termine per impugnare non sia scaduto ovvero che il
provvedimento non sia più impugnabile per scadenza dei termini fissati per la
sua impugnativa con conseguente consolidazione del pregiudizio relativo alla
situazione giuridica soggettiva, rispetto alla quale si ritiene sempre ammissibile
la convalida.
Dalla convalida si distingue la rettifica che ha ad oggetto provvedimenti non
viziati, ma perfettamente validi seppure irregolari.
Con la rettifica viene eliminata, con efficacia retroattiva, l’errore
materiale non invalidante, come nel caso di erronea indicazione del
domicilio del destinatario dell’atto ovvero di errata ubicazione del bene.
La legge parla di rettifica soltanto per gli atti degli interessati nell’ambito del
procedimento amministrativi, inclusa la possibilità di presentare domanda di
rilascio di provvedimento di rettifica di dichiarazioni o istanze incomplete o
erronee, ex art. 6, lett. b).
3.2. La ratifica
La ratifica non va confusa con la convalida del vizio di incompetenza, in quanto
istituti diretti alla conservazione dell’atto. Tuttavia, mentre il primo sana l’atto
eliminando un vizio di incompetenza, con il secondo l’amministrazione fa
proprio l’atto adottato da un organo incompetente al quale la legge ne riconosce
la legittimazione straordinaria data la circostanza urgente nella sua adozione.
La ratifica ha tradizionalmente operato nell’ambito degli enti locali per le
delibere delle giunte comunali e provinciali adottate in via d’urgenza con i poteri
dei rispettivi consigli.
L’attuale ordinamento ha limitato la ratifica delle deliberazioni assunte in via
d’urgenza dall’organo esecutivo degli enti locali limitandone l’applicazione alle
sole deliberazioni attinenti alle variazioni di bilancio, mentre per gli atti del
sindaco è disposta la sua adesione ad un accordo di programma che deve essere
ratificata dal consiglio comunale nel caso di variazioni degli strumenti
urbanistici.
Nel primo caso il termine è di sessanta giorni, nel secondo è di trenta giorni, a
pena di decadenza.
3.3. Segue. Conferma e atto meramente confermativo.
Un orientamento giurisprudenziale distingue tra conferma rispetto
all’atto meramente confermativo, in quanto, nel silenzio della legge, si
ritiene che l’autorità, a seguito di istanza di riesame di un precedente
provvedimento negativo ritenuto inoppugnabile, possa ribadire la
precedente decisione confermandone la validità. Diversamente, si è in
presenza di atto meramente confermativo in quanto la medesima conferma della
precedente statuizione avviene senza nuova valutazione degli elementi di fatto e
di diritto già considerati.
Invero, la c.d. conferma propria presuppone l’apertura formale di un
nuovo procedimento comprensivo di fase istruttoria e l’emanazione di un
106
provvedimento di secondo grado, la conferma, con il quale si afferma la
legittimità o l’inopportunità del precedente provvedimento.
La conferma ha natura di provvedimento discrezionale che sostituisce, con
efficacia ex nunc, il precedente provvedimento ed è autonomamente
impugnabile per qualsiasi vizio proprio sia in sede giurisdizionale che
amministrativo.
L’atto meramente confermativo, invece, non è autonomamente impugnabile in
quanto espressione di una scelta dell’amministrazione di non riesaminare il
proprio precedente provvedimento.
Tale distinzione si spiega per esigenze processuali di evitare, mediante
l’impugnazione di un atto meramente confermativo, l’elusione della norma sul
regime di impugnazione degli atti amministrativi nel termine di decadenza.
Invero, tale interpretazione non è apparsa convincente soprattutto perché mina
la tutela del privato con il sottrarre le garanzie di cui all’art. 113 Cost. (Art. 113.
Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può
essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono
annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti
dalla legge stessa.) per gli atti meramente confermativi, dal momento che il
cittadino risulta privato di dimostrare in giudizio il mutamento della situazione
sottesa all’originario provvedimento.
Di qui la necessità di rivedere la nozione di atto meramente confermativo da cui
far dipendere l’impugnabilità dell’atto di mera scelta dell’amministrazione, per
cui in presenza di un diverso apprezzamento da parte dell’amministrazione sulle
situazioni di fatto o di diritto sopravvenuto si aprirebbe in capo alla stessa
l’obbligo di avviare il procedimento di riesame della precedente decisione
assunta.
3.4. Segue. La conversione.
Diversa dalla sanatoria è la conversione, che mira a sanare un vizio dell’atto
mediante conversione, appunto, dei suoi effetti.
L’istituto, positivizzato dall’art. 1424 c.c., prevede che un negozio nullo possa
essere convertito in altro valido in presenza di tutti i suoi elementi, per cui
sussistendo tutti i requisiti di sostanza e di forma di un altro atto
l’amministrazione può convertire l’atto in quanto ne ricorra l’omogeneità altresì
con gli interessi pubblici in concreto perseguiti.
Parte della dottrina ritiene che i casi di nullità o inesistenza dell’atto vadano
ricavati dalla suddetta disciplina privatistica, per cui il presupposto della
conversione è la nullità del contratto.
Secondo altra dottrina, invece, la conversione si spiega con riferimento ai soli
casi di annullabilità.
La competenza spetta all’organo che ha emanato l’atto, ma si esclude che
vi sia completa coincidenza tra l’organo che ha emanato l’atto e quello che
procede alla conversione in caso di reinterpretazione del suo contenuto.
Si esclude altresì che la conversione possa avvenire in sede giurisdizionale, in
quanto si finirebbe per ammettere interferenza del giudice nella scelta
discrezionale dell’amministrazione.
La conversione ha efficacia ex tunc.
3.5. Segue. La riforma
107
La riforma rientra tra i provvedimento di secondo grado ad effetti conservativi.
Il procedimento di riesame, infatti, può concludersi oltre che con la conferma o
la rimozione degli effetti del precedente provvedimento, con la loro riforma o
modifica.
Può avere ad oggetto atti ad efficacia continuata di tipo programmatico
(es varianti ad un piano regolatore) o puntuale (un permesso a costruire), e si
esclude possa riguardare atti con contenuto stabilito dalla legge (es. passaporto,
patente di guida).
La riforma ha efficacia ex nunc, in quanto si colloca nell’ambito di procedimento
di annullamento e di revoca dando luogo ad annullamento ovvero revoca
parziali.
La dottrina distingue anche tra riforma sostitutiva e aggiuntiva, a seconda
che con essa si sostituisca una parte dell’atto ovvero ne venga aggiunta una
parte nuova.
Il potere di riforma rappresenta espressione tipica della potestà d’ordine, in
quanto nucleo centrale della gerarchia in quanto si richiede all’ufficio superiore
l’annullamento o la riforma di un atto adottato da un ufficio subordinato.
L’art. 14 del d.lgs. 165/ 2001 ha escluso espressamente anche il potere del
ministro di riformare gli atti dei dirigenti.
Capitolo 5
Conferenza dei servizi: natura giuridica
1. La conferenza dei servizi: genesi della figura.
La legge sul procedimento amministrativo include tra gli strumenti di semplificazione
l’istituto della conferenza dei servizi, che ha assunto rilievo cresce negli interventi di
riforma, l’ultimo dei quali ad opera del DL 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, che
ne hanno sottolineato la centralità sistematica nello svolgimento dell’attività
amministrativa e che la disciplinano in ben 5 articoli.
L’espressione prescelta dal legislatore, “conferenza di servizi”, fa riferimento alla
valutazione contestuale di più interessi pubblici coinvolti nella soluzione del
problema amministrativo attraverso una riunione di persone qualificate, ossia competenti
a trattare e decidere il problema stesso, mentre il termine “servizi” si riferisce alle strutture
organizzative di diversa dimensione e di diverso livello costituita da semplici uffici ovvero
articolazioni interne di amministrazioni considerate nella loro unitaria complessità dal
momento che la disciplina legislativa considera la conferenza di servizi sia tra uffici della
stessa amministrazione sia tra organi di amministrazioni diverse.
Invero, l’art. 14 della fa riferimento soltanto a tali due tipologie di conferenze, ma
sussistono almeno tre tipi di conferenza di servizi:
a) la prima concerne l’esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti nel
medesimo procedimento;
b) la seconda concerne l’acquisizione di intese, concerti, nulla osta o assensi
comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche non altrimenti ottenuti
dall’amministrazione procedente;
c) la terza concerne l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti
amministrativi connessi riguardanti medesimi attività o risultati.
Ulteriore ipotesi di conferenza di servizi è disciplinata nell’art. 14 bis, quale conferenza
“preliminare” e secondo altri autori vi rientra altresì la conferenza, convocata
dall’amministrazione, su richiesta dell’interessato.
Risalendo alle origini della conferenza dei servizi si può affermare che dapprima l’istituto
si costituì nella prassi amministrativa in modo spontaneo per ovviare alle inefficienze
108
dell’attività amministrativa soprattutto in ambito di procedimenti complessi nei quali era
necessario ponderare una massa rilevante di interessi pubblici.
Di qui si aprì un intenso dibattito intorno al problema della natura giuridica della
conferenza dei servizi tanto che da un lato la dottrina lo riconosceva come strumento
avente rilevanza sotto il profilo strutturale dell’organizzazione amministrativa, in quanto
riunione di organi che collaborano tra loro e dall’altro si venne a riconoscere la conferenza
tra gli istituti di semplificazione, in quanto simbolo di modificazione dei paradigmi
consueti del diritto amministrativo.
Fin dalla prima metà degli anni Ottanta, infatti, la dottrina si era limitata a prendere atto
dell’esistenza di tale istituto facendo riferimento a strumenti che si definivano come
riunione di organi, chiamati a svolgere attività e a porre in essere atti che restano
formalmente e sostanzialmente distinti ed imputabili agli organi medesimi.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, invece, muta l’idea dell’applicazione della
conferenza di servizi, in quanto si rende ragione della diversa prospettiva di ricostruzione
dell’istituto al punto tale che la conferenza dei servizi viene considerata uno strumento
sostitutivo del procedimento amministrativo e di privilegiò la sua qualificazione come
istituto a rilevanza organizzativa.
Di conseguenza, l’atto adottato in sede di conferenza dei servizi era imputabile alla
conferenza medesima, intesa come organo unitario ed autonomo, cui andava riconosciuta
legittimazione processuale passiva autonoma.
Tuttavia, con l’introduzione della disciplina normativa della conferenza dei servizi di cui
alla legge 241/1990, la conferenza ha assunto carattere di istituto generale dell’attività
amministrativa, di cui il legislatore tenta di porre in rilievo i caratteri essenziali della
suddetta figura.
La disciplina originaria della legge 241/1990, recava una disciplina scarna ed
incompleta della materia, concentrata su un solo articolo in cui era disegnato un modello
puro di conferenza dei servizi, configurata come modulo di collaborazione volontaria tra
amministrazioni: essa era facoltativa, e le sue decisioni potevano essere concordate solo
all’unanimità dai partecipanti. Era perciò prevista la facoltà delle amministrazioni invitate
a partecipare alla conferenza, di dissentire dalla proposta di decisione
dell’amministrazione procedente, con un vero e proprio potere di veto in capo a ciascuna
delle amministrazioni partecipanti.
riassumendo, la disciplina originaria della legge 241/1990 recava una disciplina scarsa ed
incompleta incentrata nel solo articolo 14 della legge, per cui si disegnava un modello
“puro” di conferenza di servizi, quale modulo di collaborazione volontaria tra
amministrazioni le cui decisioni potevano essere concordate soltanto all’unanimità dei
partecipanti.
Successivamente, il legislatore inizia a prendere in considerazione la facoltà delle
amministrazioni di dissentire dalla proposta di decisione dell’amministrazione procedente
tale da riconoscere un vero e proprio potere di veto in capo a ciascuna delle
amministrazioni partecipanti, per cui si apportano modifiche al testo originario della legge
ed il modello dell’unanimità per l’assunzione della decisione risulta un’ipotesi soltanto
eventuale e le disposizioni normative a riguardo si sono moltiplicate in modo esponenziale.
2. L’evoluzione della disciplina giuridica
Tali circostanze hanno ispirato le riforme del 1997 e del 2000, poi perfezionate nel 2005,
2009 e 2010.
La legge 127/1997, all’art. 17, ha rappresentato il primo vero tentativo di riforma organica
della disciplina generale della conferenza di servizi, in quanto ha eliminato il criterio
dell’unanimità ed ha disegnato i meccanismi di superamento del dissenso facendo leva sui
poteri sostitutivi spettanti sia alle autorità di vertice dell’apparato organizzativo statale, sia
109
a quello regionale e locale nonché ha previsto la conferenza destinata a raccogliere
procedimenti reciprocamente connessi riguardanti medesimi attività o risultati,
Tuttavia, la conferenza restava uno strumento facoltativo ed i poteri sostitutivi in caso di
dissenso non risultavano regolati con precisione nonostante l’indicazione legislativa
intervenuta.
Il nuovo assetto dell’istituto, pertanto, venne delineato dalla novella 340/2000 con la
quale vennero razionalmente ordinati i contenuti delle varie disposizioni normative e
regolati con maggiore precisione i presupposti ed i limiti dei poteri sostitutivi attuabili in
caso di dissenso, per cui la conferenza di servizi diveniva un modo ordinario di
amministrare, una forma obbligata di esercizio delle pubbliche funzioni come applicato
nei settori dei lavori pubblici, dei beni culturali ed ambientali, nell’edilizia, nelle
espropriazioni.
Gli interventi riformatori trovano la medesima ratio nel tentativo di coniugare l’attenzione
della valutazione comparativa degli interessi, con l’esigenza di imprimere efficienza
all’azione amministrativa, , evitando il potere di veto al fine di favorire il raggiungimento
di un esito positivo della conferenza di servizi, e di salvaguardare il rispetto
dell’attenta e legittima valutazione comparativa degli interessi pubblici, alla
quale la conferenza risultava essere strumentale.
Le amministrazioni pubbliche, infatti, si trovano a fronteggiare realtà sociali ed
istituzionali sempre più complesse, per cui la conferenza di servizi consente
all’amministrazione di operare secondo la funzionalità del proprio sistema di riferimento.
In particolare, il superamento dei dissensi delineato nell’art. 14 quater, comma 2, riscritto
dalla legge 340/ 2000 con il criterio maggioritario, è venuto a statuire una regola generale
di adozione delle decisioni assunte in sede di conferenza tale da trasformare la medesima
in un organo collegiale.
La giurisprudenza, tuttavia, non ha accolto tale tesi organica, ma ha riaffermato i propri
convincimenti contrari alla configurazione della conferenza quale organo collegiale, tanto
che il legislatore del 2005 ha riconosciuto espressamente la natura di metodo di
procedimento alla conferenza di servizi.
3. Natura giuridica e funzione dell’istituto.
La soluzione al problema della individuazione della natura giuridica della conferenza di
servizi era la condizione necessaria per poter liberare in modo efficace le potenzialità
dell’istituto, per cui il problema della individuazione della natura giuridica dell’istituto si è
riflettuto nella scelta tra atto collegiale, accordo tra amministrazioni da cui il differente
regime giuridico dell’imputazione degli effetti della decisione assunta nonché sul regime di
autotutela della relativa determinazione conclusiva.
In primo luogo va ricordato che il legislatore, a partire dagli anni Novanta, ha indicato la
conferenza di servizi quale istituto “sostitutivo” di numerosi organi collegiali soppressi, per
cui l’atto assunto dalla conferenza è stato considerato quale atto unitario ed autonomo
rispetto alle amministrazioni ivi coinvolte.
In altri termini, la conferenza è intesa quale modulo procedimentale e non già collegiale, in
quanto l’organo collegiale ha bisogno di una predeterminazione dei suoi componenti,
laddove nella conferenza dei servizi non trova rilievo la natura collegiale né sul piano
organizzativo che sostanziale d’ufficio.
La conferenza, infatti, assume carattere procedimentale, in quanto funzionale alla
conclusione di un accordo tra amministrazioni in quanto si riunisce in un unico luogo
o sede di discussione uffici diversi o diverse amministrazioni, senza modificazione o
trasferimento delle relative competenze, ma si concordano valutazioni dialettiche comuni
su cui si fonda la decisione finale, quale conseguimento di un unico risultato.
Quest’ultima è assunta mediante una ponderazione equilibrata ed effettiva di poteri
discrezionali esercitati in sede di conferenza, per cui ciascuna amministrazione ivi
110
coinvolta terrà conto, oltre che del proprio, anche degli interessi pubblici in cura presso le
altre amministrazioni allo scopo di conseguire una decisione che soddisfi nel modo
migliore l’insieme degli interessi pubblici. In tale prospettiva la valutazione contestuale
operata in sede di conferenza determina un’operazione amministrativa, intesa quale
insieme di attività necessarie per conseguire un risultato giuridico unitario valutabile come
nuovo assetto di interessi pubblici imputabili alla cure delle amministrazioni ivi coinvolte.
La conferenza è uno strumento procedimentale ad uso operativo: una riunione,
in un solo luogo o sede di discussione, di uffici diversi o di diverse
amministrazioni, senza modificare o trasferire le competenze dei singoli partecipanti ad
una inesistente struttura collegiale. Essa consente valutazioni comuni che si fondano in
una deliberazione unitaria.
Sul piano funzionale, rappresenta un metodo di coordinamento dei poteri e di
raccordo delle competenze, che non sostituisce i procedimenti, ma li raccorda sul
piano
operativo,
per
migliorare
la
funzionalità
dell’attività
decisionale
dell’amministrazione pubblica.
Inoltre essa rappresenta una risposta ai problemi connessi al pluralismo istituzionale e
alla frammentazione delle competenze, sancendo il passaggio dalla tradizionale
decisione solitaria, al modello generale dell’esercizio congiunto e contestuale di tutti i
poteri necessari per il conseguimento di un unico risultato.
Infine la conferenza importa una significativa modifica alla tradizionale regola di
esercizio dei poteri discrezionali: quella della necessaria ponderazione degli
interessi secondari in ordine all’interesse primario, affidato alla cura
dell’amministrazione procedente.
4. Conferenze endoprocedimentali e conferenze operazionali
Nell’ambito delle diverse tipologie di conferenza la classificazione più esauriente è quella
tra conferenze di uffici e conferenze tra amministrazioni e sulla base della
conferenza posta nel singolo procedimento si distingue tra conferenza procedimentali
e conferenze operazionali.
Invero, la conferenza di servizi si rileva come collocata tra semplificazione e
partecipazione, per cui lo snellimento dell’azione amministrativa che ne consegue
consente agli uffici di attuare una maggiore accelerazione nell’iter procedimentale e
consentire ai privati una più efficace partecipazione di cui al Capo Terzo della stessa legge.
Invero, la partecipazione dei privati al procedimento deve aver luogo prima dello
svolgimento della conferenza, in quanto questa è aperta alla partecipazione dei soli soggetti
pubblici ed ha natura essenzialmente decisionale, quale luogo di comparazione degli
interessi pubblici.
Inoltre, la disciplina della conferenza dei servizi va raccordata con le previsioni di
partecipazione pubblica al procedimento, per cui la partecipazione dei privati al
procedimento va raccordata anche con la disciplina di cui al Capo Terzo della legge.
In altri termini:
A) la conferenza procedimentale, disciplinata dal comma 1, art. 14, si caratterizza per la sua
stessa modalità alternativa rispetto a quella ordinaria, nel procedere contestualmente
all’esame degli interessi coinvolti, in quanto in tale sede la vicenda decisoria della
valutazione degli interessi si distingue dalla valutazione spettante all’unica
amministrazione decidente, in quanto essa è la sola che nella conferenza procedimentale
può determinare il contenuto del provvedimento finale.
B) Le conferenze operazionali, invece, assolvono al fine di semplificazione del singolo
procedimento attraverso la razionalizzazione, efficacia ed efficienza dell’azione
amministrativa, in quanto coinvolge una pluralità di procedimenti ed interessi rimessi
alla cura della pluralità di centri di imputazione di pubblici interessi, ciascuno titolare di
autonomo potere decisionale.
111
Emerge, infatti, che la partecipazione delle amministrazioni pubbliche si spinge fino al
punto di determinare l’assetto degli interessi, per cui si realizza il fenomeno della
codecisione da cui l’art. 14, comma 2, della legge 241/1990.
Alla luce di tale disposizione si viene ad indicare un metodo del procedere che può essere
sostituita mediante il ricorso alla conferenza di servizi che debba essere utilizzata nella
durata di trenta giorni per la decisione in concreto congrua e ragionevole.
4.1. Conferenza di servizi e partecipazione dei privati.
L’istituto della conferenza di servizi, in passato era ritenuto dalla dottrina alternativo al
procedimento e pertanto tale da escludere la partecipazione di privati, in virtù di una
funzione semplificativa e acceleratoria incompatibile con gli appesantimenti della
partecipazione.
Successivamente però si è ritenuto che tra gli strumenti di semplificazione e gli istituti di
partecipazione vi è un rapporto di reciproco condizionamento e integrazione, e anche che
la funzione della conferenza è da ricercarsi piuttosto nella capacità di realizzare compiti
complessi attribuiti alle amministrazioni, caratterizzati dalla presenza di istituzioni e della
crescente pluralità di vari interessi pubblici e privati.
Pertanto la partecipazione del privato al procedimento non è esclusa, ma deve avere luogo
prima che, nella riunione conclusiva, la conferenza svolga la sua funzione essenziale,
rivolta a determinare l’assetto di interessi.
La presenza di privati ai lavori conferenzali, già prevista in precedenza sa alcune discipline
di settore, è ora espressamente prevista dalla 241/90 come riformata (es. art. 14 comma 5,
art. 14 quinqiues, art. 14 ter).
La possibilità di intervento dei privati o di organi non decisionali riconosciuta dalla legge,
non incide sulla natura decisoria della conferenza, stante la mancanza del diritto di voto:
la loro presenza è prevista per consentire alle amministrazioni competenti di adottare la
decisione, acquisendo in tempo reale elementi di natura tecnica non emersi in fase
istruttoria.
5. La c.d. conferenza sull’istanza.
L’art. 14, comma 4, della legge 241/1990 prevede che la conferenza indetta su
richiesta dell’interessato secondo una disciplina particolare che attiene a procedimenti
disciplinati dal comma 3 della medesima disposizione normativa.
Tale disposizione indica un’ulteriore modalità di indizione di conferenza di servizi, in
presenza di richiesta del soggetto interessato.
6. La conferenza di servizi preliminare.
La conferenza di servizi può essere indetta su istanze o progetti preliminari di cui all’art.
14 bis della legge 241/ 1990, al fine di evitare inutili aggravi di risorse e di attività che
richiedano ingenti investimenti economici offrendo agli interessati la possibilità di
consultare l’amministrazione prima di presentare un progetto definitivo e rischiare di
incorrere in un diniego formale.
Tale conferenza si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto uno schema preliminare
di decisione definitiva, per cui tutte le amministrazioni ivi coinvolte devono rispettare le
condizioni che consentono loro di ottenere l’assenso definitivo alla realizzazione
dell’intervento.
Uno degli aspetti più significativi della disciplina in esame è la previsione che impedisce
alle amministrazioni di modificare le proprie precedenti determinazioni in assenza di fatti
sopravvenuti alla conclusione della conferenza preliminare, in quanto i privati sono
tutelati nel rispettivo affidamento e nei limiti riconosciuti al potere amministrativo di
revisione sulle precedenti determinazioni illegittime.
112
Invero, la riforma del 2005 ha esteso la disciplina della conferenza preliminare ai progetti
di particolare complessità ed a quelli di insediamenti produttivi di beni e servizi di cui
all’art. 14 bis, comma 1.
Il ricorso alla conferenza preliminare, infine, non è più subordinato alla presentazione del
progetto preliminare, ma soltanto allo studio di fattibilità, per cui il ricorso ad essa diviene
meno oneroso per il privato sotto il profilo economico ed anche più agevole per
l’amministrazione.
Capitolo 2
La conferenza di servizi: funzionamento
1. La disciplina dei lavori della conferenza di servizi.
L’art. 14 ter della legge 241/ 1990 è dedicato alla disciplina dei lavori della conferenza dei
servizi, dal momento della indizione fino a quello di adozione della determinazione
conclusiva; l’art. 14 quater è dedicato invece alla disciplina degli effetti del dissenso
espresso nella conferenza di servizi.
L’art. 14 ter stabilisce che le amministrazioni convocate alla conferenza di servizi hanno il
dovere di parteciparvi in modo regolare, ossia a mezzo di soggetti, organi o delegati di
organi, legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione
rappresentata sulle decisioni di sua competenza.
La mancata partecipazione è rilevante ai fini della responsabilità dirigenziale o
disciplinare o amministrativa, nonché ai fini dell’attribuzione della retribuzione di
risultato, oltre che a quelli della responsabilità per danno da ritardo.
La riforma ha inserito all’art. 14 ter tutte le previsioni aventi ad oggetto lo svolgimento
della conferenza di servizi, dal momento della sua indizione fino a quello della costituzione
del provvedimento produttivo di effetti giuridici determinati nell’ambito della medesima
in correlazione a quanto disposto all’art. 14 quater.
In particolare, l’art. 14 quater, comma 1, attiene ai lavori della conferenza laddove siano
espressi motivati dissensi non qualificati, mentre dall’art. 14 ter, comma 6 bis, si ricava la
disciplina di superamento di tali dissensi qualificati, in quanto si rimette la decisione a sedi
diverse dalla conferenza quali la Conferenza Stato – Regioni, la Conferenza unificata e così
via.
L’art. 14 ter comma 2indica tempi, modalità di indizione e di convocazione della
conferenza con possibilità di concordare una data diversa per il suo svolgimento rispetto a
quella prefissata unilateralmente dall’amministrazione procedente, onde favorire la
partecipazione attiva di tutte le amministrazioni interessate.
L’art. 14 ter, inoltre, regola il rapporto tra la procedura di valutazione di impatto
ambientale (v.i.a.), la valutazione ambientale strategica (v.a.s.) e la disciplina del
funzionamento e durata della conferenza di servizi, per cui il termine di conclusione dei
lavori resta sospeso, per un periodo massimo di novanta giorni, nell’ipotesi in cui debba
essere acquisita al procedimento la V.I.A.
La riforma ha altresì eliminato le previgenti disposizioni che consentivano alle
amministrazioni convocate di manifestare il dissenso anche fuori dalla conferenza. Infatti,
l’art. 14 quater, comma 1, prevede che il dissenso deve essere manifestato nella conferenza
di servizi a pena di inammissibilità. Alle amministrazioni dissenzienti, in ogni caso, è
riconosciuto il potere di impugnare la determinazione motivata di conclusione dei lavori
della conferenza di servizi.
1.1. La conferenza di servizi telematica.
Ll’art. 14 ter, comma 1, della legge 241/90, prevede che la conferenza di servizi possa
svolgersi per via telematica: con riforma del 2009 (art. 9 comma 1 legge 69/09) è stata
113
espressamente introdotta la possibilità di avvalersi di strumenti telematici, già prevista dal
comma 2 dell’art. 14 ter come mezzo di convocazione delle amministrazioni.
Già prima la riforma del 2005 aveva introdotto l’art. 3 bis, che stabiliva che per conseguire
maggiore efficienza nelle loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della
telematica, nei rapporti interni, con altre amministrazioni e con privati.
Tali disposizioni si inseriscono nel generale processo di informatizzazione della pa, sulla
base del codice dell’amministrazione digitale.
2. soggetti legittimati a partecipare alla conferenza di servizi: i presupposti della
partecipazione regolare.
L’art. 14 ter, comma 6, prevede che ogni amministrazione convocata partecipa alla
conferenza di servizi attraverso un unico rappresentante legittimato, dall’organo
competente, ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione su tutte le
decisioni di competenza della stessa.
Tale disposizione, dunque, attiene al profilo del carattere generale dell’individuazione
degli organi competenti a rappresentare l’amministrazione in sede di conferenza di servizi
nonché sulla precisazione dei limiti di ammissibilità di tale partecipazione.
In passato, in caso di mancata partecipazione alla conferenza si riteneva sussistente
l’ipotesi di partecipazione irregolare, in quanto l’amministrazione era stata
regolarmente convocata seppure la partecipazione effettiva era data tramite rappresentanti
privi di competenza ad esprimere effettivamente la volontà dell’amministrazione
convocata.
Si riteneva, dunque, che le amministrazioni partecipassero alla conferenza per mezzo di
persone fisiche, titolari di uffici c.d. di imputazione, come tali competenti di vincolare
l’amministrazione in ordine alla decisione assunta in sede di conferenza dal
rappresentante seppure privo dei necessari poteri conferitigli da espresso provvedimento
formale.
La nuova formulazione dell’art. 14 ter, comma 6, invece, ha fatto esplicito riferimento alle
decisioni di competenza dell’amministrazione che impone di formalizzare la decisione
adottata in conferenza in un distinto e successivo provvedimento formale, costitutivo degli
effetti.
Da tali riflessioni emerge che il responsabile del procedimento diventa titolare in via
autonoma del proprio ruolo in virtù del quale la legge gli attribuisce la competenza di
impegnare l’amministrazione verso l’esterno ed in sede di conferenza le amministrazioni,
per mezzo di soggetti legittimati all’adozione della decisione, hanno una competenza
distinta da quella che è positivizzata dalla legge in capo al dirigente titolare della cura
dell’istruttoria e di tutta la fase decisoria in senso stretto.
Quanto ai limiti di ammissibilità della partecipazione dei soggetti muniti di apposita
delega, va considerato che le amministrazioni possono delegare organi ovvero altre
persone conferendo loro adeguati poteri.
L’art. 14 ter, comma 6, prevede che la partecipazione alla conferenza possa avvenire
mediante un unico rappresentante per tutte le decisioni di competenza
dell’amministrazione stessa al fine di costituire nella conferenza un “unico” soggetto che
sia munito di tutte le deleghe necessarie per l’esercizio della potestà decisionale.
3. Modalità alternative di acquisizione degli assensi e disciplina dell’assenza.
Ai sensi dell’art. 14 ter, comma 7, della legge 241/90, l’assenso dell’amministrazione si
considera acquisito in quanto il rappresentante non abbia espresso definitivamente la
volontà dell’amministrazione rappresentata.
Si tratta di una fattispecie di assenso delle amministrazioni che è considerato in via
concludente, in quanto recepito nel provvedimento costitutivo degli effetti giuridici.
114
Invero, la norma considera le sole amministrazioni convocate che nella conferenza siano
rimaste silenti, ma non si riferisce, invece, alle amministrazioni convocate e rimaste
assenti, per le quali la legge dedica l’art. 14 quater, comma 6 bis, che sancisce
l’imputazione anche a queste, dell’assetto degli interessi collegato alla determinazione
motivata di conclusione del procedimento.
La fattispecie dell’assenza, infatti, è ritenuta più grave, in quanto le amministrazioni
convocate in conferenza hanno violato in via assoluto il dovere di parteciparvi. Tale ipotesi
non va confusa con la fattispecie in cui l’amministrazione pretermessa, in quanto non
invitata dall’amministrazione procedente a prendere parte alla conferenza di servizi in
considerazione dell’interesse pubblico affidato alla sua cura.
4. I meccanismi di superamento delle ragioni del dissenso.
Il comma 6 bis dell’art. 14 ter della legge 241/1990, prevede che all’esito dei lavori della
conferenza, e in ogni cado scaduto il termine di cui ai commi 3 e 4, l’amministrazione
procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, valutate
le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni
prevalenti espresse in sede di conferenza di servizi.
La nuova disciplina, come ravvisato dai commentatori, rappresenta un’innovazione
ontologica, in quanto sancisce il passaggio dalla logica numerica e quantitativa, a quella
fondata sul criterio della prevalenza che, a differenza di quello maggioritario, si fonda sulle
questioni oggettive rappresentate da ciascuna amministrazione.
In particolare, il legislatore ha previsto un meccanismo che rende possibile il superamento
dei motivati dissensi, in quanto ha previsto la sostituzione della determinazione
dell’amministrazione dissenziente con un’altra determinazione attribuita in via generale
all’amministrazione procedente, salva la possibilità di intervento dell’autorità di vertice.
I meccanismi di superamento del dissenso, infatti, fanno leva sull’attivazione del potere
sostitutivo, per cui l’amministrazione è “sostituita” da altra amministrazione a tutela
degli interessi pubblici in cura alle amministrazioni dissenzienti. Con la conseguenza che
laddove non siano superabili tali dissensi, non è possibile addivenire alla determinazione
conclusiva di segno positivo del procedimento.
Al fine di evitare il potere di veto delle amministrazioni dissenzienti, il legislatore ha
previsto al comma 1 dell’art. 14 quater della legge 340/2000 l’eliminazione del potere di
veto e l’individuazione del limite minimo di assensi richiesti per l’attivazione dei poteri
sostitutivi dell’amministrazione procedente.
Il legislatore, parimenti, nell’art. 14 quater, comma 2, della legge 241/1990 ha chiarito che
la presenza della maggioranza dei consenti rispetto ai dissensi risulta un mero fatto
rilevante cui è ricollegata l’attivazione dei poteri sostitutivi dell’amministrazione
procedente.
Di qui si auspica l’accoglimento della lettura della disciplina di cui alla legge 340/2000, in
cui si afferma il superamento dei motivati dissensi rispetto ai consensi che rileverebbero
soltanto formalmente laddove i primi influenzerebbero, invece, sul contenuto della
determinazione conclusiva.
Il nuovo art. 14 ter, comma 6, introdotto dalla legge 15/2005 ha previsto espressamente
che la determinazione di conclusione del procedimento deve essere motivata in
relazione alle specifiche risultanze della conferenza ed alle posizioni prevalenti in
essa espresse sancendo formalmente la inaccoglibilità del criterio della maggioranza
richiesta per l’adozione della decisione finale.
5. I meccanismi “multilivello” di composizione dei dissensi “qualificati”.
L’art. 14 quater della legge 241/1990 disciplina il meccanismo di superamento dei c.d.
dissensi qualificati, che sono quelli che non possono essere superati in sede di
115
conferenza in quanto la legge vi ricollega l’effetto di rimettere la decisione oggetto della
conferenza ad altro e superiore livello di governo.
In primo luogo, la riforma ha esteso la categoria agli interessi sensibili, quali la tutela
ambientale, paesaggistico – territoriale, tutela della salute, ed anche quelli
espressi da amministrazioni preposte alla pubblica incolumità.
Invero, la nozione di pubblica incolumità presenta un contenuto assai ampio tale da
coinvolgere tutte le situazioni di pericolo in cui le persone possono trovarsi e la nozione di
dissensi qualificati può comportare il rischio di estendere notevolmente il loro ambito
tanto che la giurisprudenza è intervenuta a specificare ed integrare il dato normativo.
In ambito di dissensi qualificati rientrano altresì i dissensi regionali, laddove espressi a
tutela di interessi sensibili su materie riservati alla propria competenza.
La riforma del Titolo V della parte Seconda della Costituzione, ha reso necessaria la
revisione integrale della materia secondo i canoni di leale collaborazione tra i diversi
livelli di governo valorizzati nella Carta costituzionale.
Con la riforma costituzionale, infatti, si è inteso offrire una lettura costituzionalmente
orientata delle molteplici discipline su operazioni amministrative complesse coinvolgenti
pluralità di poteri decisionali concorrenti nella medesima materia.
Tale meccanismo, infatti, richiede la necessaria intesa con le regioni al fine di garantire una
valutazione di primo livello sui dissensi qualificati, rispetto ai quali lo Stato potrà sopperire
in via sostitutiva ma soltanto in via eccezionale.
La nuova disciplina, infatti, ha introdotto un meccanismo di gestione dei dissensi
qualificati che richiede mezzi e strumenti di raccordo delle istituzioni in leale
collaborazione tra loro.
Parte 6
Fattispecie diverse dai provvedimenti
Capitolo 1
Gli accordi
1. Accordo amministrativo ed esercizio della funzione pubblica
Con l’introduzione dell’art. 11 della legge 241/1990 modificato dalla legge 15/ 2005, il
legislatore ha disciplinato l’istituto degli accordi tra amministrazione e privati,
consentendo alla parte pubblica di avvalersi di moduli consensuali per l’esercizio della
funzione amministrativa.
L’utilizzo dei moduli convenzionali era già previsto in ambito urbanistico dal t.u 327/ 2001
in tema di espropriazione, in quanto l’atto convenzionale veniva a sostituisci al
provvedimento unilaterale di espropriazione.
Tuttavia con l’art. 11 della legge 241/1990, i moduli convenzionali dell’agire
amministrativo hanno assunto carattere generalizzato al modello tradizionale di
amministrazione fondato sull’esercizio unilaterale ed imperativo del potere
amministrativo.
Invero, secondo il principio del doppio binario, l’amministrazione può scegliere la linea
autoritativa e la nuova linea convenzionale mediante l’utilizzo di accordi che, secondo la
prescrizione normativa, vengono a definire in senso totale o parziale la definizione stessa
del procedimento amministrativo.
La tipologia degli accordi, infatti, è legata alla tipicità del potere di provvedere, in quanto
senza un procedimento ed un presupposto potere autoritativo attribuito dall’ordinamento
all’amministrazione, non può esservi accordo di cui all’art. 11 della legge.
Pertanto, dalla tipologia degli accordi in esame vanno esclusi quegli atti di diritto privato
che l’amministrazione assume nei rapporti contrattuali, ad esempio, nell’acquistare beni,
servizi o forniture.
116
Gli accordi, infatti, trovano il loro presupposto legislativo e sistematico nel concreto
esercizio del potere autoritativo, da cui la distinzione tra accordo e contratto di diritto
privato, laddove i contratti ad evidenza pubblica sono veri e propri contratti soggetti alla
disciplina privatistica, mentre gli accordi ex art. 11 della legge seguono soltanto i principi
del codice civile relativi alle obbligazioni ed ai contratti in quanto compatibili, ex art. 11,
comma 2 della legge.
Negli accordi amministrativi, infatti, il potere amministrativo viene esercitato mediante
atti bilaterali, per cui la volontà del privato non è requisito necessario per la sussistenza
della fattispecie di regolamentazione degli interessi, in quanto essi nascono dalla fusione
del potere amministrativo ed autonomia privata che ne caratterizza la natura.
Quanto alla natura degli accordi, si discute se questi siano contratti di diritto privato
ovvero contratti di diritto pubblico, ma si ritiene che la loro sostanza comporta in ogni caso
l’applicazione della disciplina legislativa di cui all’art.11, per cui è l’esercizio del potere
pubblico a determinare il contenuto.
2. Tipologie ed ambito applicativo degli accordi.
L’art. 11 prevede due tipologie di accordi tra amministrazione e privato:
a) l’accordo procedimentale, c.d. integrativo;
b) l’accordo sostitutivo del provvedimento.
Quanto ai primi si applica in generale l’art. 11 nella sua formulazione originaria,
caratterizzando tale tipologia di accordi nell’obbligo assunto dall’amministrazione di
esercitare il potere mediante emanazione di un provvedimento il cui contenuto
determinato previo accordo con il privato.
Gli accordi sostitutivi, invece, come modificati dalla legge 15/2005, producono effetti
giuridici per i quali sarebbe necessaria l’emanazione del provvedimento unilaterale, senza
ulteriore attività relativa all’esercizio del potere in capo all’amministrazione.
L’atipicità riconosciuta a quest’ultimi è tuttavia parziale, in quanto essa riguarda la
sostituibilità del provvedimento con l’accordo senza la necessita di un’espressa previsione
legislativa. Pertanto, l’accordo resta atto tipico ed assorbe, in quanto tale, il carattere di
tipicità del provvedimento corrispondente.
L’accordo procedimentale, invece, interviene nel procedimento ed all’interno di
questo esaurisce i suoi effetti, sostituendo al suo interno l’atto che sarà
recepito nel provvedimento finale.
Pertanto, nel primo caso vi è definizione totale o parziale del procedimento, in quanto si
viene a vincolare il provvedimento nel suo contenuto; nel secondo caso, invece, l’accordo
determina la chiusura del procedimento senza emanazione di alcun provvedimento.
I due accordi hanno in comune l’aspetto effettuale, cioè l’obbligo per entrambe le parti
di dare esecuzione a quanto pattuito.
3. La formazione degli accordi e il vincolo di “non negoziabilità dell’interesse pubblico”.
Una negazione sull’ammissibilità degli accordi si è ravvisata nella negazione della
possibilità per la p.a. di negoziare l’interesse pubblico, in quanto essa non può, in ogni
caso, rinunciare al perseguimento del medesimo.
La legge, infatti, prevede che l’accordo può essere concluso esclusivamente nel
perseguimento del pubblico interesse, per cui la rinuncia all’unilateralità non implica
rinuncia alla produzione di effetti del provvedimento connessi all’attribuzione del potere.
Il perseguimento dell’interesse pubblico, infatti, caratterizza non soltanto la
disciplina, ma costituisce anche la causa stessa dell’accordo, determinando il regime
pubblicistico della sua disciplina.
L’accordo, peraltro, si giustifica laddove le parti ottengano un’utilità ulteriore rispetto a
quella fornita dal mero provvedimento, tanto che essi vengono ad assumere il carattere di
117
un istituto di partecipazione al procedimento, in quanto il privato può incidere, mediante
la manifestazione dei propri interessi, nella formazione della decisione assunta
dall’amministrazione.
L’istanza di accordo, in particolare, costituisce espressione di partecipazione al
procedimento, in quanto l’amministrazione deve valutare sull’istanza medesima
l’assetto definitivo degli interessi coinvolti e dalla quale sarebbe determinata la rispettiva
amministrazione competente per l’adozione del provvedimento.
Invero, la scelta dello strumento consensuale da parte dell’amministrazione rientra
nell’esercizio di un potere discrezionale, per cui l’amministrazione deve valutare e
motivare la scelta di stipulare l’accordo ovvero di rifiutare la proposta del privato tenuto
conto dell’interesse pubblico rimesso alla sua cura, in virtù del vincolo per
l’amministrazione di perseguire l’interesse pubblico.
