4. sociologie a confronto
metodi e modelli della sociologia
la logica delle scienze sociali
spiegare comprendere interpretare descrivere chiarificare collegare costruire
(dunque in sette passaggi)
0. Note - avvertenze preliminari:
01. È meglio parlare del “racconto della sociologia” più che della teoria sociologica o della
sociologia come scienza (magari unica!). Le sue vere origini stanno infatti, più vicino,
nell’esplosione del romanzo di società nel corso dell’800 (Austen, Balzac, Stendhal, Flaubert,
Dickens, Zola, Hugo, Manzoni, Verga…), più lontano, nella commedia antica greca e latina
(Aristofane, Menandro, Plauto, Terenzio…) e nel parallelo studio dei caratteri (Aristotele,
Teofrasto, Seneca…). «Ho sempre pensato che la sociologia fosse più una pratica del racconto che
una scienza fredda basata sull’interpretazione dei numeri. Più dei numeri delle statistiche valgono le
parole degli uomini. Che producono, più che saggi letteratura. Più che ricerca, ricerca-azione. […]
Le ricerche di mercato e i sondaggi hanno il tempo presente come unica cifra del tempo. La ricerca
sociale, soprattutto quella incentrata sulla comunità locale, ha come spazio del tempo le lunghe
derive della storia sedimentate nei soggetti sociali, da usare per mangiare futuro.» Bonomi Aldo
2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Feltrinelli, Milano, 17
0.2. A partire dal peso che la filosofia positiva (il positivismo), nel corso dell’800, ha attribuito alla
sociologia, scienza posta da Auguste Comte, al vertice del nuovo sistema dei saperi, la sociologia ha
cercato di mettere a punto il proprio statuto scientifico portando ad evidenza analitica i metodi del
suo fare e i concetti del suo sapere teorico (teoretico). Da allora le proposte si moltiplicano.
Vengono qui presentati modelli di sociologia in successione cronologica (quasi totale) dall’800 ai
giorni nostri (?), che possono così suggerire l’idea del superamento interno, abbandono e alternanza
tra loro, della complessità della osservazione sociologica e della capacità di dar voce e risalto alla
complessità del sociale contemporaneo. In realtà i modelli che vengono sostituiti non vengono mai
cancellati ma vengono assorbiti e riposizionati (quindi ridefiniti e corretti ma anche riproposti) nei
modelli di volta in volta formulati successivamente; oppure i modelli definiti “superati” non sono
annullati in assoluto, la loro validità e utilità sono collocate in ambiti specifici, come sistemi da
collocare in macrosistemi quando il punto di osservazione è individuato a distanze sempre più
ampie e comprensive.
1. Comte: spiegare; progetto per una fisica sociale
«Il principio fondamentale della sana filosofia consiste necessariamente nell’assoggettamento
continuo di tutti i fenomeni, quali che siano, inorganici o organici, fisici o morali, individuali o
sociali, a leggi rigorosamente invariabili, senza le quali, essendo ogni previsione razionale
evidentemente impossibile, la scienza reale resterebbe limitata a sterile erudizione.» Con questa
perentoria affermazione di fiducia in un’enciclopedia delle scienze e in un metodo che fornisca le
basi per spiegare e prevedere, mediante leggi rigorose, tutti i fenomeni reali, da quelli naturali a
quelli sociali, Auguste Comte (1798-1837) riassume il progetto dell’intera sua opera. In particolare:
Comte e i “positivisti” collocano la sociologia al vertice del nuovo sistema scientifico
dell’epoca industriale come scienza dalla metodologia complessa in risposta/ricognizione e
premessa per la gestione della società complessa.
1.1. l’enciclopedia delle scienze e la sociologia come vertice. L’impianto moderno dei saperi,
nella enciclopedia adattata ai tempi storici in cui sviluppo e progresso si rivelano essere le leggi
della storia, si riordina nella sequenza di sei scienze: matematica, astronomia, fisica, chimica,
biologia, sociologia. La diversa natura dell’oggetto indagato attribuisce a ogni disciplina una
propria specificità metodologica; ma la crescente complessità dei settori di indagine porta Comte a
disporre le varie scienze in un ordine enciclopedico «a incastro»: esso muove dalle più semplici, le
prime quattro che seguono un metodo analitico, ispirato al modello causale, e procede fino alle più
complesse, le ultime due, che adottano un modello di spiegazione di tipo sintetico, ispirato al
modello statistico. Nella successione è in atto un processo di inclusione che è anche di
completamento enciclopedico delle varie discipline. Al vertice di questa nuova enciclopedia dei
saperi si pone la sociologia, la scienza più complessa per l’oggetto e per il metodo; in essa
convergono, come nella loro naturale sede applicativa, le competenze dei saperi precedenti che in
essa trovano la propria naturale efficienza e produttività in vista della Nuova Umanità.
1.2. la legge dei tre stadi. Esiste una regolarità dello sviluppo naturale, storico, scientifico e anche
della mente umana, ed è possibile formularla in legge: la legge dei tre stadi: teologico, metafisico e
positivo. È definito teologico lo stadio o il metodo secondo cui una spiegazione dei fenomeni
rimanda a cause esterne intese come entità autonome. È metafisico lo stadio in cui la spiegazione si
ottiene indicando di ogni fenomeno l’essenza immanente e profonda, posta oltre il dato fenomenico
che viene inteso come una sua manifestazione. È positivo lo stadio e il metodo che parte
dall’affermazione netta: oltre il dato non vi è nulla (anche perché se sta oltre il dato non è dato e non
è dunque disponibile se non per a priori infondato); nessuna proposizione (o enunciato) è scientifica
se non è riducibile alla semplice enunciazione di un fatto. La spiegazione dei fenomeni non è
consegnata a rimandi trascendenti o metafisici ma è costruita attraverso le relazioni tra dati; le leggi
sono le relazioni costanti tra i fenomeni.
1.3. La ricerca dello statuto scientifico proprio della sociologia è all’insegna di una “sindrome di
dipendenza” dai modelli delle scienze formali e delle scienze naturali che la precedono e che essa
presuppone: la sociologia supera ma comprende le scienze precedenti (matematica, astronomia,
fisica, chimica, biologia); le comprende al punto da tendere a definirsi come una “fisica sociale”.
Proprio la sociologia, scienza contemporanea, porta alla massima realizzazione il metodo positivo.
Spetta ora alla sociologia abbandonare gli incerti postulati a priori dello stadio teologico e
metafisico per fare proprio il metodo rigoroso che contraddistingue lo stadio positivo e le consentirà
di qualificarsi come scienza. Occorre dare alle leggi che regolano la società quel rigore scientifico
che ha finora contrassegnato le scienze naturali; è a tale proposito che Comte parla dell’esigenza di
disporre di una «fisica sociale».
1.4. Sociologia statica e sociologia dinamica. Anzi, proprio nella sociologia il metodo scientifico
positivo assume un rilievo centrale e acquisisce una definizione precisa e completa, rientra in
contatto con la società assumendo l’obiettivo di progresso e ordine a proprio scopo.
1.4.1. sociologia statica o statica sociale (come la fisica statica): studio delle relazioni che, in ogni
fase della storia, legano i vari aspetti sociali in convergenza organica attorno a un’idea centrale,
un’“idea blocco”, creando un sistema sociale ordinato, un’armonia non determinata dalla forza o
dalla violenza, ma dalla capacità del politico di scoprire e porre al centro della propria azione l’idea
blocco storicamente adeguata.
1.4.2. sociologia dinamica o dinamica sociale (come la fisica dinamica): studio e rispetto del
processo attraverso il quale una società giunge ai suoi vari equilibri storici, alla idea blocco
corrente. L’evoluzione (e non la rivoluzione) della società ha la sua possibilità di lettura e
spiegazione, nella sociologia come nella società, nella legge dei tre stadi.
1.5. Ordine (in termini di armonia e convergenza) e progresso (in termini di evoluzione e non di
rivoluzione) diventano le convinzioni scientifiche e le parole politiche programmatiche della
sociologia positivistica finalizzate alla realizzazione massima delle potenzialità di cui una società è
portatrice e sede storicamente naturale.
1.6. La Nuova Umanità. Lo stadio positivo cui la sociologia e la società giunge seguendo e
realizzando l’armoniosa evoluzione dell’ordine sociale retto da leggi naturali è il luogo del pieno
dispiegarsi di una nuova universalità etica, espressa con toni e concetti mistico-religiosi: l’Umanità.
La vera sede dello sviluppo è allora la società; lo Stato non è l’universalità etica (come avrebbe
voluto Hegel) ma un soggetto storico il cui valore e il cui solo ruolo consiste nel rispetto delle leggi
naturali che governano il processo sociale.
In conclusione, i binomi sistemici della sociologia di Comte. Esperienza e matematica: una
sociologia fondata sui dati di fatti e sul loro trattamento matematico attraverso la statistica (una
osservazione fenomenologica e statistica). Realismo e utopia: solo il fatto è sede della legge e la
legge è una relazione tra fatti, ma la Nuova Umanità è l’idea che guida la storia e il suo “Essere
supremo”. Scienza ed etica: un nuovo e aggiornato quadro delle scienze è il progetto formativo
dell’umanità; la scienza non ha dunque come fine se stessa ma l’uomo nel sociale. Ordine e
progresso: leggi ferree come quelle che sono presenti nella fisica operano in sociologia e in ogni
intervento mirato a gestire il sociale, come soprattutto la politica, ma hanno sede in un organismo
vivente (società come organismo studiata con le competenze della biologia), quindi mobile e
dinamico, e lì si compongono in equilibri organici progressivi.
2. Weber: comprendere; la specificità delle scienze sociali
Per i primi 20 anni del ‘900, si teorizza una distinzione netta (un divario inconciliabile) tra scienze
della natura e scienze dello spirito (scienze-sociali, scienze-umane). Si può parlare dello “scatto
d’orgoglio” dello storicismo (soprattutto ad opera di Dilthey, Windelband, Rickert) che distingue
nettamente le scienze sociali (dell’uomo, umane) dalle scienze naturali (della natura). Si tratta di
scienze
tra loro distinte
per l’oggetto
per il metodo
per l’esito
Naturwissenschaften
ciò che è universale
spiegare
leggi (necessarie)
Geisteswissenschaften ciò che è individuale comprendere
regolarità (le costanti)
2.1. scienze della natura scienze sociali. Max Weber, nell’opera Il metodo delle scienze storicosociali richiama la differenza tra l’oggetto di studio delle scienze naturali: le regolarità
dell’universo, alle quali ricondurre l’esperienza; e l’oggetto di studio delle scienze sociali:
l’individualità, di cui va affermata sia l’irriducibile singolarità (l’individuale storico), sia l’esigenza
di una comprensione condivisibile, se l’obiettivo è una conoscenza scientifica (la regolarità
dell’agire sociale).
2.2. il soggetto storico-sociale. L’individuo (l’individualità, il fatto), nelle scienze sociali ma come
è proprio di ogni scienza, non può essere considerato come un soggetto – oggetto definito in sé,
all’esterno dei concetti e dei metodi dell’osservazione e della ricerca. È il risultato di una scelta
individualizzante dettata dalla prospettiva di studio adottata; quindi ogni realtà storica acquista
evidenza ed esistenza scientifica come individualità in quanto entra a far parte di una soggettività
plurima di cui è possibile fare narrazione storica (famiglia, nazione, associazione, città, comune,
industria… ma la soggettività in storia è senza fine: storia delle emozioni, della gelosia, della paura,
delle lacrime, del sorriso… e “a fantasia”). La presentazione di individualità in sviluppo e di logiche
e regolarità o costanti di comportamento che permettono la comprensione storica di ciò che è stato
individuato si ottiene attuando nel soggetto in studio (particolare) una convergenza di connessioni
causali (universale) in forma di intersezione.
2.3. presupposti trascendentali di metodo delle scienze storico-sociali. Lo statuto scientifico
delle scienze sociali, sul modello della impostazione kantiana della definizione del sapere, si fonda
su alcuni presupposti di carattere trascendentale. In particolare:
2.3.1. il concetto di valore, inteso in senso formale come garanzia di libertà e di possibilità di
scelta: «Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo fornita
di valore una determinata, o anche in genere una qualsiasi “cultura”, ma che noi siamo esseri
culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti
del mondo e di attribuirgli un senso». Il concetto di valore diventa un presupposto trascendentale e
si colloca nel campo delle possibilità che gli enunciati riguardanti la storia e il sociale, in generale,
possano acquisire carattere scientifico. Il concetto di valore non si traduce quindi in elenchi di
tavole di valori o principi assiomatici trascendenti, ma indica nella condizione dell’uomo come
capace di valore (declinare valori) il fondamento e il principio della sua storicità sociale e quindi
della sua fondamentale e irrinunciabile libertà. Il concetto di valore, inteso come condizione
trascendentale, mette dunque fine e a filosofie della storia teorizzanti linearità monodirezionali e a
pretese di emettere giudizi di valore, da prospettive assolute [astoriche] sulla storia e sulla società.
2.3.2. l’ipotesi di uno sviluppo possibile, aperto e imprevedibile: non vi sono mondi (ideali o reali)
definiti o situazioni già delineate a cui escatologicamente e come al proprio fine la storia e la società
tendano. Le scienze storico sociali, correttamente intese, aboliscono il tanto popolare quanto
abusato concetto di fine del mondo, della storia, delle civiltà… o ne mettono in luce (seguendo forse
ancora Epicuro) il carattere strumentale: si tratta di un concetto che serve ad alimentare paure
infondate e, perciò, fruttifere per chi le attiva.