L’amministrazione deve valutare e motivare, alla stregua dell’interesse pubblico, la
scelta di stipulare l’accordo e quella di rifiutare la proposta avanzata dal
privato. La posizione del privato è giuridicamente protetta, in quanto partecipazione
all’esercizio del potere, per cui si delinea come interesse legittimo pretensivo tutelabile
innanzi al g.a. in caso di rifiuto o silenzio.
4. L’esecuzione degli accordi
A seguito della conclusione dell’accordo, si applica la disciplina prevista dal codice
civile in tema di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili con la disciplina
pubblicistica, per cui la tutela del pubblico interesse, anche nella fase esecutiva, comporta
per l’amministrazione la combinazione tra principi di diritto privato e principi di diritto
pubblico.
Quanto allo scioglimento unilaterale del vincolo da parte dell’amministrazione, la
legge 241/1990 prevede la regola di cui al comma 4 dell’art. 11.
4.1. La disciplina del recesso dell’amministrazione.
Il comma 4 dell’art. 11 dispone che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla
liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatesi in danno al
privato.
In relazione a tale norma, il recesso della p.a. si riconosce per sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, confermando in tal senso il carattere vincolante ed impegantivo
dell’accordo quale vincolo funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico.
L’amministrazione, pertanto, può sciogliere l’accordo esercitando una potestà pubblica che
si concreta in un provvedimento unilaterale ed imperativo, che incontra limiti nella
funzionalizzazione alla cura dell’interesse pubblico ovvero che detti motivi devono essere
sopravvenuti, e cioè che tali motivi non devono derivare da una diversa valutazione
dell’interesse pubblico giustificativo del precedente impegno contrattuale, ma piuttosto dal
maturare di nuovi elementi connessi ad interessi generali che determinano
l’incompatibilità della sopravvivenza del rapporto.
Il potere di recesso, legalmente previsto, è soggetto a limiti in ordine ai
presupposti.
Innanzitutto esso è funzionalizzato alla cura del pubblico interesse, ciò comporta
l’obbligo di motivazione e la soggezione al sindacato giurisdizionale, nonché le
garanzie del contraddittorio.
Altro limite alla possibilità di recesso, è dato dall’espressa considerazione normativa che
detti motivi di pubblico interesse debbano essere sopravvenuti: ritenere il recesso
possibile solo a seguito di valutazioni legate a fatti nuovi, o come rivisitazione della scelta
effettuata per la conclusione del contratto, coinvolge direttamente l’intensità della
118
tutela giuridica che il cittadino-contraente può ottenere verso l’amministrazione,
nonché il suo affidamento nella stabilità dell’accordo.
I nuovi sopravvenuti motivi non devono essere una diversa valutazione dell’interesse
pubblico giustificativo dell’impegno contrattuale, ma la conseguenza del maturare di nuovi
elementi, connessi alla tutela degli interessi generali, che rende incompatibile la
sopravvivenza del rapporto, potendosi liberare dal rapporto in presenza di esigenze che in
precedenza non erano conosciute o conoscibili.
Previsione comune alla revoca, è la liquidazione di un indennizzo connessa
all’esercizio legittimo del potere: se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti
direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.
Si può dire che recesso di cui all’art. 11 sembri avvicinarsi alla revoca del provvedimento di
cui all’art. 21 quiquies della legge 15/2005, in quanto è prevista per entrambe la
liquidazione di un indennizzo connessa all’esercizio legittimo del potere nonché il
perseguimento dell’interesse pubblico e l’efficacia ex nunc.
Tuttavia, mentre il recesso è legato a sopravvenuti motivi di pubblico interesse, il
provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato per sopravvenuti
motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di
nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Il recesso, dunque, rappresenta un istituto proprio degli accordi amministrativi
procedimentali, che si differenzia dalla revoca e dal recesso civilistico, in quanto atto
provvedimentale, quindi con carattere pubblicistico, unilaterale ed imperativo,
con efficacia ex nunc.
L’indennizzo rappresenta la tutela minima prevista ex lege al fine di tutelare la situazione
di affidamento che ha caratterizzato il rapporto con il privato, ex art. 11 comma 4 della
legge.
4.2. L’inadempimento dell’amministrazione.
Il
recesso
illegittimo
costituisce
una
fattispecie
di
inadempimento
dell’amministrazione, ma non l’unica, per cui essa è obbligata ad indennizzare il privato.
L’amministrazione, infatti, nel corso del procedimento può provvedere in senso difforme
dall’accordo ovvero senza determinare alcun recesso espresso, per cui si viene a costituire
una fattispecie di inadempimento dell’amministrazione.
Nel caso di mancata emanazione del provvedimento a seguito dell’accordo
procedimentale, si è ritenuto che il privato sia tutelato in virtù della situazione di interesse
legittimo riconosciutagli secondo l’art. 21 bis della legge Tar in tema di ricorso
amministrativo avvero il silenzio dell’amministrazione.
In tal senso la giurisprudenza ha ritenuto che gli accordi in questione sono pur sempre
contratti ad oggetto pubblico, in quanto stipulato nell’interesse pubblico, per cui
l’emissione del provvedimento va tenuto distinto dalla conclusione del contratto definitivo
ed il provvedimento implica pur sempre l’esercizio di poteri autoritativi che non può essere
attribuito ad organi amministrativi e non già all’autorità giurisdizionale.
In presenza di inerzia amministrativa successiva all’accordo, il privato potrò agire con il
ricorso avverso il silenzio ex art. 21 bis legge 205/ 2000 e la condanna ad un facere
sarà possibile in quanto l’adempimento all’accordo riguardi non già l’esercizio di funzioni
pubblicistiche, ma un facere avente contenuto negoziale o materiale.
Il privato, peraltro, in caso di provvedimento difforme dal contenuto dell’accordo vanta un
interesse legittimo all’annullamento del provvedimento e potrà poi agire per il
risarcimento dei danni.
4.3. La patologia del rapporto.
119
Ritenuta la compatibilità delle norme del codice civile in materia di contratti anche la
patologia dell’accordo riguarda tanti i vizi del contratto quanto quelli del
provvedimento.
L’impugnazione, infatti, non può essere limitata ai soli vizi di validità dell’accordo
secondo le regole civilistiche, ma vanno considerati tutti i vizi di legittimità previsti dalle
leggi sui procedimenti.
Invero, vengono salvaguardati non soltanto i diritti dei terzi ma soprattutto gli interessi
legittimi da cui l’attribuzione della giurisdizione esclusiva del g.a.
Certamente applicabile all’accordo è la disciplina della nullità del contratto di cui
all’art. 1418 c.c. e ss in quanto contrario a norme imperative, e la mancanza dei requisiti ex
art. 1325 c..c, l’illiceità della causa, dei motivi nei limiti dell’art. 1345 c.c. e la mancanza dei
requisiti dell’oggetto.
Il sindacato sull’accordo è anche un sindacato sul potere, attribuito alla giurisdizione
esclusiva del g.a.
5. La tutela del terzo.
Ulteriore problema riguarda se e quali terzi siano legittimati a ricorrere avverso un accordo
che, non potendo creare effetti diversi, produca effetti pregiudizievoli nei loro confronti.
E’ pacifico che un accordo non può pregiudicare diritti dei terzi, che non prendono
parte all’accordo stesso, come ribadito dall’art. 1372, comma 2, c.d. principio di relatività
degli effetti del contratto.
Tuttavia la previsione di cui al comma 1 dell’art. 11 della legge non va ritenuta una mera
ripetizione del dettato civilistico, in quanto l’accordo è un possibile strumento di
partecipazione al procedimento che può produrre effetti pregiudizievoli anche nei
confronti di terzi, come nel caso di autorizzazione o concessioni amministrative.
Pertanto, nel caso in cui il terzo sia titolare di una situazione giuridicamente protetta
che risulta illegittimamente lesa dall’uso del potere da parte dell’amministrazione, questi
vanterà una situazione di interesse legittimo avverso l’esercizio del potere amministrativo.
In definitiva, si ritiene che l’accordo può pregiudicare il terzo, per cui si giustifica la sua
posizione processuale in virtù dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 1372 c.c., in quanto il
ricorrente deve avere un interesse a ricorrere personale ed attuale.
In particolare, mentre l’accordo sostitutivo produce effetti giuridici propri del
provvedimento può avere rilevanza esterna e sarà suscettibile di impugnazione da parte del
terzo; invece, l’accordo preliminare produce effetto soltanto tra le parti che vi hanno
aderito.
Capitolo 2
L’attività contrattuale della p.a.
1. Diritto privato e diritto pubblico nell’attività contrattuale delle pubbliche
amministrazioni.
Come ogni soggetto dell’ordinamento le amministrazioni godono della capacità giuridica
generale di cui all’art. 11 c.c., per cui possono stipulare contratti disciplinati dal c.c.,
nominati ed innominati, quali il leasing o il factoring ovvero contratti diversi come i
contratti di appalti misti per lavori e servizi.
Il diritto privato, al quale i contratti della p.a. sono assoggettati, risulta condizionato da
elementi pubblicistici, da cui il problema di fondo dell’attività contrattuale
dell’amministrazione in quanto tale attività si svolge nell’osservanza de principi di
imparzialità e buon andamento seppure i soggetti sono posti su un piano di tendenziale
parità.
120
A riguardo sono state consolidate una serie di regole sui contratti nei quali è parte una p.a.,
che integrando o sostituiscono le regole privatistiche, come nel caso dell’evidenza pubblica
in cui alcuni momenti contrattuali sono specificamente disciplinati dalla normativa
pubblicistica.
I contratti pubblici, dunque, si formano dall’incontro della volontà delle parti mediante
attività di diritto pubblico espressione dell’esercizio dei poteri pubblicistici volti a garantire
la funzionalizzazione dell’attività amministrativa in coerenza con le scelte
dell’amminstrazione secondo i principi costituzionali che presiedono a detta attività.
In particolare, l’evidenza pubblica si concreta in una complessa procedura in cui si ravvisa
la difformità rispetto all’attività di diritto comune, in quanto l’interesse pubblico rileva fin
dal momento della formazione del contratto, che si colloca nella fase tipicamente negoziale
di stipulazione del contratto, e si esprime in regole che derogano alla disciplina privatistica
con attribuzione in capo all’amministrazione di poteri capaci di incidere unilateralmente
sul rapporto contrattuale ascrivibili tanto al diritto privato quanto al diritto pubblico.
Il contratto, al pari delle fattispecie negoziali, rappresenta un modulo alternativo
all’esercizio del potere nell’attività amministrativa sostanziale, per cui si è
progressivamente allargata la prospettiva della cura dell’interesse pubblico che tende a
privilegiare l’accordo con il privato rispetto all’atto amministrativo unilaterale.
Il contratto, infatti, costituisce lo strumento comune dell’attività amministrativa in
molteplici scambi settoriali, come nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego che, a
partire dagli anni Novanta, ha visto la privatizzazione del rapporto di lavoro presso le p.a.
con conseguente attribuzione della giurisdizione esclusiva in capo al g.a. Oggi, infatti, salvo
alcune categorie di impiegati, il rapporto di pubblico impiego è regolato da contratti
collettivi ed individuali e tali contratti possono essere stipulati soltanto previa procedura
concorsuale ex art. 97, comma 3, Cost. e che, dunque, si svolge secondo le regole
dell’evidenza pubblica con attribuzione della competenza alla giurisdizione esclusiva del
g.a.
2. Il quadro normativo di riferimento.
Dal codice civile si rinviene l’art. 11 sulla natura di persona giuridica del soggetto – ente
pubblico, con la relativa capacità giuridica di stipulare nei limiti imposti dalla legge, ex art.
1322 c.c., contratti per costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici patrimoniali, ex
art. 1321 c.c.
I principi di buona fede, ex art. 1337 c.c., diligenza e correttezza, ex art. 1338 c.c., devono
informare i comportamenti delle parti.
Inoltre, si applica l’istituto della responsabilità precontrattuale, ex art. 1337 c.d. per
violazione degli obblighi connessi.
La disciplina di diritto privato si applica con riferimento agli elementi essenziali del
contratto ex art. 1325 e 1343 c.c., per gli effetti ex art. 1372 e le cause di invalidità ex art.
1428 c.c., le clausole vessatorie ex art. 1341 c.c. e la fase di esecuzione ex artt. 1218, 1453 e
2910 c.c.
In secondo luogo, la disciplina generale sui contratti della p.a. si ricava dalla legge sulla
contabilità di Stato, r.d. 2440/ 1923 e del suo regolamento di attuazione, r.d. 827/
1924.
Da tale complesso normativo, emerge che le regole pubblicistiche sono poste alla base della
formazione della volontà contrattuale della p.a. , che consiste in un processo di procedure
specifiche prende nome di procedura ad evidenza pubblica.
Di recente il legislatore ha previsto, all’art. 1, comma 1 bis della novellata legge
241/1990, che l’amministrazione pubblica, nell’adozione di atti di natura non autoritativa,
agisce secondo regole e principi del diritto privato, salvo che la legge disponga
diversamente. Pertanto, da tale disposizione si ricava la specialità dell’attività contrattuale
121
dell’amministrazione che si concretizza nelle regole dell’evidenza pubblica limitata ai soli
casi previsti dalla legge.
Ulteriore intervento del legislatore si è avuto con l’adozione del codice dei contratti
pubblici, di cui al d.lgs. 163/2006 che ha fissato una speciale disciplina in materia di
appalti e concessioni aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi o forniture ovvero
l’esecuzione di opere o lavori.
Il codice del processo amministrativo (dlgs 104/10) contiene alcune disposizioni in
materia di appalti. Nell’evoluzione normativa, si rinviene l’influenza del diritto
comunitario, in quanto si riconosce alla pubblica amministrazione la finalità di
conseguire il risultato economico favorevole all’amministrazione stessa anche rispetto agli
altri Stati membri riconoscendo altresì la possibilità di allargare la platea delle imprese
ammesse a partecipare alle gare di appalto.
In particolare, con le direttive CE 2004/17 e 2004/18 sono state apportate ulteriori
modifiche in tema di appalti, come recepito nel codice del 2006, secondo i principi
comunitari di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco,
di proporzionalità e trasparenza.
Con la direttiva ricorsi 2007/66/CE, è stata rafforzata l’effettività della tutela
giurisdizionale in materia di appalti pubblici, ed ha trovato soluzione il problema della
sorte del contratto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, nonché quello del giudice
competente.
L’attuale quadro legislativo e regolamentare, è stato di recente innovato con la legge
106/2011, che semplifica l’attività in alcuni settori strategici per il rilancio dell’economia,
novellando numerose disposizioni del codice dei contratti (es, requisiti generali di
partecipazione alle procedure di affidamento, cause di esclusione dalle gare, project
financing, etc.)
Discussa è la natura dei capitolati d’oneri, che vengono configurati come contratti seppure
parte della dottrina li aveva considerati atti normativi, mentre la tesi prevalente riconosce
ai capitolati generali adottati dal ministro competente, con decreto presidenziale,
natura regolamentare, mentre per i capitolati speciali adottati dalle singole
amministrazioni, se ne afferma la natura contrattuale, in quanto atti consententi
condizioni generali dello specifico contratto.
2.1. Segue. Il Codice dei contratti di appalto e di concessione di lavori, servizi e forniture.
Il Codice dei contratti pubblici è stato emanato in attuazione delle direttive CE del 2004 n.
17 e 18 e raccoglie in un unico testo normativo la disciplina, più volte contenuta in diversi
testi, dell’intero comparto degli appalti pubblici.
La ratio ispiratrice del Codice, al pari di quella che ispira la disciplina comunitaria,
riguarda la prospettiva non soltanto della cura esclusiva del pubblico interesse, ma la cura
di interessi generali, quali la tutela della concorrenza, la parità di trattamento degli
operatori economici, la non discriminazione, la trasparenza e l’apertura degli appalti
pubblici nazionali agli imprenditori dei diversi Stati membri.
Nuovi istituti sono stati introdotti dal Codice, quali il dialogo competitivo, le centrali di
committenza, gli accordi – quadro.
In particolare, l’art. 3, comma 3, del Codice prece che per contratti pubblici devono
intendersi oltre ai contratti di appalto anche i contratti di concessione di lavori e servizi.
La concessione di lavori pubblici è un contratto a titolo oneroso per la cui conclusione
è richiesta la forma scritta e deve avere durata non superiore a trenta anni, salvo esigenze
di equilibrio economico – finanziario degli investimenti del concessionario.
L’art. 144 del Codice disciplina le procedure di affidamento e pubblicazione del bando
relative alle concessioni di lavori pubblici, mentre per la scelta del contraente sono
122
ammesse procedure aperte e ristrette laddove il criterio dell’aggiudicazione è ammesso
unicamente per l’offerta economicamente più vantaggiosa.
La concessione di servizi pubblici è un contratto che presenta analoghe
caratteristiche dell’appalto pubblico di servizi, ma se ne differenzia in quanto il compenso
per la fornitura consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi per un determinato
periodo di tempo che, in alcuni casi, si accompagna da un prezzo.
2.2. Segue. La definizione degli ambiti materiali di pertinenza statale e regionale nella
giurisprudenza della Corte costituzionale.
Il Codice degli appalti ha superato il vaglio della Corte costituzionale che con le sentenze
nn. 401 e 431 del 2007, ha confermato il complessivo impianto normativo affermandone la
conformità al riparto giurisdizionale delle competenze tra Stato e Regioni.
Tale riparto ha sicuramente privilegiato lo Stato per i contratti d’interesse regionale, in
quanto è stata sottratta la competenza regionale nella relativa disciplina e disposto che le
regioni non possono in tale ambito prevedere una disciplina diversa da quella introdotta
dal Codice.
La Corte, dunque, nell’affermare la riserva allo Stato nella disciplina degli appalti ha fatto
leva sulla tutela della concorrenza, sull’ordinamento civile, sulla tutela giurisdizionale,
materie ascritte al nuovo art. 117 Cost. alla potestà esclusiva del legislatore statale
esercitata dal d.lgs.163/ 2006.
Invero, le disposizioni del d.lgs. 163/ 2006 sono confermate dal Giudice costituzionale
laddove la materia dei lavori pubblici resta tra le materie oggetto di competenza esclusiva
dello Stato, per cui si esclude che le stesse siano oggetto di competenza residuale delle
regioni in quanto si qualificano in relazione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
oppure a quella concorrente di cui all’art. 117 Cost.
In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che gli istituti indicati che si collocano
nella fase della procedura di evidenza pubblica e che concernono la scelta del contraente
mirano a garantire la più ampia apertura del mercato degli appalti a tutti gli operatori
economici del settore nel rispetto dei diritti comunitari di parità di trattamento, di non
discriminazione, di imparzialità e buon andamento posti alla base dell’attività
amministrativa.
Trattandosi di principi comunitari e costituzionali, questi sono riconosciuti dalla Corte
nell’ambito della materia di competenza esclusiva dello Stato, in quanto viene consentito al
legislatore statale di dettare norme di principio e norme di dettaglio, inderogabili dal
legislatore regionale.
Pertanto, si è riconosciuta la legittimità costituzionale dell’art.5, comma 2, del Codice che
dispone che il regolamento di attuazione e di esecuzione del Codice vincola le regioni
soltanto in presenza di ambiti materiali rientranti nella sfera di potestà legislativa esclusiva
dello Stato secondo l’applicazione del comma 6 dell’art. 117 Cost. per cui lo Stato può
esercitare la potestà regolamentare soltanto nelle materie di propria legislazione esclusiva.
La Corte, nelle questioni di legittimità sollevate dalle regioni, ha accolto la questione
relativa all’art. 84, commi 2, 3, 8 e 9 concernenti le funzioni, la composizione, le modalità
di nomina della Commissione giudicatrice incaricata di esprimersi in caso di
aggiudicazione mediante offerta economicamente più vantaggiosa, percui tale ambito è
fatto rientrare nell’ambito della potestà legislativa regionale in quanto attinente
all’organizzazione amministrativa.
Parimenti, per l’approvazione dei progetti definitivi da parte del consiglio comunale che
costituisce una variante urbanistica a tutti gli effetti è riconosciuta la competenza delle
regioni di emanare la normativa di dettaglio in conformità dell’art. 117, comma 3, Cost.,
mentre allo Stato il potere di fissare i principi fondamentali in materia.
123
2.3. Segue. Le amministrazioni aggiudicatrici. Gli organismi di diritto pubblico. Rinvio
Le regole contenute nel Codice riguardano i contratti stipulati dalle amministrazioni
aggiudicatrici, in cui rientrano lo Stato, gli enti pubblici territoriali ed altri enti pubblici
non economici, anche gli organismi di diritto pubblico, e cioè qualsiasi organismo, istituito
anche in forma societaria specificatamente per soddisfare interessi di carattere generale
aventi carattere non industriale o commerciale, dotato di personalità giuridica e la cui
attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato ovvero la cui gestione o vigilanza è
diretta da membri di cui più della metà è designata dallo Stato, enti pubblici territoriali o
da altri organismi di diritto pubblico.
Facendo leva alla nozione di organismo di diritto pubblico si è ampliata la categoria delle
amministrazioni tenute ad aggiudicare gli appalti pubblici mediante procedure di gara,
evitando il rischio di distorsioni negli assetti concorrenziali del mercato degli appalti.
Invero, si riconosce dagli elementi dell’organismo di diritto pubblico offrano lo spunto a
diverse questioni interpretative, per cui la Corte ha ritenuto, ad esempio, che tale
organismo vada istituito specificatamente per il perseguimento di bisogni di interesse
generale non aventi carattere industriale o commerciale.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, infatti, il carattere non industriale o commerciale
del fine comporta che l’organismo di diritto pubblico soddisfi interessi generali connessi
all’interesse generale dello Stato che, invece, provvede direttamente o rispetto ai quali
detiene un’influenza dominante.
Sotto il profilo organizzativo, il finanziamento statale non pone problemi, in quanto si
stabilisce un legame di dipendenza tra erogazioni dello Stato ed il soggetto. Rispetto al
controllo, invece, si ritiene che lo Stato detenga la maggioranza o almeno la quota di
capitale sociale tale da assicurare il controllo effettivo dell’organismo di diritto pubblico,
per cui è possibile altresì un controllo successivo sull’organizzazione e sull’attività
dell’ente.
2.4. Segue. La rilevanza del valore ai fini della determinazione della disciplina applicabile
alle fattispecie contrattuali.
L’ambito di applicazione del codice dei contratti è più ampio rispetto alla disciplina
comunitaria di cui è diretta applicazione, in quanto unisce la disciplina dei settori ordinari
a quelli speciali, regolando sia gli appalti di rilevanza comunitaria che quelli sotto soglia, e
occupandosi anche dei contratti stipulati dalle pa aggiudicatrici e dagli altri soggetti tenuti
all’applicazione del codice.
Il codice, all’art. 28, fissa soglie di importo dell’appalto, alle quali è connessa una
disciplina differente a seconda del valore dell’appalto. Esso contiene una disciplina
specifica per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di importo inferiore alle soglie
di rilevanza comunitaria.
3. La formazione del contratto e le fasi del procedimento ad evidenza pubblica.
Deliberazione a contrattare, progetto di contratto e bando di gara.
I contratti in cui è parte una p.a., a differenza dei contratti tra privati, si caratterizzano per
l’autonomia contrattuale della parte pubblica che non risulta piena, ma è limitata sotto il
profilo della libertà di addivenire ad un contratto nella scelta del contraente, nella
individuazioni delle condizioni contrattuali.
La fase procedimentale si articola nella formazione della volontà dell’amministrazione e
nella scelta del contraente privato, da cui inizia la deliberazione di contrarre di solito
preceduta dall’attività di programmazione ex art. 11 del Codice dei contratti.
La deliberazione, in particolare, è l’atto di contrarre con il quale la p.a. esprime le ragioni
di pubblico interesse che l’hanno indotta a stipulare quel contratto e la scelta di quel
contraente (art. 192 t.ue.l.). Per i contratti dello Stato, invece, la legge di contabilità del
124
1923 fa riferimento al progetto di contratto, ma la giurisprudenza e la dottrina parlano di
deliberazione a contrarre, termine utilizzato nella novella della legge 106 del 2011.
Entrambi gli atti, deliberazione a contrarre e progetto di contratto, sono atti amministrativi
interni, di natura programmatica, irrilevanti per i terzi e, quindi, non impugnabili e
revocabili in sede di autotutela.
Tuttavia, la deliberazione non deve essere esternata all’esterno in un atto formale, per cui i
terzi sono tutelati allorché l’amministrazione abbia illegittimamente deliberato il ricorso
alla trattativa privata in luogo dell’asta pubblica o della licitazione privata, riconoscendo
agli imprenditori operanti nel settore.
In linea di principio la separazione tra politica ed amministrazione comporta che
l’adozione della deliberazione a contrarre spetta a livello statale ai dirigenti generali e agli
altri dirigenti, ex artt. 16 e 17 del d.lgs. 165/ 2001, mentre ai dirigenti amministrativi spetta
la competenza per i contratti di comuni e province ex art. 107, comma 3 del .t.u.e.l.
Pareri e controlli, in particolare, possono essere assoggettati alla determinazione a
contrarre che il progetto di contratto si sono ridotti a seguito delle riforme degli anni
Novanta laddove la legge 20/1994 ha soppresso il controllo preventivo di legittimità della
Corte dei conti sul progetti di contratto, mentre la legge 127/1997 ha soppresso il parere
preventivo obbligatorio del Consiglio di Stato sui progetti di contratto di competenza
ministeriale, per cui oggi è obbligatorio soltanto per gli schemi generali di contratto – tipo,
accordi e convenzioni di competenza ministeriale. Resta obbligatorio il parere del
Consiglio superiore dei lavori pubblici per i progetti di lavori pubblici statali di importo
superiore a 25 milioni di euro, ex art. 127 del Codice, mentre per i contratti degli enti locali
la deliberazione a contrarre è sottoposta a controlli ed autorizzazioni delle autorità indicate
dalle varie norme.
Il bando di gara (art. 64 del codice)o l’avviso di gara, inoltre, di colloca in un momento
successivo all’adozione della deliberazione di contrarre, per cui oltre ad indicare i dati
dell’amministrazione contraente deve stabilire i requisiti di partecipazione ed i termini, in
quanto tali prescrizioni costituiscono lex specialis della gara e vincolano oltre ai contraenti
l’amministrazione che, rispetto ad essi, non conserva alcun margine di discrezionalità nella
loro concreta attuazione.
Invero, le clausole del bando di gara vanno interpretate, secondo la giurisprudenza, non
tanto nel significato attributo da ciascun imprenditore, bensì secondo il linguaggio comune
alla maggior parte degli imprenditori operanti nel settore al fine di garantire la buona fede
nella relativa partecipazione.
Quanto alla natura giuridica del bando, ci sono orientamenti svariati, alcuni lo qualificano
come atto amministrativo, altri come offerta al pubblico. Dottrina e giurisprudenza
ritengono che la mancata indicazione del prezzo lo rende imperfetto, in quanto elemento
essenziale del contratto medesimo.
Pertanto, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica del bando, si ritiene
legittima la previsione che esso consiste in un accordo tra partecipanti ed
amministrazione, un Patto di integrità, con il quale si stabiliscono alcune regole
dirette a garantire il corretto svolgimento della gara, in particolare la leale concorrenza e le
pari opportunità di successo a tutti i partecipanti alla gara in fase concorsuale.
La giurisprudenza ritiene legittime le clausole sanzionatorie poste a carico del concorrente
che ha tenuto un comportamento scorretto nel corso della gara.
Il bando di gara, infatti, in coerenza con i principi comunitari, è soggetto a forme di
pubblicità diffuse al fine di consentire la partecipazione alla gara anche alle imprese
europee interessate.
La giurisprudenza considera il bando di gara come lex specialis del procedimento di gara,
in quanto i suoi contenuti vincolano lo svolgimento della stessa, per cui il bando può essere
annullato d’ufficio ovvero revocato per motivare ragioni di concreto interesse
pubblico e fino a quando sussista la disponibilità dei suoi effetti,
125
Il bando illegittimo, infatti, è impugnabile innanzi al g.a., di regola unitamente agli atti di
sua applicazione, per cui anche le clausole ivi contenute vengono a costituire presupposto
per la legittimazione all’impugnazione del bando.
4. La scelta del contraente nella normativa di contabilità dello Stato e nel Codice dei
contratti. Procedure aperte, procedure ristrette
La scelta del contraente è affidata alla normativa di contabilità dello Stato e segnatamente
all’asta pubblica, alla licitazione privata, all’appalto concorso.
In particolare, l’asta pubblica, cd. pubblici incanti, originariamente obbligatoria per tutti i
contratti dello Stato, è stata ricondotta soltanto per i contratti attivi da cui deriva
un’entrata, mentre è meramente facoltativa per i contratti da cui deriva una spesa, in
quanto l’amministrazione può scegliere tra asta pubblica e licitazione privata.
La differenza rispetto a tali modi di contrarre, sta nel fatto che mentre l’asta pubblica è una
procedura di gara aperta a tutti gli operatori economici interessati a presentare un’offerta,
la licitazione privata, invece, riguarda soltanto coloro che vi sono stati invitati mediante
apposita lettere – invito.
Tale limitazione dei soggetti ammessi alla gara, rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione, è venuta meno con l’istituto del preventivo avviso di gara di cui
all’art. 55 del Codice, per cui le imprese invitate possono chiedere di essere invitate e
l’amministrazione deve invitare tutti gli operatori che ne fanno richiesta e che siano in
possesso di tutti i requisiti di qualificazione indicati dal bando.
Quanto ai modi di svolgimento della gara è prevista l’aggiudicazione dell’asta secondo il
metodo del pubblico banditore per i contratti attivi, mentre per i contratti passivi è
previsto il metodo dell’estinzione della candela vergine ovvero delle offerte segrete da
confrontarsi con il prezzo massimo o minimo prestabilito.
Il Codice del 2006 prevede procedure aperte e ristrette secondo i due criteri del prezzo più
basso, art. 82, e dell’offerta economicamente più vantaggiosa, art. 83.
Il primo consiste in regole matematiche, in quanto valutazione automatica del prezzo,
invece il secondo indica un sub- procedimento in cui s’instaura un contraddittorio tra le
parti e l’amministrazione al fine di escludere le offerte in contrasto con l’interesse pubblico
e che siano poco vantaggiose.
In ogni caso, l’offerta deve essere affidabile, in quanto le gare devono rispondere al
principio del buon andamento da cui l’affidabilità delle offerte presentate dai concorrenti.
In entrambi i criteri adottati, la scelta è rimessa all’amministrazione aggiudicatrice che
valuta le offerte secondo obiettività delle operazioni concorsuali.
All’art. 85 del Codice, inoltre, è prevista l’aggiudicazione dell’appalto secondo sistema
automatizzato di scelta del contraente, asta elettronica.
Il ricorso all’e- procuremente postula l’osservanza dei principi comunitari di parità di
trattamento, di concorrenza, di trasparenza delle operazioni, di sicurezza e di riservatezza
delle comunicazioni. In tale sistema la scelta del contraente ha come obiettivo quello di
limitare la spesa attraverso la negoziazione telematica.
L’appalto concorso rientra tra le procedure ristrette, in quanto sistema di gara su invito
al quale l’amministrazione può ricorrere allorché necessita dell’apporto di imprese
ritenute idonee alla predisposizione di progetti di opere tecniche, artistiche e scientifiche
particolarmente complesse.
Per la scelta del contraente è nominata apposita commissione, costituita da tecnici, che
procede ad un giudizio discrezionale anche per l’individuazione dell’offerta progettuale
ritenuta la più idonea a soddisfare le esigenze dell’amministrazione.
Per l’aggiudicazione si segue il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa con i
correttivi dati dai parametri tecnici ed economici oggetto di valutazione.
126
L’ambito di attuazione dell’appalto concorso si è notevolmente ridotto negli ultimi anni,
prediligendo invece l’appalto integrato tipico e l’appalto integrato complesso.
Il primo tipo di appalto, in particolare, ha ad oggetto la progettazione e l’esecuzione di
lavori e si caratterizza in un progetto definitivo predisposto dall’amministrazione
aggiudicatrice ed è posto alla base della gara; nel secondo tipo di appalto, invece,
all’appaltatore spetta altresì la progettazione definitiva che avviene al momento
dell’offerta sulla base del progetto preliminare dell’amministrazione aggiudicatrice.
In riferimento all’aggiudicazione, la relativa disciplina la configura come subprocedimento che avviene in due fasi, l’aggiudicazione provvisoria diretta alla verifica della
correttezza della gara entro un termine stabilito, scaduto il quale si forma il silenzio –
assenso; e l’aggiudicazione definitiva che segue all’esito positivo dell’aggiudicazione
provvisoria.
Invero, l’aggiudicazione non è più idonea a far sorgere il vincolo contrattuale, un quanto
nell’aggiudicazione definitiva viene preordinata la scelta del contraente, ma è soltanto con
la stipulazione che si costituisce il vincolo contrattuale.
L’aggiudicazione definitiva, pertanto, è impugnabile anche se non era stata fatta in
precedenza impugnazione di quella provvisoria, mentre l’impugnazione di quella definitiva
è obbligatoria pena l’improcedibilità del primo ricorso per sopravvenuta carenza di potere..
L’esercizio del potere di autotutela deve essere preceduto, a pena di illegittimità, dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento a tutela dell’aggiudicatario definitivo,
titolare di posizione giuridica qualificata nel contradditorio procedimentale,
4.1. Segue. La partecipazione alla gara.
I soggetti che possono partecipare alla gara per l’aggiudicazione del contratto pubblico,
rappresentano una categoria più ampia che in passato, infatti ora il codice prevede all’art.
37 l’istituto del raggruppamento temporaneo di imprese (RTI), che risponde alle esigenze
di tutela della concorrenza favorendo l’ingresso nel mercato di piccole e medie imprese,
altrimenti destinate a rimanere fuori dalla gara, poiché da sole non possiedono i requisiti
per parteciparvi.
L’RTI è un unione temporanea ed occasionale, fondata su accordi tra più operatori
economici, per l’acquisizione ed esecuzione congiunta di un contratto pubblico, ammessa
per le procedure ristrette e negoziate: essa non da luogo a rapporto associativo perché ogni
impresa mantiene la propria autonomia imprenditoriale nell’esecuzione del contratto.
Il raggruppamento può prevedere una ripartizione orizzontale dei compiti, se le imprese di
ripartiscono il medesimo servizio o realizzano lavori della stessa categoria, oppure una
verticale se una delle imprese realizza i lavori della categoria prevalente e le altre quelli c.d.
scorporabili.
L’impresa capogruppo agisce su mandato degli altri operatori, determinando una
responsabilità solidale dei mandanti nei confronti della stazione appaltante, inoltre le
singole imprese mandanti possono impugnare anche in via autonoma gli atti della gara.
4.2. Segue. Il criterio di aggiudicazione.
Riguardo i metodi di svolgimento della gara ed i criteri di aggiudicazione, la
normativa prevede il metodo del pubblico banditore per i contratti attivi, per quelli passivi
i metodi sono diversi: l’estinzione della candela vergine, il pubblico banditore, le offerte
segrete da confrontarsi col prezzo massimo o minimo prestabilito e indicato in una scheda
segreta dall’amministrazione, le schede segrete da confrontarsi col prezzo base indicato
nell’avviso d’asta.
Anche per l’aggiudicazione della licitazione privata di sono meccanismi automatici
sostanzialmente uguali a quelli dell’asta pubblica, dove l’aggiudicazione avviene in modo
127
matematico e il prezzo costituisce elemento decisivo nell’individuazione dell’offerta
migliore.
Il codice dei contratti prevede, sia per le procedure aperte che per quelle ristrette, due
criteri di aggiudicazione: il prezzo più basso (art 82) e l’offerta economicamente più
vantaggiosa (art 83). Il primo utilizza regole matematiche per la valutazione del prezzo,
individuando tra le offerte presentate quella più conveniente, non assicurando però la
qualità della prestazione ma solo il risparmio per l’amministrazione, mentre il secondo
aggiunge all’elemento quantitativo quello qualitativo, dove altri elementi si aggiungono al
prezzo (tempi di consegna, tempi di esecuzione, qualità del servizio, estetica, affidabilità,
ecc) per soddisfare al meglio le esigenze dell’amministrazione appaltante.
La scelta del criterio da applicare è lasciata alla discrezionalità dell’amministrazione in
base alle caratteristiche del contratto, ma il legislatore italiano tende a limitare il ricorso al
secondo criterio favorendo il primo, sul presupposto che i meccanismi automatici di
aggiudicazione ne garantiscono la massima trasparenza e obiettività delle operazioni
concorsuali.
I criteri di valutazione delle offerte devono essere fissati prima della conoscenza delle
offerte stesse.
4.3. L’aggiudicazione.
Delle operazioni di gara il funzionario rogante redige apposito verbale; esse si concludono
con l’aggiudicazione del contratto all’impresa vincitrice.
Secondo la giurisprudenza l’aggiudicazione avrebbe natura di provvedimento
amministrativo conclusivo dell’intero procedimento di gara, mentre la stipula del contratto
avrebbe natura costitutiva del vincolo contrattuale in tutti i casi in cui essa sia obbligatoria,
o perché prevista dal bando o dalla legge.
L’aggiudicazione può avere carattere provvisorio e allora dovrà essere seguita da quella
definitiva. Quella provvisoria è soggetta ad approvazione da parte dell’organo competente,
diretta a verificare la correttezza della gara entro un dato termine, scaduto il quale si forma
il silenzio assenso. L’aggiudicazione definitiva segue all’esito positivo dell’approvazione di
quella provvisoria una volta verificato il possesso da parte dell’aggiudicatario dei requisiti
richiesti.
Si ritiene che l’aggiudicazione non sia idonea a far sorgere il vincolo contrattuale, ma
occorra la stipula vera e propria dell’atto.
5. Trattativa privata, procedura negoziate e dialogo competitivo
La trattativa privata costituisce un metodo negoziato di scelta del contraente in
contrasto con il principio di concorrenza e limitato nei casi previsti dalla legge.
Nella trattativa privata, infatti, l’amministrazione negozia le condizioni del contratto con il
soggetto scelto, senza vincolo all’osservanza di regole procedimentali ed in ciò l’istituto si
differenzia dall’asta pubblica e dalla licitazione privata che si attuano, invece, mediante
procedimento di aggiudicazione.
In particolare, nella trattativa privata l’amministrazione deve tener conto dei motivi che
l’hanno indotta all’adozione di tale metodo di contrattazione, impugnabile dagli
imprenditori intervenuti.
Tale metodo può essere preceduto da una gara informale tra più imprese in competizione
tra loro, per cui l’amministrazione stabilisce i criteri vincolanti per le parti da osservarsi
nella trattativa.
Il Codice ha stabilito la procedura negoziata in due metodi a seconda che siano o meno
preceduta dalla pubblicazione del bando di gara, artt. 56 e 57.
Nel primo caso, la procedura negoziata si allontana dalla tradizionale trattativa privata,
in quanto assume il carattere di gara pubblica con pubblicazione del bando di gara e con
128
operazioni che si concludono con l’aggiudicazione secondo il criterio del prezzo più basso o
dell’offerta più vantaggiosa.
Nel secondo caso, invece, la procedura negoziata non è preceduta dal bando di gara, per cui
l’ente aggiudicatore negozia direttamente con il contraente economico al fine di accertare
la sua idoneità sul mercato secondo i principi di concorrenza, trasparenza e correttezza.
Un nuova procedura di scelta del contraente è il dialogo competitivo, in cui
l’amministrazione avvia un dialogo con gli imprenditori economici al fine di individuare
tra loro le soluzioni progettuali più idonee a soddisfare le necessità rappresentate nel
bando.
Tale procedura si colloca tra le procedure ristrette e l’appalto concorso, ma a differenza di
queste il progetto è definito gradualmente attraverso il dialogo continuo con le imprese
ammesse e l’appalto viene aggiudicato a fine della procedura.
6.Centrali di committenza, accordi quadro, sistemi dinamici di acquisizione e project
financing.
I vincoli posti alla finanza pubblica nazionale discendenti dall’adesione dell’Italia al
sistema monetario dell’Euro hanno comportato l’introduzione di nuovi istituti nell’ambito
dell’attività contrattuale dell’amministrazione finalizzati al contenimento della spesa ed al
rispetto dei parametri di indebitamento fissati a livello comunitario.
E’ stato introdotto, infatti, nel nostro ordinamento un sistema unificato di acquisti delle
amministrazioni sulla base di apposite convenzioni stipulate dalla CONSIP con le imprese
individuate secondo le regole dell’evidenza pubblica che s’impegnano, per un tempo
stabilito, ad accettare ordinativi di forniture di beni e servizi entro limiti quantitativi
massimi ivi stabiliti.
Il sistema è stato reso facoltativo ed è basta o su procedure comuni d’acquisto che trova
legittimazione in ambito comunitario e nazionale nel codice degli appalti.
In particolare, il meccanismo consente di ridurre i costi di gestione legati allo svolgimento
delle gare, in quanto gli appaltanti possono stipulare contratti per l’acquisto di lavori,
servizi e forniture con l’impresa scelta dalla centrale di committenza nel rispetto delle
regole dell’evidenza pubblica.
Per i lavori di manutenzione e seriali sono previsti accordi quadro che vengono conclusi
con uno o più operatori economici, almeno tre e le cui aggiudicazioni successive possono
avvenire sulla base di un confronto competitivo ì.
Tale accordo quadro è un modulo contrattuale il cui scopo è quello di semplificare le
procedure contrattuale in caso di prestazioni ripetitive e consentire alle amministrazioni
aggiudicatrici di stabilire in anticipo i costi del programma di investimento con garanzia
del massimo della flessibilità
Il sistema dinamico di acquisizione, invece, si applica mediante sistema elettronico
ed è ammesso per acquisti di beni e servizi tipizzati e standardizzati ad uso corrente, con
applicazione delle regole dell’evidenza pubblica applicabili in tale ambito.