2.4. l’oggettività delle scienze storico-sociali. In quanto scienze, le scienze storico-sociali devono
giungere ad una determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita mediante il ricorso
alla spiegazione causale; ma il significato e le condizioni di oggettività e di causalità nelle scienze
storico sociali non coincidono con la definizione e il ruolo che hanno nelle scienze naturali e sono
strettamente legate e coerenti con l’oggetto, la sua individuazione e costruzione e con le condizioni
interne alla metodologia delle scienze storico sociali. La storia (intesa come narrazione scientifica)
deve indicare le coordinate di valore e i punti di vista che definiscono concetti e individuano fatti,
permettono una spiegazione causale del proprio oggetto, ma la causalità storica non è assoluta o
deterministica (come si considerava essere quella naturale); si definisce come legame-relazione
valida e controllabile all’interno di prospettive e all’interno di tipologie (tipi ideali); è una causalità
pluridirezionale, circolare, reciproca, ascendente… Non pretende di spiegare, per la complessità
dell’oggetto, ma fornisce condizioni per comprendere.
2.4.1. Mentre nelle scienze naturali la legge dei fenomeni è ottenuta studiandoli isolati dagli
impedimenti (“diffalcati gli impedimenti” Galilei) e astraendoli dal contesto fisico naturale
quotidiano (esperimenti ideali, in laboratorio), nelle scienze sociali una simile astrazione annulla il
fenomeno stesso, ne impedisce lo svolgimento e lo studio perché lo astrae dalle relazioni sociali che
lo definiscono in modo essenziale; non è un caso che lo stesso Comte abbia presentato la sociologia
come scienza complessa – pur parlando di fisica sociale. «Per quanto riguarda il metodo
sperimentale, esso può essere utilizzato raramente dallo scienziato politico. Quest’ultimo, infatti,
contrariamente allo scienziato naturale, non può assumere la vita politica come l’equivalente di un
laboratorio, in cui si mantiene costante il maggiore numero di fattori intervenienti, così da
ricostruire in modo lineare i nessi causali o di influenza della variabile indipendente sulla variabile
dipendente. La vita politica è assai più complessa di un laboratorio sperimentale. E soprattutto è
costituita da fattori che non si fanno isolare ed è strutturata da interazioni che non si fanno
separare.» Fabbrini, Sergio 2008 Politica comparata, Laterza, Roma-Bari p.6-7.
2.4.1.1. In questo contesto le osservazioni critiche alle pretese scientiste-catalogatorie-quantitative
delle scienze sociali (economia, politica sociologia) espresse da Martha Nussbaum in Nussbaum C.
Martha Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Feltrinelli, Milano.
Qui il ricorso al romanzo (in particolare Tempi difficili di Dickens) e alla poesia (in particolare
Whitman) diventa l’espediente per restituire alla vista lo sguardo sulla complessità dell’uomo e del
sociale e per dare all’immaginazione quella capacità conoscitiva che le compete. Immaginazione e
conoscenza, in diversa specializzazione, trovano la propria origine e fecondità in un principio
emotivo da cui oltre a essere attivate, sono in continuazione alimentate.
2.4.2. Nelle scienze naturali un fatto si considera scientifico se viene inserito in una legge, se
costituisce un esperimento, cioè un fatto ideale (costruito in condizioni ideali) e se può essere
ripetuto all’infinito; l’impossibilità ad una sua ripetizione nega la sua natura di fatto scientifico.
Diversi sono i fatti storici cui compete ovviamente l’unicità e la non ripetibilità (non si può ripetere
la morte di Napoleone! o altro); ogni fatto costituisce un assoluto unico, la sua comprensione è
consegnata a un gioco di scelta di prospettiva e di collocazione secondo relazioni di causalità
specifica.
3. Scuola di Francoforte: interpretare: teoria critica della società
3.1. il progetto. Nel 1930 il filosofo tedesco Max Horkheimer (1895-1973) assume la direzione
dell’Istituto per la ricerca sociale fondato nei primi anni Venti da Felix Weil a Francoforte sul Meno
e che verrà indicato con il nome “Scuola di Francoforte”. Nato con lo scopo di «comprendere il
mondo e, attraverso tale comprensione, di cambiarlo», l’Istituto, presso il quale in origine
lavoravano soltanto studiosi di formazione marxista, era sorto come centro di studi critici sulla
società capitalistica e sui meccanismi che creano e sostengono i regimi autoritari. Sotto la direzione
di Horkheimer l’Istituto si apre con decisione a contributi di studiosi di diversa formazione,
accentua i propri interessi di ricerca sulla società, e in particolare sulle strutture che
contraddistinguono le società a capitalismo avanzato, avvia una riflessione sui metodi delle scienze
sociali. Studiosi diversi per formazione e per orientamento ideologico sono accomunati
dall’avversione per ogni sistema chiuso e dogmatico, per una ragione che si limita a descrivere i
meccanismi della società, giustificandone l’esistenza di fatto. Il ruolo che la ragione deve svolgere,
a giudizio di questi studiosi, è invece di carattere critico-negativo: essa deve cogliere la natura
storica dei modi con cui un sistema sociale si organizza, si conserva e si riproduce, deve individuare
i limiti, le esclusioni, le contraddizioni che esso genera. È il limite e l’esclusione a svelare la natura
di un sistema sociale e politico. Nelle loro analisi storiche e sociali gli studiosi della Scuola di
Francoforte tendono dunque a delineare, ciascuno nel settore specifico di sua competenza, una
«teoria critica della società»: Eclisse della ragione (1947) di Horkheimer, Dialettica
dell’illuminismo (1949), scritta in collaborazione da Horkheimer e Adorno, Ragione e rivoluzione
(1941) di Marcuse si presentano come bilancio dell’evoluzione filosofica del concetto di ragione e
al tempo stesso come proposte per un rilancio del ruolo politico della ragione, in vista di una piena
riappropriazione di sé e della libertà da parte dell’uomo
3.2. il metodo. Nella ridefinizione della razionalità posta alla base della loro teoria critica, gli
studiosi della scuola di Francoforte riprendono alcune fondamentali categorie del pensiero di Hegel,
Marx e Freud.
3.2.1. Hegel. Gli studiosi della Scuola di Francoforte rilanciano la ragione nella sua essenza
dialettica, anima del sistema di Hegel. Della dialettica sottolineano tuttavia la funzione critica e il
movimento negativo che la sorregge, i processi di negazione di cui vive per potersi determinare e
costituire. Nel sistema la contraddizione è redenta e trasformata in passaggio funzionale per
l’armonia.
«La classificazione dei fatti in sistemi concettuali bell’e pronti e la loro revisione effettuata
semplificando o eliminando contraddizioni costituisce, come abbiamo detto, una parte della pratica
sociale generale. Essendo la società divisa in gruppi e classi, si comprende che, a seconda della loro
appartenenza a uno di essi, le formazioni teoriche abbiano anche una diversa relazione con questa
pratica generale.» (Horkheimer, Max, Teoria tradizionale e teoria critica, Einaudi, Torino 1974, p.
150). Gli autori della Scuola di Francoforte rimproverano a Hegel di non aver colto la portata
rivoluzionaria e critica del pensiero dialettico in quanto ha identificato la logica con l’ontologia
(facendo coincidere, senza riserva alcuna, il pensiero con l’essere), la ragione con il sistema
(immaginando una contraddizione produttiva che, per tesi e antitesi, approda di continuo a sintesi
superiori redimendo e realizzando nel sistema e nel tutto quella realtà particolare che nega). La
prima caratteristica della ragione dialettica è invece la negazione: conoscere significa cogliere e
definire ogni realtà nella sua determinazione storica, collocarla nel rapporto di alterità e di
opposizione che ne definisce la precisa identità. La dialettica intesa come ragione negativa conserva
al pensiero la potenza della contraddizione: il pensiero dialettico coglie infatti la natura
condizionata e storica di ogni struttura sociale e delle leggi che ne caratterizzano l’ordine,
diagnostica e denuncia le contraddizioni sociali e i processi di alienazione che impediscono
all’uomo di realizzare nella società le proprie capacità e possibilità. Si tratta allora di mettere in
evidenza sociologica le negazioni di cui un sistema sociale e politico vive e su cui costruisce il
proprio potere; e non si tratta solo delle evidenti negazioni esercitate dalla società e dalla politica
con la violenza dei controlli, delle condanne, delle punizioni e delle esclusioni; sono più efficaci i
meccanismi educativi che spingono la persona a farsi con convinzione soggetto della propria
autoesclusione, della negazione di sé, della propria natura, dei desideri, delle emozioni, dei piaceri
ecc. La “Scuola di Francoforte” va al cuore del problema, e del sistema, quando segnala che il
misconoscimento che l’economia di profitto ostenta nei confronti dell’uomo (pensandolo in termini
di mezzo e negandolo come fine), si basa sulla capacità dello stesso sistema produttivo di rendere
l’uomo complice e operativo in questo misconoscimento di sé; l’uomo infatti dovrà tendere a
sentirsi realizzato con pienezza solo quando svolge con competenza e partecipazione consapevole il
ruolo di mezzo (e di merce) nel sistema di produzione che lo usa e nel sistema sociale che lo
accoglie solo alle condizioni educativamente prescritte.
3.2.2. Marx. Richiamare la funzione storica (sul piano sia teorico sia pratico) della ragione
dialettica è collegarsi alle tesi di Marx. Questo «ritorno a Marx», nel nuovo contesto politico del
dopoguerra (che vede nel socialismo la sola forza in grado di realizzare una rigenerazione totale
della società), significa al tempo stesso riprendere lo studio del marxismo e sottoporre ad una critica
incisiva le sue degenerazioni storiche, in particolare le letture metafisiche e dogmatiche del
marxismo da cui sono sorte sia «la resa socialdemocratica al capitalismo» sia la costruzione dei
sistemi totalitari di tipo sovietico. La rivoluzione marxista, osserva Horkheimer, non promette
soltanto il mutamento dei rapporti economici, ma prospetta la trasformazione totale dell’uomo, la
«realizzazione della sua essenza». La teoria critica recupera la filosofia marxista come forza
rivoluzionaria non solo sulla base del suo proposito di rovesciare i rapporti produttivi ma anche in
nome del diritto dell’uomo alla libera espressione e al soddisfacimento dei propri bisogni. È
recupero del concetto di alienazione individuato come processo di oggettivazione, esternazione ed
estraneazione di sé non solo nei processi produttivi, ma nel mondo delle relazioni sociali normali.
Alienazione come farsi altro da sé, negare se stesso o consegnare se stessi ad altri (soggetti,
istituzioni, processi produttivi, progetti politici) in quel fare e dire che ci appartiene e viene attivato
come luogo di realizzazione di sé; negarsi nel proprio oggettivarsi. I temi avranno una forte ripresa
in Foucault.
3.2.3. Freud. Da Freud gli studiosi di Francoforte acquisiscono nuovi strumenti di lettura critica
dei processi di alienazione sociale; grazie ad essi si fa più nitida la percezione della crescente
capacità di potere, di organizzazione e di controllo esercitata in tutti i momenti della vita pubblica e
privata da un sistema ad alta concentrazione tecnologica, come quello capitalistico attuale. Nel
processo di industrializzazione della cultura (Industria culturale) e di automazione
dell’informazione è facile vedere strumenti tanto potenti quanto occulti di educazione ad un modo
di pensare comune che finisce per identificarsi con la ragione stessa. Sotto la spinta degli apparati di
informazione e di comunicazione, un io collettivo si sostituisce progressivamente all’io individuale:
gli uomini sono in tal modo indotti ad assumere comportamenti uniformi nei bisogni, la loro
soddisfazione, i pensieri e i valori. L’indagine sui modi con i quali la cultura del «sistema» (le
istituzioni, la famiglia, la scuole, le comunità…) produce effetti massificanti (illustrati da
Horkheimer e Adorno nel saggio Industria culturale e da Marcuse nell’opera L’uomo ad una
dimensione) consente una nuova comprensione dei mezzi di cui dispone il sistema borghese per
imporre come valori supremi il proprio ordine, le divisioni e le gerarchie che lo garantiscono, le
contraddizioni di cui si alimenta, la sua capacità di trasformare le forme di repressione in
«autorepressione dell’individuo represso». Negli studi di Fromm e di Marcuse, in particolare, le
categorie della psicoanalisi si presentano come lo strumento con cui la teoria critica decodifica il
condizionamento autoritario esercitato dalle strutture sociali e intende restituire all’individuo il
libero uso delle proprie capacità.
3.3. il soggetto storico della liberazione. L’analisi che la teoria critica consente di condurre sulla
società contemporanea, caratterizzata da un capitalismo avanzato e da processi di concentrazione
produttiva e di controllo di tutti i settori della vita sociale, mette in luce come i valori propri della
filosofia borghese, incentrati sull’esaltazione dell’individuo, possano spingere gli uomini ad
affermare se stessi nella conformistica assunzione di ruoli sociali predeterminati e automatizzati
annullando ogni capacità di dissenso. Il progetto originario di riprendere l’analisi marxista
dell’economia capitalistica e di ripensare il ruolo del proletariato come forza storica di rivoluzione e
di liberazione, diventa, per gli studiosi di Francoforte, analisi critica delle possibilità storiche della
classe operaia: nelle società a capitalismo avanzato è in atto un processo di integrazione del
proletariato nel sistema capitalistico che inesorabilmente affievolisce la forza rivoluzionaria che
Marx gli attribuiva; le organizzazioni operaie (movimenti, sindacati, partiti…) garantiscono una
relativa stabilità di diritti economici e politici alla classe lavoratrice, trasformandola in un ceto
socialmente e politicamente stabile; il modello di consumo delle attuali società industriali fornisce
condizioni materiali di vita che spingono il lavoratore a difenderne e consolidarne l’ordinamento
invece che a rivoluzionarlo.
L’atteggiamento critico può trovare ora una nuova base storica in quegli strati sociali i cui
componenti (disoccupati, emarginati, popolazioni diseredate del terzo mondo) sono condannati alla
totale disperazione dai meccanismi della società avanzata; la teoria critica dovrà allora mirare alla
rielaborazione di una nuova dimensione dei diritti umani: la liberazione dell’individuo non si attua
tanto nel lavoro e nella produzione, ma nella proclamazione del diritto alla felicità.
«Oggi, il modo di pensare dialettico è estraneo all’intero nostro universo di termini e azioni. Esso
sembra appartenere al passato ed essere respinto dalle conquiste della civiltà tecnica. La realtà di
fatto sembra abbastanza promettente e produttiva per respingere o assorbire in sé ogni alternativa.
L’accettazione, e anche l’affermazione, di tale realtà appare pertanto come l’unico principio
metodologico ragionevole. Inoltre, un tale atteggiamento non impedisce né la critica né il
mutamento: al contrario, l’insistenza sul carattere dinamico dello status quo e sulle sue perenni
«rivoluzioni» costituisce uno tra i suoi più validi sostegni. Una tale dinamica, tuttavia, sembra
operare perennemente entro lo stesso schema di vita: rendere più facile il dominio sull’uomo da
parte dell’uomo e dei prodotti del suo lavoro, anziché abolirlo. Il progresso diviene quantitativo e
tende a rimandare all’infinito il passaggio dalla quantità alla qualità, cioè l’affermazione di nuovi
modi di esistenza con nuove forme di ragione e di libertà. […] Il pensiero dialettico ha inizio con la
constatazione che il mondo non è libero; cioè che l’uomo e la natura esistono in condizioni di
alienazione, “diversi da ciò che sono”. Ogni modo di pensiero che esclude la contraddizione dalla
sua logica è una logica difettosa. Il pensiero “corrisponde” alla realtà solo se trasforma la realtà
stessa comprendendone la sua struttura contraddittoria. Qui il principio della dialettica, porta il
pensiero al di là dei confini della filosofia. Comprendere la realtà, infatti, significa comprendere ciò
che le cose sono, e ciò, a sua volta, comporta la non accettazione della loro apparenza come dati di
fatto. La non accettazione, la rivolta, costituisce il processo del pensiero così come dell’azione.
Mentre il metodo scientifico conduce dall’immediata esperienza delle cose alla loro struttura logicomatematica, il pensiero filosofico conduce dall’immediata esperienza dell’esistenza alla sua
struttura storica: il principio della libertà.» (Marcuse Herbert 1941 Ragione e rivoluzione, il Mulino,
Bologna 1976, p. 12, 13-14)
3.4. la tesi sulle radici trascendentali dell’omologazione. L’incidenza dell’omologazione
nell’agire e nel pensiero dei soggetti è legata alla sua capacità di non limitarsi alla periferia
dell’agire (presentazione di merci) ma di collocarsi all’interno dei meccanismi di costruzione dei
processi di orientamento concettuale e di decisione pratica del soggetto
3.4.1. è una educazione al consumo, al bisogno, al pensiero – progetto, al desiderio - emozione –
passione; si tratta infatti di elementi plastici su cui si può incidere costitutivamente.
3.4.2. l’intenzionalità, radice del pensare, dell’agire, del desiderare…passa dal soggetto individuale
all’industria culturale; dallo schematismo della mente del singolo allo schematismo della
produzione programmata e industriale di modelli, bisogni, attese, progetti, piani, gusti …
3.4.3. la dipendenza resa trascendentale e interiorizzata è ulteriormente sostenuta dal conforto e
dalla tranquillità propria della ripetizione, dell’atteso come prevedibile «ogni singola
manifestazione dell’industria culturale riproduce gli uomini come ciò che li ha già resi l’industria
culturale intera»
3.4.4. l’educazione che deriva dalla comunicazione di marketing trae a sua volta la propria forza
dalla possibilità di collocarsi tra gli schemi e i concetti che determinano l’azione. Sulla base di un
doppio dato strutturale.
3.4.4.1. La conoscenza (come il suo oggetto dal punto di vista storico) è un processo di costruzione
È un presupposto erroneo quello di pensare all’oggetto e al soggetto come realtà predefinite e
metafisicamente “sostanze” statiche che si danno a conoscere.
3.4.4.2. Vi è una ridondanza degli schemi sui concetti, e in generale una ridondanza delle possibilità
sulla realtà dei pensieri, delle azioni e storicamente percepite; in questo scarto si inserisce l’azione
propositiva e persuasiva dei mass-media basata su schemi (mediatori tra soggetto e oggetto), capaci
di indicare e richiamare nuovi concetti, sostenere nuove azioni.
4. Luhmann… : descrivere: fenomenologia sociologica e la sua fondazione
4.1. il metodo. « ciò che accade come accade » «… la sociologia elabora una teoria della società
moderna per la società moderna. Una teoria che descriva i modi attraverso i quali questa società si
produce, si differenzia, evolve a partire da se stessa. Significa che la sociologia rinunzia a quelle
premesse che nella società moderna sono diventate ormai vincoli metafisici, al monopolio della
ragione del vecchio illuminismo, all’idea che si possano isolare regolarità sociali, principi universali
dell’agire, eventualmente di natura morale; all’idea che l’uomo o il soggetto, vecchie costruzioni
trascendentali, abbiano a che fare con l’empiricità dei singoli: ciò che si chiama soggetto, diceva
Luhmann, più che con le categorie ha a che fare con una tessera di identità e oggi forse, ancor più,
con un permesso di soggiorno.
Prendere l’uomo sul serio, allora, significa escludere che si possa descrivere la società come un
tutto costituito da parti e pensare che queste parti siano i singoli o le loro sublimazioni, si chiamino
soggettività o razionalità. O pensare che si possano costruire prospettive «migliori» per la società
sulla base di progetti, accordi razionali e condivisi, capaci di dare fondamenti razionali a valori o
principi, cioè alle preferenze, ai paradossi, alle distinzioni presentate come unità.
Là dove il pensiero della vecchia Europa ricercava o collocava fondamenti e valori, certezze e
stabilità, accordi e contratti sociali, un’osservazione priva di pregiudizi ontologici o metafisici vede
che tutto potrebbe essere diverso da come è e che il singolo, l’uomo empirico, non può muovere un
dito per cambiare ciò che accade come accade.» (dalla Presentazione all’edizione italiana a cura di
Raffele De Giorni dell’opera di Luhmann Niklas 2000 La fiducia, il Mulino, Bologna 2002 p. XIIXVI)
4.1.1. Non significa rassegnazione ma attenta presenza e consapevolezza del processi di
differenziazione in atto. «E questo non significa che i singoli o i sistemi sociali siano condannati
all’impotenza o alla rassegnazione, come pensavano i critici di un tempo. Non è affatto vero che il
mondo sia stato compreso o già interpretato. Disponiamo di descrizioni della società che sono
adeguate ad altri livelli della differenziazione sociale. Dell’attuale forma della differenziazione
sociale non disponiamo di descrizioni adeguate. Per formulare descrizioni cosiffatte è necessario
riconoscere i limiti del potenziale di attenzione dei singoli, predisporsi al rischio che altre
osservazioni permettano di descrivere ciò che non si riesce a vedere, che altre variazioni possano
stabilizzarsi, che altre strutture possano affermare altri livelli d’ordine; tener conto della differenza
di individui e società, riconoscere che la società si è differenziata dal suo ambiente e che è un
sistema universale, unico, insomma che abbiamo un’unica società e che questa società può essere
descritta solo come società del mondo. Che questa società evolve a partire da sé, che non si lascia
orientare dall’esterno di sé, perché all’esterno della società non c’è società e la società si irrita solo
da sé, cioè reagisce solo alle rappresentazioni dell’ambiente che essa costruisce all’interno di se
stessa. Alle teorie della storia, allora, si sostituisce la teoria dell’evoluzione, la quale permette di
osservare come ciò che appare come improbabilità evolutiva si renda poi possibile da sé. I progetti,
compresi quelli raccolti nelle filosofie della storia e le stesse filosofie della storia che li
costruiscono, sono solo brani di elaborazione della complessità che incrementano la complessità in
quanto introducono variabilità e si assoggettano essi stessi all’evoluzione della società. Sotto la
logica dei fondamenti si scopre, allora, il paradosso e si può osservare come la società occulti il
paradosso per rendersi possibile il suo operare.» (dalla Presentazione all’edizione italiana a cura di
Raffele De Giorni dell’opera di Luhmann Niklas 2000 La fiducia, il Mulino, Bologna 2002 p. XIIXVI)
4.2. il ruolo sociale della fiducia come collante e fondante e il metodo descrittivo. In questo
contesto sociologico («Il problema di riferimento: la complessità sociale»), un ruolo indispensabile
è svolto dalla “fiducia”; dalla “teoria della fiducia”.
«La fiducia — intesa nel senso più ampio di fare affidamento sulle aspettative proprie — è una
situazione elementare della vita sociale. Non v’è dubbio che esistano molte situazioni in cui
l’individuo deve scegliere se accordare o meno la propria fiducia in determinate circostanze. Ma
senza fiducia egli non potrebbe neppure alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una
paura indeterminata e da un panico paralizzante. Non sarebbe neppure in grado di formulare
chiaramente una determinata sfiducia e renderla fondamento di iniziative difensive, poiché questo
vorrebbe dire che egli ha fiducia sotto altri aspetti. Tutto sarebbe possibile. Nessun individuo è in
grado di sopportare un confronto così diretto con l’estrema complessità del mondo.
Questo punto di partenza può essere accettato alla stregua di un fatto incontestabile, come «natura»
del mondo, o dell’individuo, ed esprime perciò qualcosa di vero. Ogni giorno noi abbiamo fiducia
in questa cosa di per sé ovvia. Per la vita di tutti i giorni, la fiducia, intesa in questo senso fondante,
è una componente del suo orizzonte, un elemento essenziale del mondo, ma non costituisce il tema
intenzionale (e perciò stesso variabile) dell’esperienza interiore.
Possiamo anche considerare la necessità della fiducia come un fondamento autentico e certo per la
derivazione di regole per un comportamento corretto. Se le uniche alternative alla fiducia sono il
caos e la paura paralizzante, l’inevitabile conseguenza è che l’uomo, assecondando la propria
natura, debba accordare fiducia, seppure non alla cieca e non in ogni circostanza. Si acquisiscono in
questo modo massime etiche o principi giusnaturalistici — principi che contengono l’ammissione
del loro contrario, e la cui utilità è quindi dubbia. (Luhmann 2000, p.5)
4.3. la gestione sociale fedele (non in fuga) alla complessità del presente: «la fiducia come
riduzione della complessità» nell’immagine teorica soggettiva (nell’impossibilità di quella
oggettiva) del mondo.
La tesi. «… la fiducia rivela, mediante la riduzione della complessità, possibilità di azione che
sarebbero rimaste impensabili e prive di attrattive senza l’apporto della fiducia stessa, che, in altre
parole, non sarebbero state perseguite.» (Luhmann 2000 p.37) «In realtà tutti i processi interni —
ed è proprio qui che va ricercato il significato della differenza fra «interno» e «esterno» — operano
ad un livello inferiore di complessità e presentano di conseguenza minori possibilità, e quindi più
ordine rispetto all’ambiente. Essi funzionano in modo selettivo, in quanto fanno proprie le relazioni
fra dati nel mondo e le elaborano come informazioni relative al sistema. Così facendo, sostituiscono
l’ordinamento interno dell’elaborazione dei dati all’originaria complessità amorfa dell’ambiente, e i
problemi legati a tale ordine interno si inseriscono nel sistema come normali basi di lavoro per il
suo adattamento all’ambiente.
Nel caso della fiducia questa riduzione della complessità assume forme particolari a causa della sua
natura soggettiva. Queste forme possono essere descritte in termini di trasformazione del livello in
cui l’insicurezza viene assorbita, o resa intollerabile. Il sistema sostituisce la certezza esterna con
una certezza interna, e in questo modo accresce la sua tolleranza nei confronti dell’incertezza nelle
relazioni esterne. La modalità della riduzione della complessità in relazione all’ambiente diventa in
questo modo parte dei problemi secondari di questa certezza interna.» (Luhmann 2000 p. 39) «I
sistemi sociali differenziati e mobili fissano in questi casi standard elevati, che possono essere
soddisfatti solo nel caso in cui possa essere appresa non solo la fiducia ma anche il modo di
apprenderla — ciò che costituisce una parte della funzione socializzante della famiglia. E non
sarebbe neppure sbagliato sostenere che anche i sistemi sociali devono apprendere la fiducia.»
(Luhmann 2000 p. 41) «…il problema della fiducia è legato ad una riduzione della complessità, e
in modo ancor più specifico, di quella complessità che entra nel mondo in virtù della libertà degli
altri individui. La fiducia ha quindi la funzione di comprendere e ridurre questa complessità.»
(Luhmann 2000 p. 45)
4.4. il fondamento del metodo nella realtà (le radici reali dell’atteggiamento fenomenologico)
4.4.1. la base reale, fisica, che impone di procedere con un metodo fenomenologico, descrittivo, è la
sovrabbondanza di informazioni che il mondo può inviare, decisamente superiore a qualsiasi
sistema strutturato per afferrare, gestire e ordinare secondo trame quelle informazioni. Come per
Newton (nelle Regulae philosophandi) è la realtà che giustifica e impone le regole di metodo e di
sistema, così qui il metodo fenomenologico della sociologia deriva dalla natura del sociale reale: la
sovrabbondanza di dati. È forse questa stessa convinzione che sta alla base del modo con cui
Luhmann e autori come Bourdieu, Goffman si avvicinano al sociale e ne impostano l’osservazione
e la descrizione.
4.4.2. di fronte alla sovrabbondanza, alla complessità, il ruolo della teoria, immagine soggettiva o
costruzione logica del mondo. «Il mondo oggettivo resta comunque più complesso di qualsiasi
sistema: esso comprende più possibilità di quelle che sono previste dal sistema e che lo stesso può
realizzare. In questo senso il sistema fa mostra di un livello di ordine più alto (minori possibilità,
meno varietà). Questo squilibrio nell’ordine, come abbiamo già avuto modo di spiegare, viene
compensato per mezzo dello sviluppo, da parte del sistema, di un’immagine «soggettiva» del
mondo, ciò che significa che il sistema interpreta il mondo in modo selettivo, fornendo più
informazioni di quante sia in possesso e riducendo la complessità estrema del mondo ad
un’estensione rispetto alla quale esso può orientarsi in modo significativo, e strutturando in tal
modo le possibilità della propria esperienza e del proprio comportamento. La riduzione può avere
luogo in virtù di un accordo intersoggettivo, e portare quindi a forme di conoscenza che sono
garantite dal punto di vista sociale e che perciò vengono vissute come “vere”». (Luhmann 2000 p.