Il sistema è dunque aperto a tutti gli operatori economici che soddisfano i criteri di
selezione e che abbiano presentato un’offerta conforme al capitolato di onere con eventuali
documenti allegati.
Il project financing viene introdotto nel 1998 dalla legge Merloni ter, è una tecnica di
finanziamento di opere pubbliche basata sul coinvolgimento di capitale privato nella
realizzazione in concessione, di lavori pubblici o di pubblica utilità, indipendentemente dal
fatto che i progetti siano inseriti negli strumenti di programmazione in quanto lo stesso
operatore economico può proporre l’intervento da realizzare.
Se il pf riguarda opera già programmate, la pa pubblica un bando invitando gli operatori a
presentare offerte, in caso contrario sarà l’operatore a proporre di sua iniziativa l’opera da
realizzare.
129
Sia l’offerta che la proposta (prestata da privati con requisiti tecnici, finanziari, gestionali e
organizzativi definiti) devono contenere un progetto preliminare, una bozza di
convenzione, un piano economico finanziario, la garanzia di un istituto di credito o società
di servizi iscritti nell’elenco degli intermediari finanziari.
7. Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del contratto. Il recesso della
pubblica amministrazione.
La giurisprudenza della Corte costituzionale e le Sezioni Unite della Cassazione hanno
confermato che con la stipulazione del contratto inizia la fase negoziale dell’esecuzione
del contratto.
Stipulazione che non è richiesta nel caso di formazione del contratto conclusasi con il
verbale di aggiudicazione che assume effetto legale di contratto.
La stipulazione è obbligatoria nella trattava privata e nei casi previsti dal bando di gara o
nella lettera di invito o dalla legge, per cui la mancata stipulazione del contratto comporta
il danno da responsabilità precontrattuale per culpa in contraendo in capo
all’amministrazione che abbia esercitato la facoltà di recesso.
Il Codice del 2006 rinvia al momento della stipulazione la conclusione del contratto, che
deve avvenire di regola entro 60 giorni, salvo deroghe, dal momento in cui l’aggiudicazione
definitiva acquista efficacia. In caso di inosservanza del temine o mancata indicazione di
esso, l’aggiudicatario potrà sciogliersi dal vincolo contrattuale salvo rimborso delle spese.
In ogni caso il contratto non può essere stipulato prima di 35 giorni dall’avvio dell’ultima
delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva, tranne deroghe
tassative.
La stipulazione, oggi di competenza dei dirigenti pubblici, può avvenire in tre forme:
a) forma pubblica amministrativa, a mezzo ufficiale rogante;
b) atto notarile e scrittura privata in caso di trattativa privata;
c) forma elettronica
Una volta stipulato, l’esecuzione del contratto può essere condizionata, salvo motivate
esigenze di urgenza, dall’approvazione della competente autorità che deve essere
diversa da quella che ha proceduto all’aggiudicazione.
L’approvazione costituisce la fattispecie integrativa dell’efficacia del contratto, in quanto
condicio juris cui è subordinata la produzione degli effetti del contratto.
Pertanto, l’approvazione determina la linea di confine tra disciplina privatistica e
pubblicistica del contratto, in quanto prima e dopo la sua adozione il contratto è
assoggettato alle rispettive discipline.
In particolare, con l’approvazione del contratto si apre la fase del controllo, che è ancora
prevista nel nostro ordinamento sia per i contratti di Stato con il visto di registrazione della
Corte dei conti, sia per i contratti degli enti locali, sia per i contratti di appalto di lavori,
servizi e forniture.
Invero, si tratta di un controllo preventivo di legittimità diretto all’esecutività del contratto,
in quanto l’amministrazione, in caso di diniego del visto di registrazione, può insistere per
la registrazione ovvero accogliere le eccezioni e procedere al ritiro dell’atto non ancora
efficace con motivazione delle ragioni che l’hanno indotta ad aderire al diniego del visto di
registrazione.
Un ruolo importante è svolto dall’Autorità per la vigilanza sui contratti di lavori e
forniture (AVCP), cui spetta di garantire che l’esecuzione del contratto avvenga nel
rispetto dei principi di economicità ed efficienza.
A seguito dei prescritti controlli, il contratto diventa efficace e può essere eseguito
secondo la disciplina propria del diritto privato anche se all’amministrazione spettano
speciali poteri in funzione di tutela dell’interesse pubblico.
130
In particolare, l’art. 21 sexies della legge 241/1990 prevede il recesso dell’amministrazione,
in quanto essa può rivedere le proprie scelte contrattuali secondo le norme del codice
civile.
Tuttavia, anche il recesso dell’amministrazione deve essere subordinato ad esigenze di
pubblico interesse, coerentemente alla funzionalizzazione delle attività contrattuali poste
dalla medesima. Pertanto, in caso di recesso l’amministrazione deve corrispondere un
indennizzo al contraente per la facoltà riconosciuta al soggetto pubblico dalla legge o dal
contratto.
Da tale ambito restano esclusi i contratti di diritto privato di cui all’art. 21 quinquies,
comma 1 bis aggiunto dalla legge 40/ 2007, in quanto contratti di diritto pubblico, come le
concessioni di beni e servizi.
8. Il regime giuridico degli atti amministrativi ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza configura gli atti della fase di formazione del contratto come
provvedimenti amministrativi, pertanto essi possono essere, in quanto tali, annullati o
revocati in autotutela, alla luce del principio del buon andamento.
All’aggiudicazione definitiva è riconosciuta natura negoziale, in quanto atto conclusivo del
procedimento di scelta del contraente.
Da ciò derivano diverse conseguenze, come la adeguata motivazione che deve
accompagnare l’annullamento d’ufficio o la revoca di una gara pubblica, soprattutto se si è
avuta aggiudicazione provvisoria: la motivazione dovrà indicare le ragioni di pubblico
interesse tali da giustificare l’incisione della posizione dei terzi.
A pena di illegittimità, l’esercizio di tale potere va preceduto dalla comunicazione di avvio
del relativo procedimento, per garantire all’interessato, titolare di una posizione giuridica
qualificata, il contraddittorio procedimentale, secondo altro orientamento non è dovuta la
comunicazione, poiché il provvedimento di autotutela ha natura endoprocedimentale.
Gli atti del procedimento di formazione del consenso, in quanto provvedimenti, possono
essere sospesi o annullati dal giudice amministrativo. Il giudice amministrativo ritiene che
l’aggiudicazione provvisoria abbia natura endoprocedimentale, e sia pertanto inidonea a
produrre effettiva lesione dell’impresa non aggiudicataria, sicchè la stessa non è
immediatamente impugnabile a meno che non inibisca a tale impresa l’ulteriore
partecipazione al procedimento.
È invece sempre impugnabile l’aggiudicazione definitiva, anche se non era stata in
precedenza impugnata quella provvisoria: la definitiva non è un atto meramente
confermativo della provvisoria, ma è diversa per forma, contenuto, soggetto e presuppone
in ogni caso nuova e autonoma valutazione dei fatti, delle norme e delle circostanze di
gara..
Il ricorso contro l’aggiudicazione definitiva comporta la sospensione automatica della
stipula del contratto fino alla decisione cautelare o di merito.
8.1 Segue. Annullamento degli atti della procedura, in particolare dell’aggiudicazione, sorti
del contratto e giudice competente.
Secondo la giurisprudenza costante del g.a. gli atti della formazione del contratto sono
provvedimenti amministrativi assoggettabili al relativo regime, per cui possono essere
annullati o revocati in autotutela alla luce del principio del buon andamento.
La giurisprudenza ha precisato che a tutela dell’affidamento dei partecipanti si pongono i
poteri di autotutela dell’amministrazione, in quanto si richiede adeguata motivazione sulle
ragioni del sottostante interesse pubblico che va ad incidere nelle posizioni dei terzi.
Gli atti del procedimento di formazione del consenso, infatti, possono essere sospesi o
annullati dal g.a., innanzi al quale possono ricorrere i soggetti le cui posizioni risultano lese
dalla loro emanazione, da cui la posizione di interessi legittimi in capo ai soggetti
partecipanti alla gara informale che precede la trattativa privata.
131
Anche gli atti diversi dall’aggiudicazione, infatti, possono essere impugnati in quanto
suscettibili di lesione immediata e autonomamente impugnabile è il bando di gara allorché
contenga clausole che impongono oneri tali da rendere impossibile la partecipazione alla
gara o la presentazione dell’offerta.
Quanto all’aggiudicazione, provvisoria o definitiva, va considerata la sua connessione con
il relativo procedimento, per cui si ammette l’annullamento ex tunc di ogni atto del
procedimento di formazione del consenso in quanto esso incide sulla validità del contratto
determinandone l’annullabilità per vizio del consenso, per legale incapacità
dell’amministrazione di contrarre, per difetto di legittimazione negoziale che può essere
esperita innanzi al g.o. soltanto dalla parte interessata ex art. 1441 c.c., ossia
dall’amministrazione contraente.
Tale orientamento è stato criticato dalla dottrina in quanto è stato rilevato come esso
finisce per frustrare le aspettative dei soggetti interessati che hanno ottenuto
l’annullamento da parte del g.a., restando in concreto privi di risultati utili.
Il g.a., inaftti, offre diverse soluzioni, in quanto il contratto nullo per contrasto a norme
imperative, come quelle sull’evidenza pubblica, consente l’inidoneità dello stesso a
produrre effetti giuridici nei confronti dell’altro contraente.
Di conseguenza, l’annullamento di un atto della procedura viene a determinare, oltre
all’annullamento per illegittimità derivata degli atti ulteriori del procedimento, la
caducazione automatica del contratto stipulato, senza che venga promossa azione
giurisdizionale.
La deroga a tale orientamento comporta che l’annullamento degli atti della procedura
amministrativa, a monte del contratto, porta alla caducazione automatica di questo tanto
da rendersi necessaria la previsione di apposita disposizione in senso contrario a tutela
dell’interesse pubblico preminente.
Di diverso avviso è, invece, quella dottrina che rimette la sorte del contratto alla disciplina
generale del codice civile, per cui gli atti compiuti in sede di deliberazione restano validi
insieme ai diritti acquisiti dai terzi in quanto il privato contraente venga riconosciuto in
buona fede.
7. Responsabilità della p.a. e profili di tutela giurisdizionale
Nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica la p.a. risponde dei danni cagionati a
titolo di responsabilità precontrattuale, contrattuale ed extracontrattuale.
La responsabilità precontrattuale ricorre quando l’amministrazione viola l’art. 1337 c.c., in
quanto tiene un comportamento contrario a buona fede e correttezza e tale fattispecie può
rinvenirsi nelle procedure c.d. negoziate tra cui la trattativa privata.
L’amministrazione, tuttavia, risponde dei danni causati a titolo di responsabilità
precontrattuale anche nelle procedure c.d. aperte, in cui i criteri di scelta del contraente
sono stabiliti dalla legge, per cui l’amministrazione, ad esempio, ha revocato
l’aggiudicazione a favore di altra impresa.
La responsabilità contrattuale, invece, si ha nel caso in cui l’amministrazione non dia
esecuzione al contratto già concluso per cui risponde per inadempimento ex art. 1218 c.c. e
tale fattispecie non deve essere sorretta da ragioni di pubblico interesse.
La responsabilità extracontrattuale, infine, si ha nel caso in cui il danno subito dalla
controparte privata non sia conseguenza degli obblighi contrattuale, ma derivi dalla
violazione del principio del neminem laedere, per cui si verifica un illegittimo esercizio
della funzione amministrativa.
Sotto il profilo della individuazione del giudice competente, la dottrina e la giurisprudenza
distinguono tra contratti in cui è parte una p.a. in relazione all’attività ad evidenza pubblica
ed attività di diritto privato.
132
Pertanto, l’approvazione ovvero la stipulazione segnano il confine tra le due giurisdizioni,
in quanto le controversie relative alla fase di formazione della volontà contrattuale sono
devolute alla giurisdizione di legittimità del g.a., mentre quelle relative all’esecuzione del
contratto sono di competenza del g.o.
Tale principio generale di riparto della giurisdizione ha subito deroghe nell’affidamento di
lavori, servizi e forniture, che sono state devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a., di cui
agli artt. 244 e 245 del Codice dei contratti.
Di conseguenza, il giudice competente a conoscere le questioni relative al risarcimento del
danno da responsabilità precontrattuale è il g.a. in sede di giurisdizione esclusiva, laddove
l’amministrazione incorre in responsabilità contrattuale la giurisdizione spetta al g.o in
quanto ci si trova in una fase propria dell’esecuzione del contratto.
Capitolo 3
Comportamenti non provvedi mentali produttivi di effetti giuridici
1. La segnalazione certificata di inizio di attività. I precedenti normativi e l’evoluzione
dell’istituto.
La s.c.i.a. – già dichiarazione di inizio attività - contemplata all’art. 19 della legge 241/
1990, originariamente denominata denuncia, è un istituto di semplificazione
procedimentale disciplinato dalla legge sul procedimento più volte modificata.
La s.c.i.a. nasce nel 2010 – dopo 20 anni di d.i.a – con tratti analoghi all’originario istituto,
poi ritoccata nel 2011.
Il fondamento dell’istituto consiste nel fatto che il privato può sostituire a tutta una serie di
provvedimenti autorizzatori, una segnalazione (prima dichiarazione), correlata da
autocertificazioni attestanti il possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento di
un’attività normalmente soggetta a regime autorizzatorio.
Invero, il testo originario dell’art. 19 era notevolmente diverso da quello elaborato dalla
Commissione Nigro, in quanto si prevedeva che il governo individuasse i casi in cui
l’esercizio dell’attività privata, subordinato all’autorizzazione, licenza o abilitazione, nulla
osta, permesso o altro atto di consenso poteva essere intrapreso su denuncia di inizio
dell’attività stessa da parte dell’interessato all’amministrazione competente, che verificava
d’ufficio la sussistenza dei presupposti di legge al fine di predisporre, con provvedimento
motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività ovvero la rimozione dei suoi effetti.
L’art. 2, comma 10, della legge 537/1993 ha sostituito l’art. 19, per cui il rilascio del
suddetto provvedimento viene fatto dipendere esclusivamente dall’accertamento dei
requisiti di legge senza esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni
tecniche discrezionali, per cui l’atto di consenso s’intende sostituito da una denuncia di
inizio di attività da pare dell’interessato all’amministrazione competente che attesta la
sussistenza dei presupposti e requisiti di legge eventualmente corredata da
autocertificazione.
L’impostazione originaria dell’istituto, dunque, venne radicalmente modificata e per le
attività esercitabili veniva esclusa la previa valutazione tecnico- discrezionale
dell’amministrazione.
A seguito di tale modifica vennero individuate in apposita tabella le attività escluse dal
regime di cui all’art. 19, e tale tabella avrebbe dovuto essere aggiornata ogni sei mesi.
La normativa è rimasta invariata dono al d.l. n. 35/2005 convertito in legge 80/2005 che
ha riscritto l’art. 19, prevedendo che ogni atti di autorizzazione, licenza, concessione non
costituiva, permesso o nulla osta, comprese le domande per l’iscrizione in albi o ruoli
richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio
dipende esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti
133
amministrativi a contenuto generale, è sostituito da una dichiarazione dell’interessato
corredata delle certificazioni ed attestazioni richieste.
Decorsi trenta giorni dalla presentazione di tale dichiarazione può avere inizio l’attività con
obbligo dell’interessato di notiziare all’amministrazione contestualmente tale inizio.
L’amministrazione poteva esercitare a posteriori il controllo sull’attività iniziata
limitatamente all’eventuale carenza delle condizioni, modalità o fatti legittimanti e tale
controllo andava esercitato entro trenta giorni dalla comunicazione dell’avvio dell’attività.
Novità di rilevo, mantenuta nell’art. 19, è la previsione del potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ovvero revoca o annullamento
d’ufficio. L’art. 19 è stato nuovamente modificato con legge n. 69/2009, che ne estende il
campo di applicazione all’istituto dell’asilo e della cittadinanza.
2. Il regime giuridico della segnalazione certificata di inizio attività.
L’art. 19 è stato integralmente sostituito dall’art. 49 legge 122/2010, ma al di la della
denominazione non si discosta particolarmente dal precedente istituto della dia.
È parzialmente mutato l’elenco degli atti ai quali l’istituto non è applicabile: tutela della
salute e della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente; la
s.c.i.a. non è ammessa nei casi in cui sussistono vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, inoltre tra le materie esclude vi sono quelle disciplinate dalla normativa per le
costruzioni nelle zone sismiche.
Viene poi semplificato il regime di acquisizione di pareri obbligatori: se la legge prevede la
necessità di acquisirli o eseguire verifiche preventive, essi sono sostituiti dalle
autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni che devono corredare la scia,
fatte salve le verifiche successive da parte della amministrazioni competenti.
In generale i privati hanno facoltà di iniziare l’attività oggetto di scia, sin dalla data di
presentazione della stessa all’amministrazione, che ha 60 giorni per adottare i
provvedimenti inibitori e ripristinatori, decorso tale termine potrà intervenire solo in
presenza del pericolo di danno per il patrimonio artistico, culturale, ambiente, salute,
sicurezza pubblica, difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di
tutelare comunque gli interessi conformando l’attività del privato alla normativa vigente.
Ancora oggi è sostenuta l’assenza di esercizio di discrezionalità amministrativa nella
fattispecie di cui all’art. 19 della legge. Invero, il rilascio di tale atto dipende
esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge, per cui si è
riguardato
ad
una
discrezionalità
tecnica
esercitata
dall’amministrazione
nell’apprezzamento dell’attività amministrativa.
Altro problema si è posto in ordine all’estensione alla s.c.i.a. dell’art. 19, alla materia
edilizia: la giurisprudenza, in via cautelare e contrariamente agli indirizzi del governo, ha
affermato che la disciplina dettata da tale articolo è da considerarsi in rapporto di species a
genus rispetto alla disciplina contenuta nel Testo Unico sull’edilizia n. 380/2001, mentre
la dottrina pone dubbi di legittimità costituzionale sulla possibile violazione della
competenza legislativa concorrente delle regioni in materia urbanistica ed edilizia.
La legge 106/2011 dispone che l’art. 19 si applichi alle denunce di attività in materia
edilizia, salvo i casi in cui esse siano alternative o sostitutive del permesso di costruire.
3. Natura giuridica del c.d. effetto abilitativo della s c.i.a.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che scaturisca un effetto tacito di assenso, dalle
determinazioni amministrative adottate ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della
legge 241/90.
Infatti, ai sensi dell’art. 21 quinquies e 21 nonies sul potere dell’amministrazione di
assumere determinazioni in via di autotutela, si è riproposto il tema della tutela dei terzi
pregiudicati dal c.d. effetto abilitativo della d.i.a.
134
Prima della novella, si riteneva che il decorso del termine assegnato all’amministrazione
per la verifica di conformità della d.i.a. non determinasse la formazione di un sostanziale
silenzio assenso o di consenso tacito, per cui il terzo pregiudicato dall’eventuale
inadempimento dell’amministrazione poteva ricorrere avverso tale silenzio sull’istanza di
inibizione alla prosecuzione dell’attività.
Con la novella del 2005 tale orientamento ha trovato conforto nel potere di autotutela
riconosciuto all’amministrazione, per cui con la d.i.a. non s’incide su di un atto
amministrativo tacito, ma si riconosce per l’amministrazione di adottare, successivamente
alla scadenza del termine dei trenta giorni, provvedimenti di divieto di prosecuzione della
stessa e di rimozione dei suoi effetti.
Di conseguenza, come ribadito da altro orientamento, con il decorso del termine si viene a
formare un’autorizzazione implicita di natura provvedimentale che può essere contestata
dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza dei sessanta giorni, decorrenti dalla
comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a.
A sostegno della diretta impugnabilità della d.i.a. a seguito della decorrenza del suddetto
termine, il legislatore ha contemplato all’art. 19 e 20 altrettante fattispecie di silenzio
assenso.
La questione è rimasta controversa.
Il d.l. 138/2001 convertito in legge n. 149/2011, ora ha previsto espressamente che la
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività, si
riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili: pertanto gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione, ed in caso di inerzia, esperire l’azione contro il silenzio
inadempimento
4. Il silenzio assenso: profili generali.
A differenza della s.c.i.a., il silenzio assenso, ex art. 20 della legge 241/ 1990, non è un
istituto nuovo, in quanto già previsto dal decreto Nicolazzi n. 9 del 1982 convertito in legge
94 del 1982.
In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che i principi fondamentali in materia di
silenzio assenso siano recepito dalla disciplina generale di cui all’art. 20 della legge
241/1990.
Si riconosce, infatti, che la disciplina sul silenzio assenso è derogatoria la regime ordinario
di rilascio del titolo, per cui deve ritenersi eccezionale e che esso si forma con il decorso del
tempo stabilito dalla legge a condizione che la domanda sia completa di tutta la
documentazione prescritta nonché esso produce i suoi effetti giuridici soltanto in presenza
di tutti i presupposto stabiliti dalla legge.
5. Il silenzio assenso nella legge generale sul procedimento amministrativo. Evoluzione
dell’istituto.
Il testo originario dell’art. 20 della legge 241/1990 prevedeva che un regolamento
governativo (d.p.r. 300/1991) determinasse i caso in cui il rilascio di una dichiarazione,
licenza, abilitazione, nulla osta, permesso od altro atto di consenso potesse considerarsi
accolta in assenza di comunicazione all’interessato del provvedimento di diniego entro il
termine fissato dal regolamento per categorie di atti in relazione alla complessità del
rispettivo procedimento.
Conformemente alle indicazioni di cui all’art. 20, la giurisprudenza riteneva che
l’amministrazione competente potesse annullare l’atto di assenso illegittimamente
formato, salva la sanatoria dei vizi da parte dell’interessato entro un termine prefissato
dall’amministrazione stessa.
135
Si trattava di un regolamento di delegificazione per i casi tassativamente indicati di silenzio
assenso.
In particolare, l’art. 20 come novellato ha disposto che, salvo il regime di cui all’art. 19, nei
procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio
dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento dell’istanza,
senza necessità di ulteriori domande o diffide se la medesima amministrazione non
comunica all’interessato, entro il temine di cui all’art. 2 commi 2 e 3, il provvedimento di
diniego ovvero non indice, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, una
conferenza di servizi, in cui si tengano conto anche delle situazioni giuridiche dei contro
interessati.
In accoglimento dell’orientamento giurisprudenziale, il regime del silenzio assenso è stato
esteso alle materie c.d. sensibili, quali il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente,
la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, la salute e la pubblica
incolumità.
6. Regime giuridico del silenzio assenso.
Dopo la riforma del 2005 il silenzio assenso è divenuto da istituto di carattere eccezionale
ad istituto di carattere generale.
Il regolamento governativo, infatti, è ora chiamato ad individuare i csi in cui esso non trova
applicazione analogamente a quanto previsto dalla Commissione Nigro.
Perplessità sono state sollevate dalla dottrina in riferimento all’art. 29, comma 1 della legge
241/ 1990 secondo cui le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti
amministrativi che si svolgono nell’ambito di amministrazioni statali e degli enti pubblici
nazionali ed a tutte le amministrazioni pubbliche.
Di difficile interpretazione, invece, risulta il comma 2 dell’art. 29 della legge laddove
dispone che le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le
materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle
garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai
principi stabiliti dalla presente legge.
Quest’ultimo obbligo impone ai legislatori regionali il rispetto della sola Costituzione e dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali e non anche
dei principi generali delle leggi ordinarie per cui sarebbe in palese contrasto con l’art. 117,
comma 1, Cost.
Pertanto, v’è da chiedersi se la previsione dell’istituto che legittima l’amministrazione a
restare inerte, ossia a sottrarsi al dovere d’ufficio, sia conforme o meno al principio
costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.
7. La procedura di formazione del silenzio assenso
Effetto legale tipico dell’assenso si forma se l’amministrazione non comunica il diniego nei
termini prescritti dalla legge ovvero dal regolamento per le singole tipologie di
provvedimento ovvero nel termine massimo di novanta giorni.
L’alternativa all’adozione del diniego è l’indizione della conferenza di servizi ai sensi del
Capo IV in cui si tengono conto delle situazioni giuridiche dei contro interessati che
consente all’amministrazione di valutare contestualmente gli interessi pubblici coinvolti
nel procedimento.
All’amministrazione spetta l’esercizio del potere di autotutela nei confronti del
provvedimento tacito, ex art. 20, comma 2 della legge.
Inoltre, il termine per la formazione dell’effetto legale tipico dell’assenso è sospeso, ex art.
20, comma 5, ove leggi o regolamenti richiedano l’acquisizione di valutazioni tecniche di
organi o enti appositi con decorrenza dei termini di cui all’art. 2, comma 4 della legge.
136
Il termine è sospeso altresì per il tempo e nei limiti di cui all’art. 10 bis ove
l’amministrazione riesca a condurre la procedura sino alla comunicazione all’interessato
dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza nei termini di conclusione del
procedimento.
Parte 7
Poteri pubblici ed economia
Capitolo 1
Le funzioni di regolazione del mercato
1. Ordine economico e funzione amministrativa. Neutralità e conformatività del precetto
giuridico.
Molteplici fattori, interni ed esterni, influenzano l’andamento dei rapporti tra potere
pubblico ed economia ed assai significativo è il riferimento alla costituzione
economica, e cioè alle norma costituzionali in materia economica onde valutare la scelta
globale dell’ordine economico.
Invero, il sistema giuridico, seppure neutrale rispetto a quello economico, ne condiziona
necessariamente il funzionamento, per cui risulta evidente come in concreto un
determinato modello di politica economica sarebbe l’espressione in base al quale definire il
ruolo dello Stato nell’economia.
Dunque, in un sistema democratico – pluralista, in cui è garantito il pluralismo dei valori
ed interessi di politica economica, la costituzionalizzazione dei rapporti economici esprime
l’esigenza dell’organizzazione economica alla stregua di quella politica e sociale, da cui
emerge il limite nella determinazione del ruolo dello Stato nell’economia, in quanto esso
potrebbe pregiudicare la realizzazione dei primi.
Tuttavia, per giustificare la presenza del pubblico in economia si distingue tra la c.d.
costituzione economica formale, intesa come l’insieme di norme costituzionali sui
rapporti economici individuati soltanto a livello di dettato costituzionale e la c.d.
costituzione economica materiale, e cioè la determinazione di un dato momento
storico di quei condizionamenti che provengono altresì dal sistema comunitario.
In generale, considerando le differenti opzioni che si riflettono sugli assetti organizzativi
pubblici in economia, possiamo avere la posizione da un lato dello Stato – imprenditore
ovvero dello Stato – regolatore.
2. Ordine economico e pluralismo dei valori.
Le costituzioni dell’Europa continentale, ed in particolare la nostra, sono caratterizzate dal
modello di democrazia pluralista, che si adegua alle esigenze via via manifestate dalla
società, anche e soprattutto nella scelta del modello economico concorrenziale, che non
può essere il frutto del gioco di forza tra le forze politiche e sociali.
Ecco che allora le costituzioni debbono offrire le coordinate essenziali (in positivo e in
negativo) per disciplinare il rapporto tra Stato ed economia, in termini di garanzia per i
diritti fondamentali dei cittadini.
La neutralità della costituzione garantisce che l’ordinamento della vita economica
della comunità, sia funzionale alla garanzia dei valori fondamentali attorno ai quali
essa ruota, facendo si che lo Stato possa intervenire nell’economia ovvero lasci in vita un
sistema pienamente concorrenziale, nel quale il suo ruolo è quello di garantire il corretto
funzionamento del mercato.
Sono opzioni differenti che incidono sugli assetti organizzativi pubblici, individuando nel
primo caso uno stato imprenditore, e nel secondo uno stato regolatore.
3. Sulla disciplina costituzionale dei rapporti economici
137
La disciplina costituzionale dei rapporti economici risulta dagli artt. 35 – 47 Cost., in cui si
coglie il compromesso delle forze cattolico- liberali- socialiste presenti in Assemblea
costituente, nell’ambito del quale si rileva da un lato il fondamento della garanzia della
libertà dell’iniziativa economica e dall’altro i correttivi pubblici a tutela della persona
umana tali da giustificare la riserva in favore del pubblico in determinati settori di attività,
c.d. nazionalizzazione.
Di qui, il modello proprio del sistema liberali di cui all’art. 41 Costi in tema di libertà
dell’iniziativa economica, cui va ricondotto il quadro programmatorio in cui i soggetti
pubblici possono condizionare – orientare i privati nell’esercizio di tale attività, come nel
caso di sovvenzioni a favore di determinate categorie di imprenditori, ovvero stabilire
condizioni di monopolio di cui all’art. 43 Cost, come nella nazionalizzazione dell’energia
elettrica.
Inoltre, il Titolo III, dedicato ai rapporti economici contempla altresì le disposizioni sulla
proprietà privata, che è riconosciuta e garantita dalla legge ex art. 42 Cost, per cui in
base a disposizioni di legge vengono soddisfatte in modo diretto bisogni collettivi e fissati
speciali vincoli che limitano il diritto di proprietà dei privati.
La proprietà, dunque, nel quadro costituzionale non è configurata in termini assoluti in
ragione dei due interessi, individuale e collettivo, ove in contrasto con il primo, il secondo
può prevalere nei limiti di proporzionalità a beneficio dell’intervento pubblico in ragione
della funzione sociale, ex art. 42, comma 3, Cost.
In particolare, la funzione sociale della proprietà è assicurata dal costituente anche
attraverso il riconoscimento dell’ablazione di beni di proprietà (espropriazione) per motivi
di interesse generale e salvo indennizzo, ex art. 42, comma 3, Cost., nonché dalla previsioni
di cui all’art. 44 Cost, in cui è prevista la possibilità di vincolare la proprietà terriera al fine
di consentire il razionale sfruttamento delle risorse del suolo sino all’estremo di giungere
all’integrale sacrificio dell’interesse proprietario in virtù del principio di eguaglianza
sostanziale.
4. Modelli di organizzazione del mercato
Negli articoli 41, 43 e 45 Cost. è delineato il nucleo centrale della disciplina costituzionale
relativa ai rapporti tra Stato ed economia, da cui emergono tre modelli di organizzazione
ispirati il primo al principio del libero mercato, il secondo a quello del monopolio
pubblico, il terzo all’autoproduzione.
In particolare, l’art. 41 Cost. risulta essere una disposizione complessa, in cui oscillano due
diversi estremi di modelli di liberalismo economico, prevalente nel 1 comma ed un modello
economico interventista di cui al comma 3 e ancora nel successivo art. 43 Cost.
Invero, nel comma 1 dell’art. 41 Cost. è sancito che la libertà di iniziativa economica privata
è libera, che non è intesa come libertà assoluta, in quanto risulta da un bilanciamento con
la sicurezza, la libertà e la dignità umana e con l’utilità sociale di cui all’art. 41, comma 2,
Cost.
Occorre sottolineare che l’iniziativa economica privata e pubblica, è indirizzata e
coordinata a fini sociali con legge, programmi e controlli opportuni ex art. 41, comma 3,
Cost., per cui si esclude che quella pubblica possa godere di vantaggi rispetto a quella
privata.
Pertanto, la libertà di iniziativa economica privata viene qualificata in termini di libertà e
contemplata dal costituente nella possibilità per il legislatore di introdurre limitazioni
rientranti nei commi 2 e 3 dell’art. 41 Cost.
A tale quadro costituzionale si aggiunge l’art. 43 Cost. , che contempla la possibilità di una
riserva originaria o di trasferimento, mediante espropriazione e salvo indennizzo in favore
dello Stato, di enti pubblici e di comunità di lavoratori ed utenti, di determinate categorie
138
di imprese che si riferiscono a fonti di energia o situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale ovvero a servizi pubblici essenziali.
L’art. 43 Cost. contiene una deroga al principio generale di cui al comma 1, dell’art. 41
Cost., in quanto specifica il contenuto del comma 2 dell’art. 42 Cost. riferendosi a tali
specifici servizi ed attività sovraindicati previsti a tutela dell’interesse generale.
Infine, l’art. 45 Cost. riconosce e garantisce l’artigianato e la coopera zone a carattere di
mutualità senza fini di speculazione privata di cui viene riconosciuta la funzione sociale.
Cooperazione che riguarda tanto l’offerta di forza lavoro, quanto l’acquisto di beni, per cui
essa può assumere carattere di funzione sociale soprattutto se acquisto di servizi sociali.
5. Sui principi comunitari
A conferma dell’elasticità delle previsioni costituzionali relative alla disciplina dei rapporti
economici, l’organizzazione della politica economica ha subito variazioni nel tempo
essendosi assistito ad una gradua evoluzione del ruolo dello Stato che da erogatore di
servizi, quale imprenditore, si è posto come regolatore del mercato positivizzando regole
concernenti il corretto funzionamento dello specifico settore del mercato al quale il
soggetto pubblico è preposto.
Un ruolo determinante nel passaggio dello Stato interventista allo Stato regolatore è da
attribuirsi all’ingresso nella Comunità europea, oggi UE.
L’art. 3 del Trattato CE colloca il mercato tra gli strumenti cui vanno orientati gli obiettivi
dell’Unione.
In particolare, la tutela della concorrenza costituisce un elemento indispensabile nel
quadro sistematico del Trattato al fine di realizzare i fini economici e sociali del mercato e
sul quale vigila la Commissione al fine di garantire l’attuazione della politica economica
secondo il principio di mercato aperto ed in libera concorrenza.
Pilastri della politica della concorrenza sono le disposizioni contenute nel Capo 1, regole di
concorrenza tra cui rientra il divieto di intese che pregiudicano la concorrenza, di
abuso di posizione dominante nonché la disciplina delle imprese pubbliche.
All’art. 81 TCE sono dichiarati incompatibili con il mercato comune, e quindi vietati, tutti
gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche
concordate che possono pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per
oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno
del mercato comune.
Il successivo articolo riguarda gli abusi di posizione dominante, che non sono sanzionati ex
se, ma nella misura in cui il soggetto titolare pone in essere un comportamento che, grazie
a tale posizione, può pregiudicare il commercio tra gli Stati membri, c.d. sfruttamento
abusivo.
L’art. 86 TCE stabilisce la disciplina delle imprese pubbliche che sono equiparate a
quelle private nella rispettiva soggezione alle norme del Trattato e si fa espresso divieto agli
Stati membri di emanare o mantenere nei confronti di imprese pubbliche e delle imprese
titolari di diritti speciali esclusivi misure che restringono la concorrenza, in contrasto con
la normativa comunitaria. Unica eccezione è prevista per le imprese incaricate della
gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale,
la cui sottoposizione alle regole del Trattato può essere esclusa qualora tale applicazione
contrasti con l’adempimento della loro specifica missione.
Il secondo gruppo di norme riguarda le regole applicabili agli Stati ai quali è fatto
divieto di concedere aiuti (c.d. aiuti di stato), anche mediante risorse statali, sotto
qualsiasi forma, ad imprese o categorie di imprese che risulterebbero immotivatamente
agevolate rispetto alle imprese concorrenti.
La Commissione e la Corte di giustizia hanno elaborato un sistema di analisi, c.d. v.i.s.t. –
valutazione, incidenza, selettività, trasferimento – al fine di verificare la sussistenza
139
di un aiuto qualificato in termini di aiuto dello Stato nell’erogazione di risorse a favore di
un impresa il quale può essere direttamente accordato dallo Stato anche mediante enti
pubblici territoriali ovvero società controllate dallo Stato.
Alla disciplina contenuta nel Trattato si aggiungono le disposizioni del regolamento 4064/
1989 sostituito dal regolamento 139/ 2004 sulle concentrazioni, che si hanno quando
due o più imprese procedono alla fusione oppure quando una o più persone detengono il
controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese detengono, direttamente o
indirettamente, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese. Le concentrazioni
devono essere autorizzate della Commissione alla quale compete l’accertamento della loro
compatibilità o meno con il mercato comune.
Con il regolamento del 2004 è stato introdotto il controllo preventivo su tutte le operazioni
di concentrazione nelle quali il fatturato superi una determinata soglia, da cui il rispetto
delle autorità nazionali all’applicazione della disciplina comunitaria perché intese ed abusi
di posizione dominante non siano pregiudizievoli per il commercio tra gli Stati membri.
6. Evoluzione delle forme di intervento statale nell’economia
A partire dagli anni Novanta si è assistito ad una progressiva valorizzazione dell’iniziativa
economica privata, con conseguente ripensamento delle modalità di intervento dei poteri
pubblici nella sfera economica.
Le origini di tale percorso risalgono alla grande crisi del ’29 nel quale si è assistito al
massiccio intervento pubblico in settori industriali che è perdurato anche nei primi anni
Cinquanta dell’esperienza repubblicana.
In tale periodo, infatti, si è assistito al marcato intervento dello Stato nell’economia con
conseguente innalzamento del debito pubblico tale da richiedere l’emanazione di
strumenti di regolamentazione dell’economia tesi a garantire un orientamento del mercato
secondo gli obiettivi prefissati a livello statale, come si è avuto con il CIPE.
In tale quadro di evoluzione dei rapporti tra Stato ed economia, si è assistito ad un
arretramento del prima nell’erogazione diretta di servizi a favore della collettività
confermato dalla regolamentazione del settore al fine di garantire il corretto
funzionamento del mercato.
Pertanto, sotto il profilo dell’organizzazione e della regolazione del mercato, si è assistito
ad un graduale abbandono della formula dello Stato imprenditore con contestuale
istituzione di autorità di regolazione del mercato connesse agli strumenti di pianificazione
e programmazione dello sviluppo economico.
L’incidenza del soggetto pubblico in economia venne altresì limitata dall’intervento
regolatorio compatibile con il mercato concorrenziale, in quanto si contemplò la
predisposizione di disposizioni il cui contenuto veniva espresso in termini adesivi o
correttivi dello stesso, con la conseguenza che l’eterorganizzazione pubblica viene a
contrapporsi allo stesso mercato al fine di garantire il suo corretto funzionamento.
In altri termini, la regolazione riferita ad attività private è tale che lo Stato pone regole di
determinazione del funzionamento efficiente di dette attività, per cui i relativi settori
risultano garantiti dal rispetto di dette regole ed i soggetti operano nel rispetto del
complesso dei poteri di controllo e di vigilanza nonché sanzionatori e di soluzione dei
conflitti.
6.1. Segue. La disciplina contenuta nella legge 14 settembre 2011, n. 148.
La riforma rappresentata da questa norma rappresenta il principio fondamentale per lo
sviluppo economico attraverso la piena concorrenza tra le imprese .
Innanzitutto si impone l’obbligo per tutti i centri di riferimento (comuni, province, regioni,
stato)di adeguare i propri ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività
140
economica privata sono libere, ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato
dalla legge.
Ne consegue l’estensione dell’operatività degli istituti della s.c.i.a. e dell’autocertificazione.
I divieti sono costituiti dai vincoli posti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, dal contrasto coi principi fondamentali della Costituzione, dai danni alla
sicurezza, libertà, dignità umana e contrasto con l’utilità sociale, dalle disposizioni a
protezione della salute umana, conservazione delle specie animali e vegetali, ambiente,
paesaggio e patrimonio culturale, e dalle disposizioni che influiscano sulla finanza
pubblica.
Sono poi abrogate tutte le disposizioni che limitano l’accesso e l’esercizio delle attività
economiche; viene poi specificata la portata del termine “restrizione”, cioè le ipotesi
soggette ad interpretazione restrittiva, attraverso un’elencazione tassativa contenuta
nell’art. 9 della legge.
Sono escluse solo alcune attività, sottratte perciò, in tutto o in parte, all’abrogazione.
7. La funzione (amministrativa) di regolazione dei mercati.
La regolazione sotto il profilo soggettivo va circoscritta nel quadro dell’attività
amministrativa distinguendola dalla legislazione e dalla giurisdizione ed inquadrata come
funzione amministrativa.
Quanto al profilo teleologico si riguarda al tipo di incidenza che l’intervento ha nelle
attività dei privati, per cui s’indirizzano gli operatori economici al punto da vincolarli agli
obiettivi da raggiungere.
In quest’ottica la regolazione si caratterizza per i contenuti della stessa e, quindi, per gli
effetti che ne derivano. Di qui il passaggio della c.d. regulation alla re-gulation che
esprimono un diverso ruolo dello Stao che si manifesta mediante modalità di intervento
nel mercati teleologicamente e strumentalmente diverse.
In particolare, la regolazione si distingue dalle altre forme di intervento dello Stato in
quanto attività amministrativa per il corretto funzionamento del mercato e garantire la
concorrenzialità del medesimo.
Pertanto, applicando il criterio teleologico, la regolazione diviene espressione di una scelta
del legislatore volta ad improntare i rapporti tra Stato ed economia ad una logica diversa
per la quale la etero regolazione statale diviene parte del mercato stesso.
La scelta operata dal legislatore, infatti, deve partire dai beni ed interessi che s’intendono
tutelare rispetto ai quali si pongono le regole di condotta degli operatori economici. In
tal senso la regolazione è intesa come “administrative regolation” per cui i poteri politici
attuano una scelta mediante i diversi poteri e la regolazione viene affidata alle
amministrazioni indipendenti, finalizzate al corretto funzionamento del settore dell’attività
privata.
Invero, mentre nella regolamentazione emerge l’attitudine della etero
regolamentazione per cui si pone un principio esterno al mercato, nella regolazione,
invece, la c.d. administrative regulation è finalizzata a garantire il corretto
funzionamento e la stabilità del mercato.
Di conseguenza, le regole poste nelle codificazioni di diritto privato che disciplinando
i rapporti interprivati si distinguono dall’applicazione di regole proprie dell’adminastrive
regulation, laddove l’attuazione delle prime è garantita dall’autorità giurisdizionale mentre
per le seconde si predilige l’esercizio delle libertà dei singoli seppure nei limiti prefissati
dalla normativa di settore.