49) «Dal momento che ogni tipo di comunicazione, e persino ogni forma percepibile di
comportamento, rivela qualcosa sulla persona che si sta comportando in quel certo modo, la
comunicazione — anche il semplice essere visti dagli altri — si rivela un’iniziativa a rischio che
richiede una qualche forma di protezione. Attraverso il suo comportamento il singolo offre sempre
di sé una quantità di informazioni maggiori di quelle che può conciliare con il proprio Io ideale e
che è disposto a comunicare di sua volontà.» (Luhmann 2000 p. 60)
4.5. presupposti e fondamenti di una sociologia fenomenologica, presentati da alcuni studiosi
contemporanei.
4.5.1. “il tramonto del sociale”: Alain Touraine. Dalla descrizione del “tramonto del sociale”, della
sua frammentazione teorizzato e descritto da Touraine sulla base sia della complessità crescente del
mondo contemporaneo sia dalla rilevanza sempre maggiore che deve essere riservata alle richieste
in crescita di rispetto dei diritti individuali fondamentali, economici, sociali e culturali, la sociologia
si deve fare nuovamente descrittiva. Il suo ruolo non è certo più quello, che Comte le riservava, di
costituire la base per il governo politico a partire da una visione storica di insieme e progressiva.
«Il denominatore comune di tutte le attuali scuole di sociologia consiste nel partire dall’attore
sociale per ricomporre, studiandone attese e interazioni, il campo sociale in cui agisce. Questo
rovesciamento di prospettiva si è verificato in pochi anni e in modo spettacolare. […] Bisogna
essere totalmente ciechi per definire ancora la nostra società come, prima di tutto, un sistema di
riproduzione delle disuguaglianze e dei privilegi. Non che questa idea sia priva di fondamento; al
contrario, essa si fonda su osservazioni ripetute, in particolare negli studi sul reclutamento delle
élite. Ma come si può attribuire un’importanza centrale a questi meccanismi di controllo, quando, in
tutti i campi, dalla frequentazione delle scuole a quella dei musei, dall’uso della fotografia alla
mobilità geografica, ciò che colpisce in questa società in cui le forme di partecipazione sono diffuse
è la diversificazione dei percorsi e delle innovazioni, l’apertura al mondo internazionale e alle
nuove tecnologie di comunicazione? I discorsi sul determinismo sociale e sul controllo sempre più
elaborato che eserciterebbero le autorità sui cittadini diventati semplici consumatori non hanno
molto senso se rapportati a società frammentate, in costante mutamento e attraversate dai lampi
della guerra. […] I politici devono capire i cambiamenti che stanno avvenendo, pur astenendosi dal
cercare di dirigerli» (Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere
il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008, p. 112, 113, 270)
4.5.2. teorie sociali come modelli di relazioni possibili: Pierre Bourdieu. In questi termini
Bourdieu illustra la specificità del metodo delle scienze storico sociali (come merito da riconoscere
allo strutturalismo): «introdurre nelle scienze sociali il metodo strutturale o, più semplicemente, il
modo di pensare relazionale che, rompendo con il modo di pensare sostanzialista, conduce a
caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un sistema, dal quale
deriva il suo senso e la sua funzione.» Bourdieu Pierre 1980 Il senso pratico, Armando, Roma
2005 (il metodo proposto da Bourdieu viene ripreso nella sua definizione pratica complessiva nel
capitolo “L’oggettività del soggettivo” dell’opera: Il senso pratico, ed. Armando, Roma 2005, pp.
210-221, pagine da cui sono tratte le citazioni di seguito).
4.5.2.1. il rischio del sostanzialismo e delle teorie sistematiche: «Passare dalla regolarità, cioè da ciò
che si produce con una certa frequenza statisticamente misurabile e dalla formula che permette di
spiegarla, al regolamento consapevolmente emanato e consapevolmente rispettato o alla regolazione
inconscia di una misteriosa meccanica cerebrale o sociale, sono le due maniere più comuni di
scivolare dal modello della realtà alla realtà del modello. […] ci si dà l’apparenza di rendere ragione
della condotta razionale, di spiegarla, con grande uso di modelli formali, mentre, non riconoscendo
altro modo di fondarla in ragione se non darle la ragione per fondamento, non si fa che introdurre, a
titolo di “vis dormitiva”, quell’essere di ragione, quel dover essere, che è un agente di cui tutte le
pratiche avrebbero la ragione per principio.»
4.5.2.2. il rimedio: «lo schema e tutte le opposizioni, le equivalenze e le analogie che esso mostra in
un colpo d’occhio valgono solo finché vengono considerati per ciò che sono: dei modelli logici che
spiegano nel modo più coerente ed economico il maggior numero possibile di fatti osservati. E che
questi diventano falsi e pericoloso non appena li si tratta come principi reali delle pratiche, il che
equivale, inseparabilmente, a sopravvalutare la logica delle pratiche e a lasciarsene sfuggire il
principio reale.»
4.5.2.3. in conclusione: le regolarità sono habitus e non leggi della società e, tanto meno, della storia
o dell’umanità; il corpo e i comportamenti (abitudinari, inconsapevoli e acritici) di cui è espressione
sono la loro sede; la logica di orientamento nel sociale è dunque data dal “senso pratico”;
l’osservazione e lo studio sociologico sono di conseguenza fenomenologia descrittiva. Alcune
citazioni sul tema.
«Storia incorporata, fatta natura, e perciò dimenticata in quanto tale, l’habitus è la presenza agente
di tutto il passato di cui è il prodotto; pertanto, esso è ciò che conferisce alle pratiche la loro
indipendenza relativa rispetto alle determinazioni esterne del presente immediato. […]
L’omogeneizzazione oggettiva degli habitus di gruppo e di classe risultante dall’omogeneità delle
condizioni di esistenza è ciò che permette alle pratiche di accordarsi oggettivamente al di fuori di
ogni calcolo strategico e di ogni riferimento cosciente a una norma, e di adattarsi reciprocamente in
assenza di ogni interazione diretta, e, a fortiori di ogni concertazione esplicita. […] Il senso pratico,
necessità sociale divenuta natura, convertita in schemi motori e in automatismi corporei, è ciò che
fa sì che le pratiche, in e tramite ciò che in esse resta oscuro agli occhi dei loro produttori e che
tradisce i principi trans-soggettivi della loro produzione, siano sensate, cioè abitate da un senso
comune. E’ perché gli agenti non sanno mai completamente ciò che fanno che ciò che fanno ha più
senso di quanto essi sappiano. […] E non si finirebbe più di enumerare i valori fatti corpo, tramite la
transustanziazione operata dalla persuasione clandestina di una pedagogia implicita, capace di
inculcare tutta una cosmologia, un’etica, una metafisica, una politica, attraverso ingiunzioni tanto
insignificanti come “stai diritto” o “non tenere il coltello nella mano sinistra”, e di iscrivere nei
dettagli apparentemente più insignificanti della condotta, del contegno e delle maniere corporee e
verbali i principi fondamentali dell’arbitrio culturale, posti così fuori dalla presa della coscienza e
dell’esplicitazione. […] L’astuzia della ragione pedagogica risiede appunto nell’estorcere
l’essenziale con l’apparenza di esigere l’insignificante, come il rispetto delle forme e le forme di
rispetto che costituiscono la manifestazione più visibile e allo stesso tempo più “naturale” della
sottomissione all’ordine stabilito, o le concessioni della cortesia, che racchiudono sempre delle
concessioni politiche. […] La logica pratica, che ha per principio un sistema di schemi generatori e
organizzatori oggettivamente coerenti, funzionante allo stato pratico come un principio di selezione
spesso impreciso ma sistematico, non ha né il rigore né la costanza che caratterizzano la logica
logica, capace di dedurre l’azione razionale dai principi espliciti ed esplicitamente controllati e
sistematizzati da un’assiomatica» Bourdieu Pierre 1980 Il senso pratico, Armando, Roma 2005
4.5.3. Gli stessi concetti di valore sono collocati nella corporeità e in situazione percettiva
abitudinaria (habitus). La fenomenologia sociologica evidenzia il radicarsi dei concetti morali,
politici e di orientamento nel sociale, in termini di riconoscimento e di giudizio, nei processi
percettivi e dunque nell’immediato e spontaneo orientamento quotidiano. Su questo tema prende
posizione e analisi Nussbaum C. Martha, soprattutto nell’opera citata Il giudizio del poeta.
Immaginazione letteraria e vita civile, Feltrinelli, Milano
4.5.3.1. lo evidenzia il genere romanzo: «Il romanzo, più di molti altri generi narrativi, tende a
mostrare la ricchezza del mondo interiore e il significato morale del fatto di seguire una vita
attraverso tutte le sue vicissitudini in ogni suo contesto concreto. […] caratteristica distintiva del
genere: il suo interesse, cioè, per ciò che è comune, per ciò che appartiene alle vite e alla battaglie
quotidiane di uomini e donne comuni.» (Nussbaum o.c. p. 52)
4.5.3.2. fino a determinare il formarsi di una esperienza morale di carattere percettivo. «Ciò
significa che il lettore possiede già l’esperienza morale che Louisa sembra possedere quando si reca
nell’abitazione di Stephen Blackpool e viene bruscamente distolta da ogni calcolo dalla percezione
che una “mano” ha un nome, un volto, una vita quotidiana, un’anima complessa, una storia…»
(Nussbaum o.c. p. 52)
Vale allora il procedimento condotto in direzione contraria a quella che intende partire da
presupposti, principi, leggi: l’attenzione descrittiva al comportamento, agli atti, ai segni della
corporeità (come atteggiamenti e anche impressi nel corpo e diventati posture spontanee, gesti
familiari, espressioni e rughe…) è prassi sociologica in cui la società si descrive come società.
4.5.3.2.1. Gesti, nella forma di habitus universali, condivisi e trasformati in nuova (seconda?)
natura, diventano contesto di scoperta e ricostruzione narrativa delle individualità sociali nella
narrativa contemporanea. Un testo di riferimento: Milan Kundera, L’immortalità, Adelphi, Milano
2002 «Se dal momento in cui è apparso sul globo terrestre il primo uomo sono passati sulla terra
circa 80 miliardi di esseri umani, è difficile supporre che ognuno di loro abbia il proprio repertorio
di gesti. E’ aritmeticamente impossibile. Senza il minimo dubbio, al mondo ci sono molti meno
gesti che individui. Questa constatazione ci porta a una conclusione scioccante: il gesto è più
individuale dell’individuo. Potremmo metterla in forma di proverbio: molta la gente, pochi i gesti.
… Non si può infatti considerare il gesto come un’espressione dell’individuo, come una sua
creazione (perché nessun uomo è in grado di creare un gesto del tutto originale e che appartenga a
lui soltanto), e nemmeno come un suo strumento; al contrario, sono piuttosto i gesti che ci usano
come i loro strumenti, i loro portatori, le loro incarnazioni».
4.5.3.2.2. Esperienza percettiva morale nella fenomenologia della mano come, ad esempio, in Anna
Marchesini 2011 Il terrazzino dei gerani timidi (qui 10 tipologie di mani delle suore)]
4.5.4. Da queste consapevolezza partono (se si vogliono fare diramazioni per un primo
orientamento) due direzioni: 1. la ripresa della osservazione critica della società, progetto della
Scuola di Francoforte, da condurre però su base fenomenologica descrittiva, senza le implicite (i
presupposti come vincoli) di metodo lì operanti (Hegel, Marx, Freud) e con lo stesso costante e
determinato intento di individuare e quindi avviare lo smantellamento di negazioni, oppressioni,
sistemi di controllo, segregazione e punizione che sorreggono il presente sociale e la “civiltà” cui
siamo legati; si tratta degli studi di Michel Foucault. 2. la ripresa delle intenzioni e, parzialmente,
del metodo della antropologia strutturale comparata per lo sviluppo orizzontale di una minuziosa
osservazione e descrizione dell’immenso mondo delle azioni, riti, simboli, segni del vivere sociale
quotidiano, mondo di gesti e rappresentazioni base reale per la costruzione di soggettività; si tratta,
in altri termini, di una analisi dei ruoli e delle gerarchie sociali, delle dinamiche complesse di
conservazione e di (difficile) mutamento delle funzioni, degli ordini e delle classi sociali a partire
dalla ritualità condivisa e acritica di simboli, gesti e parole della vita quotidiana e dei luoghi come
scena, rappresentazione e costruzione: si tratta in particolare, degli studi di Erving Goffman,
Marc Augé, Bruno Latour …
5. Foucault: chiarificare (portare a chiarezza): una teoria critica a partire da una
prospettiva fenomenologica. [si rimanda ad un intervento riservato all’autore]
Come ad operare una sintesi (e si tratta di un evento storiografico, non di un proposito intenzionale)
tra la teoria critica del sociale (come impostata dalla Scuola di Francoforte) e il metodo descrittivo
fenomenologico (della più recente produzione sociologica) si collocano le opere di Michel
Foucault.
5.1. Il metodo è presentato in modo esplicito nelle conferenze che hanno come tema l’arte politica
del governare, in presentazione della biopolitica. «Questo comporta immediatamente una scelta di
metodo, su cui mi riprometto di tornare più diffusamente in seguito; mi preme, tuttavia, chiarire sin
d’ora che la scelta di parlare della pratica di governo, o a partire da questa pratica, è un modo molto
esplicito di non considerare come oggetto primario, originario, già dato, un certo numero di nozioni
come, ad esempio, quelle di sovrano, sovranità, popolo, sudditi, stato, società civile: vale a dire tutti
quegli universali che l’analisi sociologica utilizza, al pari dell’analisi storica e dell’analisi condotta
dalla filosofia politica, per rendere conto della pratica di governo nel concreto. Da parte mia, vorrei
fare esattamente l’inverso, e assumere come punto di partenza tale pratica per come si dà, ma anche
per come riflette su se stessa e cerca di darsi una certa razionalità, per vedere in che modo, da un
certo momento in poi, alcune cose, sul cui statuto dovremo interrogarci, possono effettivamente
costituirsi: lo stato e la società, il sovrano e i sudditi ecc. In altri termini, anziché partire dagli
universali per dedurre alcuni fenomeni concreti, o partire dagli universali come griglia di
intelligibilità obbligatoria per un certo numero di pratiche concrete, vorrei partire dalle pratiche
concrete e, per così dire, far passare gli universali attraverso la griglia di queste pratiche. Si tratta,
insomma, di evitare quella che potremmo chiamare una riduzione storicistica, che consiste nel
partire dagli universali, così come sono dati, per vedere poi in che modo la storia li modula, li
modifica, o stabilisce infine che non hanno alcuna validità. Lo storicismo parte dall’universale e lo
sottopone, in un certo senso, al vaglio della storia. Il mio problema è del tutto opposto. Io parto da
una decisione, al tempo stesso teorica e metodologica, che consiste nel dire: supponiamo che gli
universali non esistano; da qui in poi, sottopongo la questione alla storia e agli storici, a cui chiedo:
è possibile scrivere la storia senza ammettere a priori che esistano cose quali lo stato, la società, il
sovrano, i sudditi?» Foucault Michel 2004 Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France
(1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005 14-15
5.2. I campi all’interno dei quali la metodologia critico-descrittiva viene applicata, e trova sia il
proprio affinamento di metodo sia la sua efficacia euristica, vengono esplicitamente richiamati da
Foucault e rimandano a studi specifici ormai considerati dei pilastri fondamentali per l’indagine,
l’interpretazione e le scelte gestionali del settore. Si tratta di settori essenziali e rilevanti del vivere
sociale ma la cui indagine e teoria si è sempre configurata come area di saperi minori. Il tema della
follia, della sessualità, del sistema penale e della biopolitica come arte di governo. Osserva in
proposito Aldo Bonomi: «Ho citato non a caso i saperi minori, perché è attraverso questi giacimenti
misconosciuti di conoscenza ed esperienza che ho imparato, da uno che ci manca molto come
Michel Foucault, a ricostruire la microfisica dei poteri attraverso i quali leggere i grandi
cambiamenti della nostra epoca.» (Bonomi, 2010, 18) Si veda ad esempio in Sorvegliare e punire
(pp. 166-167) come dal presentat arm dei soldati Foucault ricostruisca l’universo disciplinare e
gerarchico di una società militare e, di riflesso, della società in generale.
«È la stessa domanda che ho sollevato a proposito della follia. La domanda in quel caso non è:
esiste la follia?, per esaminare poi la storia cercando di vedere se essa ci rinvia o ci restituisce
qualcosa come la follia, e una volta constatato che la storia non mi restituisce nulla di simile alla
follia, concludere allora che la follia non esiste. In effetti, non era questo il ragionamento, né il
metodo. Il metodo consisteva piuttosto nel dire: supponiamo che la follia non esista. Ammesso
questo, quale storia si può fare dei diversi eventi e delle diverse pratiche che, almeno in apparenza,
hanno a che fare con quel qualcosa che si suppone essere la follia? Dunque, quello che vorrei
mettere in atto, qui, è l’esatto contrario dello storicismo: non interrogare gli universali, utilizzando
come metodo critico la storia, bensì partire dalla decisione che afferma l’inesistenza degli universali
per cercare di stabilire quale storia si può fare.» (Foucault 2004, 14-15)
Partire dagli universali e cercarne la presenza e la conferma nel tempo, il loro mutamento di forme,
è restare fermi, usare la storia selezionandola e riducendola a conferma dei concetti attuali noti,
dominanti e condivisi, negare la ricerca e ritrarsi di fronte alla complessità dei dati. È come fare la
storia delle streghe e della stregoneria pensando di trovarsi di fronte a soggetti/oggetti reali e
ignorando il tema del perché sono state inventate streghe e stregoneria (lo stesso modulo si applica
alla razza, agli ebrei, alla storia delle religioni e Foucault lo ha applicato alla storia della follia, del
sistema penale, della sessualità e qui dello Stato). [La situazione del metodo è presa in analisi
filosoficamente nelle sue potenzialità discorsive da Foucault in L’ordine del discorso]
6. Goffman, Augé, Latour …collegare: il peso, la responsabilità e l’apporto della
antropologia “di ritorno dai tropici”
Secondo Erving Goffman la relazione sociale ha un ruolo costitutivo essenziale, egli «non afferma
semplicemente che l’identità è fortemente influenzata dai rapporti sociali con gli “altri
significativi”. Sostiene qualcosa di molto più radicale: il self è creato mediante il rituale
virtualmente dal niente. I rituali dell’interazione non delimitano un’arena in cui identità pre-esistenti
giostrano tra loro cercando di definire se stesse e la situazione, ma sono piuttosto gli strumenti con
cui queste identità sono costruite localmente.» (Bourdieu Pierre 1980 Il senso pratico, Armando,
Roma 2005). «Un’istituzione sociale è un luogo circondato da barriere permanenti tali da ostacolare
la percezione, entro il quale si svolge regolarmente un certo tipo di attività. Ho detto che ogni
istituzione sociale può essere utilmente studiata dal punto di vista del controllo delle impressioni.
Entro le mura di un’istituzione troviamo un’équipe di attori che cooperano per presentare al
pubblico una certa definizione della situazione. Questo comporta la concezione della propria équipe
e del pubblico e postula un ethos che deve essere mantenuto per mezzo di norme di educazione e
decoro». In opere come La vita quotidiana come rappresentazione (ed. il Mulino, Bologna 1969), e
Relazioni in pubblico, (Raffaello Cortina Editore, Milano 2008) Erving Goffman adotta e realizza
un metodo da “fenomenologia descrittiva” ed insieme “critica” rivolto al mondo quotidiano delle
relazioni sociali così come l’antropologia (l’etnometodologia) ha operato sotto la spinta
dell’incontro con la varietà delle civiltà e dei costumi.
6.01. in presentazione sommaria e preliminare: l’etnometodologia: «l’etnometodologia è una
sociologia di tipo fenomenologico che procede all’investigazione empirica dei metodi, delle
competenze e delle pratiche, assunte tacitamente, con cui i membri di una società portano avanti le
attività sociali. Per l’etnometodologia, la sociologia convenzionale ha il grosso limite di dare per
scontate l’esistenza e la riconoscibilità dei fenomeni che cerca di spiegare» e tende a presentare
come “rispecchiamento del reale” quello che appare più un “atto interpretativo”. Caniglia Enrico
2009 La notizia. Come si racconta il mondo in cui viviamo, Laterza, Roma-Bari, p. VIII
6.02. Le caratteristiche e le radici dell’antropologia sociale culturale comparata si collocano nelle
prassi colonialistiche tra ‘800 e ‘900 e, soprattutto, nella loro radicale revisione critica. I principali
capi di accusa e le colpe di metodo: l’etnocentrismo colonialista europeo, la visione progressiva
(positivista) della storia, il privilegio riservato alla ragione logica. L’obiettivo dell’antropologia: nei
simboli, nei segni, nelle tradizioni, nei riti … va collocata la ricerca delle costanti strutturali di tutte
le culture, operanti nelle relazioni che intercorrono tra le variabili sociali; strutture costanti come
relazioni operanti nelle differenze che caratterizzano culturalmente i diversi popoli. L’antropologia
sociale si configura così come una scienza generale dei segni o semiologia. È in questa accezione
che si svolgono, in particolare, la lunga ricerca e le molte pubblicazioni di Claude Lévy-Strauss
(1908-2009).
6.03. seguendo la logica e utilizzando l’efficacia della comparazione, il metodo della antropologia
culturale diventa osservatorio delle civiltà contemporanee. L’antropologia avviata
colonialisticamente per la costruzione dei concetti di “selvaggio”, “civiltà primitive”, “terzo
mondo” e di altri concetti funzionali a giustificare l’aggressione colonialistica, diventa una nuova
sociologia di scoperta e di proposta culturale e politica applicata a quel centro del mondo (il “primo
mondo”) che l’aveva formulata per sostenere e documentare la propria superiorità; ora diventa il
contesto a cui vengono applicati temi (oggetto e titolo delle opere di Claude Lévy-Strauss) come Il
totemismo oggi (1962), Il pensiero selvaggio (1962), Il crudo e il cotto (1964), L’origine delle
buone maniere a tavola (1968), L’uomo nudo (1971), La via delle maschere (1975).
6.1. il quadro: L’antropologia ritorna dai tropici. Rappresentazione di un ritorno in atti distinti
ma in sequenza a volte in sovrapposizione. Dallo studio di Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati
moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995; con riferimento (citazioni
in critica e ripresa) agli studi di Marc Augé.
6.1.1. atto primo. «Quando l’antropologia ritorna dai tropici per ricongiungersi a quella del mondo
moderno che la sta aspettando, lo fa in un primo tempo con circospezione, per non dire con
titubanza. Prima di tutto non crede che le sia possibile applicare i suoi metodi se non quando gli
Occidentali confondono segni e cose proprio come nel pensiero selvaggio. Cercherà dunque quello
che più assomiglia al suo terreno tradizionale, come l’aveva definito la Grande Divisione esterna
[Natura – Società, Natura – Cultura, Noi – Loro]. È vero che deve sacrificare l’esotismo, ma il
prezzo da pagare è accettabile, perché essa conserva la sua distanza critica, studiando solo i margini,
le fratture, quello che sta oltre la razionalità. La medicina popolare, la stregoneria nel nord-ovest
francese [Favret-Saada, 1977], la vita contadina all’ombra delle centrali nucleari [Zonabend, 1959],
le maniere dei salotti aristocratici [Le Witta, 19881, tutti questi terreni si prestano bene a ricerche,
d’altronde eccellenti, perché la questione della natura ancora non si pone.» (Latour 1991, 123)
6.1.2. atto secondo. «Però, il rimpatrio dell’antropologia non può fermarsi qui. In effetti, fatto il
sacrificio dell’esotismo, l’etnologo ha perso quello che rendeva originali le sue ricerche rispetto a
quelle disperse dei sociologi, degli economisti, degli psicologi sociali e degli storici. Sotto il sole
dei tropici l’antropologo non si accontenterebbe di studiare i margini delle altre culture. Anche se
resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostituire, il
sistema di credenze, le tecnologie, le etnoscienze, i giochi di potere, le economie, insomma la
totalità della loro esistenza. Se ritorna al suo Paese e si accontenta di studiare gli aspetti marginali
della sua cultura, finisce col perdere tutti i vantaggi dell’antropologia, tanto faticosamente
conquistati. Come fa, per esempio, Marc Augé, che tra le popolazioni lagunari della Costa d’Avorio
ha cercato di comprendere la stregoneria come fatto sociale totale [Augé, 1975], ma, ritornato in
Francia, si è limitato a studiare gli aspetti più superficiali della metropolitana [Augé, 1986] o dei
giardini del Lussemburgo [Augé, 1981]. Un Marc Augé simmetrico studierebbe non solo qualche
graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri
e conducenti, i suoi dirigenti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discorrendo. Molto
semplicemente, continuerebbe a fare nel suo Paese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando,
gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia, altrimenti, restando asimmetrici,
dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei propri confronti.
Solo che, per acquistare questa libertà di movimento e di tono, bisogna saper guardare con gli stessi
occhi entrambe le Grandi Divisioni [Natura Società, Noi Loro] e considerarle tutte e due come una
definizione particolare del nostro mondo e dei suoi rapporti con gli altri. Ora, queste Divisioni non
definiscono noi meglio degli altri: non sono strumenti di conoscenza più di quanto lo siano la
Costituzione da sola o la temporalità moderna da sola (come abbiamo visto prima). Bisognerà
aggirarle insieme, non credendo né alla distinzione radicale tra umani e non umani da noi, né alla
totale sovrapposizione dei saperi e delle società tra gli altri. » (Latour 1991, 123-124)
6.1.3. atto terzo. «Immaginiamoci un’antropologia che vada verso i tropici esportando la Grande
Divisione interna. Ai suoi occhi il popolo che essa desidera studiare confonde continuamente la
conoscenza del mondo (che da buon Occidentale il ricercatore possiede per scienza infusa) e le
esigenze del funzionamento sociale. La tribù che l’ospita non ha così che un’unica visione del
mondo, una sola rappresentazione della natura. Per riprendere la celebre espressione di Mauss e
Durkheim, questa tribù proietta sulla natura le sue categorie sociali [Durkheim, 1903]. Quando
l’etnologo spiega ai suoi informatori che dovrebbero separare con più attenzione il mondo com’è
dalla rappresentazione sociale che gli attribuiscono, questi si scandalizzano o non lo capiscono.
L’etnologo vede in questo furore o in questo malinteso la prova della loro ossessione premoderna. Il
dualismo in cui vive (gli umani da un lato e i non umani dall’altro, i segni da una parte e le cose
dall’altra) risulta intollerabile per loro. Per ragioni sociali, conclude il nostro etnologo, questa
cultura ha bisogno di un atteggiamento monista.» (Latour 1991, 124-125)
6.1.4. atto quarto. «Ma supponiamo adesso che il nostro etnologo ritorni al suo Paese, tentando di
cancellare la Grande Divisione interna. Supponiamo anche che, in seguito a un fortunato accidente,
cominci ad analizzare una tribù presa a caso, per esempio quella dei ricercatori scientifici o dei
tecnici. La situazione si trova rovesciata, perché adesso applica le lezioni di monismo apprese nella
spedizione precedente. La sua tribù di scienziati sostiene in fin dei conti di saper separare bene la
conoscenza del mondo dalle esigenze della politica o della morale [Traweek, 1988]. Invece, agli
occhi dell’osservatore, questa separazione non è mai ben visibile o non è che un sottoprodotto di
un’attività molto più confusa, un bricolage di laboratorio. I suoi informatori sostengono di avere
accesso alla natura, ma l’etnologo vede bene che hanno accesso solo a una visione, a una
rappresentazione della natura [Pickering, 1980]. Questa tribù, come la precedente, proietta sulla
natura le sue categorie sociali, ma, e qui sta la novità, pretende di non averlo fatto. Quando
l’etnologo spiega ai suoi informatori che non possono separare la natura e la rappresentazione
sociale che ne fanno, essi si scandalizzano o non lo capiscono. Il nostro etnologo vede giustamente
in questo furore e in questa incomprensione la prova della loro ossessione moderna. Il monismo in
cui vive (gli umani sono sempre mescolati ai non umani) risulta loro intollerabile. Per ragioni
sociali, conclude il nostro etnologo, hanno bisogno di un atteggiamento dualista.