8. Le garanzie pubbliche e private nel mercato dei servizi di pubblica utilità
8.1. Il settore dell’energia elettrica.
141
9.1. Il settore dell’energia elettrica
Il settore dell’energia elettrica, disciplinato in ultimo dalla legge 359/1992 che ha
provveduto alla sua trasformazione da monopolio dell’Ente nazionale per l’energia
elettrica a società per azioni, è stato progressivamente aperto al mercato per effetto della
normativa comunitaria.
Il mercato elettrico è suddiviso in segmenti.
In particolare, il mercato elettrico pone in evidenza l’attività di produzione di energia
elettrica che, in quanto tale, è libera, da cui è stata prevista una procedura di autorizzazione
per la costruzione di nuovi impianti di produzione rilasciata dal Ministero per lo sviluppo
economico, previa intesa con la regione interessata e previo parere, obbligatorio e non
vincolante, degli enti locali interessati.
Le attività di trasmissione ad alta tensione dell’energia elettrica e quelle di
dispacciamento, che consistono nell’insieme di funzioni di coordinamento del trasporto
di energia, costituendo un monopolio naturale, sono affidate in regime di concessione ex
lege al gestore della rete, che attualmente è il proprietario della rete stessa, ossia la società
per azioni TERNA. Tale gestore ha l’obbligo di connettere alla rete tutti i soggetti che ne
facciano richiesta senza compromettere la continuità del servizio e deve assicurare il
rispetto delle regole determinate dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas.
Anche l’attività di distribuzione in media e bassa tensione dell’energia elettrica è
sottoposta al rilascio delle concessioni mediante gara, le cui modalità sono determinate con
regolamento del Ministero dello sviluppo economico, sentita la Conferenza unificata e
l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas.
Quanto all’attività di vendita dell’energia elettrica, si rileva che mentre la vendita tra
clienti che consumano quantità di energia elettrica superiore ad una certa soglia è
determinata dalla legge, c.d. clienti idonei, invece tutti gli altri clienti, c.d. clienti
vincolati, possono ricorrervi tramite apposita società controllata dallo Stato, laddove i
primi vi accedono mediante un meccanismo di asta.
In tale assetto, il sistema elettrico è regolato e garantito dai pubblici poteri, ossia dal
Governo, che determina gli obiettivi generali della politica energetica; dal Ministero dello
sviluppo economico, che provvede alla sicurezza e all’economicità del sistema elettrico
nazionale; infine, dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, che ha il compito di
garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza del settore.
8.2. Il settore dei trasporti.
Anche il settore dei trasporti è stato oggetto di liberalizzazione imposta dall’ordinamento
comunitario, in quanto è previsto che gli operatori privati possano accedere ai mercati a
condizioni non discriminatorie e di operarvi in regime di concorrenza e con limitazione dei
pubblici poteri alle sole funzioni regolatorie dei mercati stessi.
In particolare, il settore dei trasporti aerei è disciplinato in ambito comunitario dai
regolamenti CE n. 2407 del 1992, che subordina lo svolgimento dell’attività di vettore
aereo all’ottenimento della licenza rilasciata dagli Stati membri all’esito di procedure eque
ed accessibili al fine dell’accertamento dei requisiti tecnici di sicurezza, professionalità e
capacità finanziaria dei settori; dal regolamento n. 2048 del 1992, in virtù del quale a
partire dal 1 aprile 1997 saranno abbandonate dai vettori le rotte nazionali che risultano
antieconomiche, in quanto tali rotte potranno essere affidate in esclusiva a vettori
selezionati mediante procedure ad evidenza pubblica;
dal regolamento n. 2049 del 1992, che introduce il principio di piena libertà tariffaria.
In tale settore assume rilevanza l’Ente nazionale per l’aviazione civile, competente per la
sicurezza ed i diritti dei passeggeri e dell’ambiente e l’Enav s.p.a., responsabile del
controllo del traffico aereo.
142
Il settore dei trasporti ferroviari, attualmente disciplinato dalle direttive CE nn. 12, 13
e 14 del 2001, attuate dal d.lgs. n. 188/ 2003, è disciplinato secondo la separazione tra
soggetto gestore e soggetti erogatori del servizio di trasporto, i quali possono accedere
all’infrastruttura mediante licenza rilasciata dal Ministero dei trasporti previo
accertamento dei requisiti di capacità professionale e finanziaria stabiliti dalla legge.
Per il settore trasporti ferroviari non è stata istituita alcuna autorità di regolazione, per cui
le relative funzioni sono esercitate dal Ministero dei trasporti, che determina, su proposta
del gestore, il canone di utilizzo della infrastruttura ferroviaria e controlla le tariffe del
servizio ferroviario.
A seguito della liberalizzazione del marcato del trasporto ferroviario si è imposta la
riorganizzazione delle società Ferrovie dello Stato s.p.a., già ente pubblico economico e
monopolista del settore.
Pertanto, è stata conferitala gestione della rete ferroviaria alla Rete Ferroviaria italiana
s.p.a. e lo svolgimento dei servizi di trasporto alla Trenitalia s.p.a., le quali sono società
partecipate, per la totalità del capitale azionario, dalla stessa Ferrovie dello Stato s.p.a., a
sua volta totalmente partecipata dallo Stato, che svolge autorità di regolazione del settore
mediante il Ministero dei trasporti.
Per il settore del trasporto marittimo, disciplinato dai regolamenti nn. 4055/ 1986 e
3577/ 1992, valgono i principi analoghi a quelli illustrati per il trasporto aereo e, a tutela
della sicurezza e della concorrenza, è stata istituita un’apposita autorità di settore,
l’Agenzia europea per la sicurezza marittima.
8.3. Il settore delle telecomunicazioni
Il settore delle telecomunicazioni, disciplinato dal d.lgs. 259/ 2003 (Codice delle
comunicazioni elettroniche) è caratterizzato dal principio della libertà di accesso al
mercato e di tutela della concorrenza e dal principio di garanzia dei diritti degli
utenti dei servizi.
Il d. lgs. 259/ 2003 reca la disciplina di regolazione del settore rimettendola alle
disposizioni del Ministero delle comunicazioni e dell’Autorità per le garanzie nel settore
delle comunicazioni, Agcom.
Quanto alla libertà di accesso al mercato, si richiede l’ottenimento di un’unica
autorizzazione generale, rilasciata dal Ministero delle comunicazioni, secondo una
procedura modellata sull’art. 19 della legge 241/1990 e la cui funzione di vigilanza
sull’adempimento degli obblighi è rimessa al Ministero, mentre la funzione di regolazione
del mercato è rimessa all’Agcom.
In particolare, l’Agcom è divisa in due Commissioni, quella per le infrastrutture e le reti e
l’altra per i servizi ed i prodotti, e che sono composte da quattro commissari ciascuna, più
un unico Presidente, nominato con d.p.r. su proposta del Presidente del Consiglio dei
ministri, mentre gli otto commissari sono nominati per metà dalla Camera dei deputati e
per metà dal Senato.
Per quanto riguarda le competenze dell’Agcom, vi rientra il compito dell’analisi dei
mercati, in quanto questa procede alla individuazione delle aree di mercato relative a
prodotti o servizi le cui caratteristiche possono richiedere l’adozione di regolamentazioni
ex ante al fine di prevenire possibili distorsioni del mercato, stabilendo l’applicazione
ovvero la modificazione di obblighi regolamentari idonei a ripristinare la concorrenza. Le
controversie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. ed in primo grado vi è la
competenza funzionale del TAR Lazio.
Per quanto riguarda la garanzia del servizio nazionale, l’Agcom è dotata di penetranti
poteri, in quanto individua gli operatori tenuti agli obblighi di servizio universale mediante
procedure trasparenti e non discriminatorie ed è istituito un fondo presso il Ministero delle
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comunicazioni mediante il quale l’Agcom ripartisce i costi tra gli operatori del settore che
risultano svantaggiati nei servizi offerti.
Nel settore della radiotelevisione, l’Agcom è competente della vigilanza, con relativo potere
sanzionatorio, sul rispetto della disciplina in tema di pubblicità, di par condicio e di tutela
dei minori nonché sui piani di assegnazione delle frequenze.
Infine, spetta alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi l’esercizio dei poteri di indirizzo, di controllo, regolamentari e
consultivi sulla RAI nonché la nomina di sette dei nove membri del consiglio di
amministrazione della società e del parere favorevole della nomina del presidente, rimessa
al Ministero dell’economia e delle finanze.
9. Tutela della concorrenza e vigilanza dei mercati
9.1. La tutela della concorrenza.
E’ una funzione pubblica, rimessa all’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
Agcm, istituita con legge 287/ 1990, è un organo collegiale costituita dal Presidente e da
quattro membri, nominati con determinazione di intesa dai Presidenti di Camera e Senato,
tra persone che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande rilievo.
L’Agcm delibera le norme sulla propria organizzazione e funzionamento ed ha piena
autonomia di spesa nei limiti di un fondo stanziato nel bilancio dello Stato.
Le funzioni di tutela della concorrenza e del mercato ad essa riconosciute riguardano le
intese restrittive della libertà di concorrenza, per cui l’Agcm può notificare l’apertura del
procedimento istruttorio alle imprese interessate laddove ne ravvisi una presunta
violazione e queste hanno diritto di essere sentite entro un termine prestabilito, di
presentare memorie, deduzioni e pareri e di essere sentire prima della chiusura
dell’istruttoria. Terminata l’istruttoria, ove accerti l’infrazione, l’Agcm fissa un termine
alle imprese perché queste provvedano all’eliminazione della stessa e, nei casi più gravi,
applica sanzioni amministrative.
Nel settore relativo alle operazioni di concentrazione tra imprese, l’Agcm applica il
medesimo procedimento istruttorio, con la differenza che in tale caso sono le imprese a
dover dare la preventiva comunicazione all’Agcm delle operazioni di concentrazioni che
s’’intendono avviare.
L’Agcm, infine, ha il potere di segnalare al Parlamento ed al Governo l’esistenza di
provvedimenti legislativi, regolamentari ed amministrativi che determino distorsioni della
concorrenza ed esprimere pareri sulle iniziative legislative e regolamentari inerenti la
concorrenza del mercato.
Quanto alla natura dell’Autorità garante della con concorrenza e del mercato, si ritiene che
si tratti di un soggetto pubblico, in quanto è la legge che attribuisce ad essa la cura di una
pluralità di interessi pubblici e, correlativamente, la titolarità del potere politico di
ponderazione degli stessi a mezzo attività discrezionale e poteri sanzionatori avverso atti
anticoncorrenziali.
Tale attività, infatti, altro non è che attività amministrativa in senso proprio, che non può
essere ricondotta a poteri neutrali, per cui la natura giuridica dell’Agcm è amministrativa.
9.2. Il credito e il risparmio
Le funzioni di vigilanza e di garanzia in tale settore sono suddivise tra Circr, Banca d’Italia,
Ministero dell’economia e delle finanze, con ruolo principale della Banca d’Italia.
La Banca d’Italia, infatti, è un ente pubblico con capitale suddiviso in quote, che possono
appartenere a società bancarie e ad istituti di previdenza e di assicurazione. Si compone di
cinque organi:
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a) l’assemblea generale dei partecipanti, che approva il bilancio e nomina i membri del
consiglio superiore;
b) il consiglio superiore, che ha l’amministrazione generale della Banca e nomina il
governatore ed i quattro membri del comitato;
c) il comitato, di cui fa parte il governatore, che esercita funzioni consultive e altre
funzioni demandategli dal consiglio superiore;
d) il direttorio, composto da governatore, direttore e due vice-direttori generali, al
quale compete la direzione della banca;
e) il governatore, la cui nomina compete al consiglio superiore ed è approvata con
d.p.r., su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Consiglio dei ministri.
Al Governo, salvo la partecipazione alla nomina del governatore, non è riconosciuto alcun
potere direttivo della Banca d’Italia, per cui la si riconduce nell’ambito delle categorie delle
Autorità indipendenti.
Alla Banca d’Italia compete, in via esclusiva, la funzione di vigilanza e controllo sulle
banche, mediante poteri ispettivi e sanzionatori.
Più limitate appaiono le funzioni del Cicr, al quale compete l’alta vigilanza in materia di
credito e tutela del risparmio, e del Ministero dell’economia e delle finanze, al quale
spettano poteri normativi ed amministrativi tra cui la determinazione, mediante
regolamento, dei requisiti di onorabilità dei soci e di professionalità degli esponenti
aziendali delle banche e le decisioni in ordine all’apertura di procedimenti di
amministrazione straordinaria e di liquidazione coatta delle banche.
9.3 Segue. I mercati finanziari
Con l’espressione mercati finanziari s’intendono tre settori:
a) intermediari finanziari (Sim, promotori finanziari);
b) emittenti strumenti finanziari (società di capitali, quotate e non quotate);
c) società di gestione dei mercati regolamentati (borse).
La materia è disciplinata dal d.lgs. 58/ 1998, T.u.f.- testo unico delle norme in materia di
intermediazione finanziaria.
Le funzioni di vigilanza e garanzia di questi settori sono affidate alla Consob e alla Banca
d’Italia, la quale ha funzione altresì di garanzia della stabilità del contenimento del rischio
laddove la prima svolge la funzione di vigilanza sulla condotta e trasparenza degli
operatori.
I particolare, la funzione di vigilanza consta di vari poteri, quali l’autorizzazione
preventiva agli operatori, la regolamentazione, le ispezioni e l’intervento diretto sugli
organi degli operatori stessi.
Il settore dei mercati regolamentati sono gestiti da società per azioni private che devono
ottenere una previa autorizzazione della Consob volta ad accertare i requisiti patrimoniali
ed organizzativi delle società di gestione e della loro onorabilità. In seguito, la Consob vigila
sulla gestione del mercato da parte della società.
La Consob, infine, è dotata di personalità giuridica e di piena autonomia, si compone di un
collegio formato dal presidente e da quattro membri, nominati con d.p.r. su proposta del
Presidente del Consiglio dei ministri e durano in carica cinque anni con possibilità di
secondo mandato.
9.4. Il mercato delle assicurazioni
L’Isvap svolge funzioni di vigilanza e controllo nel settore delle assicurazioni.
Già a partire dai primi anni Ottanta, l’Isvap ha mantenuto i caratteri di ente – organo di
carattere tecnico del Ministero dell’industria, strumentale alle politiche governative di
programmazione e di controllo nel settore delle assicurazioni non ancora liberalizzato.
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Pertanto, seppure l’Isvap è dotato di personalità giuridica, i suoi membri sono tutti di
nomina governativa: il Presidente dura in carica cinque anni ed è nominato dal Capo dello
Stato su proposta del Governo ed i sei membri del Consiglio, che durano in carica quattro
anni, sono direttamente nominati dal Governo. L’istituto, inoltre,è sottoposto al controllo
della Corte dei conti.
Successivamente, l’Isvap ha trovato conforto dalla liberalizzazione del settore delle
assicurazioni, in quanto le sono state assegnate funzioni proprie delle autorità
indipendenti, quali la vigilanza nel settore e l’esercizio di poteri di autorizzazione, di
prescrizione, accertativi, cautelari e repressivi nonché la possibilità di adottare un
regolamento necessario per la sana e prudente gestione delle imprese e la trasparenza e
correttezza dei comportamenti degli operatori con promozione della attività di
collaborazione con le autorità degli altri Stati membri al fine di rendere organica, efficiente
ed omogenea la vigilanza sull’attività assicurativa.
Capitolo 2
I servizi pubblici
1. Il servizio pubblico: le difficoltà di una definizione.
Il momento della definizione di servizio pubblico valida ai fini di una configurazione più
precisa possibile del fenomeno qui preso in considerazione si pone quale elemento
preliminare indispensabile ai fini di una corretta applicazione della normativa, sia interna
che comunitaria.
Invero, la definizione di servizio pubblico non può trascurare l’analisi del dato normativo,
così come descritto in ambito nazionale che comunitario, da cui lo studio del concetto è
stato oggetto di diverse discipline che a partire dall’ambito economico sono trasfuse in
quello giuridico.
Appare condivisibile, pertanto, l’orientamento che nega l’idea di una concezione di servizio
pubblico mutuata da altri settori disciplinati e trasposta “tout court” nel diritto
amministrativo, ignorando la disciplina scientifica originaria e le sue stesse finalità.
La nozione di servizio pubblico, ricostruita sulla scorta delle norme penalistiche, in
particolare dagli artt. 357 e 358 c.p., recanti la nozione di pubblico ufficiale ed incaricato di
pubblico servizio, ha trovato avvio dall’esame della c.d. concezione soggettiva propria della
teoria nominalistica fino ad arrivare a tesi più recenti e favorevoli al recupero di una
ricostruzione in chiave soggettiva del fenomeno.
Successivamente, l’evoluzione dottrinale è passata ad analizzare la c.d. concezione
oggettiva, fondata sui tratti essenziali della teoria elaborata da Pototschnig fino ad
arrivare alle teorie più recenti che propongono una rielaborazione di servizio pubblico in
termini oggettivi.
Vero è che allo stato attuale non può esprimersi una preferenza per l’una o l’altra
concezione, per cui in relazione agli aspetti di volta in volta presi in considerazione si
riconosce una sorta di coesistenza di entrambe le nozioni.
2. Segue. La concezione c.d. soggettiva.
La dottrina italiana, a differenza dell’ordinamento francese, ha inteso offrire una
connotazione precisa di attività che fossero riconducibili alla p.a., per cui occorreva
individuare una categoria comune sotto la quale ricondurre una parte dell’attività
amministrativa, non autoritativa, che si andava diffondendo con l’assunzione di nuovi
compiti da parte dello Stato.
L’occasione fu colta con la legge 103 del 1903 che all’art. 1 qualificava i servizi pubblici in
una serie di attività eterogenee rispetto alle quali si poneva il problema di individuare il
criterio per ascrivere la pubblicità del servizio affidato alla gestione del comune.
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Di qui maturò la concezione nominalistica, per cui vennero considerati pubblici soltanto
quei servizi “assunti” dallo Stato ovvero da altro ente pubblico che ne acquistava la
titolarità e provvedeva, in alcuni casi, al loro stesso esercizio.
In altri termini ogni attività economica affidata alla p.a. veniva qualificata come servizio
pubblico, mentre più complesse restava la qualificazione delle attività svolte dai privati
nella categoria in esame.
A seconda del servizio assunto dall’amministrazione, infatti, la prospettiva di
qualificazione del servizio diventava funzionale alla realizzazione degli interessi pubblici,
da cui risultava determinante la scelta dell’amministrazione di considerare come proprie
attività anche quelle connesse alle esigenze della collettività seppure gestite da soggetti
privati.
Il servizio pubblico, infatti, si pone come modello organizzativo garantistico secondo
i modelli fissati dalla legge, in virtù della quale viene indicata l’amministrazione titolare del
servizio e competente della sua organizzazione.
Di conseguenza, l’interesse pubblico viene inteso come conduzione dell’attività secondo le
finalità per le quali fu decisa l’istituzione del servizio medesimo.
Pertanto, la nozione attuale di servizio pubblico, in chiave soggettiva, viene a considerare
qualsiasi attività, diversa dalla funzione amministrativa, riconducibile ad un soggetto
pubblico.
Tuttavia, per poter cogliere appieno gli aspetti salienti della nozione di servizio pubblico
occorre considerare la concezione oggettiva del medesimo, in quanto in aperto contrasto
con l’originaria teoria nominalistica e orami centrale nel rinnovato quadro legislativo
interno e comunitario.
3. Segue. Il servizio pubblico in senso oggettivo
La concezione oggettiva di servizio pubblico risale all’opera di U. Pototschnig che, nel
riportare l’attenzione del diritto amministrativo sul tema dei servizi pubblici, tentò di
superare quello iato esistente tra il crescente rilievo delle attività amministrative, definite
dalla dottrina come servizi pubblici.
Secondo tale teoria, infatti, si adduceva l’insufficienza della nozione ad isolare il fenomeno
corrispondente entro sicuri confini, per cui la riflessione della dottrina criticava la teoria
nominalistica richiamandosi agli artt. 43 e 41, comma 3, Cost., in quanto dal dettato
costituzionale si ricavava che la legge può riservare o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti,
determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o
a fonti di energia o situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse
generale.
Pertanto, si veniva a smentire il criterio nominalistico e si ammetteva che i privati
potessero legittimamente gestire servizi pubblici essenziali.
Dunque, non soltanto il momento soggettivo diviene recessivo nella individuazione del
servizio pubblico, ma lo stesso legislatore può sottrarre all’ente pubblico un’impresa
riferita a servizi pubblici essenziali per trasferirla a comunità di lavoratori o di utenti
sempre per fini di utilità generale.
Ad integrare tali conclusioni, interviene l’art. 41, comma 3, Cost, per cui la legge può
indirizzare l’attività pubblica e quella privata a fini sociali determinando i programmi ed i
controlli opportuni.
Quindi, dal tramonto della concezione nominalistica emergono due principi essenziali, e
cioè che l’attività d’impresa nel servizio pubblico non è necessariamente ascrivibile ad un
soggetto pubblico e che, pur rimanendo privata, resta assoggettata comunque al medesimo
regime previsto per l’attività economica pubblica.
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Di contro, considerando l’esperienza delle privatizzazioni dei servizi pubblici a rete, la
scelta statale è stata quella di una forma di intervento indiretto di tipo regolatore affidata
alle c.d. authorities e non sono mancate, in tal senso, prese di posizione a favore della
concezione oggettiva del servizio pubblico da parte del nostro ordinamento anche sotto
l’influenza del diritto comunitario.
Invero, il fenomeno delle Authorities altro non è che un fenomeno più complesso
all’interno del quale selezionare, con il criterio soggettivo, le attività di servizi pubblici da
altre che sono semplicemente attività economiche contraddistinte dal fatto di svolgersi in
un determinato settore retto da apposite autorità di regolazione con poteri normativi
interni, di direzione ed ordine, controllo preventivo e/o repressivo.
4. Segue. Cenni sulla nozione di servizio pubblico locale.
Il dato normativo di riferimento è l’art. 112 del TUEL (Dlgs 267/00), titolato “servizi
pubblici locali”, che stabilisce che gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze,
provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano ad oggetto la produzione di beni
e di attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile
delle comunità locali.
Nel testo manca una definizione di servizio pubblico, allora la dottrina, facendo
riferimento al criterio dell’interesse locale quale aspetto caratterizzante questa
categoria di servizi, sostiene che una determinata attività è tale quando è rivolta a
realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, e
incide direttamente sulla vita della comunità: tale attività può costituire un servizio
pubblico ed essere gestita direttamente dall’amministrazione ovvero essere affidata a
gestori diversi, secondo le modalità indicate dagli artt. 113 e 113 bis del tuel.
Altro dato importante è quello finalistico, che la dottrina interpreta come presupposto
oggettivo in presenza del quale l’ente può scegliere di istituire ed organizzare il servizio
pubblico, assumendo la sua organizzazione tra i propri fini istituzionali.
L’art. 113 del tuel fa riferimento ai servizi di rilevanza economica, mentre il successivo 113
bis ai servizi privi di rilevanza economica, quest’ultimo dichiarato incostituzionale con
sentenza della Corte. Si riconducono all’art. 113 settori come il gas, l’energia elettrica,
l’acqua, i trasporti, i rifiuti, comunque tutti i servizi non riconducibili ai c.d. servizi
sociali, quelli cioè rivolti alla soddisfazione di bisogni primari della persona
costituzionalmente tutelati e che, sulla base dell’art, 112 tuel, abbiano ad oggetto attività
rivolte a realizzare fini sociali e promuovere lo sviluppo economico e civile della società.
Proprio la particolare natura e legame coi bisogni primari dell’individuo, giustificano per
questi servizi una disciplina speciale e derogatoria rispetto alle normali regole della
concorrenza.
5. Principi costituzionali in materia di servizi pubblici.
Il tema dei servizi pubblici è ricompreso nel più ampio genus dell’attività amministrativa di
cui al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. e, a sua volta, dalla legge 241/ 1990.
Attraverso il servizio pubblico, lo Stato si fa garante di quel principio di uguaglianza
sostanziale espresso all’art. 3, comma 2, Cost. ravvisata dai sostenitori della tesi
oggettiva a fondamento dell’immediato raccordo con l’art. 43 Cost. nella parte in cui fa
riferimento alle imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali che possono
essere trasferite o riservate ab origine a comunità di lavoratori sempre che sussistano fini
di utilità generale contemplati nella disposizione in parola.
All’interno della categoria dei servizi pubblici vanno selezionati i c.d. servizi pubblici
essenziali da sottoporre al regime di cui all’art. 43 Cost, per cui l’art. 41, comma 3, Cost,
assume un’autonoma connotazione in quanto consente di inserire anche i servizi pubblici
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nell’ambito di quell’attività di programmazione economica che la Costituzione affida
all’iniziativa del legislatore.
Il sistema costituzionale, infatti, prevede che a gestire siffatti servizi possano essere tanto
soggetti pubblici quanto soggetti privati in regime di concorrenza ovvero in situazioni di
monopolio, trasferimento o riserva originaria di cui all’art. 43 Cost.
Il quadro costituzionale risulta completato dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel
riparto della potestà normativa statale e regionale ex art. 117 Cost., per cui si riconosce la
potestà legislativa esclusiva in materia di servizi pubblici a favore dello Stato che determina
a livello normativo i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e tale livello si presta ad
incidere trasversalmente sulle materie rimesse alla potestà legislativa regionale in quanto
la dimensione del servizio pubblico è rimessa agli standard di tutela uniformi assicurati
dalla normativa statale.
Invero, l’art. 112 t.u.e.l affida agli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, la
gestione dei servizi che realizzano fini sociali secondo l’idea della trasversabilità della
competenza legislativa tra Stato e regioni, come confermato dalla Corte costituzionale
(sentenza n. 14 del 2004) che ha ritenuto di poter raggiungere l’equilibrio tra distribuzione
di energia e sviluppo dei sistemi di telecomunicazione in relazione all’uso del territorio, in
quanto siano tali da giustificare l’insediamento degli stessi secondo il principio di
sussidiarietà dell’azione statale nel settore dei servizi pubblici.
Secondo la Consulta, infatti, la scelta del legislatore statale di attribuire a livello centrale
peculiari funzioni amministrative e di disciplinarne l’esercizio, seppure in difformità
dell’art. 117 Cost. , consentirebbe di interpretare in senso dinamico il principio di
sussidiarietà, quale criterio regolatore dell’assetto di competenze predeterminato capace
di attrarre la funzione legislativa statale che deve essere oggetto di accordo con la regione
interessata o comunque risultato di una procedura che assicuri la partecipazione dei
diversi soggetti coinvolti nell’ottica della leale cooperazione tra soggetti paritari.
6. I servizi pubblici nell’ordinamento comunitario
Il concetto di servizio pubblico sembra avere un significato ambiguo anche in ambito
comunitario, in quanto la locuzione viene utilizzata per indicare il servizio offerto alla
collettività ovvero lo status dell’ente che presta il servizio.
Nel diritto comunitario, dunque, si utilizza una diversa terminologia, partendo dal
riferimento del Trattato di cui agli artt. 16 e 86, par.2 che fanno riferimento
indistintamente ai servizi di interesse economico generale.
La Commissione, in particolare, specifica tale nozione considerando i servizi forniti dalla
grandi industrie di rete, quali telecomunicazioni, servizi postali, elettricità, gas e trasporti,
e servizi della gestione dei rifiuti, l’approviggionamento idrico ed il servizio pubblico di
radiodiffusione.
Quanto a cultura, sanità, istruzione e servizi sociali, la collocazione dei medesimi risulta
incerta, in quanto si è precisato che spetta al giudice nazionale verificare in concreto se
l’attività abbia o meno carattere economico.
In relazione al problema definitorio si pongono conseguenze giuridiche diverse, in quanto
la locuzione servizi di interesse generale individua situazioni giuridiche che devono essere
garantite da operatori non economici e da operatori del mercato, entrambi tenuti a
garantire l’accesso degli utenti al sevizio secondo i principi di non discriminazione e di
libertà di circolazione delle persone.
Pertanto, se l’autorità decide di affidare a terzi o a società miste diritti speciali o esclusici
attinenti tali servizi di interesse generale, troverà applicazione la normativa sugli appalti ed
i principi comunitari in materia di concessione dei servizi.
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Nel caso in cui, invece, il servizio venga affidato in regime di concessione, la scelta del
concessionario de essere conforme ai principi comunitari di non discriminazione, parità di
trattamento e trasparenza, per cui egli deve rispettare non soltanto la normativa sugli
appalti ma deve altresì assicurare l’effettiva partecipazione degli aspiranti alla procedura
selettiva.
Dunque, i servizi di interesse generale sono assorbiti nel più ampio concetto di servizi,
per quanto concerne gli appalti e non trova applicazione la clausola di cui all’art. 3 della
direttiva 2004/18/CE in virtù della quale il titolare di diritti speciali od esclusivi relativi ad
un servizio pubblico è tenuto a rispettare, negli appalti di forniture, il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità.
Altra direttiva è la 2006/123/CE, che mira ad assicurare la libertà di stabilimento e la
libera circolazione dei servizi.
La figura dei servizi di interesse economico generale è richiamata dagli artt. 16 e 86, par. 2
del Trattato e sono soggetti alle regole sulla concorrenza ed in particolare al c.d. divieto di
aiuti di stato, per cui gli operatori non agiscono in base al meccanismo della domanda e
dell’offerta, ma sono sottoposti agli obblighi del servizio universale che impongono
all’operatore di agire al di fuori della concorrenzialità del mercato.
Tali obblighi di servizio universale tendono ad assicurare che talune prestazioni
siano fornite a tutti gli utenti e consumatori finali, ad un livello qualitativo
prefissato e a prescindere dall’ubicazione geografica, mediante un prezzo
accessibile, come ad esempio l’obbligo per i gestori dei servizi di telecomunicazione di
assicurare un congruo numero di telefoni pubblici, l’accessibilità delle tariffe e la tutela
degli utenti e dei consumatori nonché la loro sicurezza.
Nel caso Altmark il giudice comunitario ha specificato che i finanziamenti pubblici non
rientrano nella disciplina comunitaria degli aiuti di stato, ma possono essere considerati
compensazioni che rappresentano la contropartita delle imprese beneficiarie per
adempiere gli obblighi di servizio pubblico e che non deve eccedere quanto necessario per
coprire i costi originati dall’adempimento di tale servizio pubblico, per cui l’impresa è
scelta mediante appalto determinato sulla base dell’analisi dei costi che un’impresa media,
gestita in modo efficiente, è in grado di supportare per adempiere a tali obblighi.
7. Le forme di gestione: origini della classificazione.
Riguardo le modalità di gestione dei servizi, occorre partire dalla legge n. 103 del 1903, con
la quale si è fissata una disciplina organica della materia incentrata sulla figura della c.d.
aziende municipalizzate, cui Comuni e Province avrebbero potuto affidare l’erogazione di
questi servizi.
La normativa affermava regole e principi che costituivano il quadro di riferimento della pa
nell’erogazione di tali servizi: veniva creata la figura dell’azienda speciale, un organo
dell’ente locale privo di personalità giuridica ma autonoma sul piano amministrativo e
contabile, dotata perciò di un bilancio proprio attraverso il quale gestiva entrate e uscite
destinate a soddisfare i bisogni della collettività locale.
Con il R.D. 2578 del 1925 vennero poi individuate nuove forme di gestione dei servizi
pubblici attraverso tre modalità: in economia, cioè facendo ricorso a mezzi degli uffici
interni dell’ente, senza creare un’apposita struttura a tale scopo: affidandoli alle aziende
municipalizzate, in conformità alle norme di legge; mediante concessione a terzi.
8. L’evoluzione del modello e la disciplina attuale.
Le forme base di gestione sono rimaste in questi anni inalterate, ma l’aumento delle
necessità e del numero dei cittadini cui assicurare tali prestazioni hanno favorito l’ingresso
di istituti di carattere privato e di principi provenienti dalle scienze aziendalistiche.
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La legge 142 del 1990disciplianl’affidamento diretti dei servizi pubblici di competenza
degli enti locali e riconosce personalità giuridica all’azienda speciale, trasformandola in
ente strumentale a Comune e Provincia, cui affidare la gestione di servizi di natura
imprenditoriale: essa diviene dunque centro autonomo di imputazione giuridica.
Le aziende speciali, pur essendo strutture autonome, restano pur sempre collegate
strumentalmente all’ente, che decide sulla loro attivazione e ne controlla il
funzionamento mediante l’approvazione degli atti fondamentali dalla stessa posti in
essere: in tal modo l’ente mantiene la gestione in forma diretta del servizio.
La riforma del 90 introduce poi la società per azioni pubblica, mentre resta immutato
l’istituto della concessione di pubblici servizi, consistente in un provvedimento
discrezionale, emanato in base a criteri predeterminati dall’amministrazione che intende
istituire il servizio, attraverso cui vengono riconosciuti al concessionario vantaggi sul piano
della remunerazione economica.
La materia è stata rivista dalla legge 4448 del 2001, che distingue tra servizi pubblici
locali a rilevanza industriale, con maggiore concorrenza tra gli operatori affidando la
scelta del soggetto ad una procedura ad evidenza pubblica, e servizi pubblici non
industriali, per i quali sono previste forme di affidamento diretto stante la non rilevanza
economica del servizio.
Gli artt. 113 e 113 bis del tuel sono stati rivisti nel 2003, contrapponendo alla categoria dei
servizi a rilevanza economica, quelli a rilevanza non economica, adeguando la
normativa interna a quella comunitaria, in sostanza aprendo alle regole di mercato la sola
attività di erogazione e mantenendo al soggetto pubblico la proprietà delle reti quale
garanzia indispensabile per la tutela degli interessi che tali attività vanno a soddisfare. La
gestione del servizio pubblico locale può essere affidata in forma diretta o in house o con
società miste.
9. la società in house.
L’art. 113 prevede che l’ente possa affidare la gestione del servizio pubblico ad una società
direttamente controllata, con sacrificio delle regole della libera concorrenza del mercato: si
tratta pertanto di una soluzione antitetica rispetto alla regola della
esternalizzazione, perché consente all’amministrazione che deve erogare il servizio, di
affidarlo ad una società che rappresenta un prolungamento della stessa pa.
Si può avere un modello c.d. in house in senso stretto, se l’amministrazione affida lo
svolgimento di un servizio ad un suo ente strumentale non dotato di personalità giuridica,
ed in house in senso lato, se la pa stipula direttamente i contratti di affidamento del
servizio con società controllate, pur giuridicamente autonome ed in possesso di personalità
giuridica.
Il rapporto tra la pa e la società è stato oggetto di studio da parte della giurisprudenza, che
individua un controllo analogo al rapporto di subordinazione, quando la pa è messa in
condizioni di determinare unilateralmente gli obiettivi strategici della struttura
chiamata a gestire il servizio, esercitando verso di essa un’ingerenza dominante
sulle decisioni più importanti tramite la presenza di vincoli inseriti nelle clausole
statutarie. In definitiva le società in house si presentano come vere e proprie articolazioni
interne dell’amministrazione, quasi si trattasse di una mera prosecuzione della stessa pa.
Dopo gli ultimi interventi legislativi nazionali, giustificati dai provvedimenti comunitari,
nonché dopo il referendum del 2011, le amministrazioni possono ora scegliere liberamente
tra la costituzione di società in house per lo svolgimento di attività quali la distribuzione di
gas ed energia elettrica, oppure individuare l’affidatario del servizio con procedura ad
evidenza pubblica.
10. Le società miste e le relative modalità di affidamento del servizio.
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La giurisprudenza comunitaria, oltre a porre in evidenza i caratteri delle società in house,
consente di definire le società miste, soggetti autonomi e distinti dall’ente
pubblico, in rapporto di terzietà con esso.
Il Consiglio di Stato ha sottolineato che il ricorso alle società miste deve avere carattere di
residualità tra le scelte amministrative per la gestione dei servizi pubblici, alle quali si
poterebbe ricorre solo ove la procedura ad evidenza pubblica bandita per individuare il
socio privato, prevede che a tale socio sia affidato un ruolo operativo, e preveda inoltre i
limiti temporali entro cui deve avvenire la partecipazione di detto socio, escludendo in tal
modo una presenza stabile del partner privato.
La Corte di giustizia ha poi affermato che i servizi pubblici possono essere affidati a una
società mista anche senza l’indizione di una gara specifica, a condizione che il socio privato
sia stato scelto con procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari,
tecnici, operativi e di gestione, rispetto al servizio da erogare nonché delle caratteristiche
della sua offerta rispetto al servizio da offrire: ciò permette il rispetto dei principi di libera
concorrenza, trasparenza e parità di trattamento imposti dal Trattato UE per le
concessioni.
11. La disciplina attuale dopo il referendum abrogativo del giugno 2011.
Le modalità di affidamento e gestione cambiano dopo l’abrogazione, nel giugno 2011,
dell’art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008: si è imposta agli enti locali una verifica delle
situazioni esistenti, al fine di attuare una liberalizzazione del settore: solo dopo
un’istruttoria che dimostri la non rispondenza ai bisogni della comunità del ricorso al
libero mercato, è consentito all’ente locale di optare per forme di gestione esclusiva.
Le nuove regole impongono dunque, per l’affidamento della gestione dei servizi pubblici di
rilevanza economica, lo svolgimento di procedure competitive ad evidenza pubblica, come
prescritto dal Trattato UE e dal Codice dei contratti pubblici con riferimento ai principi di
economicità, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di
trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità.
Le procedure sono indette nel rispetto di standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di
equa distribuzione sul territorio e sicurezza definiti dalla legge e, ove esistenti, dalle
autorità di settore; in alternativa la pa potrà affidare il servizio ad una società mista a
condizione che la stessa abbia individuato il socio privato (sotto il 40% di partecipazione)
con una procedura competitiva.
Sotto i 900.000,00 euro di valore del servizio, si potrà procedere all’affidamento diretto in
favore di società a capitale interamente pubblico che abbiano i requisiti delle società in
house.
12. Il contratto di servizio e il contratto di utenza.
Il contratto di servizio è inerente il rapporto tra amministrazione responsabile e
soggetto gestore, il contratto di utenza invece si riferisce al rapporto tra il gestore e
l’utenza.
La finanziaria del 2008 in ordine al contenuto necessario del contratto di servizio,
stabilisce che esso deve prevedere sempre l’obbligo per il gestore di emanare una Carta
della qualità dei servizi recante gli standard di qualità e quantità delle prestazioni offerte,
modalità di accesso alle informazioni, di presentazione di reclami e ricorsi, ecc.
È anche obbligatoria la consultazione delle associazioni dei consumatori, la previsione di
un periodi di verifica, un’adeguatezza dei parametri alle esigenze dell’utenza, un sistema di
monitoraggio permanente tra quanto erogato e quanto fissato nella Carta dei servizi,
monitoraggio e verifiche periodiche, una sessione annuale di verifica del funzionamento
del servizio, la valutazione delle proposte dei cittadini.
152
Il contratto di servizio si può quindi definire come un atto consensuale attraverso cui
si costituisce l’organizzazione del servizio stesso, per provvedere al soddisfacimento degli
interessi pubblici sottesi alla sua esecuzione.
Il rapporto tra il gestore e l’utenza si esprime invece con il contratto di utenza, di
carattere negoziale, esso definisce il rapporto tra l’impresa erogatrice e il singolo fruitore
dei servizio di cui ha fatto richiesta.
Per i servizi erogati a domanda individuale la disciplina è analoga a quella del contratto di
adesione concluso con imprenditore oprante in regime di monopolio, ma temperato dal
carattere di pubblicità del servizio offerto, perciò vi sarà l’obbligo a contrarre,
l’applicazione del principio di parità di trattamento, l’obbligo di non
discriminazione, sotto il controllo di specifica Autorità garante.
Parte 8
RISORSE
Capitolo 1
Le risorse umane
1. La genesi dei rapporti di impiego pubblico
Le amministrazioni pubbliche si sono sempre avvalse dell’opera di persone fisiche che
hanno caratterizzato gli apparati pubblici.
Fino al XVIII secolo, però, la maggior parte degli uffici pubblici erano affidati a personale
onorario e non professionale, in quanto si presupponeva l’appartenenza dei funzionari ad
un ristretto ceto sociale e la sussistenza di un rapporto fiduciario con il monarca.
Solo con il regno di Luigi XIV (1660 – 1715) in Francia si avviò il processo di
avvicendamento della c.d. noblesse de robe, per cui si affermò la burocrazia professionale
che raggiunge il suo compimento con l’avvento del XIX secolo e il suo radicamento in
Europa con lo Stato di diritto della metà Ottocento.
Di qui si può iniziare a parlare di rapporto di lavoro (o rapporto di impiego) alle
dipendenze delle pp.aa.
2. L’impiego pubblico come rapporto di diritto civile speciale.
Sin dal loro sorgere, i rapporti di lavoro con le pp.aa. non sono stati mai interamente
disciplinati dalle norme di diritto comune, tanto che vengono riconosciute specialità e
privilegi a tutte le pp.aa. nei rapporti con i privati non potendo incidere pienamente nella
disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pp.aa. Tali rapporti di lavoro, infatti,
non potevano essere ricondotti al genus dei rapporti comuni di lavoro subordinato stipulati
tra datori e prestatori di lavoro privati, per cui il legislatore andò a prevedere una disciplina
speciale e derogatoria rispetto a quella di diritto comune.
Partendo dall’unificazione del Regno d’Italia, infatti, il rapporto di impiego con lo Stato e
con gli enti pubblici era sostanzialmente considerato alla stregua degli ordinari rapporti di
lavoro di diritto privato, ma l’attenzione della dottrina dell’epoca era concentrata per lo più
sulla distinzione tra rapporto d’ufficio e rapporto di servizio, per cui gli atti relativi al
primo erano considerati provvedimenti amministrativi, mentre quelli di gestione del
rapporto di servizio erano considerati atti di natura contrattuale.
3. L’impiego alle dipendenze di Amministrazioni pubbliche come rapporto di diritto
pubblico
Con l’avvento del XX secolo, la qualificazione dei rapporti di impiego pubblico secondo i
termini di rapporti di diritto civile speciale viene abbandonata, in quanto si assiste ad una
sostanziale pubblicizzazione di tali rapporti.
Il legislatore, infatti, viene a disciplinare i rapporti di lavoro di diritto pubblico mediante
un complesso di norme che andarono a costituire il corpus di uno speciale Statuto dei
153
dipendenti pubblici tali da costituire un presidio a garanzia dell’imparzialità dei pubblici
funzionari, ma anche uno strumento di riaffermazione dell’autorità dello Stato.
In ragione della preminenza della posizione della pubblica amministrazione, datore di
lavoro, la dottrina amplificò i tratti differenziali tra rapporti di diritto pubblico e quelli
privati, come già era emerso dai due progetti elaborati dalla Commissione guidata da
Oreste Ranelletti recepiti nei disegni di legge 11 novembre 1923, n. 2395 e 30 dicembre
1923, n. 2960, il primo sull’ordinamento gerarchico delle Amministrazioni statali ed il
secondo sullo stato giuridico degli impiegati dello Stato.
In definitiva, tali disposizioni normative rappresentano il momento di definitiva
pubblicizzazione dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni.
Del resto, a seguito della caduta del regime fascista, si andava modificando la stessa
concezione di Stato e tale condizionamento politico ed ideologico andò a supportare la
ricostruzione del rapporto di impiego con le pp.aa.
Sotto la spinta della giurisprudenza amministrativa, che aveva sottratto le controversi di
lavoro pubblico alla cognizione dello stesso giudice che aveva la giurisdizione sulle
controversie di lavoro privato, vennero emanati principi di diritto sostanziale
profondamente diversi da quelli elaborati dalla giurisprudenza ordinaria come recepiti nel
r.d.l. 3 novembre 1924, n. 1825, nel quale venivano dettate le generali Disposizioni relative
al contratto di impiego pubblico.
In definitiva, le controversie in materia di rapporto di lavoro venivano affidate a due serie
distinte di norme e con due diversi ordini giuridici chiamati a dirimere le relative
controversie.
4. L’impiego pubblico nella Costituzione e nella successiva evoluzione legislativa
La Carta costituzionale si occupa indirettamente del tema in esame negli articoli 28 e 97
Cost. con riferimento ai funzionari, all’art. 98 Cost. per gli impiegati, altre volte parla
genericamente dei dipendenti ex art. 28 Cost.
In effetti, manca una disciplina organica del rapporto di impiego pubblico, ma ciò non
significa che non siano previsti principi costituzionali di rilievo per l’impiego pubblico.
In primo luogo, alla stregua dell’art. 51, comma 1, Cost., è prescritta la modalità di accesso
ai pubblici uffici che per tutti i cittadini deve avvenire in condizioni di eguaglianza, ex art.
97, comma 3, Cost., mediante concorso. Tali previsioni rappresentano una specificazione
del principio di imparzialità, in quanto l’assunzione del personale pubblico deve avvenire
in maniera “neutrale”, e cioè deve essere garantita la parità di trattamento, la
professionalità ed il merito, e non già per rapporti di fiducia personale o di affinità politica
con i vertici delle rispettive amministrazioni.
L’esigenza di separatezza tra politica ed amministrazione si rinviene altresì nell’art. 98
Costo, secondo cui gli impiegati pubblici sono “al servizio esclusivo della Nazione” nonché
dall’art. 28 Costo, che attiene alla responsabilità verso i terzi degli impiegati pubblici nei
casi di condotta illecita nell’esercizio del proprio ufficio.
Infine, al pubblico impiego sono riconosciute tutte le garanzie previste a tutela dei
lavoratori sia per il corretto svolgimento dei contratti collettivi sia per il libero svolgimento
dell’azione sindacale di cui agli articoli 35, 36 e 39 Cost.
Dall’incidenza dei principi costituzionali sulla disciplina dei rapporti di impiego pubblico
si è aperto il dibattito in dottrina sulla natura dei rapporti di pubblico impiego.
Ebbene, le norme costituzionali che si sono considerate sembrano offrire una risposta
sufficientemente chiara al problema della verifica della natura pubblicistica o privatistica
dei rapporti di lavoro con le pp.aa.
Infatti, se da un lato il Costituente non ha ignorato l’esistenza di profili di specialità nei
rapporti di impiego pubblico, non per questo si è ritenuta necessaria la previsione di una
disciplina speciale derogatoria rispetto a quella di diritto comune.
154
La stessa Corte costituzionale, infatti, ha sottolineata come non vi sia alcuna esigenza di
differenziare il regime di rapporto e che la scelta dell’uno o dell’altro regime è rimessa alla
discrezionalità del legislatore, per cui l’applicazione al rapporto di lavoro dei pubblici
dipendenti delle disposizioni del codice civile non pone alcun conflitto con i principi di
imparzialità e di buon andamento.
Invero, la materia dei pubblici uffici è stata profondamente rivista dal legislatore in senso
pubblicistica con il T.U. degli impiegati civili dello Stato n. 3 del 1957, secondo il quale il
personale è ordinato in quattro carriere (direttiva, di concetto, esecutiva ed ausiliaria) e si
riduce il numero dei gradi.
Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, si assiste ad un periodo di riforma degli assetti
generali del disegno politico tanto che il baricentro dell’attenzione del legislatore venne a
spostarsi sui contenuti, oggetto, qualità della prestazione professionale richiesta al
pubblico dipendente attraverso la c.d. qualifica funzionale, con la quale si è
definitivamente superata la classificazione secondo le c.d. carriere.
La legge n. 93 del 1983, dunque, ha ricostruito il quadro normativo dell’impiego pubblico
in modo da affiancare alle previsioni di rango legislativo, uno spazio lasciato libero alla
disciplina negoziale.
5. Segue. Il ritorno al diritto comune ed i margini di specialità alla luce delle recenti riforme
Le riforme degli anni Ottanta hanno segnato l’avvio di un nuovo periodo di riforme.
Con il decreto legislativo n. 29 del 1993, ora confluito nel d.lgs. n.165 del 2001, si è
determinata:
a) la prevalenza della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva in tema di
fonti del rapporto di pubblico impiego;
b) la natura privatistica degli atti di costituzione, disciplina, modificazione ed
estinzione del rapporto di lavoro;
c) il riconoscimento alle amministrazioni di operare secondo i poteri del privato
datore di lavoro;
d) la non soggezione al controllo della Corte dei conti sugli atti relativi ai rapporti
individuali di lavoro;
e) la giurisdizione del giudice del lavoro.
In effetti la c.d. privatizzazione del pubblico impiego non è generalizzata, in quanto
permangono anche dopo la riforma una serie di rapporti di impiego disciplinati dal diritto
pubblico.
In ogni caso la principale fonte di regolazione del rapporto è da individuarsi nella
contrattazione, collettiva ed individuale.
Inoltre, la riserva di materia non costituisce un limite di competenza alla potestà legislativa
ordinaria, in quanto disposizioni di legge, regolamento o statuto possono introdurre
discipline dei rapporti di lavoro in aree riservate alla contrattazione e successivi contratti o
accordi collettivi possono altresì derogare alle disposizioni applicabili, salvo che la legge
non disponga diversamente.
Infine, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, il nuovo articolo 117 Cost non
fa menzione del pubblico impiego tra le materie di competenza legislativa concorrente tra
Stato e Regioni, per cui è riconosciuta allo Stato soltanto la determinazione dei principi
fondamentali.
Il Dlgs 150/2009 ha innovato la disciplina del lavoro delle pa modificando il dlgs 165/2001
e riscrivendo il sistema di valutazione del personale.
La riforma tende alla valorizzazione del merito e alla valutazione delle performance
attraverso misure che vanno dall’organizzazione sino alla gestione amministrativa e al
controllo da parte dei cittadini-utenti, in presenza di una centralizzazione della
contrattazione collettiva e l’utilizzo di istituti di diritto privato.
155
6. La contrattazione collettiva e i suoi autori: l’Aran ed i sindacati
Il sistema di contrattazione collettiva si pone al vertice della gerarchia dei diversi livelli
contrattuali in analogia a quanto avviene in ambito di contrattazione collettiva di diritto
privato.
Il legislatore, infatti, ha attribuito al contratto collettivo il carattere di fonte diretta e
principale della regolamentazione del rapporto tra privato e pubblica amministrazione.
La contrattazione collettiva vede come parti negoziali l’Aran per la rappresentanza
negoziale delle pp.aa. e le organizzazioni sindacali dotate di personalità giuridica.
In particolare, l’Aran è un organismo dotato di personalità giuridica di diritto pubblico,
autonomia organizzativa e contabile, potestà regolamentare in ordine alla propria
organizzazione e funzionamento e ad essa è attribuita, oltre alla rappresentanza legale delle
pp.aa. in sede di stipulazione dei contratti collettivi nazionali, ogni attività relativa alle
relazioni sindacali ed all’assistenza delle pp.aa. per ogni aspetto relativo alla disciplina del
rapporto di lavoro.
L’Aran, durante l’esercizio della rappresentanza negoziale, è sottoposta al potere di
indirizzo delle pp.aa., esercitato a mezzo dei Comitati di settore, quali organi di
coordinamento delle pp.aa. raggruppate in comparti e ciascun Comitato regola
autonomamente le proprie modalità di funzionamento e di deliberazione.
Con le riforme degli anni Ottanta, in particolare con la legge quadro del 1983, gli accordi
collettivi venivano recepiti in atti regolamentari con efficacia erga omnes, per cui l’intera
categoria dei pubblici dipendenti ne restava vincolata, indipendentemente dall’iscrizione al
sindacato stipulante.
Con la privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, il contratto collettivo non è più
recepito in un atto unilaterale, per cui esso resta valido ed efficace soltanto per gli iscritti al
sindacato stipulante.
Il legislatore, pertanto, si preoccupa di assicurare la rappresentatività delle controparti
sindacali attraverso le Rappresentanze sindacali unitarie, c.d. R.S.U., la cui costituzione è
regolata all’art. 47 bis del d. lgs. 29/ \1993.
7. Le vicende ed i contenuti del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche
Ai sensi dell’art. 97, comma 3, Cost. l’accesso all’impiego pubblico avviene di regola
mediante concorso, che può essere per titoli, esami, titoli ed esami, per corso concorso.
Il concorso non è richiesto per l’assunzione nelle qualifiche in cui è richiesto il solo
requisito della scuola dell’obbligo, per cui si procede mediante avviamento al lavoro degli
iscritti nelle categorie di collocamento mentre per gli appartenenti a categorie protette si
procede mediante chiamata numerica degli iscritti nelle apposite liste di collocamento.
A seguito del superamento del concorso e dell’approvazione della graduatoria ovvero a
seguito dell’atto di avviamento a lavoro o di chiamata numerica, la tradizione pubblicistica
prevedeva l’emanazione unilaterale di nomina, invece oggi, in virtù dell’art. 35, comma 1,
del d. lgs. 165/ 2001 si precisa che l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avvenga
con contratto individuale di lavoro.
La riforma del 2009 ha condizionato i trattamenti economici accessori alla performance
individuale e organizzativa (perciò legato al merito) e all’effettivo svolgimento di attività
particolarmente disagiate o pericolose o dannose per la salute.
Il dipendente pubblico deve adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla qualifica superiore che ha successivamente acquisito grazie a procedure
selettive, ma non può chiedere di essere adibito ad un ufficio piuttosto che ad un altro,
poiché è l’amministrazione ad attribuirgli le mansioni ritenute più idonee in relazione alle
esigenze organizzative.
Egli non può mai essere mai adibito a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua
posizione giuridica se non ipotesi tassative, e gode di diritti sindacali quali quello di
156
associazione, di assemblea, effettuare pubbliche affissioni, ha diritto ad aspettative,
permessi sindacali, sciopero, ecc.
Non rientrano tra i diritti soggettivi non patrimoniali il diritto alla progressione in carriera
(subordinato alla valutazione discrezionale dell’amministrazione oppure al superamento
di prove selettive interne) e quello alla sede di lavoro (l’amministrazione può sempre
valutare la necessità di trasferire il dipendente in un’altra sede, se vi sono ragioni di
pubblico interesse).
I doveri dei dipendenti pubblici sono enunciati, in linea di principio, nel Codice di
comportamento, vi rientrano il dovere di fedeltà verso l’amministrazione di appartenenza,
quello di obbedienza e di diligenza.
La violazione dei doveri determina per il dipendente pubblico, la responsabilità
disciplinare ex art. 55-bis del Dlgs 165/01: le sanzioni, come per i dipendenti privati, vanno
dal rimprovero verbale e scritto, alla multa fino a 4 ore di retribuzione, alla sospensione dal
lavoro e dalla retribuzione fino a 10 giorni, fino al licenziamento con o senza preavviso.
Per le infrazioni di minore gravità, il dirigente deve contestare l’addebito al dipendente
entro 10 giorni e poi convocarlo in riunione ove egli potrà essere assistito da un
procuratore o un rappresentante sindacale, ma può anche non presentarsi ed inviare una
difesa scritta.
Dopo l’istruttoria, il dirigente conclude il procedimento disciplinare irrogando entro 60
giorni la sanzione prevista dal contratto collettivo o con archiviazione se non sono emersi
elementi di prova della responsabilità disciplinare.
Riguardo l’estinzione del rapporto, in quanto il rapporto di pubblico impiego ha una
durata tendenzialmente indeterminata, per cui la durata dello stesso viene a dipendere
dalla capacità lavorativa del dipendente che determina in capo all’amministrazione la
scelta discrezionale di mantenere ovvero estinguere il rapporto medesimo.
Si avranno così le dimissioni volontarie, il collocamento a riposo d’ufficio, il collocamento
a riposo anticipato su domanda, la dispensa per inidoneità psico-fisica, la decadenza per
ingiustificato abbandono del servizio, il licenziamento disciplinare, il licenziamento per
condanna penale ed il licenziamento dei dirigente per i casi più gravi di mancato
raggiungimento degli obiettivi ed inosservanza delle direttive.
8. La dirigenza pubblica
Nell’ambito del p.i. la categoria dei dirigenti è stata introdotta con richiamo a quella
prevista nell’art. 2095 c.c. come riconosciuta per la prima volta con la riforma del 1972.
La dirigenza è stata disciplinata successivamente con il d. lgs. 29/1993, oggi modificato dal
d.lgs. 165/2001 ed in ultimo dalla legge 145/2002 che ha previsto la possibilità di mobilità
tra settore pubblico e privato e l’introduzione del vice-dirigente.
Ai sensi della vigente normativa, i dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell’attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati, attribuzione derogabile soltanto su
espressa previsione legislativa.
L’attribuzione all’organo politico del potere di scelta nel conferimento e nella revoca degli
incarichi dirigenziali di vertice ed il potere di verifica dei risultati da questi conseguiti, ha
comportato da un lato la conservazione del potere di condizionamento molto forte in capo
al potere politico e dall’altro lato ha visto il rafforzamento tra vertice politico e dirigenza di
vertice, in quanto entro novanta giorni dal voto di fiducia al Governo, gli incarichi di
Segretario generale di ministri, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici
dirigenziali generali vengono a cessare insieme alla facoltà di confermare, revocare,
modificare, rinnovare gli organi di vertice degli enti pubblici nominati da Governo o da
Ministri nei sei mesi antecedente alla scadenza della legislatura o nel mese antecedente
allo scioglimento anticipato delle Camere.
La dirigenza è suddivisa in due fasce, la dirigenza generale e la dirigenza non generale.
157
Alla prima spetta la formulazione di proposte e parre al Ministro, nelle materie di
competenza, la cura e l’attuazione di piani, programmi e direttive generali definite dal
Ministro.
Ai dirigenti non generali spettano gli incarichi e le responsabilità negli specifici progetti,
l’adozione di atti relativi ai propri uffici, l’adozione di atti amministrativi e l’esercizio del
potere di spesa.
I dirigenti generali, inoltre, promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare
e transigere, svolgono attività di organizzazione e gestione del personale e curano i rapporti
sindacali e di lavoro, decidono sui ricorsi gerarchici contro atti e provvedimenti
amministrativi non definiti dai dirigenti, curano i rapporti con l’UE.
I dirigenti non generali, inoltre, formulano proposte ed esprimono pareri ai dirigenti
generali, curano l’attuazione dei programmi loro affidati da quest’ultimi, adottano atti e
provvedimenti amministrativi ed esercitano poteri di entrata e di spesa, dirigono e
coordinano l’attività degli uffici, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia, provvedono
alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali affidate ai propri uffici.
Con la riforma del 1993 le due qualifiche dirigenziali davano luogo a due rapporti di lavoro
di diversa natura, il dirigente era legato da un rapporto privatistico, il dirigente generale da
un rapporto pubblicistico,.
La diversificazione di regime è venuta meno con la riforma del 1997, in quanto si è esteso il
regime di diritto privato al rapporto di lavoro anche per i dirigenti generali.
Presupposto per lo svolgimento delle funzioni dirigenziali è l’accesso mediante concorso
per esami ovvero mediante corso concorso.
Con la soppressione del ruolo unico della dirigenza, di cui alla legge 145/2002, la dirigenza
si è specificata in apposite sezioni di ruoli distinti nell’ambito di ciascuna amministrazione.
Nella prima fascia rientrano i dirigenti generali in servizio dalla data di entrata in vigore
del ruolo unico ed i dirigenti di seconda fascia che per almeno cinque anni continuativi
hanno ricoperto incarichi di livello generale.
Nella seconda fascia sono compresi gli altri dirigenti.
Gli uffici di livello dirigenziale si distinguono in:
a) incarichi di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate
in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente, cui possono accedere i
dirigenti di prima fascia;
b) incarichi di funzione dirigenziale di livello generale, conferiti ai dirigenti di
prima fascia, salvo una quota venga riservata ai dirigenti di seconda fascia;
c) incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale, destinati ai dirigenti di
seconda fascia.
Gli incarichi sub a) e sub b) sono conferiti con d.p.r., previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri, su proposta del Ministro competente. Gli incarichi sub c) sono conferiti con
d.p.c.m., su proposta del Ministro competente.
Dopo la riforma del 2009 con il Dlgs 150, gli uffici dirigenziali sono sottoposti ad un
sistema di valutazione integrato. Riguardo la revoca dell’incarico dirigenziale, vi sono due
discipline differenti: la prima, applicabile ai c.d. dirigenti apicali, è costituita dallo spoils
system entro un certo termine dal voto di fiducia del Governo, la seconda, valida per tutti
gli altri dirigenti, prevede che gli incarichi dirigenziali possono essere revocati
esclusivamente nei casi di responsabilità dirigenziale, comunque le amministrazioni
possono sempre attribuire al dirigente un nuovo incarico di valore economico inferiore.
Il mancato raggiungimento degli obiettivi ex art. 21 Dlgs 165/01, accertato mediante un
sistema di valutazione, o l’inosservanza delle direttive impartite, nonché la colpevole
violazione del dovere di vigilanza sul rispetto degli standard fissati dall’amministrazione,
determina l’impossibilità di rinnovo dell’incarico. Il dirigente, così come gli altri
dipendenti pubblici, può tutelare i propri diritti davanti al giudice del lavoro.
Capitolo 2
158
Le risorse finanziarie
1. Le fonti
Il sistema finanziario italiano va inquadrato nell’ambito della finanza pubblica in
contrapposizione alla finanza da patrimonio, in quanto l’entrata si ricava dal prelievo dei
tributi e assai poco dall’utilizzo dei beni appartenenti al patrimonio pubblico.
Il settore è disciplinato dalla legge di contabilità n. 2440 del 1923 e dal regolamento di
contabilità r.d. 827/ 1924.
Successive modifiche sono date dalla legge 468/ 1978, legge 362/ 1988 e legge 97/ 1994
modificativa della struttura delle entrate e spese.
Le fonti costituzionali di riferimento sono gli articoli 81, 119, 41, 23, 53 e 100 Cost (controlli
della Corte dei Conti: preventivo di legittimità sugli atti del Governo e successivo sulla
gestione del bilancio dello Stato).
Ancora, l’art. 41 sottolinea la necessità della programmazione nell’attività finanziaria,
l’art. 23 introduce la riserva di legge in materia tributaria, l’art. 53 sancisce l’obbligo
della contribuzione da parte di tutti i cittadini sulla base della propria capacità
contributiva.
Tra i vincoli imposti alla finanza pubblica rientrano quelli derivanti dalla normativa
comunitaria conseguenti al c.d. Patto di Stabilità e di Crescita.
Quanto agli enti locali, a seguito del novellato art. 119 Cost., è riconosciuta la possibilità di
vincolare tali enti al solo perseguimento del coordinamento con la finanza pubblica, tra cui
il raggiungimento degli obiettivi comunitari.
Infine, l’art. 81, comma 1, Cost. prevede che le Camere approvano ogni anno i bilanci
ed il rendiconto consuntivo presentati dal Governo, per cui la legge di bilancio oltre a
costituire una legge di approvazione annuale di competenza del Parlamento, è altresì
legge obbligatoria per la gestione della spesa e la sua mancanza implica l’approvazione di
una legge sostitutiva che autorizzi l’esercizio provvisorio (se il bilancio non viene
approvato entro il 31/12) per periodi non superiori a quattro mesi.
La legge di bilancio è ritenuta dalla dottrina legge formale, in quanto prevede entrate ed
uscite per ogni genere, a carattere finanziario e per un solo esercizio e non può stabilire
nuovi tributi e nuove spese ex art. 81, comma 3, Cost.
Le modalità di copertura finanziaria delle nuove o maggiori spese sono indicate nella
legislazione ordinaria (legge 196/2009), che prevede: il ricorso a fondi speciali, la
riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa, l’adozione di modifiche legislative che
comportino nuove o maggiori entrate.
L’evoluzione della finanza pubblica è stata influenzata anche dalla riforma federale dello
Stato, che ha riscritto l’art. 119 Cost: gli enti territoriali hanno autonomia di entrata e di
spesa, a queste risorse autonome poi si aggiungono quelle del fondo perequativo,
istituito dallo Stato per soccorrere i territorio con minore capacità fiscale per abitante.
Viene anche statuito il principio di autosufficienza finanziaria, disponendo che le fonti
di finanziamento permettono agli enti territoriali di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite, e si dispone che lo Stato può destinare risorse aggiuntive ed
effettuare interventi speciali in favore di determinati enti territoriali per promuoverne lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri
economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni.
La legge 42 del 2009, nell’ambito della cornice costituzionale rappresentata dall’art. 119,
delega il Governo a realizzare il c.d. federalismo fiscale.
Diversi sono gli interventi legislativi in tema di federalismo fiscale, la legge 196/2009 ha
intrapreso un processo di riforma che è sfociato nella legge 39/2011, che ha recepito le
regola comunitarie definite durante il semestre europeo.
159
Lo scopo era quello di rafforzare il Patto di stabilità e crescita in Europa, in particolare
attraverso vincoli di Bilancio e programmi di finanza ed economia pubblica.
I vincoli derivanti dalle norme europee, ed in particolare dall’applicazione del Patto di
stabilità e crescita, costituiscono i limiti annuali per la gestione finanziaria delle pubbliche
amministrazioni.
2. Il Bilancio dello Stato
Esso rappresenta un importante documento contabile, approvato per legge, col quale il
Parlamento assume le principali decisioni di finanza pubblica, autorizzando il Governo ad
effettuare le spese.
Il Bilancio ha carattere preventivo (è adottato prima dell’inizio della gestione), ma non
svolge solo una funzione previsionale: riguardo alle spese svolge una funziona
autorizzatoria.
L’amministrazione può infatti effettuare solo le spese previste in Bilancio e nei limiti dello
stanziamento in esso indicato.
La legge 196/2009 ha attribuito al bilancio ambito triennale, per cui, oltre le previsioni
di entrata e di spesa annuali, vanno indicate anche quelle relative al secondo e terzo anno;
la funzione autorizzatoria resta limitata solo alle spese del primo anno.
Si parla di bilancio finanziario se registra il flusso di denaro in uscita ed entrata,
patrimoniale se riporta i fatti di gestione che incidono sul patrimonio mostrando un
arricchimento i impoverimento, economico se considera costi e ricavi, spiegano perché il
patrimonio è aumentato o diminuito.
Il bilancio statale è innanzitutto finanziario, poiché prende in considerazione fatti
gestionali che comportano acquisizione di entrate ed effettuazione di spese, è anche
economico per quanto riguarda il conto economico, ed è infine patrimoniale.
I bilancio finanziari possono essere redatti in termini di competenza (vi si riportano le
entrate e le spese nella loro fase iniziale) e di cassa (vi si riportano le entrate e le spese nella
loro fase finale).
Dal 1978 il bilancio era misto, di cassa e di competenza, con la legge 196/2009
divenne di sola cassa, e con la legge 39/2011 torna ad essere misto.
Altra importante distinzione è tra i residui attivi (se si ha un’entrata accertata ma non
versata nel corso dell’anno finanziario) e passivi (se si ha una spesa impegnata ma non
pagata nel corso dell’anno finanziario).
Il Bilancio dello Stato è formato tenendo conto dei parametri contenuti nel Documento
di programmazione economica e finanziaria (DEF), ed è redatto a legislazione
vigente, poiché mostra l’evoluzione delle entrate e delle spese risultante dalla legislazione
in vigore.
Diversamente, il Bilancio pluriennale è redatto anche come bilancio programmatico,
esponendo le previsioni sull’andamento delle entrate e delle spese tenendo conto degli
interventi programmati nel DEF, entrambi coprono infatti un periodo di tre anni.
3. La struttura del bilancio
Con la riforma di cui al d.lgs. 29/1993 è avvenuta un’importante modifica del
procedimento di bilancio, che ha trovato nella legge 94/ 1997 un importante sbocco in
quanto sono state istituite le c.d. Unità previsionali di base, c.d. u.p.b., determinate
per aree omogenee di attività ed in modo da assicurare la piena rispondenza della gestione
finanziaria agli obiettivi posti all’azione amministrativa dello Stato.
Tali unità, infatti, sono predisposte in modo tale che ciascuna di esse rappresenti un unico
centro di responsabilità amministrativa tanto che consentono di distinguere tra bilancio
amministrativo e bilancio politico
160
Il bilancio politico, in particolare, rappresenta il bilancio approvato dal Parlamento,
distribuito in u.p.b. e che sviluppa il rapporto tra organi politici, Governo e Parlamento,
per cui è necessario il rapporto di fiducia sulla manovra finanziaria.
Il bilancio amministrativo, invece, è emanato con decreto del Ministro dell’economia e
delle finanze e specifica la classificazione semplificata contenuta nel bilancio politico, per
cui esso è uno strumento politico – amministrativo che sviluppa il rapporto tra Governo e
dirigenza.
In definitiva, con la legge 94/ 1997, il bilancio dello Stato risulta suddiviso in stati di
previsione quanti sono i ministeri con il computo anche della Presidenza del Consiglio dei
Ministri. E, all’interno degli stati di previsione, la parte entrata e la parte uscita sono
suddivise nelle u.p.b. quante sono le risorse finanziarie affidare alla gestione di ciascun
centro di responsabilità amministrativa.
Con la legge 196/2009 la struttura del bilancio viene formalizzata per missioni e
programmi. Il quadro riassuntivo del bilancio mostra i seguenti risultati differenziali:
risparmio pubblico, indebitamento o accrescimento netto, saldo netto da
finanziare, ricorso al mercato.
4. I principi di bilancio.
La redazione del bilancio si basa su una serie di principi, alcuni dei quali desumibili
dall’art. 81 Cost: annualità (anche se dopo la legge 196/2009 esso copre un periodo di tre
anni); unità, secondo il quale il totale delle entrate finanzia in maniera indistinta il totale
delle spese; universalità, che comporta che tutte le entrate e tutte le spese devono
confluire necessariamente nel bilancio ad eccezione dei casi di gestione fuori bilancio
consentiti dalla legge; integrità, entrate e spese devono essere iscritte nel loro importo
integrale, ossia al lordo.
Esso inoltre segue i principi di specializzazione, per cui entrate e spese sono ripartite al
fine di consentire un effettivo controllo del Parlamento sull’amministrazione delle risorse
pubbliche; della veridicità, deve rappresentare al vero il quadro economico di
riferimento; pubblicità, deve essere reso noto a tutti gli attori economici coinvolti e ai
cittadini, con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Alcuni ritengono esistente anche un
principio di pareggio, di equilibrio tendenziale.
5. Il ciclo di bilancio.
Si tratta di una sequenza di atti ininterrotti, in cui ogni provvedimento è funzionalmente
collegato a quelli che lo seguono o lo precedono. Ogni ciclo è influenzato dal semestre
europeo, introdotto dal Consiglio Econfin del 7/9/2010 per definire una nuova procedura
finalizzata al coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri.
Il semestre inizia a gennaio, quando la Commissione elabora l’analisi annuale della
crescita, fornendo proposte strategiche per l’economia europea.
La fase di preparazione del bilancio statale italiano prende avvio con la presentazione,
entro il 10 aprile di ogni anno, del DEF, contenente l’aggiornamento del Patto di stabilità
ed il Programma nazionale di riforma.
Il DEF è predisposto dal Governo e inviato alle Camere e alla Conferenza
permanente per il coordinamento della finanza pubblica.
Dopo l’esame parlamentare del DEF, Patto di stabilità e Programma di riforma sono
inviati, entro il 30 aprile, alle Istituzioni comunitarie, per essere esaminati dal Consiglio
europeo e dal Consiglio dei ministri finanziari.
Entro il 20 settembre il Governo invia obbligatoriamente alle Camere la Nota di
aggiornamento del DEF, ed entro il 15 ottobre presenta alle Camere due disegni di
legge: quello di stabilità (la legge di stabilità sostituisce la legge finanziaria) e quello di
bilancio, che vanno approvati entro il 31 dicembre, altrimenti si va all’esercizio
provvisorio).
161
Entro il 30 giugno va presentato alle Camere il disegno di legge di assestamento, che può
introdurre modifiche al bilancio di previsione necessarie a seguito di vicende economiche e
finanziarie sopravvenute; possono essere effettuate variazioni di bilancio per coprire spese
richieste da leggi successive all’approvazione del bilancio di previsione.
Entro il 30 giugno dell’anno successivo va presentato alle Camere il rendiconto
generale dello Stato, composto dal conto di bilancio (che evidenzia la rispondenza tra la
gestione finanziaria e il preventivo) e dal conto del patrimonio (contabilizza la situazione
patrimoniale evidenziando gli effetti su di essa dell’attività finanziaria).
6. L’esecuzione del bilancio
Nell’esecuzione del bilancio è possibile individuare due distinti procedimenti
amministrativi, e cioè un procedimento di entrata ed un procedimento di uscita.
Le entrate seguono il procedimento di accertamento, riscossione e versamento.
L’accertamento consente all’amministrazione di appurare la ragione del credito, il suo
ammontare e la persona debitrice.
La riscossione vede il debitore pagare la somma dovuta allo Stato agli agenti di riscossione.
Il versamento conclude il ciclo delle entrate, per cui gli agenti di riscossione versano tali
somme alle Tesorerie dello Stato.
Il procedimento di spesa, invece, è considerato strumentale al procedimento
amministrativo, in quanto la spesa trova il suo presupposto nelle rispettive decisioni di
bilancio. Esso si articola nelle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione, pagamento.
L’impegno è la fase giuridica in cui sorge per lo Stato l’obbligo di pagare una determinata
somma, per cui s’individua la somma da pagare, il soggetto creditore, la ragione del
credito. Tale impegno può derivare da legge, da contratti, da sentenze di condanna passate
in giudicato che ingiungono allo Stato di pagare una certa somma di denaro.
La fase integrativa dell’efficacia dell’atto di impegno si perfeziona col controllo degli
uffici di ragioneria, e culmina con la registrazione dell’atto.
Solo i dirigenti possono impegnare e ordinare spese nei limiti delle risorse assegnate in
bilancio
Con la liquidazione viene stabilito l’ammontare esatto dell’obbligazione di spesa ed
individuata la persona del creditore.
L’ordinazione è la fase in cui si dà ordine alla Tesoreria di pagare la somma liquidata
mediante titolo di spesa che dispone il relativo pagamento.
Il pagamento conclude il procedimento di spesa ed è eseguito dalla Tesoreria o da altri
agenti pagatori, per cui si estingue l’obbligazione pecuniaria.
7. analisi e valutazione della spesa.
L’art. 39 della legge 196/2009, prevede un meccanismo di analisi e valutazione della spesa,
per garantire il contenimento del deficit pubblico: esso consiste in un’attività di analisi
della programmazione e della gestione delle risorse finanziarie e dei risultati conseguiti dai
programmi di spesa, finalizzata a migliorare il grado di efficienza ed efficacia della spesa
pubblica anche in relazione al conseguimento degli obietti vidi finanza pubblica.
Capitolo 3
I controlli di efficienza
1. L’evoluzione del sistema dei controlli amministrativi verso l’efficienza
In generale il termine controllo indica l’insieme di operazioni di riesame e di revisione
degli atti e delle attività di un soggetto da parte di un altro soggetto a ciò espressamente
autorizzato, interno o esterno all’amministrazione, con lo scopo di verificarne la
conformità a determinati parametri di raffronto.
162
Invero, dai tradizionali controlli preventivi di legittimità, la dottrina ha enucleato
diverse tipologie di controlli tra cui i c.d. controlli di efficienza ed il recente ciclo delle
performance.
I primi, infatti, risultano governati da una prospettiva di statualità dell’interesse pubblico,
per cui si giustificava l’impronta gerarchica dell’organizzazione amministrativa nel loro
rispettivo svolgimento.
Successivamente, sotto la spinta ad un revisione profonda dell’assetto tradizionale dei
controlli, l’attenzione della dottrina ha riguardato parametri ulteriori rispetto alla
legittimità, per cui le soluzioni prospettabili erano quelle di prevedere controlli esterni che
si aggiungessero al controllo di legittimità e di efficienza ovvero articolare un sistema di
controlli interni separati e distinti sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo nei parametri
da applicare.
La riforma dei sistemi di controllo si è avuta con la legge 20/1994 che ha decretato il
passaggio del sistema dei controlli secondo la prospettiva della previsione di legge,
imparzialità ed efficienza, che viene chiamato controllo di gestione, i cui parametri
sopraindicati sono definiti annualmente dalla Corte dei conti.
Si tratta di un controllo sull’attività complessiva svolta dall’amministrazione, incentrato
sull’efficacia (data i risultati) e dall’economicità (rapporto tra costi e benefici), ma
includente anche la legalità.
2. I controlli interni: il sistema generale
Il d. lgs. 286/1999 scompone la figura unitaria di controllo interno prevista dall’art. 20 del
d.lgs. 29/1993 (ora Dlgs 165/2001) in controllo di regolarità amministrativa e
contabile, controllo di gestione, valutazione del personale con incarico
dirigenziale e attività di valutazione e controllo strategico.
Tale suddivisione è assunta come progettazione dell’insieme di controlli interni sulla
gestione delle pp.aa.
Su questo sistema di controlli ha inciso il Dlgs 150/2009; il meccanismo favorisce la
collaborazione tra organi di governo e dirigenza: il dirigente partecipa all’attività di
indirizzo politico con funzioni consultive e di proposta, di pianificazione, progettazione,
informazione sull’andamento dell’attività nel suo complesso .
Il sistema dei quattro controlli va però armonizzato con il ciclo delle performance del
2009, improntato ad una concezione aziendalistica della pa.
a) Il controllo di regolarità amministrativa e contabile
L’art. 2 del d.lgs. 286/ 1999 prevede tale controllo nell’ambito di una prospettiva
collaborativa tra organi di governo.
Infatti, ogniqualvolta è previsto un controllo preventivo in ordine alla regolarità
amministrativa e contabile, mediante l’emissione di un parere o di una formulazione
di una proposta, questi non sono mai vincolanti per l’organo a cui vengono resi, anche se
dovrebbero restare fermi l’obbligo per tali organi di motivare le ragioni di scostamento dal
parere o dalla proposta e la conseguente assunzione di responsabilità dell’organo o del
funzionario che adotta tale provvedimento in assenza di parere o di proposta negativa.
b) Il controllo di gestione.
In tale ambito viene considerata tutta la gestione amministrativa soprattutto in termini di
risultati raggiunti, per cui il legislatore viene a rimettere a ciascuna amministrazione
pubblica la definizione delle unità responsabili della progettazione e della gestione di tale
forma di controllo e delle unità organizzative la cui azione sarà oggetto di misurazione sotto
il profilo della efficacia, efficienza ed economicità, in quanto vengono in tale sede
163
determinate le modalità di rilevazione e ripartizione dei costi tra unità organizzative e sono
individuati gli obiettivi per cui i costi sono sostenuti.
La gestione, infatti, va intesa in un’accezione concreta di attività amministrativa che si
sviluppa in un arco di tempo prefissato.
Come accennato, ora il controllo assume conformazione aziendalistica, ne è esempio
l’adozione da parte delle pa di una Carta dei Servizi.
Il controllo interno di gestione incide sull’esercizio dell’azione amministrativa, in quanto è
diretto ad indicare le misure correttive da attuare, sotto il profilo dell’organizzazione e
dell’azione.
Il controllo esterno sulla gestione è invece demandato alla Corte dei conti riguarda la
gestione di tutte le pp.aa., per cui nell’indicare le misure correttive da attuare tale controllo
viene a determinare un dovere ovvero un onere di riesame da parte delle amministrazioni
pubbliche che devono comunicare ad essa le misure consequenzialmente assunte.
c) Le attività di valutazione e controllo strategico.
Tale controllo rappresenta una novità introdotta con il d.lgs. 286/ 1999, in quanto esso è
considerato un supporto all’attività di programmazione strategica e di indirizzo politico –
amministrativo, che ne impone l’attribuzione a strutture che rispondo direttamente agli
organi di indirizzo politico – amministrativo.
La disciplina normativa assegna a tale forma di controllo il carattere direzionale e
collaborativo ormai tipico della categoria dei controlli interni, per cui l’attività di
valutazione e controllo strategico presentano un andamento circolare, laddove il controllo
di gestione è in continuo scambio tra informazioni ed elaborazioni di indirizzi e
realizzazione degli stessi.
In tale sede si assiste ad una stretta connessione tra attività di valutazione e controllo
strategico e dimensione politica, in quanto quest’ultima demanda a servizi di controllo
interno, compresi tra gli uffici di diretta collaborazione con il Ministro, l’attività di
valutazione e controllo.
In altri termini, il servizio di controllo interno rende conto al Ministro dell’attività svolta
attraverso una relazione annuale sui risultati della analisi effettuate, con proposte di
miglioramento della funzionalità della stessa p.a.
Quanto ai parametri di riferimento, nel silenzio della normativa, si sta affermando un
approccio multidisciplinare che tiene conto anche dei processi di politcy marking secondo i
quali vengono indicati i parametri di performance al fine di far funzionare al meglio
l’amministrazione anche con riferimento ai processi di benchamrking che consistono in
ricerca ed analisi strutturata dell’azione di organizzazioni omogenee.
3. La criticità del sistema dei controlli e l’affermazione del sistema di misurazione,
valutazione e trasparenza delle performance.
La riforma introdotta col Dlgs 286/1999 ha incontrato problemi di attuazione per una
vasta serie di ragioni, da qui l’intervento correttivo del Dlgs 150/2009 che si muove su due
direttrici fondamentali: sul piano organizzativo, attraverso l’istituzione di un
organismo centrale col compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio
indipendente delle funzioni di valutazione in sostituzione dei nuclei di valutazione interni;
sul piano funzionale, attraverso la previsione di obiettivi e la misurazione delle
performance, predisponendo periodicamente documenti e valutando, con cadenze
periodiche, i risultati ottenuti da parte di tutto il personale: in tal modo si recupera qualità
ed efficienza nel comparto amministrativo.
La performance è il contributo che un soggetto apporta, attraverso la propria azione, al
raggiungimento delle finalità e degli obiettivi ed alla soddisfazione dei bisogni per i quali
l’organizzazione è stata costituita.
164
Sono stati poi introdotti gli standard dell’azione amministrativa che, insieme agli
obiettivi ad essi legati, costituiscono oggetto di valutazione delle performance.
4. Il ciclo di gestione delle performance.
Il ciclo di gestione delle performance si articola in:
- definizione e assegnazione degli obiettivi da raggiungere, valori attesi di risultato e
rispettivi indicatori,
- collegamento tra obiettivi e risorse, monitoraggio in corso di esercizio e attivazione
di eventuali interventi correttivi,
- misurazione e valutazione delle performance, organizzativa e individuale,
- utilizzo di sistemi premianti, secondo criteri di valorizzazione del merito,
- rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico amministrativo, ai
vertici delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai cittadini, ai
soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi.
I documenti previsti sono un Performance plan, un Performance report ed un Programma
triennale della trasparenza e della integrità adottato da ogni amministrazione ed
aggiornato annualmente.
Il programma individua i servizi erogati, i costi, il monitoraggio del loro andamento nel
tempo, con la pubblico sul sito istituzionale si fini della trasparenza. Vengono inoltre
specificate le modalità, i tempi di attuazione, le risorse dedicate e gli strumenti di verifica
dell’efficacia delle iniziative.
Il Piano delle performance è un documento programmatico triennale che individua
indirizzi, obiettivi strategici e operativi e definisce gli indicatori per la misurazione e
valutazione delle performance dell’amministrazione, nonché gli obiettivi assegnati al
personale dirigenziale ed i relativi indicatori, va adottato entro il 31 gennaio.
La Relazione sulle performance evidenzia, al temine dell’anno, i risultati organizzativi ed
individuali raggiunti rispetto ai singoli obiettivi programmati e alle risorse, rilevando
eventuali scostamenti; va adottato entro il 30 giugno. La sua validazione è condizione
inderogabile per l’accesso agli strumenti per premiare il merito.