Eppure, entrambe le conclusioni sono inesatte, perché non ha saputo ascoltare bene i suoi
informatori. Lo scopo dell’antropologo non è quello di provocare due volte scandalo o di creare due
volte un equivoco. La prima volta esportando la Grande Divisione interna e imponendo il dualismo
a culture che lo rifiuterebbero, la seconda annullando la Divisione esterna e imponendo il monismo
a una cultura, la nostra, che lo respingerebbe recisamente. L’antropologo scavalca del tutto il
problema e trasforma le due Grandi Divisioni non in ciò che descrive la realtà (la nostra come
quella degli altri), ma in ciò che definisce il modo particolare che hanno gli Occidentali di stabilire
le proprie relazioni con gli altri. Questo modo particolare è possibile delinearlo oggi, perché lo
sviluppo stesso delle scienze e delle tecniche ci impedisce di essere del tutto moderni. A
condizione, però, di immaginare un’antropologia un po’ diversa.» (Latour 1991, 125-126)
La cultura antica non priverebbe mai una fonte della sua ninfa, i moderni non toglierebbero mai al
mondo le sue regolarità e leggi, noi non priveremmo una persona della sua anima, una volpe della
sua furbizia, una bandiera, un totem, un particolare oggetto… del loro valore simbolico relazionale
sociale …prolungato nel tempo; ma anche “scientificamente” la divisione rischia di essere
paradossale: separiamo natura e società, natura e cultura proprio quando è sempre più ampia e
invasiva la presa della cultura, della scienza e della tecnica sulla natura o quando la natura è sempre
meno natura in sé. Parlare di conoscenza scientifica o etichettare la nostra conoscenza come
scientifica ha l’effetto di rendere natura (assoluta, in sé) la nostra costruzione culturale della natura;
costruzione nostra dall’inizio (per selezione dei dati considerati tali, scientifici o utili) alla fine (per
costruzione di sistemi teorici organici, dimostrati, pervasi da necessità logico dimostrativa e quindi
naturale reale). L’antropologia culturale, l’etnoantropologia, così come l’osservazione sociologica
che contribuisce ad alimentare mostrano la difficile osservanza, nel quotidiano, delle divisioni
rigide che sembrano definire l’età moderna: Natura e Cultura, Civili e Barbari… Se “moderno” è
conservare e muoversi nella divisione, in realtà (e per fortuna, ma comunque, come dato di fatto)
«non siamo mai stati moderni».
7. Halbwachs – Goffman - Margalit: costruire (potere e azione costituente): una
analisi identificatrice e costituente: questo il senso complessivo del cammino tra le
sociologie a confronto.
Sarà irenistico ma non scorretto e non fuori luogo individuare delle costanti strutturali all’interno
delle diverse (talora opposte) metodologie dell’indagine sociologica. Almeno una si impone
(sembra): si tratta di una analisi costituente. Talora fortemente critica e tesa a smontare meccanismi
consolidati di aggregazione sociale, ogni analisi di fatto è sorretta dall’obiettivo di liberare risorse,
dar voce a possibilità, togliere vincoli e creare le basi per un agire sociale costituente, tanto più
libero quanto meno incline alla facile tentazione di indicare precisi obiettivi e fini (ciò che
equivarrebbe a imporre i propri o quelli che si considerano propri, quelli vincenti al momento).
In questa direzione si muovono la sociologia della frame analysis (Halbwachs, Goffman) e la
riflessione sociologica sulla memoria e, in particolare, sulla memoria collettiva (Halbwachs,
Margalit); temi e metodi tra loro fortemente collegati come si può comprendere subito dalle
seguenti opere di riferimento: Doni Martino, Migliorati Lorenzo (a cura di) 2010 La forza sociale
della memoria. Esperienza, cultura, conflitti, Carocci, Roma (qui i saggi La memoria (culturale)
delle cose: oggetti di consumo e contronarrazioni identitarie di Roberta Bartoletti; Dalla metafora
all’esperienza della memoria: l’uso politico del passato di Lorenzo Migliorati); alcuni autori
(classici del ‘900) di riferimento: Halbwachs Maurice 1925 I quadri sociali della memoria,
Ipermedium, Napoli-Los Angeles 1997; Halbwachs Maurice 1968 La memoria collettiva, edizione
Unicopli, Milano 1987; Goffman Ervin 1974 Frame Analysis. An Essay on the Organization of the
Experience, Harvard University Press, Cambridge (MA); (e Straniero Giovanni 2004 Faccia a
faccia. Interazione sociale e osservazione partecipante nell’opera di Erving Goffman, ed. Bollati
Boringhieri, Torino); Margalit Avishai 2004 L’etica della memoria, il Mulino, Bologna 2006;
Margalit Avishai 2010 Sporchi compromessi, il Mulino, Bologna 2011
7.1. la frame analysis.
7.1.1. presentazione del concetto di frame e di frame analysis. Vanno specificati in particolare il
concetto e la funzione del termine frame così come viene introdotto e utilizzato nelle scienze sociali
e in particolare (poi) nel campo della comunicazione politica; un’introduzione che ha bisogno di
richiamare il rilievo attribuito alle emozioni (Nussbaum) nella formazione del consenso fiduciario
(Luhmann) e della partecipazione nel campo del consenso in generale e della politica (nel marketing
politico) nello specifico.
Una definizione (definizioni in sequenza). Analisi delle forme, delle cornici e dei contesti abituali di
riferimento e di comprensione che definiscono / costituiscono la fisionomia politica e culturale
(morale, religiosa, consuetudinaria) delle realtà sociali e decidono delle conseguenti relazioni
interne, delle scelte, dei giudizi, delle appartenenze e dei progetti politico/sociali a partire dalla
costruzione e gestione della memoria cui si affida la consapevolezza e l’immagine di sé; «… in altre
parole, il frame o contesto migliore» (Cacciotto Marco 2011 Marketing politico. Come vincere le
elezioni e governare, il Mulino, Bologna, 142). La lettura, la comprensione, la conoscenza della
realtà e ciò che segue in termini di decisione e fedeltà sono processi legati al contesto in cui gli
eventi si collocano e trovano interpretazione, la comunicazione politica ha successo in quanto coglie
(per sé) il “contesto migliore”, il frame.
Il concetto di frame, in sintesi ulteriore: Frame: cornice antro la quale si tende immediatamente,
spontaneamente, per abitudine o/e pregiudizio a collocare una realtà, un fatto, un partito, una scelta
politica, una proposta (per esempio, parlare di tassazione delle rendite finanziarie, senza specificare
bene a quali titoli e a quali livelli, ha portato a collocare la situazione e il progetto in un contesto /
cornice di immediata e facile lettura e giudizio; si può ricordare lo slogan «Unione = partito delle
tasse», nella campagna elettorale del 2006, Cacciotto 2011, 93)
Osserva Filippo Ceccarelli: «Nella cornice post-moderna la cornice, altrimenti detta frame, è
quell’insieme di premesse simboliche e cognitive entro cui si svolge l’azione. Come dire che è la
cosa più importante: ciò che è dentro è dentro, quanto resta fuori non esiste proprio.» (La
Repubblica, il Venerdì 1208(11 maggio 2011)15.
O, ancora in definizione del termine, della funzione e dell’esito: «I frames, infatti, definiscono i
problemi, ne individuano le cause, propongono giudizi morali e suggeriscono soluzioni [Entman
1993, 52]. La cura del framing di una campagna diventa un elemento fondamentale per la sua
efficacia: a seconda di come viene presentata la posta in gioco, gli atteggiamenti dell’elettorato
possono modificarsi anche in tempi piuttosto brevi [Vaccari 2007]. (Cacciotto 2011, 160)
7.1.1.1. «Framing e contestualizzazione. La capacità di suscitare emozioni è legata all’uso di
immagini, suoni e parole. Queste ultime hanno la funzione di evocare dei frames, dei quadri di
riferimento che permettono di richiamare immagini, mappe mentali e conoscenze di altro tipo. Le
metafore utilizzate nel discorso politico fissano il modo in cui gli elettori inquadrano le questioni
politiche, e svolgono un ruolo importante nella formazione dei sentimenti riguardanti partiti ed
esponenti politici.» (Cacciotto 2011, 142)
«Ogni parola si definisce in relazione a un frame e anche quando un concetto viene negato, non si
può fare a meno di evocare tale frame [Lakoff 2004; trad. it. 2006, 17]: «Durante lo scandalo
Watergate, quando c’erano forti pressioni perché si dimettesse, Nixon parlò al paese in televisione.
Si presentò davanti alla nazione e disse: «Non sono un imbroglione». E tutti pensarono che era un
imbroglione.»
Luntz preferisce usare il termine context al posto di frame: «senza il contesto, non si possono
stabilire il valore, l’impatto e, ancor più importante, la pertinenza di un messaggio» [2007, 26].
Questo poiché le affermazioni non hanno importanza e significato se non collegate a un problema
ben identificato, a un desiderio specifico. Esempi di slogan che hanno colto appieno il contesto (lo
spirito del momento) sono It’s morning again in America della campagna di Ronald Reagan nel
1984 e It’s the economy, stupid che, anche se non creato per il pubblico, sintetizzava alla perfezione
la direzione che la campagna di Bill Clinton nel 1992 avrebbe dovuto tenere, ed è diventato il
consiglio strategico più citato nei manuali e nei corsi di formazione [Luntz 2007]. Accanto al
contesto, va posta la pertinenza, che è legata alla capacità di parlare alle singole persone, di
catturarne l’attenzione con un messaggio che riguarda direttamente valori, desideri e aspirazioni
personali.» (Cacciotto 2011, 143)
7.1.2. frame analysis e sociologia per l’età contemporanea. (dalla presentazione di Straniero
Giovanni 2004 Faccia a faccia. Interazione sociale e osservazione partecipante nell’opera di
Erving Goffman, ed. Bollati Boringhieri, Torino)
7.1.2.1. tutto è dovuto a come l’etnometodologia ha cambiato la sociologia contemporanea: «In
primo luogo, essa si occupa esclusivamente della sfera della realtà sociale, quale appare ai soggetti
nell’ambito dell’atteggiamento naturale. Quindi il suo oggetto è costituito dalla Lebenswelt, dal
mondo dell’esperienza vissuta, dagli eventi e dalle istituzioni mondane che gli attori, senza esserne
consci, incessantemente propongono e ripropongono. In secondo luogo, e qui la differenza dalla
fenomenologia di Husserl maggiormente pronunciata, gli etnometodologi considerano l’oggettività
e l’intelligibilità di questo mondo non come il prodotto di processi psicologici opachi alla coscienza
ordinaria, ma come il risultato di pratiche sociali messe in atto dai soggetti nella loro vita
quotidiana» (Straniero 2004, p. 46).
7.1.2.2. Un’attenzione alla ritualità quotidiana che richiama contesti e metodi religiosi ma spiega
anche la presa che gli atti quotidiani hanno sulla costruzione e conferma de sé. «La matrice sacrale
delle regole di comportamento che presiedono secondo le tradizioni, ancor prima e ancor più delle
norme giuridiche, alla relazione che si instaura tra le persone, è stata riconosciuta nei suoi tratti
essenziali dalla sociologia anglosassone e in modo specifico dai maestri di Goffman, il quale l’ha
poi posta alla base della sua concezione sociologica. «È nel rituale che si mette in gioco l’individuo,
preoccupato di salvaguardare e se possibile migliorare il trattamento ritualizzato messo in opera da
parte degli altri, che gli compete in base al suo rango sociale e alle sue caratteristiche personali. […]
La natura cerimoniale dell’identità L’individuo, quindi, si trova, nel corso della relazione che si
instaura tra lui e gli altri nel rapporto diretto «faccia a faccia», a dover verificare continuamente se
la sua identità sociale, definita non dai suoi desideri ma dagli elementi strutturali della società, è
rispettata e a lottare per proteggerla.» (Straniero 2004, p.53,54)
7.1.2.3. il discorso si sposta sulla microsociologia: «Goffman non si riferisce più ai grandi rituali
della vita pubblica. Nelle società contemporanee essi sono diventati ormai consunti e poveri di
significato oppure, nel caso dei grandi rituali di massa, hanno assunto una luce leggermente sinistra.
Prende invece in considerazione quei piccoli e apparentemente banali rituali che costellano
l’interazione nella vita quotidiana» (Giglioli 1989 p. 52). L’identità ha così, per Goffman,
un’origine all’interno della prassi cerimoniale, per poi esaurirsi con il venir meno dell’interazione
«faccia a faccia». Nell’interazione successiva si ricomincia da capo.» (Straniero 2004, 55)
7.1.2.4. interazione luogo di “sostanze” variabili. «È l’interazione l’oggetto della sua (Goffman)
analisi, non le entità che la producono, anche se si tratta di un’interazione che viene attuata nel
terreno microsociologico in riferimento a modelli strutturali macrosociologici. Le entità soggettive
risultano quindi evanescenti e comunque prese in considerazione non in se stesse, ma attraverso
l’interazione e lo scenario in cui essa si realizza. Scrive infatti Goffman, sempre nell’introduzione a
Interaction Ritual (1967/1988): «Io parto dal presupposto che l’oggetto dello studio dell’interazione
non debba essere l’individuo e la sua psicologia, ma piuttosto le relazioni sintattiche esistenti fra gli
atti di persone che vengono a trovarsi a contatto diretto» Nel contempo, facendo riferimento alla
teoria dei giochi, introduce anche l’elemento della competizione intrinseca all’interazione.»