L’oggetto della valutazione è costituito dall’attuazione delle politiche attive sulla
soddisfazione finale dei bisogni della collettività, l’attuazione di piani e programmi ovvero
la misurazione dell’effettivo grado di attuazione dello stesso, nel rispetto delle fasi e dei
tempi previsti, degli standard qualitativi e quantitativi definiti, del livello di risorse
previsto di assorbimento delle risorse, la rilevazione del grado di soddisfazione dei
destinatari, ecc.
Nel processo di misurazione e valutazione della performance organizzativa e individuale è
effettuata anche da una Commissione per la valutazione, trasparenza, integrità
delle amministrazioni pubbliche, gli Organismi indipendenti di valutazione
delle performance, l’organo di indirizzo politico della pa e i suoi dirigenti.
Ogni amministrazione si dora di Organismi indipendenti di valutazione delle
performance, che riferisce direttamente all’organo di indirizzo politico-amministrativo
ed è nominato da quest’ultimo per 3 anni. Tutta la procedura è connessa al principio di
trasparenza, che ne comporta un’accessibilità totale attraverso lo strumento della
pubblicazione sul sito istituzionale delle pa.
Parte 9
Regime dei beni
Capitolo 1
I beni di proprietà pubblica
1. Nozioni generali
165
I beni pubblici vengono tradizionalmente definiti come beni appartenenti alle
organizzazioni pubbliche (requisito soggettivo) e funzionalmente destinati alla
cura in concreto di interessi pubblici (requisito oggettivo).
La disciplina dei beni pubblici si rinviene a partire dalla Costituzione che all’art. 42,
comma 1, afferma che la proprietà è pubblica o privata e che i beni economici
appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
In particolare, mentre i soggetti privati possono godere e disporre liberamente, nei limiti
consentiti dall’ordinamento, dei beni di cui sono titolari; le organizzazioni pubbliche,
invece, risultano titolari di beni affinché li utilizzino per il perseguimento dei propri fini
istituzionali fissati dalla legge.
Pertanto, il legislatore si è preoccupato di dettare una serie di disposizioni speciali in
materia di beni pubblici. Nei paragrafi successivi si considererà la disciplina prevista nel
codice civile e quella che si è prodotta negli anni tanto da rendere quella codicistica una
disciplina quasi residuale dei beni pubblici.
2. La disciplina del codice civile. I beni demaniali
Dalle disposizioni del codice civile è possibile distinguere tra beni demaniali e beni
patrimoniali, i quali ultimi si distinguono in beni patrimoniali indisponibili e beni
patrimoniali disponibili.
L’art. 822 c.c. dispone al comma 1 che i beni, c.d. demanio pubblico, appartengono allo
Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i
fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere
destinate alla difesa nazionale. Al comma 2 è stabilito che fanno parte del demanio
pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli
aerodromi, gli acquedotti, gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e
artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte di musei, delle pinacoteche, degli
archivi, delle biblioteche; ed infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime
proprio del demanio pubblico”.
L’art. 824 c.c., rubricato “beni delle province e dei comuni soggetti al regime dei beni
demaniali”, dispone al comma 1 che i beni della specie di quelli indicati al comma 2
dell’art. 822, se appartengono alle province o ai comuni, sono soggetti al regime del
demanio pubblico. Il comma successivo aggiunge che allo stesso regime sono soggetti i
cimiteri e i mercati comunali.
Inoltre, l’art. 11 della legge 281/ 1970, rubricato “beni di demanio e patrimonio regionale”,
al comma 1 stabilisce che i beni della specie di quelli indicati dal comma 2 dell’art. 822 c.c.
se appartengono alle Regioni per acquisizione a qualsiasi titolo, costituiscono il demanio
regionale e sono assoggettati al regime previsto dallo stesso codice per i beni del demanio
pubblico. Ancora, al comma 3 è stabilito che sono trasferiti alle Regioni e fanno parte del
demanio regionale i porti lacuali e, se appartenenti allo Stato, gli acquedotti di interesse
regionale”.
Dalle richiamate elencazioni emerge che:
a) tutti i beni demaniali sono sempre beni immobili o universalità di mobili, e
mai beni mobili;
b) appartengono necessariamente ad enti pubblici territoriali.
Va tenuta presente la distinzione tra:
a) beni del demanio necessario, che sono beni demaniali di cui al comma 1 dell’art.
822 c.c.
b) beni del demanio eventuale o accidentale, che possono appartenere oltre che a
soggetti pubblici territoriali, anche a soggetti diversi, pubblici o privati.
Altra distinzione è quella tra:
166
a) beni del demanio naturale, come spiagge e fiumi e che acquistano o perdono la
propria identità a seguito di fatti naturali;
b) beni del demanio artificiale, come porti ed acquedotti, che sono determinati per
opera dell’uomo.
La condizione giuridica dei beni demaniali è stabilita dall’art. 823 c.c. che al comma 1
prevede che i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono
formare oggetto di diritti in favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti
dalle leggi che li riguardano.
Pertanto, i beni demaniali non possono essere trasferiti e usucapiti, non possono essere
oggetto di procedure esecutive. Si tratta di beni incommerciabili e, seppure resta
ferma la titolarità pubblica, possono formare oggetto di diritti a favore di terzi mediante
provvedimenti concessori nei casi e limiti previsti dalla legge (ex. concessione delle spiagge
in favore di gestori privati di stabilimenti balneari contro il pagamento di un canone). Al di
fuori di tali ipotesi, qualsiasi atto di disposizione di beni demaniali si considera nullo per
impossibilità dell’oggetto ex art. 1418, comma 2, c.c.
Per quanto concerne la loro tutela, il comma 2 dell’art. 823 c.c. prevede che l’autorità
amministrativa competente abbia la facoltà di procedervi avvalendosi dei mezzi ordinari a
difesa della proprietà e del possesso previsti dal codice civile nonché, in senso alternativo,
in via amministrativa nell’ipotesi di autotutela esecutiva nei casi e nei limiti previsti dalle
discipline legislative di settore.
Invero, occorre distinguere l’inizio e la cessazione del carattere demaniale dei beni
pubblici, in quanto i beni del demanio necessario naturale acquistano tale qualità per il
solo fatto di venire ad esistenza con le caratteristiche proprie descritte dalla legge; invece, i
beni del demanio necessario artificiale acquistano tale qualità al verificarsi della loro
venuta ad esistenza per opera dell’uomo e perché risultano destinati al soddisfacimento
delle esigenze di interesse pubblico previste dalla legge. Analogo meccanismo vale anche
per l’acquisto del carattere demaniale per i beni appartenenti al demanio eventuale.
Quanto alla cessazione del carattere demaniale, per i beni naturali avviene per il solo
fatto che essi abbiano perduto le caratteristiche fisiche loro proprie, mentre per i
beni artificiali si riguarda alle ipotesi oggettive di perdita delle loro qualità stabilite dalla
legge, che non possono consistere nel perimento fisico del bene e possono altresì verificarsi
nelle ipotesi in cui non risultino più destinati al soddisfacimento delle esigenze
di pubblico interesse previste dalla legge.
In particolare, l’art. 829 c.c. prevede il passaggio dei beni dal demanio pubblico al
patrimonio dello Stato che deve essere dichiarato con atto dell’autorità amministrativa
competente, da pubblicarsi in Gazzetta Ufficiale, quale atto di natura dichiarativa e non
costitutiva.
3. Segue. I beni patrimoniali
La seconda categoria di beni pubblici è costituita dai beni patrimoniali, che si
distinguono in:
a) beni patrimoniali indisponibili di cui all’art. 826, commi 2 e 3, c.c. ed il cui regime
giuridico è disciplinato all’art. 828 c.c.
b) e beni patrimoniali disponibili, che sono individuati mediante un criterio di
residualità, in quanto sono tali tutti i beni appartenenti a soggetti pubblici diversi dai beni
demaniali e dai beni patrimoniali indisponibili.
Nel r.d. 2440/1923 e r.d. 827/1924 è stabilita la disciplina generale in ordine alla gestione
ed amministrazione dei beni appartenenti allo Stato.
4. Uso dei beni pubblici
Le modalità di uso dei beni pubblici variano a seconda della funzione di cura in concreto
dell’interesse pubblico che gli stessi sono chiamati ad assolvere, per cui si distingue tra:
167
a) uso diretto, in quanto i beni sono utilizzati direttamente dalle organizzazioni
pubbliche proprietarie per lo svolgimento delle proprie attività;
b) uso promiscuo, in quanto i beni assolvono, oltre alla loro funzione principale, un
utilizzo secondario da parte di altri soggetti, pubblici o privati, come il caso delle
strade militari;
c) uso generale, in quanto i beni posseggono una immediata ed intrinseca vocazione
alla cura in concreto dell’interesse pubblico a favore del soddisfacimento degli
interessi della collettività;
d) uso particolare, in quanto i beni, per la loro scarsità, sono oggetto di
provvedimenti amministrativi concessori ed a fronte della corresponsione di un
canone, vengono attribuiti a soggetti privati.
5. I diritti demaniali su beni altrui e gli usi civici
L’art. 825 c.c. assoggetta allo stesso regime giuridico dei beni demaniali anche i diritti
reali che spettano allo Stato, alle Province ed ai Comuni su beni appartenenti ad altri
soggetti, quindi anche a soggetti privati, quando i diritti stessi:
a) sono costituiti per l’utilità di beni demaniali;
b) sono costituiti per il perseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a
quelli che servono per i beni demaniali stessi
Analoga previsione è contenuta all’art. 11, comma 2, della legge 281/ 1970 in riferimento
alle Regioni.
In particolare, nell’ipotesi sub a) si è in presenza di diritti demaniali su beni altrui in
senso stretto, per cui la costituzione di tali diritti su beni che sono tutti beni immobili è
considerata dalla dottrina come servitù prediali pubbliche e come tali possono essere
costituite per legge ovvero per provvedimento amministrativo.
All’ipotesi sub b) corrispondono i diritti di uso pubblico, costituiti non per l’utilità del
bene demaniale, ma in favore di una determinata collettività, i cui membri possono
chiederne la tutela anche per uso personale.
Un particolare modo di costituzione di diritti di uso pubblico è la c.d. dicatio ad patriam,
che ricorre qualora il proprietario di un bene privato metta volontariamente e
continuativamente il bene stesso a favore della collettività, assoggettandolo al relativo uso.
Infine, gli usi civici sono diritti reali di antica origine e di natura civica, in quanto sono
titolari determinate collettività stanziate su un territorio ed hanno per oggetto il
godimento di terreni di proprietà degli enti territoriali o anche di soggetti privati. La loro
disciplina è contenuta nella legge 1766/ 1927 ed è prevista la liquidazione degli usi civici
gravanti su beni privati rimessa ad appositi organi statali, i Commissari regionali per la
liquidazione degli usi civici le cui funzioni, amministrative e giurisdizionali, sono state
delegate alle Regioni dal d.p.r. 616/ 1977. Tale procedimento consta di una prima fase di
accertamento della sussistenza e dei caratteri dell’uso civico, una seconda fase di
affrancazione dei fondi privati dagli usi civici mediante distacco di essi di una parte che
viene ceduta in proprietà ai Comuni ovvero in enfiteusi ai coltivatori diretti dei Comuni,
mentre in caso di boschi o pascoli, tali terreni sono lasciati in godimento, con vincolo di
indisponibilità, alle collettività interessate. Ai Comuni spetta la vigilanza
sull’amministrazione dei beni gravati da usi civici.
La disciplina codicistica sui beni pubblici presenta taluni aspetti critici come evidenziato
dalla giurisprudenza.
Il primo aspetto critico riguarda l’assenza di un criterio del tutto coerente in base al quale i
beni pubblici vengono distinti in beni demaniali e benti patrimoniali indisponibili, in
quanto tra le diverse vocazioni si dovrebbe riguardare ai beni nella cura in concreto degli
interessi pubblici, da cui si ricavano scelte arbitrarie, come nella maggior parte dei beni del
demanio eventuale che presentano un trattamento giuridico differenziato rispetto al
patrimonio indisponibile seppure a fronte della cura in concreto dell’interesse pubblico.
168
Il secondo aspetto critico riguarda il regime giuridico dei beni demaniali, per cui la
giurisprudenza ha esteso la disciplina prevista per i beni demaniali anche ai beni
patrimoniali indisponibili, in quanto si riguarda ad esigenze di garanzia per cui si finisce
per sottoporre i suddetti beni ad un regime pubblicistico eccessivamente accentuato.
6. Evoluzione della categoria dei beni pubblici per effetto dei processi di privatizzazione
(formale e sostanziale).
Le disposizioni del codice civile non esauriscono la disciplina giuridica dei beni pubblici, in
quanto vi sono altre normative speciali in materia il cui numero si è accresciuto negli anni.
Le legislazioni di settore sembrano principalmente orientate ad assicurare le giuste
esigenze di tutela dei beni pubblici superando l’appartenenza del bene al soggetto
pubblico, in quanto si riguarda alla duplice forma di privatizzazione dei beni pubblici, da
un lato attraverso la trasformazione dei soggetti cui essi già appartenevano in società per
azioni e dall’altro lato mediante l’apposita istituzione di nuovi soggetti, sempre regolati dal
diritto privato, ai quali vengono trasferiti beni prima appartenenti a soggetti pubblici.
Di qui la distinzione tra privatizzazione sostanziale, che consiste nella ritrazione della sfera
di competenza pubblica da un dato settore, il cui funzionamento viene affidato
completamente ai soggetti privati; e privatizzazione formale, per cui è adottata la veste
privatistica del soggetto proprietario del bene pubblico il quale viene a garantire una
maggiore efficienza, efficacia ed economicità nella gestione.
Invero, il fenomeno della privatizzazione si snoda per due direttrici di fondo, una
conseguente alla trasformazione di enti pubblici in società per azioni e l’altra relativa alla
costituzione ex novo di organismi societari ai quali vengono conferiti beni pubblici.
7. Segue. La trasformazione di enti pubblici proprietari di beni pubblici in società per
azioni e le conseguenze sul regime giuridico dei beni
Occorre considerare di taluni beni pubblici, ora appartenenti a soggetti privati, i quali
risultato di fondamentale importanza per l’erogazione di servizi pubblici essenziali, quali
le reti ferroviaria, elettrica, telefonica e stradale.
In particolare, l’art. 822, comma 2, c.c. prevede che le strade ferrate di appartenenza dello
Stato appartengono al demanio statale eventuale, il cui regime giuridico era regolato fino al
1985 dall’Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato che, a seguito dell’emanazione della
legge 210/ 1985, venne trasformata in ente pubblico economico, denominato Ente Ferrovie
dello Stato dotato di personalità giuridica, da cui la sdemanializzazione della rete
ferroviaria e la sua riconduzione al regime dei beni patrimoniali indisponibili. Inoltre, l’art.
15, comma 1, d. l. 16/1993 ha riferito alla neo istituita s.p.a. Ente Ferrovie il ruolo di
Gestore dell’infrastruttura come poi ribadito dal d. lgs. 188/ 2003.
Vicenda analoga si è avuta con la rete di trasmissione elettrica nazionale, in origine
classificata come bene patrimoniale indisponibile ed appartenente all’ente pubblico
economico Enel e che, dopo la sua trasformazione in s.p.a., ha imposto al medesimo lo
svolgimento di attività di produzione di energia elettrica, distribuzione e vendita in
maniera separata dall’esercizio dei diritti di proprietà della rete, da cui la costituzione della
società Terna s.p.a. alla quale è stata conferita la rete di trasmissione elettrica nazionale.
Gestore della rete è la G.R.T.N. s.p.a. costituita anch’essa da Enel s.p.a. e con d. l. 239/
2003 è stato stabilito che con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sia disposta
la unificazione della proprietà e della gestione della rete elettrica nazionale di trasmissione
nonché le modalità di gestione e privatizzazione sostanziale del soggetto risultante dalla
unificazione.
Quanto alla rete telefonica pubblica valgono le medesime considerazioni, in quanto la legge
58/ 1992 ha affidato in via esclusiva ad un’apposita società per azioni, costituita e
partecipata interamente dall’I.r.i., i servizi di telecomunicazioni ad uso pubblico nonché
169
l’installazione e l’esercizio dei relativi servizi sino ad allora gestiti dall’Azienda di Stato per
i servizi telefonici e dall’amministrazione delle poste e telecomunicazioni, la Telecom Italia
s.p.a. alla quale sono stati trasferiti tutti i beni appartenenti ai predetti enti pubblici.
A far data dal 1997, Telecom Italia s.p.a. è stata oggetto di un processo di privatizzazione
sostanziale e di una regolamentazione amministrativa di cui al d.p.r. 318/ 1997 e d.lgs.259/
1993.
Il regime giuridico della rete stradale e autostradale nazionale è proprio dei beni che fanno
parte del demanio statale eventuale. Tali beni sono appartenuti allo Stato fino al 2002 e
con d.l. 138/2002 è stata sancita la trasformazione dell’ente pubblico economico, A.N.A.S.,
in società per azioni con attribuzione ex lege delle competenze dell’ente trasformato. In
particolare, sono di competenza di tale società le entrate derivanti dall’utilizzazione dei
beni demaniali relativamente ai quali esercita i diritti ed i poteri dell’ente proprietario in
virtù della relativa concessione a favore dell’organismo societario in questione.
8. Segue. L’istituzione di appositi organismi societari ai quali vengono conferiti beni
pubblici
Viene qui in considerazione il processo di vendita dei beni pubblici realizzato mediante
cartolarizzazione dei medesimi di cui al d.l. 351/ 2001.
L’Agenzia del demanio procede, infatti, al riordino mediante gestione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare pubblico sulla base di una complessa individuazione dei beni
immobiliari dello Stato e degli enti pubblici non territoriali, distinguendo beni demaniali,
patrimoniale indisponibili e patrimoniali disponibili.
Il Ministero dell’economia e delle finanze è autorizzato a costituire o a promuovere la
costituzione di apposite società a responsabilità limitata, c.d. s.c.i.p., aventi ad oggetto la
realizzazione di operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione
degli stessi beni immobili individuati dall’Agenzia del demanio.
In una prima fase, gli immobili pubblici vengono trasferiti a tali società mediante decreti di
natura non regolamentare adottati dal Ministro dell’economia e delle finanze, in cui è
determinato il prezzo iniziale che deve essere corrisposto dalle s.c.i.p. allo Stato e agli altri
enti pubblici e tali società possono assumere finanziamento oppure emettere titoli
obbligazionari sul mercato.
Di seguito, si procede al rimborso del finanziamento o dei titoli emessi attraverso la
rivendita sul mercato degli immobili già acquistati, per cui le somme residue vengono
versate allo Stato o agli altri enti pubblici ex proprietari.
Si tratta di procedure di vendita indirette che hanno il pregio di consentire allo Stato e
agli altri enti pubblici di incassare un prezzo per gli immobili oggetto di operazione in
anticipo rispetto al momento in cui tali beni vengono effettivamente ceduti sul mercato.
A riguardo la legge stabilisce che il prezzo di vendita degli immobili è determinato in ogni
caso sulla base di valutazioni correnti di mercato prendendo in riferimento i prezzi effettivi
di compravendite di unità immobiliari aventi caratteristiche analoghe.
Infine., la legge 289/ 2002 ha previsto il meccanismo di cartolarizzazione degli immobili
pubblici anche per le Regioni e gli enti locali per cui il trasferimento degli immobili, che
per i beni pubblici avviene mediante decreto ministeriale, è previsto che le delibere delle
Regioni e degli enti locali individuino i beni immobili da trasferire alle società di
cartolarizzazione al fine di procedere alla loro dismissione.
9. la trasformazione del concetto di res a destinazione pubblica e l’ampliamento dei
margini di commerciabilità dei beni pubblici.
Le vicende della privatizzazione di beni pubblici, sia attraverso la trasformazione in società
pubbliche degli enti cui essi appartengono, sia per effetto del loro trasferimento ad
organismi precostituiti, dimostrano un certo superamento della distinzione tra beni
demaniali e beni appartenenti al patrimonio indisponibile.
170
Si è perciò ipotizzato il venir meno del tradizionale vincolo di inalienabilità a favore di un
regime più flessibile applicato al bene indipendentemente dalla natura pubblica o privata
del suo proprietario ma si limita a preservarne la funzione collettiva.
Proprio la Regione potrebbe istituire organismi regolatori del patrimonio pubblico,
nell’ottica della valorizzazione del demanio regionale trasferito dallo Stato. I poteri della
Regione però, dovrebbero svolgersi nel rispetto dei vincoli generali che caratterizzano il
regime dei beni pubblici.
10. Il c.d. federalismo demaniale.
Di recente la legge ordinaria è intervenuta in tema di beni pubblici: con la legge 42/2009,
in materia di federalismo fiscale, il Governo è stato delegato ad emanare decreti legislativi
per attribuire risorse autonome ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle
regioni, in relazione alle rispettive competenze, secondo il principio di territorialità e nel
rispetto del principio di solidarietà e di quelli di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118 Cost.
Il Governo ha così emanato il Dlgs 85/2010, col quale ha individuato i beni statali che
possono essere attribuiti a titolo non oneroso a comuni, province, città metropolitane e
regioni, i quali sono tenuti a garantirne la massima valorizzazione funzionale a vantaggio
della collettività rappresentata.
I beni trasferibili agli enti locali sono:
- i beni demaniali marittimi,
- i beni del demanio idrico (esclusi fiumi e laghi sovra regionali),
- gli aeroporti regionali o locali appartenenti al demanio aereonautico,
- le miniere e gli altri beni immobili dello Stato classificati come trasferibili agli enti
locali.
Il procedimento per il loro trasferimento può prevedere un trasferimento singolo o per
gruppi dal Governo agli enti locali.
Capitolo 2
I beni soggetti a vincolo
1. La funzione sociale della proprietà privata nella elaborazione della dottrina
L’art. 42 Cost dispone al comma 2 che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla
legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne
la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
In tale formula l’Assemblea costituente ha inteso sintetizzare due concezioni tra loro
contrapposte, per cui da un lato la proprietà privata non avrebbe dovuto essere
contemplata nel testo costituzionale e dall’altro lato, invece, se ne sanciva il
riconoscimento in quanto si garantiva a tutti l’accesso alla proprietà.
Invero, nella riflessione della dottrina la proprietà è stata definita come un potere
dell’uomo sull’uomo, regolato da norme che ne disciplinano l’accesso, l’uso o il
trasferimento. Dalla seconda metà del XIX secolo si assiste all’accentuazione delle
differenze di censo e di capacità di accesso al mercato tra piccoli e grandi proprietari. Di
qui, la genesi del principio, sancito nella Costituzione, secondo cui la libertà individuale
insita nel diritto di proprietà si giustifica nei limiti in cui non contrasti con gli interessi
generali della società, e cioè della funzione sociale della proprietà.
La dottrina ha privilegiato un approccio che si pone tra due approcci estremi, di cui uno,
assai risalente, riduce la funzione sociale all’impresa, mentre il secondo riconosce il
proprietario che vive lo stato di libertà sempre e comunque consapevole dei limiti derivanti
dall’ambiente che lo circonda.
171
Pertanto, il concetto di funzione sociale trova applicazione ogni volta che, in relazione ai
beni economici in proprietà, si ravvisi un rapporto che solleciti l’altrui collaborazione.
La dottrina ha altresì evidenziato che la proprietà trova un’accezione finalistica piuttosto
che funzionale, in quanto la libertà del singolo trova garanzia non tanto nell’accesso alla
proprietà quanto nella consapevolezza della possibilità dell’intervento statale capace di
impedire la trasformazione dell’istituto in uno strumento di privilegio e di evitare
distruzioni di ricchezza, per cui la formula “funzione sociale” va intesa quale limitazione
alla proprietà dal contenuto multiforme il cui parametro di riferimento è quello dell’utilità
sociale, intesa quale benessere economico e collettivo.
La formula “funzione sociale” racchiude in sé un’impostazione programmatica in vista di
finalità da garantire in relazione alla proprietà privata di interessi generali legati al
godimento di beni e valori fondamentali che il nostro ordinamento individua nel
pluralismo sociale.
In senso difforme, la dottrina pubblicistica ha osservato che la funzione sociale, a
differenza della dottrina privatistica che la riconduce all’importanza sociale nei termini di
utilità sociale, ha un duplice scopo, e cioè quello di qualificare il diritto di proprietà e quello
di garanzia di riconoscimento del diritto, in quanto la legge ordinaria pone un limite che
viene a costituire un vincolo intrinseco al diritto soggettivo di proprietà.
Nella dottrina privatistica, pertanto, si è riguardato alla funzione sociale quale criterio
formale di legittimazione del potere legislativo atto a conformare la situazione dei privati
proprietari sono al punto da consentire l’applicazione analogica delle singole norme
altrimenti ritenute eccezionali.
Di qui una diversità di vedute, in quanto ci è chiesti perché mai la Costituzione avrebbe
garantito la proprietà individuale in termini di potere astratto e, d’altro lato, avrebbe
consentito al legislatore ordinario di determinarne i modi d’acquisto, di godimento e i
limiti per assicurarne la funzione sociale.
In definitiva, il dibattito si è circoscritto all’individuazione dell’oggetto del potere
conformativo del legislatore, per cui la formula “funzione sociale” si risolve
nell’attribuzione al legislatore ordinario del potere di disciplinare i soli modi d’acquisto ed
il contenuto della proprietà in guisa da assicurare la strumentalità del bene, oggetto del
diritto, allo svolgimento delle attività che fanno capo al proprietario ovvero ai terzi.
Secondo l’orientamento maggioritario, la funzione sociale funge da limite non soltanto
interno ma anche alla stessa attività legislativa, in quanto il legislatore può conformare la
proprietà in modo da assicurare la funzione sociale, ma può anche non conformarla a tale
scopo e perseguire altri fini diversi dalla funzione sociale stessa, come in vista del
perseguimento di interessi sopraindividuali, sintetizzati nella formula della “funzione
sociale”:
2. Vincoli indennizzabili e non
Di estremo rilievo è la distinzione tra vincoli alla proprietà privata che impongono la
corresponsione di un indennizzo e quelli che la escludono.
I vincoli posti ex lege a tutela di valori primari sono costituzionalmente garantiti e non
sono mai considerati indennizzabili, salvo rare eccezioni di cui al comma 3, dell’art. 42
Cost. Tali vincoli, infatti, costituiscono una categoria ab orgine di interesse pubblico, per
cui allorché l’amministrazione impone un vincolo di particolare interesse storico o artistico
su un immobile, non ne modifica la situazione preesistente, ma accerta la corrispondenza
delle sue concrete qualità alla prescrizione normativa.
L’atto amministrativo che attua tale funzione correlata alla qualificazione di particolare
interesse pubblico del bene non è equiparabile ad un atto espropriativo, per cui non si
applica la garanzia dell’indennizzo di cui al comma 3 dell’art. 42 Cost. in quanto è proprio
172
dalla funzione sociale intrinseca nella natura del bene che il legislatore determina i modi di
acquisto, di godimento ed i limiti alla proprietà privata.
Viceversa, altri vincoli, soprattutto di natura urbanistica, sono imposti con atti
amministrativi, come il piano generale o di riparto, la cui mancata previsione
dell’indennizzo si pone in contrasto con i principi costituzionali di cui all’art. 42, comma 3,
Cost.
Invero, nella distinzione tra vincoli alla proprietà privata immediatamente applicabili ex
lege e quelli che necessitano di provvedimento amministrativo, si distingue, tra questi
ultimi, i vincoli indennizzabili e vincoli non indennizzabili.
3. Vincoli dirette ed indiretti
Nell’ambito dei beni culturali, artistici ed archeologici si distingue tra vincoli diretti e
vincoli indiretti e quest’ultimi sono funzionalmente connessi al vincolo gravante sui primi.
Ad esempio, il vincolo archeologico c.d. diretto viene imposto su beni o aree nei quali sono
stati ritrovati reperti archeologici o in relazione ai quali vi è certezza dell’esistenza, della
localizzazione e dell’importanza del bene archeologico e tale ultimo vincolo c.d. indiretto,
invece, viene imposto su beni ed aree circostanti quelli sottoposte a vincolo diretto per
garantire una migliore visibilità e fruizione collettiva o migliori condizioni ambientali e di
decoro.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di bene culturale passa da un’accezione di tipo
materialistico ad una di tipo immateriale, in quanto il bene esprime una valore di ambiente
storico e sociale, per cui esso assume un valore di civiltà inerente all’esigenza conservativa
nonché proiezione del bene nell’attività di esecuzione di ricerche archeologiche inerenti ai
beni sottoposti al vincolo diretto, per cui la funzione del vincolo indiretto consiste nel
rapporto di complementarietà tra le misure limitative ed il fine pubblico perseguito
con le ragioni di adozione della misura limitativa.
4. I vincoli preordinanti a futuro esproprio: evoluzione normativa e giurisprudenziale.
L’art. 9 del vigente d. lgs. 8 giugno 2001, n. 327, rubricato vincoli derivanti da piani
urbanistici, è frutto di una scelta consapevole del legislatore delegato che la disciplina delle
limitazioni al diritto di proprietà scaturenti dalla strumentazione urbanistica, per cui
all’amministrazione è imposta la corresponsione di un indennizzo ex art. 42, comma 3,
Cost in virtù del c.d. Testo unico dell’edilizia di cui al d.lgs. 380/ 2001 nonché dalla
normativa generale in materia di espropriazione per pubblica utilità.
Secondo la legge urbanistica n. 1150 del 1942, il piano regolatore generale era concepito
come strumento ad efficacia a tempo indeterminato, sia per le zonizzazioni che per le
localizzazioni.
Tuttavia, con la storica sentenza n. 55 del 1968 la corte costituzionale dichiarò
l’illegittimità costituzionale dei numeri 2, 3 e 4 dell’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n.
1150 che contemplavano le prescrizioni sulla zonizzazione del territorio comunale e
dell’art. 40 della stessa legge che espressamente escludeva la corresponsione
dell’indennità per i vincoli di zona e per le limitazioni e gli oneri relativi all’allineamento
edilizio delle nuove costruzioni. La Corte affermò che il piano regolatore generale trovava
vigore a tempo indeterminato una volta approvato e che tali vincoli erano immediatamente
operativi e validi a tempo indeterminato.
In tale sistema, dunque, la Corte ribadì la garanzia della proprietà di cui all’art. 42 Cost.
per cui i singoli diritti, che si ricollegano alla proprietà, vengono compressi o soppressi
senza indennizzo, mediante atti di imposizione che conducono tanto ad una transazione
totale o parziale del diritto quanto ad uno svuotamento rilevante del suo contenuto, pur
rimanendo intatta l’appartenenza del diritto e la sottoposizione di tutti gli oneri anche
fiscali relativi alla proprietà fondiaria.
173
A seguito della sentenza sovraindicata, il legislatore intervenne con la legge 19 novembre
1968 n. 1187 di modifica della legge 1150 del 1942, per cui si venne a stabilire che i predetti
vincoli avrebbero perso efficacia qualora, entro cinque anni dalla data di approvazione del
piano regolatore generale, no fossero stati approvati i relativi piani particolareggiati od
autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
Successivamente, la legge n. 756 del 1973 stabilì che i vincoli urbanistici sarebbero rimasti
efficace sino all’entrata in vigore della nuova legislazione sul regime dei suoli e, comunque,
non oltre due anni dall’entrata in vigore della legge e tale termine venne prorogato di un
anno dal d.l. 562 del 1975 e poi di due mesi con d.l. 781 del 1976 convertito in legge 6 del
1977, sino all’entrata in vigore della legge 10 del 1977, c.d. legge Bucalossi.
Con la sentenza n. 92 del 1982, la Corte ha escluso che la legge 10 del 1977 avesse regolato
la materia dei vincoli urbanistici affermando che andasse riconosciuto carattere
permanente alla legge 1187 del 1968 che non aveva previsto alcun termine finale nella
modifica alla legge urbanistica, per cui la materia continuava ad essere disciplinata da tale
normativa.
Dopo la scadenza del vincolo quinquennale si venne a porre il problema di individuare le
facoltà edificatorie del privato e se i comuni potessero ed in che termini reiterare il vincolo
preordinato al futuro esproprio.
Il Consiglio di Stato, nell’adunanza plenaria affermò che, dopo la scadenza del termine
quinquennale per i vincoli di in edificabilità previsti dal piano regolatore generale, le aree
rimaste prive di destinazione venivano disciplinate secondo la disciplina di cui alla legge 10
del 1977 in tema delle c.d. zone bianche prevista dalla legge per i comuni privi di strumenti
urbanistici generali.
Invero, il Consiglio di Stato avvertì la necessità di investire nuovamente la Consulta del
problema della compatibilità con l’art. 42, comma 3, Cost.della reiterazione dei vincoli
urbanistici decaduti per effetto della scadenza del termine quinquennale di cui all’art. 2
della legge 1187 del 1968.
In considerazione del c.d. diritto vivente, la Corte costituzionale, con sentenza 179 del
1999, ha affermato che la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del
decorso del tempo può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da
congrua e specifica motivazione sull’attualità della previsione con adeguata comparazione
tra interessi pubblici e privati coinvolti.
Tuttavia, se permane il vincolo urbanistico a seguito di reiterazione, la Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale non dell’intero complesso normativo che consente tale
reiterazione, ma la mancata previsione dell’indennizzo in tutti i casi di permanenza del
vincolo urbanistico oltre i limiti di durata fissati dal legislatore.
Invero, secondo una recente sentenza del Consiglio di Stato, il principio di spettanza
dell’indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio, introdotto dalla sentenza 179 del 1999, non rileva per la verifica della
legittimità del provvedimento che ha disposto la reiterazione, poiché l’amministrazione
potrebbe non far seguire l’approvazione regionale del piano regolatore. Pertanto, i profili
attinenti al pagamento dell’indennizzo non attengono alla legittimità del procedimento, ma
riguardano questioni di carattere patrimoniale, come chiarito dall’art. 39, comma 1, del t.
u. n. 321 del 2001, per cui il proprietario può attivare un procedimento amministrativo nel
corso del quale egli ha l’onere di provare l’entità del danno effettivamente prodotto, quale
presupposto processuale necessario per poter agire innanzi alla corte d’appello.
5. Segue. La disciplina vigente. La misura di salvaguardia
L’art. 58, comma 1, del t.u. 327/ 2001 ha abrogato espressamente l’art. 2 della legge 1187/
1968 e l’art. 9, comma 3, del t.u prevede che, se non è tempestivamente dichiarata la
pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione
174
la disciplina dettata dall’articolo 9 del t.u. in materia edilizia di cui al d.p.r. 380 del 2001,
ossia quella previgente sulle cc.dd. zone bianche propria dei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici.
Secondo l’art. 9, comma 4, t.u. è consentita la reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio, dopo la sua scadenza, con provvedimento motivato e solo a seguito
dell’efficacia dell’atto di approvazione del piano urbanistico generale.
L’art. 39 del t.u. prevede che in caso di reiterazione del vincolo è dovuto al proprietario
un’indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto e qualora non sia
prevista alcuna corresponsione, l’autorità amministrativa è tenuta a liquidare l’indennità
entro il termine di due mesi dalla data in cui abbia ricevuto dall’interessato la domanda
documentate di pagamento che va corrisposta entro i successivi trenta giorni, decorsi i
quali spettano gli interessi legali.
E’ prevista altresì la c.d. misura di salvaguardia, per cui in caso di contrasto tra l’intervento
oggetto di domanda di permesso di costruire con gli strumenti urbanistici adottati, è
sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda e la misura di salvaguardia perde
efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico ovvero dopo
cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia sottoposto all’amministrazione
competente all’approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.
La giurisprudenza ha chiarito che l’attuale sistema urbanistico, in cui risulta sconosciuta la
sospensione di efficacia della concessione edilizia, oggi permesso di costruire, prevede che
una volta rilasciato il titolo edificatorio, vi è soltanto il potere di annullamento in presenza
di determinati presupposti ovvero, prima del rilascio, l’adozione della misura cautelare di
salvaguardia a tutela del piano ancora in itinere e tale provvedimento impone al privato,
che abbia presentato un progetto conforme alla pianificazione vigente, di attendere per un
periodo di tempo da tre a cinque anni, il perfezionamento delle previsioni da adottare con
l’approvazione del piano, salvo il limite legale per cui possono essere rilasciati soltanto
permessi di costruire che non contrastino con le previsioni del piano adottato ed in attesa
di approvazione.
Pertanto, sarà illegittimo non soltanto il diniego di permesso in luogo di sospensione della
determinazione sull’istanza del privato, ma altresì il permesso che sia conforme alle
previsioni adottate ma in contrasto con quelle previste dalla vigente normativa.
Capitolo 3
Beni culturali, beni paesaggistici e tutela dell’ambiente
1. Nozione di bene culturale dalla legge 1089/1939 al t.u. 490/ 1999 al Codice del 2004
I beni culturali sono stati definiti come una vera e propria categoria giuridica, in quanto
risultano indissociabili dal concetto culturale che ne giustifica l’unità funzionale del regime
che viene attuata nella duplice funzione di cui agli articoli 9 e 42 Cost, quanto alla
conservazione del bene ed alla accessibilità ed utilizzazione come strumento oggetto di
cultura.
L’art. 148 del d. lgs. 112 del 1998 definisce tale categoria in quanto beni che compongono il
patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etno-antropoligico, archeologico,
archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così
individuati in base alla legge.
L’articolo citato è stato abrogato dall’art. 184 del d.lgs. 42/ 2004, Codice dei beni culturale
e del paesaggio, per cui, a decorrere dal 1 maggio 2004, i beni culturali sono costituiti dalle
cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico,
etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in
base alla legge quali testimonianze aventi valore di civlità.
175
Il Codice del 2004, che ha sostituito il previgente t.u. 490/ 1999 in materia di beni culturali
ed ambientali, ha seguito il criterio di individuazione tipologica fondata su definizioni di
rango legislativo, attraverso cui individuare i beni oggetto di disposizioni particolari senza
trascurare la nozione più generale,
Pertanto, la definizione vigente di bene culturale presenta un significato composito, in
quanto esso s’incentra da un lato sul richiamo alla res, così come previsto dall’abrogata
legge 1089/ 1939 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, mentre l’art. 10 del
Codice del 2004 specifica all’art. 2, comma 5, i beni sottoposti al regime di tutela previsto
nel testo normativo.
2. Beni culturali di appartenenza pubblica e privata
Quanto al regime di appartenenza, se il bene appartiene ad enti pubblici o persone
giuridiche private senza scopo di lucro vanno qualificati come pubblici; se i soggetti
proprietari sono privati, il Codice impone che l’interesse culturale sia dichiarato da un
provvedimento amministrativo, per cui il bee resta di appartenenza privata ma è soggetto
ai limiti posti alle facoltà dei privati proprietari, tanto che non possono essere apportate
modificazioni in contrasto con l’interesse culturale accertato.
L’art. 822, comma 2, c.c. prevede che fanno parte del demanio pubblico, c.d. accidentale,
gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico ed artistico a norma
delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle
biblioteche e degli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del
demanio pubblico.
L’art. 10 del Codice del 2004 prevede al comma 1 che sono beni culturali le cose immobili e
mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali nonché ad
ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro che
presentino interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico.
Il successivo comma 2 stabilisce che sono inoltre beni culturali:
a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle
regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto
pubblico;
b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici
territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici
territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico ad eccezione delle raccolte
delle biblioteche di cui all’art. 47, comma 2, d.p.r. 616/ 1977 e di quelle ad esse
assimilabili.
Pertanto, mentre i beni di cui all’art.10, comma 1, sono soggetti al regime del demanio
pubblico solo se presentano l’interesse culturale e quindi solo in caso di accertamento
positivo da parte dell’amministrazione, i beni di cui al comma 2 e quelli di cui all’art. 822,
comma 2, c.c., appartengono di per sé al demanio pubblico.
3. La verifica dell’interesse culturale
L’art. 12 del Codice del 2004 prevede un procedimento di verifica dell’esistenza
dell’interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico dei beni culturali di
proprietà pubblico o di persone giuridiche senza scopo di lucro.
Invero, gli enti pubblici sono obbligati a predisporre elenchi descrittivi di cose in loro
proprietà da cui è presumibile l’interesse culturale e tale elenco va inviato al Ministero per i
beni e le attività culturali al fine di valutare la sussistenza dell’interesse culturale con
relativa notifica del provvedimento al soggetto proprietario.
Tale sistema non è stato ancora attuato, per cui la giurisprudenza ha ritenuto necessario un
provvedimento di accertamento costitutivo del pregio del bene da parte
176
dell’amministrazione dei beni culturali senza che l’esito di tale accertamento potesse
ritenersi influenzato dall’inserzione o meno di detto bene negli elenchi predisposti dalle
singole amministrazioni.
Il codice, infatti, ha previsto che tutti i beni privati sono assoggettati alla valutazione per
l’adozione della eventuale dichiarazione di interesse culturale; per i beni di appartenenza
pubblica le forme di individuazione sono:
a) quella “ope legis” per i beni di cui all’art. 10, comma 2;
b) quella di cui alla dichiarazione ex art. 13 del Codice per i beni culturali di cui al
comma 3 dell’art. 10;
c) quello di verifica di cui all’art. 12, ritenuto residuale
4. La dichiarazione dell’interesse culturale
L’imposizione del vincolo di indisponibilità su un bene culturale, ai sensi dell’art. 53,
comma 1, del r.d. 363/ 1913, non richiedeva la formale dichiarazione di interesse pubblico
alla conservazione dei beni stessi.
Tale dichiarazione è stata introdotta dalla legge 778/ 1922.
Il procedimento di dichiarazione è disciplinato dall’art. 14 per cui la comunicazione
dell’avvio del procedimento implica l’adozione di misure di vigilanza e di protezione, quali
il divieto di alienazione, di modifiche, di demolizioni non autorizzate preventivamente, e si
conclude con un atto di cui si discute in dottrina la natura, in quanto ci si chiede se tale
dichiarazione configuri o meno l’accertamento costitutivo di cui si è detto.
5. La tutela dei beni culturali: vigilanza ed ispezione, conservazione e forme di protezione
Al Ministro spetta, in via esclusiva, il potere di vigilanza sui beni culturali con
temperamento per i beni di cui all’art. 12, comma 1, appartenenti alle regioni ed agli altri
enti pubblici territoriali, per cui il Ministero procede anche mediante forme di intesa e di
coordinamento con le regioni ex art. 18 del Codice.
L’art. 149, comma 3, lett. g) del d. lgs. 112/ 1998 attribuisce allo Stato la vigilanza sugli
archivi degli enti pubblici e sugli archivi privati di notevole interesse storico nonché le
competenze in materia di consultazione dei documenti archivistici con rinvio alle
sovraintendenze archivistiche.
I poteri ispettivi, dunque, spettano ai sopraintendenti che possono procedere in ogni
tempo con preavviso non inferiore a cinque giorni ad ispezioni volte ad accertare
l’esistenza e lo stato di conservazione e custodia dei beni culturali.
6. Circolazione dei beni culturali
Il Codice del 2004 fisa regole tassative sulla alienabilità dei beni culturali:
a) i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni ed agli altri enti pubblici
territoriali di cui all’art. 822 c.c. costituiscono demanio culturale e come tali non
sono alienabili, né possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei
modi previsti dal Codice (art. 53);
b) è consentito il trasferimento tra Stato, regioni ed altri enti pubblici territoriali con
utilizzo secondo le modalità e per i fini di cui al Titolo II del Codice esclusivamente
per i beni inalienabili di cui all’art. 54;
c) sono consentite deroghe, salvo autorizzazione ministeriale, per i beni culturali
immobili appartenenti al demanio culturale e non qualificabili extra commercium
(artt. 55 e 56).
Quanto alla c.d. prelazione culturale, la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità
dell’istituto, in quanto il carattere del tutto peculiare del regime giuridico previsto per i
beni culturali trova fondamento nell’art. 9 Cost per cui la prelazione storico – artistica,
secondo la Corte, è un istituto ben distinto dagli ordinari provvedimenti di natura
espropriativa.
177
In particolare, il Codice all’art. 61 prevede che la prelazione va esercitata entro sessanta
giorni dalla ricezione della denuncia obbligatoria di cui all’art. 59 da parte del proprietario,
termine perentorio.
In caso di omissione di denuncia o tardiva o incompleta. la prelazione può essere esercitata
nel termine di centottanta giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia
tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa.
7. Paesaggio ed ambiente
La legge 1497 del 1939 sulla protezione delle bellezze naturali ha trovato correlazione nel
t.u. 490 del 1999 a sua volta abrogato dal Codice del 2004, che non si limitava a tutelare il
paesaggio naturale, ma anche quello modificato dall’uomo.
Con l’approvazione del t.u. del 1999 si è superata la divisione tra le due discipline e
numerosi interventi legislativi hanno contribuito ad attribuire all’ambiente un rilievo
concettuale autonomo.
Dopo la legge 5 del 1975, istitutiva del Ministero per i beni culturali e l’ambiente, con la
legge 349 del 1986 venne istituito il Ministero dell’ambiente, al quale viene assegnato il
compito di assicurare, in modo organico, la promozione, la conservazione ed il recupero
delle condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della collettività ed alla
qualità della vita nonché alla valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa
delle risorse naturali dall’inquinamento.
La Corte costituzionale definì l’ambiente come bene immateriale unitario, sebbene
caratterizzato da varie componenti oggetto di cura e tutela.
L’ambiente, dunque, è tutelato come elemento determinativo della qualità della vita, un
quanto esprime l’esigenze di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è
necessario alla collettività e per essa ai cittadini secondo valori largamente sentiti ed è
imposta da precetti costituzionali di cu agli artt. 9 e 32 Cost. per cui esso assurge a valore
primario ed assoluto.
Anche la riforma del Titolo V della Costituzione ha contribuito a dare autonomia
concettuale a tale nozione, in quanto ha attribuito alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato la materia dell’ambiente.
Quanto alla nozione di paesaggio, invece, la Corte costituzionale ha ritenuto che la c.d.
legge Galasso 431 del 1985, prevedendo un trattamento riservato a chi compie opere di
trasformazione non autorizzate in zona vincolata di cui alla legge 1497/ 1939, non è
comparabile tale sistema con il previgente regime di cui alla legge 1497/ 1985, in quanto è
prevista una tutela diretta alla preservazione di cose e località di particolare pregio estetico
isolatamente considerate, mentre la legge 431/ 1985 prevede una tutela del paesaggio
introdotta a integrità e globalità implicante una riconsiderazione dell’intero territorio
nazionale alla luce ed in attuazione del valore estetico – culturale.
A tutela del paesaggio, dunque, emerge una tutela meramente conservativa e statica,
laddove quella relativa all’ambiente si presenta dinamica come oggi compendiata dal
Codice del 2004.
Di qui l’esigenza di cura dell’interesse di singoli beni e quindi dei valori storici, artistici,
culturali ed estetici del territorio, la cui tutela è rimessa alle competenze dello Stato, ora
delegate alle regioni, salvo che l’amministrazione introduca vincoli diretti alla tutela del
paesaggio di cui alla legge 1497/1939 e ferma la tutela di cui all’art. 9 Cost. che costituisce
un valore primario ad ogni qualsiasi altra esigenze edilizia ed urbanistica.
8. I beni paesaggistici
L’art. 134 del Codice individua i beni paesaggistici per relationem, e sono:
a) gli immobili e le aree indicati all’art. 136, ossia gli immobili ed aree di notevole
interesse pubblico;
178
b) le aree indicate all’art. 142, ossia quelle tutelate ex lege;
c) gli immobili e le aree tipizzati, individuati e sottoposti a tutela dei piani paesaggistici
previsti agli articoli 143 e 156.
La prima categoria riproduce l’art. 139 del t.u. 490/1999 che riproduce l’elenco di cui
all’art. 1 della legge abrogata 1497 del 1939, per cui si tratta di beni immobili dotati di
bellezza naturale e singolarità geologica.
La seconda categoria contempla le aree tutelate ex lege di cui all’art. 142 del Codice del
2003, come ad esempio i territori costieri con fascia di 300 metri dalla linea di battaglia.
9. L’autorizzazione paesaggistica
Anche per i beni paesaggistici, il Codice del 2004 prevede istituti di controllo e gestione dei
beni soggetti a tutela tra cui la c.d. autorizzazione paesaggistica, per cui i proprietari
degli stessi non possono distruggerli, né modificarli, salva la possibilità di sottoporre alla
regione, all’ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni ed i relativi progetti da
eseguire, al fine di accertare la compatibilità paesaggistica con rilascio della necessaria
autorizzazione.
L’art. 146 prevede il procedimento di rilascio dell’autorizzazione, che va trasmessa alla
sopraintendenza che ha emesso il parere nel corso del relativo procedimento nonché alla
regione ed agli enti locali nel cui territorio si trova l’immobile. La sopraintendenza, se lo
ritiene, può dichiarare che l’autorizzazione non è conforme alle prescrizioni di tutela del
paesaggio ovvero può annullarla con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni
successivi alla ricezione della documentazione.
In riferimento all’art. 117, comma 2, Cost., la Corte costituzionale ha precisato che le
materie indicate nella norma non tutte sono di competenza del legislatore statale, in
quanto dall’evoluzione giurisprudenziale si può escludere che una materia non sia
qualificabile come sfera di competenza statale, in quanto essa viene ad investire ulteriori
interessi.
Di qui il concetto di ambiente è venuto a rivestire carattere trasversale, tanto che la Corte
ha tratto il convincimento che dal nuovo articolo 117, lett. s), Cost. l’intento del legislatore è
stato quello di escludere la competenza regionale concorrente in tale settore, in quanto vi
emergono interessi funzionalmente collegati a quelli ambientali.
Infine, le funzioni amministrative sono attribuite alla competenza della legge statale
nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117 Cost, comma 2, lett. s)
ed in base ai criteri generali di cui all’art. 118 Cost., comma 1, e cioè ai principi di
solidarietà, differenziazione, adeguatezza.
Il carattere trasversale della materia ambiente affermata dalla Consulta spiega il
motivo per il quale la disciplina della tutela dell’ambiente sia contenuta in disposizioni di
legge statale e regionale che attribuiscono le relative funzioni amministrative allo Stato,
alle regioni, alle province ed ai comuni.
La tutela dell’ambiente si specifica nell’applicazione in tema di inquinamento di cui al
d.lgs. 351 del 1999, in attuazione della direttiva 96/62/CE sulla valutazione e gestione della
qualità dell’aria e dell’ambiente.
La materia è oggi disciplinata dal d.lgs. 152/ 2006 in attuazione della legge delega 308 del
2004 per il riordino, coordinamento ed integrazione delle disposizioni legislative nei
settori della gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati.
La Corte costituzionale, accogliendo la nozione di trasversalità della materia, ha affermato
che la fissazione di standars di emissioni elettromagnetiche di cui alla legge 36 del 2001
spetta alla competenza legislativa statale in quanto essa viene a rappresentare un punto di
equilibrio tra le composte esigenze di evitare al massimo emissioni elettromagnetiche e di
realizzare impianti necessari al nostro Paese.
179
La legge riserva, infine, alle regioni la potestà normativa di fissare i criteri di localizzazione
degli impianti di fonti di emissione elettromagnetiche, degli standards urbanistici, delle
prescrizioni ed incentivazioni per l’impiego delle migliori tecnologie disponibili.
Capitolo 4
Le espropriazioni
1. I diversi significati del termine espropriazione. Le espropriazioni in senso stretto.
Il termine espropriazione indica la sottrazione al suo titolare del diritto di proprietà ed
esso viene utilizzato per indicare la sottrazione di tale diritto in forza di un intervento
autoritativo.
In uno Stato di diritto, il principio di legalità impone che la sottrazione del diritto di
proprietà al suo titolare possa prodursi soltanto per il perseguimento delle funzioni
indicate dalla legge tanto che il medesimo principio di legalità e la riserva di legge in
materia di ablazione del diritto di proprietà integrano lo statuto anche comunitario della
proprietà in quanto sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui all’art. 6 del Trattato di Maastricht.
Invero, il potere di ablazione dell’altrui diritto di proprietà viene riservato dal legislatore a
se stesso in quanto ope legis ovvero viene dalla legge attribuito ad un soggetto pubblico per
il perseguimento di funzioni eterogenee, come nella figura della confisca disciplinata dal
codice penale al fine di colpire i beni connessi al reato ovvero in funzione satisfattiva
del creditore di cui all’art. 2740 c.c. in tema di azione esecutiva nei rapporti obbligatori
nonché in funzione del perseguimento di un interesse generale ricompresa nel diritto
amministrativo deputato alla cura dell’interesse pubblico facente capo ad una p.a. nella
sua funzione istituzionale.
La legge denomina diversamente la disciplina dei provvedimenti espropriativi in senso
stretto, da quelli che determinano l’acquisizione al patrimonio comunale di opere
realizzate in difetto del necessario titolo edilizio permissivo.
Pertanto, la denominazione formale dei provvedimenti espropriativi è attribuita dalla legge
ai provvedimenti ad effetto ablatorio e traslativo di un diritto che sono direttamente
funzionalizzati al perseguimento di fini di interesse generale di cui all’art. 42, comma 3,
Cost.
La norma, infatti, delinea i tratti essenziali del potere espropriativo, in quanto il suo
esercizio è reso possibile solo nei casi previsti dalla legge, c.d. riserva di legge, solo per il
perseguimento dell’interesse generale e l’espropriato deve essere indennizzato
dall’ablazione subita. Potere che si esprime in un provvedimento amministrativo e che è
attribuito dalla legge all’amministrazione.
Nel rispetto delle regole stabilite dalla legge si determina la legittimità del provvedimento
espropriativo, che può essere annullato dal g.a. ove ne accerti la violazione ex art. 42,
comma 3, Cost.
Vieppiù, l’art. 43 Cost. prevede che la legge può direttamente disporre l’attribuzione ad un
soggetto determinato, per fini di utilità generale, un diritto di cui era già titolare un
soggetto diverso, salvo indennizzo di questo (c.d. espropriazione ope legis).
In tale ultima fattispecie si pongono limiti, funzionali in quanto l’espropriazione può
essere disposta solo per fini di utilità generale, ma è altresì riconosciuto al giudice
amministrativo di determinare la reale natura degli atti espropriativi, in quanto si ritiene
possibile escludere che la loro denominazione formale possa essere vincolante tanto da
assoggettare, invece, tali atti al sindacato del g.a. laddove si riguarda all’aspetto sostanziale
180
del provvedimento posto in violazione dei limiti funzionali e/o oggettivi stabiliti dalla
Costituzione.
Dunque, seppure l’espropriazione è disposta con provvedimento avente qualificazione
formale di atto legislativo, la Corte di cassazione ha statuito che il difetto assoluto di
giurisdizione del g.a. a conoscere le c.d. leggi provvedimento è tale che soltanto la Corte
costituzionale, quale giudice delle leggi, ha la competenza a sindacare il rispetto dei limiti
costituzionali e procedere alla declaratoria di incostituzionalità anche a causa di mancata
valutazione da parte del legislatore degli interessi pubblici e privati coinvolti.
2. la (non ammissibile) espropriazione c.d. indiretta.
La giurisprudenza e la dottrina hanno riconosciuto la possibilità di attribuire ad una p.a. il
potere di procedere all’ablazione del diritto di proprietà, per cui si procede alla
trasformazione del bene di proprietà privata in funzione del perseguimento di una utilità
pubblica.
Tale forma di espropriazione viene esclusa dalla figura generale dell’istituto per fini di
interesse generale, in quanto la c.d. espropriazione di fatto o indiretta è disposta con
provvedimento amministrativo laddove l’espropriazione diretta è disposta ope legis. In
ogni caso, entrambe producono gli effetti di incidere sul diritto di proprietà e comportano
l’acquisto di quel diritto in capo ad altro soggetto giuridico, nel rispetto del limite
funzionale di cui all’art. 42, comma 3, Cost.
3. L’espropriazione ope legis.
L’art. 43 prevede che possa essere direttamente la legge a disporre l’attribuzione ad un
soggetto determinato, di un diritto di cui era già titolare un soggetto diverso, ma solo a fini
di utilità generale e sempre salvo il diritto di questo all’indennizzo: tale espropriazione è
appunto detta ope legis.
La Corte costituzionale impone però limiti al legislatore: funzionali perché
l’espropriazione può essere disposta solo per fini di utilità generale, oggettivi perché
può avere ad oggetto solo imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di
preminente interesse generale, contenutistici perché la legge che dispone
l’espropriazione deve rispettare il diritto del soggetto espropriato all’indennizzo.
4. La disciplina generale dell’espropriazione disposta con provvedimento amministrativo:
il t. u.
La fonte della disciplina generale dell’espropriazione è data dal d.p.r. 327 del 2001
(espropriazione disposta con provvedimento amministrativo), mediante il quale il
legislatore ha inteso riordinare e semplificare la disciplina legislativa del settore.
In particolare, l’art. 1 del t.u. prevede i diritti suscettibili di espropriazione, quali il diritto
di proprietà e gli altri diritti reali relativi a beni immobili, previa indicazione delle opere
pubbliche o di pubbliche utilità.
Sono poi indicati i beni non espropriabili, e cioè i beni demaniali ovvero quelli espropriabili
condizionatamente in quanto appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli
altri enti pubblici.
In virtù dell’art. 6 è disposta la regola della concentrazione della competenza, per cui il
soggetto pubblico competente alla realizzazione dell’intervento di pubblica utilità è
competente anche all’emanazione degli atti del procedimento espropriativo che si renda
necessario per la sua realizzazione. La norma prevede altresì che il potere espropriativo
181
possa essere delegato a soggetti privati, quali il concessionario ovvero un contraente
generale.
Il beneficiario dell’espropriazione può anche non coincidere con il soggetto che dispone
l’espropriazione.
Il provvedimento espropriativo è suscettibile di essere emanato a seguito dello svolgimento
di una serie articolata di procedimenti indicati al testo unico e che seguono i principi di
economicità, efficienza, efficacia, pubblicità e semplificazione dell’azione amministrativa.
I procedimenti espropriativi sono tre:
a) quello che si conclude con il provvedimento appositivo del vincolo di esproprio;
b) quello che si conclude con il provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera o
dell’interesse generale da perseguire;
c) quello che si conclude con la determinazione della indennità provvisoria di
espropriazione.
E’ dunque necessario premettere che il vincolo di esproprio non può mai mancare, ma non
è necessario ai fini della legittimazione del procedimento, in quanto l’espropriazione può
essere anteriore alla dichiarazione di pubblica utilità potendo intervenire successivamente
a questa.
5. La cessione volontaria
La sequenza dei procedimenti collegati e funzionalmente diretti all’emanazione del decreto
di esproprio non è necessario ai fini della produzione degli effetti prodotti dal
provvedimento di espropriazione.
Invero, l’art. 45 stabilisce che, una volta intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, il
procedimento di esproprio non può concludersi con atto diverso dal decreto di esproprio, e
cioè con la cessione volontaria con la quale l’espropriando trasferisce la proprietà del suo
bene in capo al beneficiario della disposta espropriazione che assume l’obbligazione di
pagare una somma di denaro entro un termine concordato tra le parti.
E’ ovvio che se l’espropriando si avvale di tale diritto di cessione volontaria subito dopo la
dichiarazione di pubblica utilità e prima del procedimento volto alla determinazione della
indennità provvisoria di espropriazione, allora vi sarà soltanto applicazione della
determinazione della somma da corrispondere al cedente.
Tuttavia, l’art. 45 stabilisce che l’atto di cessione volontaria può essere stipulato anche
dopo l’emissione del decreto di esproprio, per cui quest’ultimo può stabilire il
trasferimento del diritto di proprietà e sotto condizione sospensiva che il decreto sia
notificato al proprietario del bene ablato ed eseguito entro il termine perentorio indicato.
Invero, la norma in esame stabilisce altresì che la cessione volontaria produce i medesimi
effetti del decreto di espropriazione, da cui la condizione sospensiva di efficacia
dell’immissione in possesso entro il termine perentorio di due anni risulta quale
condizione sospensiva specificatamente prevista dalla legge soltanto per il decreto di
esproprio.
Quanto alla natura dell’atto di cessione, si ritiene che si tratti di un accordo sostitutivo del
provvedimento, e non già di un contratto a prestazioni corrispettive, in quanto esso è
incluso tra gli atti di cui all’art. 11 della legge 241 del 1990 alla cui stipulazione si richiede
da parte dell’amministrazione la valutazione discrezionale della sussistenza di un interesse
pubblico che giustifichi la scelta provvedimentale.
A ciò si aggiunga l’art. 53 che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del g.a. tutte le
controversie in materia di accordi conseguenti all’applicazione delle disposizioni del t.u.
inclusi gli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11.
6. I procedimenti di apposizione del vincolo espropriativo
182
Il vincolo espropriativo preordina il bene all’espropriazione e può derivare da
previsioni urbanistiche generali, da provvedimenti che introducono varianti allo strumento
urbanistico generale per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Tale fase culmina con il provvedimento che conclude il procedimento di
pianificazione generale del territorio, per cui in tale ambito si tratta di tracciare le
linee della disciplina conformativa dell’intero territorio considerato.
Invero, il provvedimento conclusivo del procedimento pianificatorio, idoneo ad imporre
ope legis vincoli preordinati all’espropriazione, si giustifica alla luce del potere
conformativo all’uso dei suoli di cui è titolare il Comune nella scelta delle aree del territorio
da destinare alla realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, per cui viene
apposto il vincolo che le preordina all’espropriazione i cui effetti immediati sono quelli di
escludere tale aree dall’edificazione privata.
Tale vincolo, ex art.9, non ha natura indeterminata, per cui in cinque anni, decorrenti
dall’approvazione dello strumento urbanistico, deve intervenire la dichiarazione di
pubblica utilità ex art. 9, comma 2.
A seguito dell’inefficacia del vincolo, l’amministrazione lo può reiterare, ma deve
indennizzare il proprietario del suolo a fronte della diminuzione arrecata al suo diritto di
proprietà ex art. 39.
Indennizzo che è commisurato all’entità del danno effettivamente prodotto e le relative
contestazioni sono devolute alla giurisdizione del g.o. ed alla competenza funzionale della
Corte d’appello.
7. La dichiarazione di pubblica utilità
La dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione del progetto
definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità o dell’approvazione del piano
urbanistico attuativo che abbia, ex lege, efficacia di dichiarazione di pubblica
utilità ovvero da qualsiasi provvedimento cui la legge attribuisca detta efficacia
(art. 12).
L’effetto della dichiarazione consiste nel rendere possibile l’emanazione del decreto di
espropriazione, in quanto essa può essere recata tanto da provvedimenti volti
all’approvazione del progetto definitivo di un’opera puntuale, quanto da provvedimenti
che rappresentano l’esercizio di potestà di governo del territorio e specificatamente di
potestà urbanistiche.
L’approvazione del progetto definitivo avente efficacia dichiarativa di p.u. può intervenire
laddove si tratti di opera conforme alle previsioni del piano urbanistico generale, per cui è
necessario che tale piano venga variato con l’inserzione del vincoli che preordini
all’espropriazione dell’area interessata.
In particolare, l’apposizione del vincolo espropriativo in variante al p.r.g. vigente è
possibile a seguito dell’assunzione di uno degli atti emanati in funzione della realizzazione
dell’opera di interesse generale o di p.u.
Pertanto, per le opere di competenza comunale assume efficacia di atto di adozione della
variante urbanistica anche l’approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte
del consiglio comunale per la cui efficacia è necessario che venga introdotta la relativa
variante urbanistica di cui al comma 3, dell’art. 19.
I provvedimenti urbanistici relativi alla dichiarazione di p.u. sono i piani urbanistici
attuativi di iniziativa privata ed i piani urbanistici d’ufficio. Si tratti di categorie
diverse, che si distinguono in necessari e non necessari.
Sono necessari i piani attuativi d’ufficio in quanto la legge riserva in via esclusiva
all’amministrazione la formazione, la determinazione del contenuto e l’attuazione e
rappresentano un numero chiuso con riserva di legge in vista dell’interesse pubblico cui
essi sono destinati a perseguire.
183
Non necessari, invece, sono i piani attuativi d’ufficio la cui funzione è meramente
urbanistica nel dare attuazione al piano urbanistico generale tanto che la scelta di
procedere alla pianificazione attuativa d’ufficio o su iniziativa privata è rimessa
all’interesse pubblico che il soggetto ravvisa nella gestione delle scelte espresse nel p.r.g.
8. La determinazione dell’indennità provvisoria di espropriazione
Al fine della legittimazione del provvedimento espropriativo, è necessario determinare
l’indennità provvisoria di espropriazione.
Tale procedimento segue scansioni differenti in relazione alla particolare urgenza che lo
riveste, per cui si distingue un procedimento ordinario ex art. 20 da un procedimento
d’urgenza ex art. 22.
Il procedimento ordinario ex art. 20 prende avvio con la compilazione dell’elenco dei beni
da espropriare e dei relativi proprietari, da notificare a ciascuno di questi.
Valutati gli apporti procedimentali eventualmente pervenuti entro termine perentorio
dalla notifica dei suddetti elenchi, l’autorità espropriante determina l’indennità
provvisoria di espropriazione e notifica il relativo provvedimento al proprietario con le
forme prescritte per gli atti processuali civile.
Il proprietario espropriando è tenuto allora ad effettuare, entro termine perentorio di
trenta giorni dalla notificazione, una scelta tra il proseguire il procedimento oppure non
dichiarare alcunché e se egli rimane inerte la determinazione dell’indennità provvisoria si
reputa conclusa e il procedimento espropriativo prosegue necessariamente, altrimenti
l’amministrazione è tenuta entro trenta giorni al deposito della somma e ad emanare ed
eseguire il decreto di esproprio.
Il primo effetto prodotto dalla comunicazione dell’indennità provvisoria sta nella sua
accettazione, segue l’obbligo per l’espropriando di acconsentire all’immissione nel
possesso del suo bene da parte dell’amministrazione ed il terzo effetto sta nel fondare
l’obbligo di depositare, entro il termine stabilito dalla norma, gli atti comprovanti la sua
piena e libera proprietà del bene.
L’inadempimento del proprietario comporta il potere dell’autorità espropriante di
emettere ed eseguire il decreto di esproprio, mentre l’adempimento puntuale degli
obblighi da parte del proprietario comporta la necessaria stipula tra lui ed il beneficiario
dell’espropriazione dell’atto di cessione volontaria.
La manifestazione della volontà di esercitare tale diritto, al fine di dichiarare la
condivisione dell’indennità provvisoria, non è ritrattabile e la stipula del relativo
atto di cessione volontaria integra, per il dichiarante, l’obbligo giuridico la cui violazione è
sanzionata con l’esposizione alla responsabilità risarcitoria. Pertanto, nel caso di
ingiustificato rifiuto del proprietario di stipulare la cessione volontaria, il decreto di
esproprio può essere emanato senz’altro, senza che l’autorità espropriante possa essere
considerata inadempiente all’obbligo di addivenire alla stipula.
Il comma 11 della norma in commento dispone che l’amministrazione può procedere
all’emanzione e all’esecuzione del decreto di esproprio in via alternativa alla cessione
volontaria, quand’anche l’espropriando abbia non soltanto manifestato la volontà di
esercitare il suo diritto di addivenire alla cessione volontaria, ma anche di integralmente
eseguire gli obblighi e gli oneri posti a suo carico in funzione dell’attuazione di quel diritto.
Il procedimento urgente di determinazione dell’indennità provvisoria è disciplinato
dall’art. 22 e può svolgersi soltanto nel caso di avvio dei lavori che rivesta particolare
urgenza, per cui la determinazione della stessa è effettuata in via d’urgenza, senza
particolari indagini o formalità e l’autorità espropriante può, anche contestualmente,
decretare l’esproprio e darvi immediata esecuzione.
Il procedimento urgente, in particolare, fonda il potere dell’autorità espropriante di
emanare anche contestualmente e di eseguire immediatamente il decreto di esproprio che
184
può essere eseguito per interventi di cui alla legge 443 del 2001 in tema di infrastrutture
strategiche ed insediamenti produttivi nonché nei casi in cui i destinatari di tale procedura
siano superiori al numero di cinquanta unità.
In tale ambito, non sembra residuare alcun spazio all’espropriando per il suo diritto alla
cessione volontaria a causa della mancanza del presupposto procedimentale cui la legge
prevede tale cessione, ossia la comunicazione dell’indennità provvisoria disgiunta dal
decreto di esproprio.
Pertanto, se si deve ritenere che non è possibile escludere l’esercizio del diritto di cessione
volontaria, allora il proprietario può comunque vincolarsi nei confronti
dell’amministrazione anche indipendentemente dalla sussistenza del presupposto
procedimentale cui l’estrinsecazione della sua volontà al riguardo è normalmente legata.
Di qui si dubita della ragionevolezza e dell’equità sostanziale di tale disciplina, in quanto
l’amministrazione potrebbe determinarsi a non tralasciare alcuno spazio residuo
all’esproprio che già sarebbe subito.
Ne consegue che alla determinazione dell’indennità definitiva di esproprio l’autorità
espropriante è tenuta a procedere solo nei riguardi dei proprietari che non abbiano già
dichiarato di condividere l’indennità provvisoria. Il relativo procedimento è stabilito
all’art. 21 e può svolgersi in due forme alternative, l’una che rimette la scelta della
determinazione dell’indennità ad una commissione di tecnici entro un termine perentorio,
altrimenti la scelta p effettuata, su richiesta dell’autorità espropriante, dalla commissione
provinciale di cui all’art. 41.
9. Il decreto di espropriazione e la retrocessione
Il decreto di espropriazione è il provvedimento che conclude il procedimento
espropriativo disponendo, a favore del beneficiario, il passaggio del diritto di proprietà o di
altro diritto soggetto ad espropriazione sotto la duplice condizione sospensiva che il
decreto sia notificato ed eseguito.
Il provvedimento risulta legittimo in quanto la sua emanazione sia efficace in relazione alla
dichiarazione della p.u. nonché nello svolgimento dei relativi procedimenti contenuti nello
stesso decreto di espropriazione.
Invero, il decreto è sottoposto a due condizioni sospensive, la notificazione al
destinatario e l’esecuzione che può avvenire entro il termine perentorio di due ani
dalla notificazione del decreto stesso e si realizza con la verbalizzazione del verbale di
immissione in possesso.
Invero, la legge differisce l’efficacia traslativa del diritto alla sua esecuzione e stabilisce che
questa può avvenire entro un termine qualificato come perentorio che si deve concludere
altrimenti l’espropriazione è inefficace laddove il termine perentorio decorra senza che
l’esecuzione sia avvenuta.
Il decreto di esproprio, infatti, oltre a produrre l’effetto traslativo, produce ulteriori effetti
di cui all’art. 25 ed esso diventa definitivamente inefficace nei tre anni successivi, un
quanto l’amministrazione non abbia emanato un successivo provvedimento che dichiari la
p.u., salvo che non si ritenga che la dichiarazione indirettamente individui una causa di
inefficacia della dichiarazione stessa.
Tuttavia, se entro dieci anni dall’esecuzione del decreto di esproprio l’opera non viene
realizzata, l’espropriato può richiedere che venga dichiarata la decadenza della
dichiarazione della p.u. e che il bene espropriato venga restituito e che gli sia
corrisposta un’indennità. La legge denomina tale istituto come retrocessione, in quanto al
soggetto inutilmente espropriato viene riconosciuto un vero e proprio diritto.
Tale diritto di retrocessione può essere totale, come nel caso sopraindicato, ovvero
parziale, nel caso in cui tale diritto riguarda soltanto porzioni di aree che risultino non
utilizzate dopo la dichiarazione di p.u.
185
Invero, la retrocessione totale si fonda sulla funzionalizzazione dell’espropriazione alla
realizzazione di un’opera pubblica o di p.u., laddove la retrocessione parziale può
riguardare un’area espropriata di dimensioni eccessive rispetto a quella integralmente
utilizzata.
10. L’occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione
L’occupazione d’urgenza, quale fase eventuale del procedimento di espropriazione, è
introdotta dall’art. 22 bis. Si tratta di un provvedimento che consente l’immissione nel
possesso dei beni espropriandi prima dell’emanazione del decreto di esproprio ed è
possibile senza particolari indagini o formalità diverse dalla sua notificazione al
destinatario nelle forme degli atti processuali civili soltanto qualora l’avvio dei lavori
rivesta carattere di particolare urgenza tale da consentire l’applicazione dei commi 1 e 2
dell’art. 20 (comma 1 dell’art. 22 bis).
L’occupazione d’urgenza è disposta con decreto motivato nel quale è indicata la
determinazione provvisoria della indennità di espropriazione. In difetto di
motivazione, il provvedimento si ritiene viziato.
Il comma 2 dell’art. 22 bis stabilisce che il decreto di occupazione d’urgenza di cui al
comma 1 può essere emanato ed eseguito in base alla determinazione urgente
dell’indennità di espropriazione anche per gli interventi di cui alla legge 443/ 2001 nonché
quando il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a cinquanta.
Invero, la giurisprudenza è orientata nel senso che nelle ipotesi di cui al comma 2 la
motivazione non sia affatto necessaria, in quanto sarebbe il legislatore ad aver effettuato
esso stesso relativamente ad esse la valutazione della sussistenza delle condizioni per
procedere all’occupazione d’urgenza. Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene che sia insita
nella norma la valutazione che l’espletamento del regolare procedimento di
determinazione dell’indennità di espropriazione in relazione ad un numero elevato di
destinatari ritarderebbe eccessivamente l’effettiva esecuzione dell’esecuzione delle opere.
E’ però vero che l’elevato numero degli espropriandi potrebbe essere tale da ritardare
l’effettivo avvio dei lavori ove nei confronti di ciascuno dovesse seguirsi l’ordinario
procedimento di determinazione dell’indennità provvisoria di espropriazione.
La valutazione al riguardo compiuta dalla legge in astratto, infatti, è oggetto
dell’amministrazione nella sua valutazione in concreto, in relazione alla specifica
situazione considerata, per cui l’amministrazione, in relazione al numero di espropriandi,
può decidere di anticipare l’immissione nel possesso dei beni espropriandi e rimettere ad
una sua scelta tale facoltà purchè sorretta da adeguata motivazione.
11. La quantificazione dell’indennità di espropriazione
La disciplina legislativa della quantificazione della indennità di espropriazione è stata
oggetto di numerosi dibattiti, in quanto volta o meno a rappresentare un serio ristoro
del sacrificio imposto al privato espropriato del suo bene, come riconosciuto dalla
Corte costituzionale con sentenza n. 5 del 1980 ovvero per la sua determinazione con
riferimento alle aree edificabili di cui all’art. 5 bis del d.l. 333/1992.
La Corte costituzionale con sentenza 283 del 1993 ha ritenuto che la disciplina dei criteri di
quantificazione dell’indennità introdotta dall’art. 5 bis fosse rispettosa del canone di
adeguatezza all’indennità di cui all’art. 42, comma 3, Cost., in quanto l’indennizzo, può
essere serio, certo, e non può essere sganciato dal valore venale del bene espropriato.
Da ultimo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che l’indennizzo rappresenta
un serio ristoro in quanto venga determinato assumendo il riferimento al parametro non
già del mero valore venale, bensì il valore effettivo che il singolo bene espropriato ha per il
suo proprietario.
186
In particolare, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la decisione della Grande
Chambre 29 marzo 2006, c. Scordino c. Italia, ha condannato la Rep. Italiana per
violazione del diritto di proprietà garantito dalla Convenzione perché, con le sue leggi, non
consentiva un serio ristoro all’espropriazione subita, così realizzando la sistematica
violazione di un diritto garantito dalla Convenzione.
A seguito di tale pronuncia, la Corte costituzionale, investita della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5 bis, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma con la
sentenza 348 del 2007, in quanto è stata ravvisata la violazione dell’art. 117, comma 1,
Cost. nella parte in cui impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.
Inoltre, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 37, comma 1 e 2
del t.u. degli espropri, in quanto vi si riproduceva il testo di cui all’art. 5 bis. In particolare,
l’art. 37 prevedeva che l’indennità fosse quantificata in un importo pari alla somma del
valore venale e del reddito dominicale, diviso per due e con la decurtazione del 40%
(comma 1) sia nel caso in cui l’espropriando fosse addivenuto alla cessione volontaria sia
nel caso in cui questa non fosse stipulata per fatto a lui non imputabile (comma 2).
Invero, il nuovo articolo 37, comma 1, prevede che l’indennità di esproprio per le aree
edificabili è determinata nella misura pari al valore venale e che è ridotta del 20% quando
l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico – sociale. Tali
disposizioni si applicano a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo quelli in cui
l’indennità sia stata condivisa, accettata o comunque divenuta irrevocabile.
Infine, se si tratta di aree non edificabili, l’art. 40 dispone che l’indennità vada quantificata
in applicazione del criterio agricolo, tenuto conto delle colture praticate e dei manufatti
legittimamente esistenti senza valutare le utilizzazioni diverse da quella agricola.
Infine, l’art. 53 prevede che tutte le controversie relative alla determinazione e
corresponsione dell’indennità rientrano nella giurisdizione del g.o., mentre quelle relative
alla determinazione dell’indennizzo sono devolute alla competenza funzionale della Corte
d’appello.
12. i rimedi previsti a fronte del fatto illecito denominato espropriazione indiretta
L’art. 43 è la norma di chiusura del sistema espropriativo delineato dal t.u. e detta la
disciplina in cui un bene immobile sia stato trasformato e venga utilizzato per scopi di
interesse pubblico in assenza di un decreto di esproprio valido ed efficace oppure in
assenza di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità (comma 1) e a tale
fattispecie la norma equipara quella in cui sia stato annullato giudizialmente l’atto che ha
impresso il vincolo preordinato all’espropriazione in base al quale è stata dichiarata la p.u.
ed il decreto di espropriazione (comma 2, lett.a)).
Nel caso in cui ricorra una delle fattispecie indicate, all’amministrazione che utilizza il
bene è possibile emanare il provvedimento che dispone l’acquisizione al suo patrimonio
indisponibile e che dispone al proprietario il risarcimento dei danni subiti.
Tale provvedimento determina altresì il passaggio del diritto di proprietà (comma 2, lett.
e)) e rispettivamente si determina la posizione del titolare del diritto di proprietà, un
quanto va preclusa la possibilità di configurare l’espropriazione c.d. di fatto o indiretta, in
quanto l’acquisto in capo all’amministrazione che utilizza il bene e che l’ha
irreversibilmente trasformato, è ritenuta invalida ed inefficace laddove non vi sia un
provvedimento funzionalmente preordinato al vincolo impositivo di espropriazione.
Invero, l’espropriazione di fatto o indiretta, in contrasto con il principio di legalità, ha
trovato riconoscimento giurisprudenziale, in quanto vera e propria prassi interna che ha
dato luogo a molteplici condanne alla Repubblica italiana da parte della C.e.d.u. per
violazione degli obblighi comunitari.
187
Pertanto, l’art. 43 sembra limitarsi a dettare la disciplina del provvedimento in forza del
quale l’amministrazione può divenire proprietaria del bene indebitamente utilizzato e
trasformato e, dunque, reca la regola implicita che, in difetto di questo, l’amministrazione
non ne sia proprietaria, in quanto l’espropriazione può avvenire soltanto nelle forme
prescritte dalla legge che richiede l’emanazione del provvedimento formale.
Invero, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo ha riconosciuto i
diritti che integrano i principi generali del diritto comunitario, tra cui l’espropriazione che
è possibile soltanto nelle condizioni previste dalla legge, per cui l’espropriazione di fatto o
indiretta è stata ritenuta in contrasto con il diritto comunitario e cedevoli rispetto ad esso,
in quanto l’accertamento con forza di giudicato dell’accertamento in capo al soggetto
pubblico del diritto di proprietà produce l’effetto traslativo comunque anche nel caso di
pronuncia che ne tenga conto ovvero ne produca gli effetti pratici.
Dal comma 3 dell’art. 43 emerge che l’interesse pubblico all’utilizzo del bene e della sua
prevalenza rispetto al contrapposto interesse del proprietario ad ottenere la restituzione
può essere espresso dall’amministrazione anche nel corso del giudizio instaurato dal
proprietario al fine di travolgere il decreto di esproprio.
L’amministrazione, infatti, può richiedere al giudice, per il caso in cui accerti la fondatezza
della domanda di annullamento, di disporre soltanto la sua condanna al risarcimento del
danno escludendo il suo obbligo alla restituzione del bene senza limiti di tempo. Ove il
giudice così di determini, l’amministrazione deve emanare il provvedimento che dispone
l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile, ma solo dopo che al proprietario
sia stata corrisposta la somma a lui dovuta a titolo di risarcimento del danno.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere, per il
proprietario, dal momento in cui cessa la permanenza dell’illecito.
Parte 10
Responsabilità
Capitolo 1
La responsabilità della p.a.
1. Dalla immunità alla responsabilità della p.a.
In Italia, come in altri Paesi, ai poteri pubblici è stata a lungo riservata una posizione di
immunità sul piano della responsabilità.
Tra Ottocento e Novecento si è progressivamente affermata la responsabilità della p.a. per
fatti illeciti, in dipendenza dell’affermazione dello Stato di diritto, mentre negli
ordinamenti di Common law tale processo è stato attuato prima da parte del legislatore e
poi della giurisprudenza laddove, nei sistemi continentali, tale fase evolutiva è stata gestita
soprattutto dalla giurisprudenza che ha però ritardato il riconoscimento dei mezzi di tutela,
soprattutto risarcitoria, a favore dei privati al fine di evitare esborsi monetari da parte dello
Stato.
In mancanza di una norma di carattere generale relativa alla responsabilità della p.a., la
dottrina e la giurisprudenza, risalenti agli anni Settanta del XIX secolo, hanno negato
l’assoggettabilità dell’amministrazione alla responsabilità civile.
Invero, si ammetteva la responsabilità dello Stato limitatamente agli atti di gestione privata
in cui agiva iure privato rum e, viceversa, quando lo Stato poneva atti c.d. di imperio,
godeva di sosta stanziale irresponsabilità.
L’ostacolo principale al riconoscimento della responsabilità civile della p.a. era
rappresentato dalla oggettiva problematicità dei tentativi di applicare la medesima
disciplina civilistica incentrata sulla colpa umana alla p.a.
188
Sicchè, per superare tale limite, parte della dottrina propose di costruire un’autonoma
fattispecie di responsabilità di diritto pubblico, disancorata dall’elemento soggettivo del
dolo e della colpa, prospettandosi come responsabilità obiettiva, fondata sull’elemento
oggettivo di illegittimità della condotta.
La giurisprudenza prevalente ribadì, invece, la natura civilistica della responsabilità della
p.a., che veniva circoscritta ai danni provocati da attività materiali non supportate da
provvedimenti efficaci.
Il dibattito, pertanto, s’incentrò sul carattere diretto ovvero indiretto della responsabilità
della p.a., che per alcuni andava qualificata come diretta in quanto sottoposta alle regole
del codice civile relative alla responsabilità per fatto altrui riconosciuta in capo all’ente
pubblico.
Con l’affermarsi della teoria della immedesimazione organica, alla fine dell’Ottocento, si
cominciò a considerare l’ente pubblico in virtù del rapporto organico intercorrente tra
dipendente ed amministrazione e, conseguentemente, capace di integrare esso stesso la
fattispecie di illecito civile.
Di qui il passaggio dalla responsabilità dell’amministrazione che viene ritenuta diretta o
per fatto proprio, con possibilità per il danneggiato di agire senza difficoltà di dover
individuare in modo puntuale l’agente responsabile all’interno della persona giuridica.
Il soggetto agente, pertanto, non ha responsabilità verso l’esterno ed è chiamato a
rispondere soltanto verso l’amministrazione attraverso l’azione di regresso esperita da
quest’ultima.
2. La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici nell’art. 28 Cost.
Nel 1948, con l’art. 28 Cost., ci è dettata una norma in tema di responsabilità
dell’amministrazione e dei suoi agenti.