(Straniero 2004, p. 61)
7.1.2.4. un sistema definito dalle forme che etichetta come devianti sposta l’attenzione della
sociologia, attenta al microsociologico, sul mondo a margine. «Il concetto di devianza è al centro di
tutta la riflessione di Erving Goffman, in quanto secondo la sua prospettiva l’interazione sociale
«faccia a faccia» si definisce e si sviluppa in relazione all’evento microsociale che mette in
discussione il modello strutturale del comportamento reciproco tra i soggetti. In tal modo, la
devianza coincide con la trasgressione e per così dire si personalizza, nel senso che la motivazione
che induce l’individuo deviante alla trasgressione delle regole a priori istitutive dell’ordine
dell’interazione è quella di non volersi attenere ai comportamenti rituali prescritti dalla
codificazione del suo ruolo in relazione agli altri, ai singoli altri con i quali viene a contatto. In altre
parole egli non rispetta il tipo di «deferenza e di contegno» dovuto nei confronti di altre persone.
Per tale ragione viene classificato come deviante e la prima sanzione che riceve socialmente è
proprio data dalla reazione di chi, vedendo non rispettato il suo rango, nel corso dell’interazione
stessa cerca di ristabilire il rispetto delle regole. […] Convinto in sede epistemologica che «le regole
del traffico pedonale si possono studiare tanto nelle cucine affollate quanto nelle strade affollate»
(p. 7), perché sono sostanzialmente le stesse, in modo dissacratorio considera ambito privilegiato di
ricerca, come microcosmo rappresentativo della dinamica interazionale, non la realtà ufficiale delle
relazioni istituzionali, ma quella sgangherata del mondo degli esclusi, degli emarginati, che è quello
della sotto-cultura di quartiere.» (Straniero 2004, p. 62-63)
7.1.2.5. Frame e mobilità identitaria. «Il self, ancorché normativamente predeterminato a livello
strutturale, si costituisce nel corso dell’interazione «faccia a faccia». E poiché sussiste sempre uno
scarto tra il dover essere e l’essere, nel passaggio dalla potenza all’atto il self che si definisce di
volta in volta non corrisponde mai pienamente a quello puramente astratto che dovrebbe
manifestarsi sulla scena. Non esiste quindi un solo self reale, ma una molteplicità di selves che si
susseguono nelle varie situazioni concrete.» (Straniero 2004, p. 81-82)
«E non basta. Il racconto, il dramma, la pièce insomma che si rappresenta sulla scena non è una
sola, poiché subisce improvvise deviazioni rispetto al frame, alla cornice appunto che fornisce le
coordinate entro le quali parole, azioni, espressioni varie acquistano senso. Il quadro di riferimento
può all’improvviso mutare, dopo di che, normalmente, viene ripristinato. La contesa è quindi
molteplice, si giocano partite, si svolgono contemporaneamente duelli più o meno cavallereschi e
con regole diverse. Le «rotture di frame» diventano in Forms of Talk delle vere e proprie forme di
sostituzione o di footing, in quanto alla rottura segue un cambiamento di posizione. In certi casi,
diventa indispensabile per la comprensione del tipo di comunicazione che sta avvenendo, una
«commutazione di codice», cioè un passaggio da un ordine di significati simbolici a un altro.
Un’operazione che richiede un adattamento indicato da Goffman come keying, passaggio da una
«chiave», cioè tonalità, a un’altra. Perciò i contenuti della comunicazione, le «mosse», acquistano
senso a seconda del sistema di riferimento in cui vengono «incassate». […] Randall Collins (1983)
che ne coglie la grande rilevanza sul piano sociolinguistico generale. «Sviluppato sistematicamente
— osserva — questo modello potrebbe arrivare a coprire una parte rilevante del territorio
sociologico. In effetti, quel che abbiamo di fronte non è che il quadro di una serie di incassature.
C’è il discorso umano, nella sua definizione ristretta utile per un’analisi linguistica formale o
concepito in senso più ampio all’interno di situazioni sociali più vaste. Ma questa situazione sociale
è a sua volta inserita in una situazione etologica, e in una semplicemente fisica […]. Data questa
serie di incassature, la capacità tipicamente umana di ulteriori framings e rotture di frame si
aggiunge al familiare mondo a più livelli in cui viviamo.» (Straniero 2004, pp. 115-124 passim)
7.2. “la forza sociale della memoria”
Autori. «Diversi osservatori hanno rilevato l’analogia tra Les cadres di Halbwachs e la Frame
Analysis di Goffman (Assmann, 1992; Irwin Zarecka, 1994; Pethes, Ruchatz, 2005; Olick, 2007;
Fasulo, Palmese, 2005). Come ha notato Jan Assmann (1992, pp. 11-2), «il concetto dei quadri
sociali [.. .] introdotto da Halbwachs collima in maniera sorprendente con la teoria della frame
analysis elaborata da Goffman, che studia la struttura, ovvero l’“organizzazione” socialmente
predefinita, delle esperienze quotidiane […]. Ciò che intraprende Halbwachs è la frame analysis del
ricordo, in analogia con l’analisi dei quadri dell’esperienza di Goffman.» In linea estremamente
generale possiamo ipotizzare che se il quadro della memoria organizza e conferisce portanza alle
diverse memorie individuali e se il frame costituisce lo strumento concettuale attraverso cui
conferire significato all’esperienza quotidiana, una frame analysis della memoria consente di
organizzare e descrivere alcune strutture di senso dell’esperienza sociale del ricordo.» (Migliorati
2010 in Doni Migliorati p. 127)
7.2.1. l’inscindibile legame memoria – oblio (e i ricordi platonici) [già esposto e proposto in termini
di funzione costituente nella riflessione sul destino e senso del concetto di nazione.]
«Partiamo da una concezione di memoria come struttura selettiva che opera attraverso una duplice
operazione, il ricordo da un lato e l’oblio dall’altro. Entrambe queste operazioni, per quanto
apparentemente contrapposte, costituiscono in realtà i due lati ineliminabili di un unico processo
attraverso il quale vengono costruite la realtà del presente, ma anche l’immagine del passato e le
possibilità del futuro. Ci riferiamo quindi a una concezione costruttivista della memoria, che emerge
dalla convergenza degli studi più avanzati che la riguardano, nel campo delle neuroscienze, della
psicologia e delle stesse discipline sociali e umane che dal radicamento della memoria 112 nei corpi
e nelle menti non possono più prescindere. Assumono così autorevolezza scientifica intuizioni già
rintracciabili negli studi classici sulla memoria, in particolare l’idea che il passato non abbia
un’esistenza oggettiva ma sia il frutto di una continua ricostruzione che avviene nel presente e
risponde a bisogni del presente, che i processi del ricordare e del dimenticare non possano essere
disgiunti dal problema del significato e che processi cognitivi ed emotivi siano indissolubilmente
intrecciati nel funzionamento della mente umana, e quindi anche della memoria (Damasio, 1994).»
(Bartoletti 2010 in Doni Migliorati p. 112- 113)
7.2.1.1. [rileggi, da queste tesi, la teoria platonica delle reminiscenza: conoscenza come
reminiscenza cioè teoria costruttivista della memoria a partire dalle sollecitazioni del presente, e
quest’ultima è la definizione di conoscenza]; la rinascita è ripresa della conoscenza a partire e in
forza di un atto di oblio originario e costituente (mito di Er, Repubblica X)
7.2.2. «Cosa significa ricordare, cosa significa dimenticare in relazione al lavoro della memoria?
L’oblio non può essere liquidato superficialmente come “problema” della memoria, come difetto o
perdita (Connerton, 2008), ma deve essere colto nel suo contributo specifico al lavoro della
memoria, in quanto operazione che libera spazio per aprire alla novità e quindi al cambiamento
connaturato alla vita umana e all’esistenza delle società; l’oblio opera inoltre una continua verifica
di coerenza e consente di armonizzare presente vissuto, passato “ricordato” e futuro immaginato. Il
ricordo si configura invece come ridondanza finalizzata al mantenimento di un senso di continuità
con il passato, fondamentale sia per la costruzione del senso di sé sia per la costruzione delle
identità collettive. La memoria svolge quindi un lavoro essenziale di equilibrio costante e
continuamente ricostruito tra stabilità e mutamento, che è caratteristico sia della vita umana che
dell’esistenza sociale. Gli equilibri tra i due lati del lavoro della memoria, e quindi tra apertura alla
novità e stabilità, sono ovviamente essi stessi soggetti alle contingenze storiche e culturali. La
modernità può essere infatti osservata come epoca che ha visto emergere un nuovo equilibrio della
memoria a favore dell’oblio, come lo stesso Halbwachs (1925) ha osservato in relazione alla
memoria caratteristica delle classi sociali: la predilezione dell’aristocrazia per una memoria
orientata alla profondità, a un ricordo che risalga più possibilmente a ritroso nel tempo per fondare
privilegi nel presente, viene progressivamente spazzata via dal primato di una memoria orientata
all’estensione, che privilegia la molteplicità e la varietà connessi all’apertura al nuovo e quindi
all’oblio. Strumento privilegiato di questo nuovo orientamento all’oblio della società moderna è una
delle sue più potenti creazioni: la merce.» (Bartoletti 2010 in Doni Migliorati p. 113- 114)
7. 3. Dunque: una sintesi. Una frame analysis del ricordo o della sua costruzione. Il legame
frame e memoria diventa qui la frame analysis del ricordo = analisi dei processi costruttivi legati al
ricordo.
7.3.1. il contesto e il problema della “memoria collettiva”: se si parla di memoria collettiva non
come metafora, trasposta nel sociale, di un tratto antropologico individuale ma come processo
effettivo, operante e costituente, allora si pone anche il problema di dove sia il cervello, di chi ne
svolge la funzione (nel sociale); il proposito è cioè parlare di memoria collettiva ma uscendo dalla
metafora e quindi anche individuarne il cervello, il soggetto costituente, fuor di metafora. «Il
problema che si pone è, dunque, quello di “versare” la memoria collettiva nel concreto dell’agire
sociale dei membri delle comunità di memoria. Il punto è trasformare la memoria collettiva da
enigmatica metafora in forma di esperienza sociale.» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 126)
Si tratta allora di affrontare il tema della gestione della memoria, della dialettica memoria/oblio, nei
processi di costruzione sociale e politica dei vari soggetti e della definizione della propria forma o
identità, del proprio ruolo, delle proprie appartenenze, del proprio progetto; perché, anche la
memoria individuale, singolare, è una memoria collettiva, o non può prescinderne: «Ma i nostri
ricordi vivono in noi come ricordi collettivi, e ci sono rammentati dagli altri, anche quando si tratta
di avvenimenti in cui siamo stati coinvolti solo noi, e di oggetti che solo noi abbiamo visto. Il fatto è
che, in realtà, non siamo mai soli. Non è necessario che altri siano presenti, che si distinguano
materialmente da noi: perché ciascuno di noi porta sempre con sé e dentro di sé una quantità di
persone distinte.» Così afferma il testo classico in questa direzione e programmatico di Halbwachs
Maurice 1968 La memoria collettiva, edizione Unicopli, Milano 1987 (introduzione di Paolo
Jedlowski), p.38.
7.3.2. la gestione del passato: forma di conoscenza a disposizione per la definizione di sé. «Il fine
dell’analisi delle forme di organizzazione dell’esperienza è la descrizione «delle strutture basilari
della comprensione disponibili nella nostra società per dare un senso agli eventi» (Goffman, 1974,
p. 53). In riferimento al tema della memoria collettiva e sociale, intesa come forma di esperienza, le
strutture che pare necessario rintracciare sono relative al conferimento di senso e significato
all’esperienza del “ricordare assieme” e alla ri-attualizzazione del passato da parte dei gruppi
sociali. Si tratta di un processo di attribuzione di significato che, in ultima analisi, trasforma il
passato in “passato che dura”, e che si dà sotto forma di conoscenza a disposizione dei membri delle
collettività che fanno memoria degli eventi trascorsi per agire nel concreto del tempo presente.
Possiamo, allora, pensare alcuni aspetti della costruzione delle cornici [frame] sociali di
interpretazione dell’esperienza in relazione all’esperienza sociale del ricordo.» (Migliorati 2010 in
in Doni Migliorati p. 127-8)
7.3.3. il tempo, condizione prima della ricostruzione. «La ricostruzione della memoria è possibile,
anzitutto, in quanto lo scorrere del tempo pone della distanza tra il presente e il passato che i gruppi
ricordano. Soltanto questa distanza consente il dispiegarsi di un’attività interpretativa che attribuisca
significato agli eventi trascorsi. Infatti, come nota Schutz (1979, p. 184), «finché vivo nei miei atti,
diretto verso gli oggetti di questi atti, gli atti stessi non hanno alcun significato. Essi diventano
significativi se li afferro come esperienze ben circoscritte del passato e, pertanto,
retrospettivamente. Solo esperienze che possono essere rievocate al di là della loro attualità e che
possono essere messe in discussione per quanto riguarda la loro costituzione sono, quindi,
soggettivamente significative.»
La struttura più basilare di comprensione dell’esperienza sociale del ricordo consiste, allora, proprio
nell’interpretazione del significato del naturale scorrere del tempo. Si tratta del tema che Paul
Ricoeur definisce nei termini della “presenza dell’assenza” e che costituisce la scaturigine del senso
della memoria stessa: «che cosa ne è dell’enigma di un’immagine [...] che si dà come presenza di
una cosa assente, marchiata con il sigillo dell’antecedenza?» (Ricoeur, 2003, p. 8).» (Migliorati
2010 in Doni Migliorati p. 128)
7.3.4. strutture primarie naturali e strutture primarie sociali (Goffman). «Sulle orme di Goffman è
possibile identificare due ampie classi di strutture primarie che presiedono a questa attività
interpretativa e che consentono di «tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza
significato della situazione, in qualcosa di significativo» (Goffman, 1974, p. 65): le strutture
primarie naturali e le strutture primarie sociali. Le prime identificano gli eventi come puramente
fisici, determinati naturalmente e non guidati da alcuna forza di volontà; le seconde includono,
invece, la volontà, lo scopo e lo sforzo di controllo operato dagli individui sulla realtà. […]
La memoria sociale è un’attività di selezione e i ricordi acquisiscono significato proprio in quanto
ricostruiti a partire dal presente. Come ha notato Elena Esposito (2001, p. 3): «chi ricorda […] non
ha a che fare con il mondo, ma ha a che fare con sé stesso e con le condizioni da cui deriva, e il
ricordo si realizza nel presente, non nel passato».
La struttura primaria sociale di attribuzione di significato al passato riguarda, in definitiva, il
processo culturale di costruzione della memoria, che assume i tratti di quella che Goffman definisce
attività guidata: essa è tale nella misura in cui la ricostruzione del ricordo richiede un continuo
sforzo per poter essere inserito nel contesto dei quadri sociali e lo è in quanto si configura come
attività sociale che connette l’evento naturale del prodursi necessario del passato con il significato
che esso può assumere nel presente. Ancora, lo è nella misura in cui esso connette il tempo interiore
dell’individuo che ricorda con il tempo cosmico esterno alla sua coscienza.
Se le strutture primarie costituiscono il livello più elementare di interpretazione dell’attività sociale,
quella che consente di attribuire un primo significato all’esperienza che, altrimenti, ne rimarrebbe
completamente priva, il processo di keying [messa in chiave] consente di esplorare il significato che
essa ha per gli attori sociali che la compiono. Per messa in chiave possiamo intendere
«quell’insieme di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa in termini di
una qualche struttura primaria, viene trasformata in qualcosa modellato su questa attività, ma visto
dai partecipanti come qualcosa d’altro» (Goffman, 1974, 85).» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati
p. 128-130 passim)
7.3.5. le «dinamiche concrete di funzionamento sociale della memoria collettiva» o i modi della
gestione della memoria, della dialettica memoria/oblio, nei processi di costruzione sociale e politica
della propria forma o identità, del proprio ruolo, delle proprie appartenenze, del proprio progetto.
«Entriamo, in questo senso, nel vasto campo delle pratiche della memoria che costituiscono il modo
attraverso cui le collettività istituzionalizzano il passato di cui fanno memoria elaborandone delle
rappresentazioni di varia natura. Con questo, mi pare che si vada oltre la dimensione specificamente
astratta e presentista di Halbwachs e si possa entrare nel complesso delle dinamiche concrete di
funzionamento sociale della memoria collettiva. Essa non è soltanto il prodotto dell’azione
ordinatrice dei quadri di significato e delle correnti di pensiero collettivo, ma viene trasformata dai
gruppi sociali in rappresentazione. Come nota efficacemente Paolo Jedlowski (2002, p. 50) «se la
memoria di una società non si identifica più con il “quadro” [frame] che sostiene le memorie dei
singoli, e viene intesa come un insieme di rappresentazioni che si trasmettono, sono conservate o
negate, ed entrano in conflitto tra loro, ciò di cui si tratta allora è di pratiche sociali».
È nelle pratiche della memoria che l’astrattezza dei processi di ricostruzione del passato trova
significato e concretezza. Vorrei brevemente provare a riflettere su alcune delle modalità possibili
di trasformazione del passato in rappresentazione; in “passato che dura” per usare la celebre
espressione di Halbwachs. Si tratta di un percorso che muove dalle rappresentazioni che implicano
più direttamente l’esperienza concreta e l’azione sociale degli individui per arrivare a complessi di
pratiche in cui tale coinvolgimento non appare così necessario e cogente, ma viene meno a favore di
altre dimensioni. Mi riferisco, in particolare, [1] alla memoria praticata attraverso le pratiche di
incorporazione del ricordo collettivo in azioni rituali (Connerton, 1999), [2] alla memoria raccontata
attraverso la testimonianza e [3] alla memoria archiviata nelle istituzioni di conservazione del
ricordo quali gli archivi o i musei.» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 130-131)
7.3.6. i rituali commemorativi, sia quelli istituzionali nelle forme della commemorazione
(anniversari) sia quelli propri della “vita quotidiana come rappresentazione” (descritti e studiati da
Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione)
7.3.6.1. «In primo luogo i rituali commemorativi costituiscono le comunità di memoria in quanto
rappresentano il passato con l’esplicita finalità di garantire l’unità morale del gruppo. Si tratta del
tema centrale di Halbwachs, ma che abbiamo imparato a conoscere fin dalla riflessione
durkheimiana de Le forme elementari della vita religiosa (1912): nei rituali commemorativi, «si
rappresenta il passato al solo scopo di rappresentarlo, di imprimerlo più profondamente negli
spiriti» (ivi, trad. it. p. 439). Il rituale non ha altra finalità che la commemorazione stessa della
mitologia del gruppo e, in questo senso, consente di mettere in relazione l’individuo alla comunità e
il presente al passato, producendo e riproducendo, in ultima analisi, la coesione sociale del gruppo
stesso. Non solo, l’unità morale del gruppo, ma anche il suo impegno simbolico nel mantenere il
ricordo del passato che viene rappresentato. Da questo punto di vista, la rappresentazione
commemorativa si caratterizza anche come una “pratica di impegno” secondo la definizione che ne
ha dato Robert Bellah (1996, p. 201), ossia come un insieme di “pratiche — rituali, estetiche, etiche
— che definiscono la comunità come un modello di vita”». (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p.
131)
7.3.6.2. «La seconda dimensione che emerge significativamente nel contesto del rituale
commemorativo riguarda il tema del conflitto. Poiché la rappresentazione del passato fissa e
istituzionalizza una specifica narrazione degli eventi trascorsi che la comunità di memoria sceglie
come modello, essa può essere in contrasto con altre rappresentazioni prodotte da altri gruppi.»
(Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 131-132)
7.4. Usi politici del passato e pratiche della memoria
«In definitiva, è questo il senso per cui ogni pratica della memoria può essere interpretata a partire
dagli interessi del presente. Questi si differenziano in funzione dei gruppi sociali che li portano
avanti e consentono di attribuire significati diversi a medesime pratiche della memoria. Emerge, in
ultima analisi, l’uso politico della memoria che rappresenta una modalità di trasformazione del
passato che si avvale del ricordo collettivo come risorsa simbolica per rappresentare i rapporti
politici dei gruppi dentro la realtà sociale. […] Questa impostazione del problema dell’uso politico
della memoria mi pare, dal punto di vista del tema che vorrei sviluppare, particolarmente
interessante perché pone due questioni centrali. .» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 134)
7.4.1. «In primo luogo, dal punto di vista analitico, essa mostra chiaramente la necessità di un frame
di secondo livello per l’interpretazione di determinate pratiche della memoria. Sostenere, come fa
Lavabre, che la nozione di uso politico del passato è più precisa della nozione di memoria, significa
riconoscere che è precisamente l’esperienza della memoria (in questo caso l’esperienza politica)
quella che rende possibile l’operativizzazione del concetto generale di memoria collettiva. Da
questo punto di vista, dunque, il passato viene trasformato, non soltanto in una generica pratica
commemorativa, ma in uno specifico corso di azioni unite concettualmente nella dimensione
politica del ricordo. Vale a dire nella volontà di mettere in scena un passato con la finalità, più o
meno esplicitata, di produrre una narrazione identitaria della comunità di memoria, sia verso
l’interno che verso l’esterno.» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 135)
7.4.2. «Il secondo elemento che emerge significativamente dalle parole di Lavabre riguarda, invece,
la dimensione critica connessa alle pratiche politiche della memoria. Se la nozione di memoria,
almeno dal punto di vista sociologico, appare troppo polisemica ed è, per questo, con-causa di
possibili abusi e inflazioni memoriali, quella di uso politico del passato consente, viceversa, di
circoscrivere chiaramente le finalità delle pratiche commemorative elaborate dai gruppi sociali.
Commemorare il passato, magari anche un passato controverso e ambiguo come nel caso che
cercherò di descrivere nelle prossime pagine, dentro un frame politico, implica porre il tema della
valutazione, anche etica, delle differenti narrazioni memoriali di quel passato. Si tratta di un tema
centrale che, ancora una volta, proprio le pratiche della memoria consentono di mettere in luce.
Riflettendo sulle celebrazioni per il sessantesimo anniversario della liberazione del campo di
sterminio di Auschwitz, Enzo Traverso (2006, p. 79) si pone una domanda centrale: «si può fare un
uso critico della memoria?». Il punto è questo: le commemorazioni a sfondo politico come quelle
relative alla liberazione di Auschwitz nascondono il rischio dell’apologia che consiste nel vedere il
nazismo come una legittimazione in negativo dell’Occidente liberale considerato come il migliore
dei mondi. «L’Olocausto fonda dunque una sorta di teodicea laica che consiste nel commemorare il
male assoluto per convincerci che il nostro sistema incarna il bene assoluto» (ivi, p. 80). Quello che
emerge in questa riflessione concerne il fatto che una commemorazione a sfondo politico mostra
almeno due lati: da una parte le intenzioni dichiarate, dall’altra il messaggio che passa tra le righe.
Uscendo dal caso dell’Olocausto questo significa che l’uso politico del passato, veicolato dentro
pratiche istituzionalizzate della memoria, produce narrazioni del passato che rischiano di essere acritiche e centrate quasi esclusivamente sulla contingenza del ricordo che viene prodotto: si ricorda
in un certo modo un certo passato per non misurarsi con il significato che quella memoria ha per la
società presente. E nel fare ciò si finisce per giustificare l’ordine presente delle cose rimanendo
comunque fuori da una riflessione critica sul senso presente del fare memoria. Da questo punto di
vista, la memoria istituzionalizzata nelle commemorazioni rischia di trasformarsi in mero
“monumentalismo”, in semplice rappresentazione apologetica e didascalica di un passato trascorso
che non si misura, tuttavia, con il suo significato per il presente. Nell’uso politico del passato, inteso
come atteggiamento che fa memoria del passato sottolineandone le dimensioni di narrazione
identitaria che contrappone i gruppi sociali nella dimensione “amico/nemico” o, se si preferisce,
“vittima/carnefice”, è implicito proprio il rischio che la memoria perda ogni valenza critica utile a
definire il significato che essa può avere per il presente. In altri termini, la rappresentazione del
passato che viene prodotta serve più a rafforzare le condizioni di conflitto che non quelle di
costruzione di memorie condivise.» (Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 135-136)
L’attenzione va dunque rivolta ai due livelli costituenti la ricostruzione “politica” del passato come
processo di costruzione di aree sociali definite secondo una propria appartenenza: 1. «le intenzioni
dichiarate», la volontà cioè di riprendere nella memoria il passato e la serietà delle ricerche storiche
con cui questa operazione può essere compiuta; 2. «il messaggio che passa tra le righe», il rischio
della assenza di una consapevolezza critica nei confronti del proprio commemorare e riprendere.
Occorre cioè criticamente tener presente e fare emergere la consapevolezza, per quanto ovvia, di
come sia espressione della volontà presente che agisce in quella ripresa della memoria e che agisce
in termini di scelta, selezione e quindi anche di oblio di componenti del passato; di come, in quel
procedere si esprime, costruisce e avalla una particolare idea di sé accompagnata da una inevitabile
espressione di giudizio di valore e definizione di progetto.
7.5. Come conclusione. L’analisi dei processi di memoria è la messa in luce dei processi di
costruzione di soggetti collettivi, di gruppo o personali che articolano le relazioni sociali in
atto e determinano il terreno imprescindibile dell’azione politica (della governance)
«La memoria collettiva, intesa come principio di organizzazione dell’esperienza sociale del ricordo,
consente di attribuire un significato operativo a una nozione [la memoria collettiva] che, altrimenti,
rischia di rimanere largamente metaforica ed enigmatica. »
7.5.1. «L’esperienza della memoria trasforma l’evento naturale dello scorrere del tempo, che
interpone della distanza tra gli eventi accaduti nel passato e il presente della comunità di memoria
che ne ricostruisce il ricordo, in un complesso di pratiche che rendono presente quel passato. Per
esprimerci nei termini di Goffman, esse trasformano il passato in qualcosa di diverso eppure
modellato su di esso: il passato che dura. In quanto esperienza, la memoria necessita di essere
organizzata attorno ad alcune strutture [frame] che la rendano significativa per gli attori sociali che
la agiscono. A tal fine il collegamento tra la nozione di quadro sociale di Halbwachs e quella di
frame di Goffman, mi pare che possa essere di qualche utilità. Come il quadro della memoria
organizza il significato dei ricordi entro lo spazio concettuale e simbolico dei gruppi sociali, così il
frame organizza l’esperienza concreta degli attori sociali e delle collettività entro lo spazio degli
orizzonti di significato che ne presiedono. La domanda centrale di Goffman, «che cosa sta
succedendo qui?» può, rispetto al tema dell’organizzazione dell’esperienza del ricordare essere
declinata riformulata: «come si organizza l’esperienza sociale del ricordo?».
7.5.2. «Da questo punto di vista il tema degli usi politici del passato rappresenta una
esemplificazione cristallina di questa dinamica poiché mette in evidenza precisamente le dinamiche
e i rapporti sociali che la memoria, utilizzata come risorsa simbolica per rappresentare l’identità dei
membri delle collettività che esperiscono determinati ricordi, struttura dentro la realtà sociale.»
(Migliorati 2010 in Doni Migliorati p. 137)
A conclusione in termini di sviluppo per procedimenti fondativi (filosofici):
un triplice fondamento delle indagini sociologiche
1. le scienze cognitive
2. la teoria dell’argomentazione
3. scienza della comunicazione