La disposizione costituzionale, infatti, nel suo impreciso tenore letterale, appare chiara
nella sua affermazione della natura diretta della responsabilità del funzionario e del
dipendente dell’amministrazione, per cui soltanto in via sussidiaria o solidale sembrerebbe
doversi qualificare come responsabilità indiretta o per fatto altrui.
Il collegamento tra responsabilità del funzionario con quella dell’ente pubblico è stabilito
dal secondo periodo dell’art. 28 Cost con l’espressione “in tali casi”, per cui la
responsabilità dell’ente sussiste soltanto quando vi sia una responsabilità del funzionario
in quanto l’esclusione della prima impedisce che si verifichi la responsabilità dell’ente ex
art. 28 Cost.
Parte della dottrina, considerato il tenore della norma costituzionale, ha fatto riferimento
al principio della responsabilità diretta dello Stato e degli enti pubblici di cui agli articoli
113, 103, comma 1, Cost.
L’amministrazione ha continuato a ritenersi responsabile verso i terzi, per cui con
l’introduzione dell’art. 28 Cost. si è consentito al terzo danneggiato di citare in giudizio
anche l’amministrazione pubblica per il risarcimento del danno la cui condanna è
ovviamente preferita a quella del suo funzionario.
Tuttavia, come ha osservato illustre dottrina è del tutto evidente che non è vantaggioso
convenire in giudizio il funzionario, da solo ovvero insieme all’amministrazione, perché
l’azione è molto laboriosa e più incerta di quella che si potrebbe contro l’amministrazione,
percui il funzionario può servire solo i casi dominati da movimenti metagiuridici.
Del resto, il legislatore ha escluso la possibilità di chiamare in giudizio l’agente pubblico,
come nel caso della responsabilità dei magistrati ovvero del persona scolastico, per cui
l’azione è proposta contro lo Stato.
In caso di condanna della p.a., la giusta riparazione dell’idem debitum nei rapporti interni
tra agente e soggetto pubblico è garantita dall’esercizio dell’azione di regresso che l’ente
189
pubblico può effettuare nei confronti del soggetto agente, non a titolo di responsabilità
solidale, bensì a titolo di responsabilità amministrativa.
3. La responsabilità delle pubbliche amministrazioni per i danni cagionati dall’illegittimo
esercizio (o non esercizio) del potere. In particolare: la responsabilità per i danni da lesione
dell’interesse legittimo.
Una volta riconosciuta la sottoposizione dell’amministrazione pubblica al principio di
responsabilità, si pone il problema della irrisarcibilità dei danni derivanti dalla lesione
degli interessi legittimi.
Già negli anni Sessanta del secolo scorso si è posto il problema della individuazione degli
esatti confini da attribuire ex art. 2043 c.c. all’elemento costitutivo del c.d. danno ingiusto.
I punti controversi riguardavano il significato di danno ingiusto, in quanto in dottrina era
diffusa l’opinione secondo la quale il danno era da considerare ingiusto solo qualora
andasse ad incidere su una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto
soggettivo, per cui l’azione ed il potere di condanna dell’amministrazione al risarcimento
del danno era offerta esclusivamente a tutela dei diritti soggettivi.
Per l’interesse legittimo, invece, si riteneva adeguata la tutela offerta dall’annullamento
dell’atto amministrativo impugnato.
Pertanto, mentre il titolare del diritto soggettivo danneggiato da un provvedimento
amministrativo aveva due mezzi di tutela,e cioè l’azione di annullamento del
provvedimento e l’azione di risarcimento del danno sofferto con lesione del diritto
soggettivo. Pertanto, il titolare dell’interesse legittimo aveva a disposizione soltanto
l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo.
A partire dagli ’60 in dottrina si è affermata la tesi secondo cui ingiusto è tanto il danno
cagionato con lesione dei diritti soggettivi quanto con lesione di interessi legittimi.
Tuttavia, a fondo della tesi della irrisarcibilità dei danni derivanti da lesione di interessi
legittimi, riposano ragioni di ordine pratico che hanno certamente influenzato le scelte
della giurisprudenza nel tradizionale orientamento delle S.U. della Suprema Corte.
Alla base di tale orientamento, infatti, ritroviamo la ragione sostanziale relativa alla
configurazione dell’interesse legittimo, ricostruito quale situazione di natura puramente
processuale quale mero potere di reazione nei confronti del provvedimento illegittimo
idoneo a legittimare la preposizione del ricorso giurisdizionale da parte del privato. Anche
sotto tale profilo, il problema della risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo
viene ritenuta quale situazione giuridica soggettiva avente natura sostanziale e soltanto se
a detta situazione sono riconosciuti caratteri che la rendono tale da poter effettivamente
soffrire, in caso di lesione, un pregiudizio economico concreto di natura patrimoniale.
A seguito dell’emanazione della legge 241/ 1990, la giurisprudenza amministrativa ha
rafforzato la natura sostanziale dell’interesse legittimo tanto che le l’orientamento della
Corte di Cassazione si è mantenuto contrario alla risarcibilità dei danni da lesione di
interessi legittimi in quanto condizionato dall’incertezza relativa alla natura ed ai caratteri
dell’interesse medesimo.
Invero, la ragione sostanziale sulla quale si fondava il tradizionale orientamento della
Corte di Cassazione fondava in modo espresso la non risarcibilità dei danni da lesione di
interessi legittimi. Infatti, dall’art. 2043 c.c. in tema di danno ingiusto si pone a carico di
chiunque abbia cagionato ad altri, con dolo o colpa, un danno ingiusto l’obbligo di risarcire
il danno medesimo, da cui la Cassazione riteneva che per danno ingiusto andava inteso
soltanto quello derivante da lesione di un diritto soggettivo. Pertanto, gli eventuali danni
patrimoniali derivanti dalla lesione all’interesse legittimo da parte della p.a. non erano
considerati idonei a configurare una responsabilità extracontrattuale in tema di danno
ingiusto, per cui non si veniva a determinare alcuna obbligazione risarcitoria in capo alla
190
p.a. ed i danni subiti dai privati per effetto di tale lesione erano da considerarsi meri
pregiudizi patrimoniali giuridicamente irrilevanti.
Sotto il profilo processuale, si riteneva che ingiusto fosse il danno da lesione di interesse
legittimo rispetto al quale non vi era alcun giudice fornito di giurisdizione e poteri
processuali necessari per pronunciarsi in merito a tale categoria di danno. Il g.a., infatti,
non poteva pronunciarsi sulla controversia risarcitoria in quanto privo del potere
processuale di condanna della p.a. al risarcimento del danno.
Sfuggivano a tale sistema gli interessi legittimi oppositivi, ossia quegli interessi che
avevano alla base un interesse sostanziale pre-qualificato dall’ordinamento come diritto
soggettivo, da cui l’applicazione delle teorie dell’affievolimento quale trasformazione del
diritto in diritto affievolito e all’espansione dei diritti, percui l’annullamento dell’atto
illegittimo da parte del g.a. faceva riemergere il diritto sostanziale originariamente
qualificato. Di qui si aprivano le porte per il risarcimento del danno davanti al giudice
ordinario.
Il risarcimento, in tal caso, derivava non già dall’interesse legittimo, bensì dal diritto, tanto
che il provato era tenuto a svolgere due procedimenti giurisdizionali, uno di fronte al g.a. e
l’altro di fronte al g.o.
Senza alcuna tutela risarcitoria restavano i danni derivanti da lesione degli interessi
legittimi pretensivi, mentre erano ritenuti risarcibili le ipotesi recepite dalla direttive in
materia di appalti pubblici che rendeva il sistema quanto mai paradossale in quanto i
medesimi interessi legittimi risarcibili in materia di appalti pubblici, restavano non
risarcibili in altri settori.
Il sistema, dunque, si mostrava carente sotto il profilo della pienezza e dell’effettività delle
tutele.
4. L’evoluzione giurisprudenziale
Il legislatore ha tentato di dare effettività alla tutela risarcitoria a partire dall’art. 35 del d.
lgs. 80/ 1998 con il quale è disposto che il g.a. nelle controversie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva disponga “anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto”.
In altri termini, la norma ha inteso innovare il potere di condanna posto a tutela dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi abrogando il comma 5, dell’art. 15 della legge 142/ 1992
che prevedeva la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative al
risarcimento del danno derivante dall’annullamento di atti amministrativi.
Con tale norma, dunque, si è conferito al g.a. il potere esteso non soltanto alla condanna
dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro di cui risulti debitrice, ma anche
alla possibilità di condannare l’amministrazione al risarcimento di qualsiasi danno
ingiusto anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
Il d.lgs. 80/ 1998 ed il dato comunitario hanno probabilmente avuto anche il merito di
accelerare la svolta che la giurisprudenza stava meditando da tempo e dopo molti decenni
la giurisprudenza ha ammesso, con due sentenze del 22 luglio 1999, nn. 500 e 501, la
risarcibilità dei danni che derivano dalla lesione di situazioni giuridicamente rilevanti e,
quindi, anche di quelle da lesione di interesse legittimo ove ricorrano:
a) un concreto ed effettivo pregiudizio per il ricorrente;
b) la ingiustizia del danno;
c) l’elemento soggettivo della colpa e del dolo, non del funzionario bensì
dell’amministrazione intesa come apparato;
d) il nesso di causalità tra il danno cagionato e la condotta dell’amministrazione.
La Suprema Corte ha in tal modo compiuto un percorso evolutivo che, a partire dall’art.
2043 c.c. in tema di risarcibilità dei danni ai soli diritti soggettivi, ha ritenuto ingiusto
anche il danno conseguente alla lesione di interesse legittimo.
191
In sintesi, nella sentenza 500/ 1999 la Suprema Corte ha attribuito valore di norma
primaria all’art. 2043 c.c., affermando che il danno è ingiusto ove sia leso un interesse
giuridicamente rilevante e tale è l’interesse legittimo il cui danno è, dunque, ingiusto in
quanto arrecato in assenza di una causa di giustificazione.
Successivamente, la Cassazione ha precisato che il danno ingiusto va inteso quello
derivante dalla lesione di interessi meritevoli di tutela, per cui occorre riguardare alla
condizione necessaria per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. in quanto l’attività
della p.a. determini la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo
è effettivamente collegato.
Pertanto, la lesione dell’interesse legittimo è data dalla contemporanea lesione di un
diverso bene della vita, che deve meritare tutela e, dunque, è quest’ultimo che va risarcito e
non già l’interesse legittimo, la cui contemporanea lesione rileva ai fini del risarcimento del
danno.
L’interesse legittimo è, quindi, una situazione sostanziale la cui lesione, secondo la Corte,
deve essere sempre risarcibile in quanto essa sia accompagnata da un danno.
La Cassazione, allora, ritiene che se l’interesse legittimo è situazione giuridica soggettiva
avente ad oggetto diretto l’interesse a un bene della vita che è fatto oggetto di esercizio di
potere amministrativo, se tale situazione non garantisce in modo costante la realizzazione
dell’interesse al bene, allora la lesione a tale interesse potrà portare in evidenza soltanto
danno risarcibili in quanto si dimostri che al privato spettasse in concreto la realizzazione
dell’interesse al bene della vita protetto come interesse legittimo.
Di qui la distinzione tra interessi legittimi incondizionatamente risarcibili e quelli
risarcibili in presenza di altre circostanze.
In particolare, la lesione di interesse legittimo oppositivo è ritenuta condizione necessaria e
sufficiente per il riconoscimento della risarcibilità del danno ingiusto, che la Cassazione
individua in tali ipotesi nel sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene. Tali
interessi, infatti, fronteggiano alla potestà amministrativa che può legittimamente
sacrificare un interesse ad un bene della vita già rientrante nella sfera giuridica del
destinatario, per cui l’accertamento di una lesione ad un tal tipo di interesse comporta la
spettanza effettiva dell’interesse al bene in capo al privato.
Diverso trattamento è previsto per gli interessi legittimi pretensivi, in quanto l’interesse al
bene della vita in tali casi non è un mero interesse di protezione della sfera giuridica bensì è
l’interesse del soggetto che aspira al rilascio di un provvedimento ampliativo da cui
dipende l’esercizio del potere amministrativo e dal modo in cui tale potere è esercitato
deriva l’accertamento della illegittimità del provvedimento di diniego che abbia impedito
la realizzazione dell’interesse al bene dalla vita. In relazione all’accertamento della
spettanza di tale interesse in capo al privato, la Cassazione conclude che la lesione di esso è
condizione necessaria ma non sufficiente ai fini del risarcimento del danno in quanto
occorre accertare la illegittimità del provvedimento di diniego dell’atto ampliativo nonché
la fondatezza dell’istanza presentata dal privato e non accolta dall’amministrazione.
La Cassazione, dunque, riconosce la risarcibilità dei danni derivanti da lesione degli
interessi legittimi pretensivi soltanto nelle ipotesi di attività amministrative integralmente
vincolate, rispetto alle quali è consentito al giudice effettuare un giudizio prognostico.
5. Profili processuali
La sentenza 500 del 1999 della Corte di Cassazione ha affrontato anche i problemi
processuali stabilendo che la controversia relativa alla tutela risarcitoria anche del danno
da lesione di interesse legittimo, ove non rientrante nella giurisdizione esclusiva del g.a.,
rientra in quella del g.o., il quale può pronunciarsi sulla domanda di risarcimento dei danni
da lesione di interesse legittimo senza dover attendere l’esito del giudizio di annullamento
dell’atto, eventualmente instaurato in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.
192
Invero, la legge 205/ 2000 ha successivamente attribuito al g.a. la cognizione delle
questioni risarcitorie non solo nelle materie di giurisdizione esclusiva, ma anche
nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità.
In tal modo il legislatore ha riconosciuto al g.a., nell’ambito della giurisdizione generale di
legittimitò, il potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, e con ciò
ha adottato un’ottica di concentrazione innanzi ad un solo giudice dell’azione demolitoria
con quella risarcitoria.
La legittimità costituzionale delle norme che hanno attribuito il potere di disporre il
risarcimento al g.a. è stata affermata dalla Consulta con la sentenza 204 del 2004, in cui la
Corte costituzionale ha precisato che il potere riconosciuto al g.a. di disporre, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non
costituisce una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di
tutela ulteriore rispetto a quello demolitorio e/o conformativo da utilizzare per rendere
giustizia al cittadino nei confronti della p.a.
Con tale sentenza, che si riferiva soltanto all’art. 7 della legge 205/ 2000 nella parte in cui
si sostituisce l’art. 35 del d. lgs. 80/ 1998, e dunque soltanto nelle ipotesi di giurisdizione
esclusiva, la Corte ha deciso:
a) che l’azione risarcitoria affidata dalla legge al g.a. non costituisce una nuova materia
ma la risposta adeguata all’esigenza di concentrazione;
b) che essa rappresenta uno strumento di tutela ulteriore che si aggiunge ai rimedi
classici di tipo demolitorio o conformativo;
c) che le azioni risarcitorie non sono prese in considerazione dalla norma come nuova
materia di giurisdizione esclusiva del g.a.
Invero, tale concentrazione consente ad un unico giudice, il g.a., di conoscere sia
l’illegittimità dell’atto sia l’illiceità del comportamento.
Tale orientamento è stato criticato dal g.o. , il quale ha affermato che allorché la
controversia non attenga alla legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, l’azione
risarcitoria rientra nella giurisdizione generale del giudice civile..
Successivamente, vi è stato un nuovo intervento della Corte costituzionale con la sentenza
191/ 2006 che ha confermato che il potere di disporre il risarcimento del danno,
riconosciuto al g.a., non dà vita ad una nuova materia di giurisdizione esclusiva, per cui la
giurisdizione compete al g.o., in quanto il nuovo articolo 35 del d. lgs. 80/ 1998 ha chiarito
che l’ordinamento riconosce anche il potere di risarcire, sia in equivalente che in forma
specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione.
Le S.U. della Cassazione in ben tre ordinane del 2006, infatti, hanno riconosciuto che al
g.a. spetta il potere di determinare le forme di tutela per le situazioni soggettive e tra
queste il risarcimento del danno.
Quanto alla questione del rapporto di autonomia tra azione di annullamento e quella di
risarcimento, la legge 205/2000 ha introdotto una disciplina che sembra ribaltare la
sentenza 500/1999 della Cassazione, in quanto il nuovo art. 7, comma 3, della legge TAR
ha accomunato le questioni risarcitorie agli altri diritti patrimoniali consequenziali, tanto
da voler qualificare il diritto al risarcimento del danno quale diritto patrimoniale
consequenziale all’annullamento del provvedimento ed in ciò, appunto, si discosta dalla
soluzione processuale proposta nella sentenza del 1999 dalla Cassazione in quanto si
reintroduce un rapporto di pregiudizialità tra azione di annullamento ed azione
risarcitoria.
Il Consiglio di Stato, nel periodo 1998 – 2000, ha sostenuto che la domanda risarcitoria per
lesione di interessi legittimi poteva essere proposta soltanto se l’atto sia stato
tempestivamente impugnato entro in termini decadenziali e che essa poteva essere accolta
soltanto se tale provvedimento era stato annullato. La tutela risarcitoria, dunque, si
propone in modo autonomo rispetto all’annullamento dell’atto.
193
Muovendo dalla pregiudiziale amministrativa, dunque, la Suprema Corte è intervenuta con
tre ordinanze del 2006 con le quali ha riconosciuto l’autonomia dell’azione
risarcitoria rispetto a quella demolitoria, confutando la regola della stessa pregiudiziale
amministrativa, in quanto per ammettere il risarcimento del danno occorre verificare
soltanto la illegittimità del comportamento dell’amministrazione e non è necessario
annullare l’atto illegittimo e dannoso, in quanto ciò significherebbe restringere la portata
della tutela risarcitoria che spetta al privato di fronte alla p.a.
Tuttavia, la dibattuta questione della pregiudiziale amministrativa sembra perdurare nel
tempo, in quanto il g.a. non è più tenuto a disapplicare gli atti amministrativi non
regolamentari e la regola della pregiudialità troverebbe fondamento:
a) nella esigenza di rispettare il principio della certezza delle situazioni giuridiche
soggettive di diritto pubblico;
b) nella disciplina del termine breve di durata di decadenza per l’esercizio dell’azione
di annullamento ed inoppugnabilità del provvedimento amministrativo che non sia
stato tempestivamente impugnato;
c) nel divieto di disapplicazione dei provvedimenti amministrativi nei confronti del
g.a.
Tuttavia, non sempre il provvedimento esiste ovvero è rilevante ai fini del risarcimento, per
cui la responsabilità del comportamento illegittimo dannoso e lesivo di interesse legittimo
può sorgere anche quando manca il provvedimento e si riguarda al comportamento inerte
della p.a. ovvero quando il provvedimento finale venga adottato oltre i termini
procedimentali previsti.
6. Colpa della p.a. ed onere della prova
La sentenza 500 del 1999 ha portato rilevanti innovazioni anche sotto il profilo soggettivo
della responsabilità della p.a., in quanto si è ravvisata la necessità di un accertamento della
colpa della p.a.a non coincidente con l’illegittimità del provvedimento né con la colpa
individuale del singolo funzionario agente.
In particolare, va considerata la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede, il riferimento dalla colpa della p.a. come apparato e la questione dell’onere della
prova.
In realtà, le regole di imparzialità, correttezza e buona fede sono poste dalla Cassazione in
relazione alla discrezionalità della p.a., in quanto la loro violazione rientra nell’ambito
dell’eccesso di potere e si traduce in vizio di legittimità. La circostanza, inoltre, che il vizio
dell’atto sia particolarmente grave determina la configurazione della responsabilità civile
della p.a. con funzione sanzionatoria e riparatoria del danno ingiusto. Pertanto, si
preferisce riguardare in tale ipotesi al limite sterno della diligenza, in quanto limite
estremo della colpa oggettiva della p.a.
Tale è il riferimento adottato dalla giurisprudenza nel distinguere tra attività
amministrativa illegittima ed attività illegittima colposa, da cui insieme all’annullamento si
richiede il risarcimento dei danni.
In relazione alla p.a. intesa come apparato si pone il riferimento alla sentenza 500 del 1999
in quanto la sua dimensione soggettiva trova riferimento nell’agire in violazione dei
principi sopra imputabili od imputabili ad altro ente, per cui si tratta di stabilire se per
apparato si intende soltanto l’ente competente ad adottare il provvedimento ovvero
organismi amministrativi che abbiano concorso ad adottare il provvedimento.
Con riguardo alla questione dell’onere della prova dell’elemento soggettivo, la Cassazione
ha affermato che l’illecito della p.a. segue le regole generali di cui all’art. 2043 c.c., per cui
grava dul danneggiato la prova degli elementi costitutivi della fattispecie illecita ex art.
2697 c.c. Tale onere può essere assolto dal privato allegando vizi di legittimità, quali prove
194
indiziarie della colpa della p.a., salva la possibilità per la p.a. stessa di dimostrare
l’esistenza di un errore scusabile.
7. La natura della responsabilità della p.a.
Uno dei limiti attualmente dibattuti in tema di responsabilità della p.a. è l’individuazione
della natura della responsabilità da lesione di interessi legittimi.
La responsabilità per danni arrecati dalla attività provvedimentale illegittima della p.a. è
stata inquadrata nell’ambito dell’illecito extracontrattuale.
In relazione alla disciplina della responsabilità civile della p.a. derivante da lesione di
interessi legittimi, sono da ascriversi tale responsabilità in quanto rientranti nell’ambito
della responsabilità extracontrattuale.
In ogni caso, lo schema dell’illecito aquiliano non appare del tutto adeguato, in quanto la
responsabilità extracontrattuale si caratterizza per l’estraneità tra soggetto danneggiante e
soggetto danneggiato, che rispetto al provvedimento amministrativo, sono entrambi parti
del procedimento amministrativo rispetto al quale sorgono precisi doveri in capo alla p.a.
ed interessi legittimi in capo ai privati.
Invero il rapporto che s’instaura tra p.a. e privati nell’ambito del procedimento è più
stretto di quello tra le parti di un contratto, in quanto viene in considerazione l’insieme
dei principi cui la p.a. è tenuta a rispettare nella sua attività.
Numerose sono le tesi di recente affacciate in dottrina e giurisprudenza sulla natura della
responsabilità, contrattuale ovvero precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c.
Ulteriore dottrina distingue la responsabilità in relazione agli interessi legittimi pretensivi
ovvero oppositivi considerati.
In tema di modalità legislativa per la quantificazione del danno da lesione di interessi
legittimi, la norma di riferimento è l’art. 35, comma 2, del d.lgs 80/ 1998 non modificato
dalla legge 205/ 2000, che recita “nei casi previsti dal comma 1, il g.a. può stabilire i criteri
in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono
proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine.
Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall’art. 27, comma 1, n. 4),
del t. u. approvato con r.d. 1054 del 1924, può essere chiesta la determinazione della
somma dovuta.
Dunque, la norma seppure limitata all’applicazione delle controversie rimesse alla
giurisdizione esclusiva del g.a., viene estesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza anche alle
questioni risarcitorie proposte in sede di giudizio generale di legittimità.
Pertanto, il g.a. è lasciato libero di non quantificare il danno ma di stabilire soltanto i
criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica dovrà proporre al danneggiato il
pagamento della somma entro un certo termine. Tale interpretazione non convince, in
quanto appare difficile che le parti realizzino una composizione amichevole della lite ed
appare oscuro altresì il ricorso al giudizio di ottemperanza, in quanto la proposta venga
formulata dall’amministrazione ma non venga ritenuta adeguata o soddisfacente al
privato.
Capitolo 2
La responsabilità dei funzionari e dei dirigenti
1. Inquadramento della materia
Fin dalla legislazione unitaria si è affermata la responsabilità contabile dei soli agenti
contabili e non di tutti i dipendenti pubblici.
Successivamente, con la legge del 1869 di contabilità di Stato si è introdotta la
responsabilità amministrativa per tutti i dipendenti dello Stato, per i danni da
essi cagionati alle amministrazioni statali di appartenenza.
195
L’evoluzione successiva ha allargato tale ambito di soggetti tenuti a rispondere, tra cui i
dipendenti e gli amministratori degli enti c.d. parastatali, delle regioni, delle aziende
sanitarie e degli altri enti territoriali minori.
Pertanto, il presupposto per essere sottoposti a responsabilità amministrativa consiste ad
oggi semplicemente nel loro status di amministratori o di dipendenti, mentre per soggetti
esterni occorre un legame con l’amministrazione che viene denominato rapporto di
servizio, ossia una relazione caratterizzata dal tratto di investire un soggetto del compito di
porre in essere in vece della p.a. un’attività senza che rilevi la natura giuridica dell’atto di
investitura.
Il giudice della responsabilità amministrativa è la Corte dei conti, per cui la delimitazione
soggettiva sostanziale della responsabilità amministrativa viene a coincidere con quella
processuale.
Quanto agli enti pubblici economici, fino al 2003 i loro dipendenti erano sottratti alla
giurisdizione della Corte dei conti, ma la Cassazione ha successivamente modificato tale
orientamento.
Invero, il criterio fondante la giurisdizione della Corte dei conti si è spostato dalla qualità
del soggetto alla natura del danno e degli scopi perseguiti, per cui risponde di
responsabilità amministrativa anche un privato che abbia ottenuto un contributo da un
ente pubblico per uno scopo di interesse pubblico.
Di recente si è verificata una evoluzione del concetto di danno risarcibile, che per lungo
tempo è stato limitato al solo danno patrimoniale: attualmente vi rientra invece anche il
danno all’immagine della pubblica amministrazione e il danno morale.
2. La disciplina della responsabilità amministrativa
I vecchi testi normativi si limitavano ad affermare la responsabilità dei dipendenti dello
Stato, nell’esercizio delle loro funzioni, cagionassero danno allo Stato, per cui si stabiliva il
carattere parziario della responsabilità in capo a ciascun dipendente per il fatto dell’illecito
compiuto da più persone rispondeva per la parte che vi aveva preso e si attribuiva al
giudice il potere di condannare ad una somma inferiore alla misura del danno.
Fu obbligato, pertanto, il ricorso alla disciplina della responsabilità civile, in quanto la
Corte dei conti si orientò dapprima verso il modello di responsabilità contrattuale,
valorizzando il rapporto d’impiego corrente tra il danneggiante ed il danneggiato e si
configurò nel modello della responsabilità contrattuale di perseguire i dipendenti d
un’amministrazione che avessero cagionato danni a diversa amministrazione, per cui di
pubblici dipendenti venivano a rispondere a titolo di responsabilità civile extracontrattuale
innanzi al g.o.
A metà degli anni Novanta il legislatore detta la disciplina della responsabilità
amministrativa secondo il modello della responsabilità civile, che si specifica nel
comportamento illecito per elemento soggettivo, danno e nesso di causalità.
Elementi differenziali riguardano l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, la
responsabilità che viene limitata al dolo ed alla colpa grave nonché al danno che deve
essere quantificato tenendo conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione
o dalla comunità amministrata ed il danno diventa risarcibile anche se provocato ad
amministrazioni diverse da quelle di appartenenza.
Della previgente disciplina resta il carattere personale della responsabilità, in quanto
ciascuno risponde per la parte che vi presta nei comportamenti dannosi.
Inoltre è stato conservato il potere riduttivo derivante dalla condotta illecita rispetto alla
misura del danno cagionato ed è stato chiarito che il diritto al risarcimento del danno si
prescrive in cinque anni.
196
Quanto alla insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, la Corte
costituzionale ha chiarito che il danno subito dall’amministrazione è determinato con la
relativa sentenza di condanna che diventa costitutiva del debito risarcitorio.
Recentemente, la giurisprudenza ha affermato che le scelte discrezionali possono essere
valutate sotto i profili di legittimità utilizzando le figure sintomatiche di eccesso di potere e
valutando la condotta dannosa alla luce dei principi di cui all’art. 1 della legge 241/1990.
Tre sono, in astratto, le funzioni che caratterizzano qualsiasi tipi di responsabilità, e cioè la
sanzione dell’illecito, il risarcimento del danno, la dissuasione o prevenzione dal
commettere ulteriori illeciti. Nella responsabilità amministrativa prevale il terzo profilo
funzionale, in quanto essa serve a scoraggiare coloro che impiegano risorse pubbliche dal
commettere illeciti.
Alla luce della nuova disciplina emerge ormai una sola disciplina sia per gli agenti contabili
sia per tutti gli altri soggetti che danneggiano l’amministrazione, in quanto soggetti legati
per il loro status di amministratori o dipendenti ovvero per rapporto di servizio.
3. Il c.d. condono erariale
Con la legge finanziaria del 2006 è stato introdotto l’istituto del c.d. condono erariale,
per cui coloro che sono stati condannati con sentenza da parte della Sezione regionale della
Corte dei conti possono chiedere durante il processo di appello che la controversia sia
definita mediante pagamento di una somma non inferiore al 10% e non
superiore al 20% del danno quantificato nella sentenza impugnata.
La Sezione centrale di appello, dopo aver sentito il P.M., delibera con decreto assunto in
camera di consiglio sulla richiesta di condono e, in caso di accoglimento, determina la
somma dovuta in misura non superiore al 30% del danno quantificato nella sentenza di
primo grado, stabilendo il termine per il versamento.
Il giudizio di appello viene concluso dopo il deposito della ricevuta di versamento della
somma stabilita presso la Segreteria della sezione della Sezione di appello.
Il condono può essere richiesto soltanto se la condotta illecita è antecedente all’entrata in
vigore della legge, e cioè al 1 gennaio 2006.
In riferimento a tale istituto, la Corte costituzionale ha rigettato le sollevate questioni di
legittimità costituzionale affermando che le disposizioni sul condono erariale richiedono
che il giudice camerale valuti tutti gli elementi desumibili dall’accertamento dei fatti già
compiuti in sede di sentenza di primo grado, per cui al giudice contabile viene riconosciuto
un potere più ampio nel valutare se rigettare o meno la richiesta di condono.
Inoltre, la Corte costituzionale ha ribadito che il condono erariale non comporta alcuna
deroga al sistema della responsabilità amministrativa e non produce alcun effetto
premiale, in quanto dovuto dai responsabili in base alle norme proprie del sistema di
responsabilità amministrativa.
Pertanto, dalle affermazioni della Corte emerge il “proprium” della responsabilità
amministrativa, in quanto l’intero danno subito dall’amministrazione non è di per sé
risarcibile e costituisce soltanto il presupposto per il promuovimento da parte del P.M.
dell’azione di responsabilità. Il danno risarcibile, infatti, dipende soltanto dalla valutazione
discrezionale ed equitativa del giudice contabile.
In relazione al danno provocato ed al danno risarcibile si distingue tra responsabilità
amministrativa e responsabilità civile, per cui il condono erariale non modifica il sistema
della responsabilità amministrativa in quanto per richiedere il condono si richiede che la
condotta illecita sia antecedente alla entrata in vigore della legge che disciplina l’istituto.
La Corte dei conti, a sua volta, ritiene che tale istituto sia finalizzato allo snellimento del
processo di accertamento della responsabilità amministrativa con eliminazione della fase
di appello e nel reperimento immediato delle risorse finanziarie.
197
Di qui risulta il profondo contrasto tra orientamento della Corte costituzionale e quello
della Corte dei conti, in quanto si riguarda in modo differente alla responsabilità
amministrativa.
4. La responsabilità dirigenziale
Ai sensi dell’art. 5 del d. lgs. 286/ 1999, gli esiti dei controlli interni sulla gestione
amministrativa costituiscono la necessaria premessa per l’attività di valutazione dei
dirigenti, per cui si prevede che l’esito negativo della valutazione costituisce presupposto
per l’applicazione delle misure di cui all’art. 21, commi 1 e 2 del decreto 29 in materia di
responsabilità dirigenziale.
L’art. 21 del d. lgs. 165/ 2002, modificato dalla legge 145/ 2002, prevede ora che il
mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero l’inosservanza delle direttive
imputabili al dirigente determina l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico
dirigenziale, fatta salva la possibilità, a seconda della gravità dei casi, della revoca
dall’incarico del dirigente incorso in responsabilità ovvero del recesso dal rapporto di
lavoro, nei casi di maggiore gravità, secondo le disposizioni del contratto collettivo di
lavoro.
Tuttavia, mentre la responsabilità per mancato raggiungimento degli obiettivi è
considerata fattispecie tipica della responsabilità dirigenziale, dubbia è la ricostruzione
della responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttiva, la quale si avvicina alla
responsabilità disciplinare.
Invero, la responsabilità dirigenziale non sorge dalla violazione di canoni normativi di
comportamento, ma dalla verifica dei risultati prodotti nel settore organizzativo cui il
dirigente è preposto.
Pertanto, l’accertamento dell’avvenuta integrazione della fattispecie di responsabilità
dirigenziale deve scaturite da procedure di valutazione precedentemente descritte, da cui
dipenderà la decisione di responsabilità dirigenziale in quanto espressa sulla base di
valutazioni oggettive formulare da organismi tecnici.
Infine, appare condivisibile la tesi che riconduce la responsabilità dirigenziale nell’ambito
della responsabilità contrattuale, per cui, salvo verificare se l’avente diritto alla prestazione
possa considerarsi l’organo politico ovvero altra figura soggettiva, certamente le
obbligazioni assunte dal dirigente sono delimitate dalle direttive imposte dall’organo di
governo ed alle condizioni stabilite dalla legge e specificate dai contratti.
Pertanto, la valutazione dei dirigenti è un momento logicamente distinto dall’attivazione
del meccanismo di responsabilità sull’operato degli stessi. Tale sistema di responsabilità
incide sul rapporto d’ufficio che lega il titolare dell’ufficio e la figura soggettiva titolare del
diritto alle prestazioni lavorative della persona fisica.
Tale fattispecie non appare facilmente riconducibile nell’ambito della responsabilità
oggettiva, in quanto il dirigente non ha i mezzi per far fronte al rischio dell’esercizio
dell’azione amministrativa né dispone di tutti i mezzi necessari per prevederlo e
prevenirlo.
Parte 11
Fonti del diritto amministrativo
Capitolo 2
La fonti
198
1. Le fonti del diritto amministrativo: aspetti generali
Sono fonti del diritto gli atti ed i fatti che, sulla base delle disposizioni sulla produzione
normativa, sono abilitati a produrre norme giuridiche nell’ambito specifico della p.a.
Esse non sono diverse da quelle generali dell’ordinamento: Costituzione, leggi, atti di
normazione secondaria, Trattati istitutivi e atti delle istituzioni dell’UE.
2. I rapporti tra le fonti.
I rapporti tra le fonti del nostro ordinamento sono governati dai criteri di gerarchia e
competenza, alternativi tra loro ma che operano congiuntamente; al vertice della
gerarchia vi sono gli atti legislativi costituzionali, ovvero la Cost e le leggi costituzionali, vi
sono poi le fonti primarie, cioè le leggi ordinarie, gli atti aventi forza di legge e i
regolamenti degli organi costituzionali, fonti secondarie sono invece gli atti del governo
e delle pubbliche amministrazioni.
Se fonti dello stesso rango sono in contrasto, si fa ricorso al criterio cronologico, per il
quale la fonte successiva abroga quella precedente ad essa difforme.
Sono fonti sub primarie le fonti dell’UE, alle quali la Corte costituzionale riconosce, in
virtù della limitazione di sovranità prevista dall’art 11 Cost, la qualità di atti che prevalgono
sulle fonti di rango primario e talvolta anche su fonti (o singole norme) di rango
costituzionale, con il limite (c.d. contro limite in quanto limite alla limitazione di sovranità)
del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
Il criterio di competenza prevede che la è la fonte superiore che stabilisce che una data
materia va disciplinata da un dato tipo di fonte, stabilisce anche il processo per la sua
formazione ed eventualmente i contenuti necessari.
3. La Costituzione.
La disciplina giuridica della pa è soprattutto contenuta nella Cost, es artt. 97
(imparzialità), 5 (decentramento), altri principi si trovano nella legislazione ordinaria.
Dalla Costituzione viene anche il principio di legalità, che in senso formale intende
come invalido qualsiasi atto dei pubblici poteri che non sia espressamente autorizzato dalla
legge, ma che nella sua evoluzione più recente, ovvero quella in senso sostanziale, non
richiede solo che la legge conferisca il potere, ma anche che definisca la disciplina per il suo
esercizio.
Nella pa tale principio si traduce in una riserva di legge, dalla quale arriva il fondamento
del potere amministrativo, essa ne definisce i tratti essenziali.
La riserva è assoluta quando una norma costituzionale attribuisce solo alla fonte primaria
il potere di disciplinare una data materia (escludendo le fonti secondarie), è relativa se
solo i principi fondamentali sono fissati dalla legge e la disciplina di dettaglio è lasciata alle
norme regolamentari.
4. Le fonti primarie.
Sono essenzialmente le leggi dello Stato e gli atti ad esse equiparati (decreti legge e
decreti legislativi) e le leggi regionali: esse, quando incidono sull’esercizio dei pubblici
poteri, sono da considerasi fonti oggettivamente amministrative.
4.1. Le fonti dell’UE.
Sono fonti sub primarie, composte dai Trattati istitutivi, dai principi generali e dagli atti
delle istituzioni europee: i regolamenti, le direttive, le decisioni, le raccomandazioni, alcuni
atti atipici (le comunicazioni).
Tali fonti, fermo restando il vincolo del principio di sussidiarietà, disciplinano importanti
settori del diritto amministrativo (es contratti pubblici, servizi pubblici) ed incidono,
199
tramite le decisioni della Corte di Giustizia, anche sulla formazione dei principi generali
sulla base delle tradizioni giuridiche comuni degli Stati membri.
Quindi tali fonti costituiscono strumenti di armonizzazione del diritto amministrativo degli
Stati. Ricordiamo che mentre i regolamenti sono immediatamente applicabili negli stati
membri, le direttive necessitano di atti interni di attuazione.
Se le norme regolamentari UE sono contrarie a quelle interne, è prevista la
disapplicazione delle fonti interne incompatibili.
5. Le fonti secondarie: i regolamenti.
I regolamenti amministrativi sono fonti soggettivamente amministrative qualificate come
secondarie, consistendo in atti degli organi dell’amministrazione (statale, regionale o di
altri enti pubblici) titolari del potere di emanare norme generali ed astratte.
Attraverso i Regolamenti esecutivi di leggi e di decreti legislativi e con i
Regolamenti dell’UE, il Governo pone le norme necessarie all’esecuzione di leggi dello
Stato o di decreti legislativi.
Ricordiamo i regolamenti attuativi o integrativi che disciplinano l’attuazione della
legge e decreti legislativi, che si limitano a indicare solo i principi.
I Regolamenti indipendenti sono invece quelli attraverso i quali il Governo detta la
disciplina in materie per le quali manca una disciplina legislativa, sempre che non vi sia
una riserva di legge: questi hanno creato problemi data l’attività normativa svolta
eccezionalmente dal Governo.
I Regolamenti di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni,
possono essere sia attuativi, che integrativi, che di attuazione. Con i Regolamenti di
delegificazione o autorizzati al Governo è dato disciplinare nelle materie anche in
deroga alle disposizioni di legge: ciò grazie ad una legge di autorizzazione che abilita il
Governo sia ad emanare norme regolamentari che ad abrogare la legge che disciplina la
materia per la quale il regolamento è stato autorizzato.
I Regolamenti interministeriali o ministeriali sono anch’essi fondati sulla legge, ed
i contenuti sono connessi alle materie di competenza del Ministro.
6. Altre fonti secondarie.
Hanno potestà normativa, oltre a Stato e Regioni, anche altri enti pubblici che possono
adottare regolamenti o statuti, come ad esempio gli enti locali, che attraverso tali atti
definiscono l’organizzazione dell’ente.
Il potere trova fondamento nell’art. 7 della legge 267/2000, che la attribuisce ai comuni,
alle province, alle città metropolitane, e tali enti possono esercitare la potestà per
l’esercizio di tutte le funzioni loro attribuite.
6.1. I testi unici.
I testi unici rientrano nelle fonti del diritto amministrativo, se però provengono da
un’autorità priva del potere normativo costituiscono fonti di cognizione, pertanto non
modificano le disposizioni normative che in essi si trovano raccolte, perché non hanno
carattere innovativo.
Se questi testi sono compilati dalle autorità munite di potere normativo, sono fonti di
produzione, per le quali è necessaria una legge delega che ne attribuisca il potere al
Governo, c.d. testi unici delegati, anche se spesso poi il Governo viene autorizzato con
legge ad emanarli, ed allora avremo i testi unici autorizzati.
Le esigenze di semplificazione hanno portato all’adozione di una legge annuale di
semplificazione e di riassetto normativo, nonché all’adozione di codici, nonché di
regolamenti che il Governo adotta in base alla legge 400/88. Anche le autorità
amministrative indipendenti godono della potestà normativa, ma la materia non è
chiaramente definita.
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7. Altri atti che non sono riconducibili alle fonti del diritto amministrativo. La prassi
amministrativa e la consuetudine.
Non possono ritenersi fonti del diritto amministrativo le circolari amministrative,
attraverso le quali l’amministrazione fornisce indicazioni, in termini generali ed astratti,
sulle modalità di comportamento degli uffici e dei dipendenti in essi inseriti: esse hanno
valenza e rilevanza interna.
Esistono poi le circolari intersoggettive, che sono rese da un organo o ufficio ad un
altro organo o ufficio dello stesso ente.
Come le circolari, anche le norme interne, che siano tecniche o meno, non
costituiscono fonti del diritto amministrativo, ma vigono unicamente nell’ambito
dell’ordinamento che le produce. La prassi amministrativa è il comportamento
costantemente assunto da un’amministrazione nell’esercizio di un potere, essa non
rappresenta fonte del diritto, a differenza della consuetudine che invece è data da un
comportamento assunto dalla generalità di consociati che si caratterizza per la convinzione
che il soggetto, ha di tenere un comportamento obbligatorio in base ad una norma
vincolante e non già per libera scelta (opinio iuris ac necessitatis).
201