Ordinamento comunitario e modifica del Titolo V, Parte II della

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Ordinamento comunitario e modifica del Titolo V, Parte II della Costituzione
di Gianni ARRIGO, Associato di diritto del lavoro nell’Università di Bari
1.- Introduzione. 2.- Stato, Regioni e ordinamento comunitario dopo la riforma del Titolo V. Potere sostitutivo dello
Stato in caso di "inadempienza" (art. 117, 5° comma) e di "mancato rispetto" della normativa comunitaria da parte delle
Regioni (art. 120, 2° comma). Cenni e rinvio al par. 5. 3.- Il rispetto della normativa comunitaria (da parte di Stato e
Regioni) alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale. 4.- Segue: questioni
connesse alla recezione delle direttive (anche mediante contratto collettivo). 5.- Competenza delle Regioni ad attuare la
normativa comunitaria. Esercizio del potere sostitutivo dello Stato. Condizioni. Limiti. 6.- Conclusioni.
1.- Introduzione.
La riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione ha segnato un deciso mutamento nei rapporti
tra Stato ed enti locali, toccando direttamente il sistema di relazioni tra Unione europea, Stato ed
enti infrastatali. Nelle pagine che seguono cercheremo di ricostruire la nuova geometria di questi
rapporti, esaminando solo i profili connessi alla c.d. "fase discendente" del processo di integrazione
comunitaria, con particolare riferimento al diritto del lavoro. In via preliminare sarà opportuno dar
conto degli elementi essenziali della riforma segnalando i punti di maggiore difficoltà interpretativa,
con particolare riguardo alle nuove funzioni normative delle Regioni in materia di diritto del lavoro.
1.1.- La riforma costituzionale -com' è noto- ha dilatato la funzione normativa delle Regioni non
solo in ordine alle materie di competenza, ma anche ai metodi della legislazione, invertendo in
modo radicale il sistema di riparto delle competenze: la potestà legislativa dello Stato appare ora
limitata alle materie espressamente elencate nell' articolo 117, 2° comma, Cost., nonché alla
determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente indicate nell'
articolo 117, 3° comma, mentre la potestà legislativa regionale pare assumere carattere di generalità
e residualità nelle (altre) materie non espressamente indicate. Inoltre, in tutte le materie di
competenza concorrente, la potestà legislativa regionale sembra acquistare un contenuto generale
che incontra limiti solo nei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e del diritto
comunitario.
Tra le materie attribuite alla competenza concorrente delle Regioni, quella della "tutela e
sicurezza del lavoro" rappresenta certo una novità costituzionale, ma anche una delle attribuzioni
più discusse, anche per la sua formulazione che continua a suscitare dubbi e perplessità sul suo reale
significato e contenuto. Oltretutto mancano nella stessa legislazione ordinaria precedenti utili all'
interpretazione, che deve ricorrere sia al criterio storico-normativo sia ad altri modelli interpretativi,
come quelli che si preoccupano non solo di collocare, ma anche di equilibrare gli "oggetti della
legislazione", come il "canone dell' interpretazione infrasistematica" in base alla quale si
riconducono ad un ambito di competenza quegli oggetti che sono sviluppo di oggetti collocati
originariamente nell' ambito di una data materia.
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1.2.- Per meglio interpretare i contenuti e i limiti della competenza chiamata "tutela e sicurezza
del lavoro" si deve tener conto, da un lato, del percorso di decentramento intrapreso dalla
legislazione ordinaria (in particolare a partire dal 1997), e dall' altro delle diverse norme
costituzionali che disciplinano il nuovo riparto di competenze.
1.2.1.- Sotto il primo profilo, l' interprete deve valorizzare l' opera di decentramento
amministrativo (nota anche come "federalismo a Costituzione invariata") attuata in particolare con
la legge felega n. 59/1997, che prevede il conferimento alle Regioni e agli enti locali di tutte le
funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo
delle rispettive comunità, nonché di tutte le funzioni e i compiti localizzabili nei rispettivi territori.
Il D.Lgs. n. 469/1997, in attuazione della citata legge 59/1997, ha successivamente conferito alle
Regioni le funzioni e i compiti in materia di "politica attiva" del lavoro (art. 2) e in materia di
collocamento (inteso sia come collocamento "tradizionale", sia come avviamento a selezione,
preselezione tra domanda e offerta di lavoro, iniziative di incremento dell' occupazione),
disponendo altresì che le Regioni a loro volta trasferissero alle Province le funzioni e i compiti in
materia di collocamento (art. 4). Il processo di valorizzazione delle funzioni regionali in materia di
lavoro è proseguito con il D.Lgs. n. 181/2000 (successivamente modificato con il D. Lgs. approvato
dal Consiglio dei Ministri in data 24 ottobre 2002), che ha innovato ulteriormente la materia del
collocamento.
1.2.2.- Sotto il secondo profilo, una lettura sistematica dell' intero testo costituzionale impone di
tener conto di alcuni vincoli, quali la competenza esclusiva dello Stato in materia di "ordinamento
civile", di "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale", di "tutela della concorrenza", di
"immigrazione" e di "previdenza sociale".
Tra queste competenze esclusive statali quella in materia "ordinamento civile" è la più rilevante
ai fini di un intervento legislativo regionale; tale nozione è stata oggetto, già prima della riforma del
Titolo V, di numerose pronunce della Corte Costituzionale. Al fine di salvaguardare l' uguaglianza
formale tra i cittadini, la Corte ha, infatti, costantemente escluso che la regolamentazione dei
rapporti interprivati (cioè di tutti i rapporti disciplinati dal diritto privato) rientrasse nella
competenza regionale.
Questo principio è stato consacrato con l' espressa previsione della potestà esclusiva dello Stato
in materia di "ordinamento civile" prevista nel nuovo art. 117 Cost.: l' ampiezza della riserva è tale
per cui si può certamente ritenere estesa alla disciplina delle linee ordinamentali dei rapporti di
lavoro, le quali sono certamente parte dell' ordinamento civile.
1.2.3.- Tenuto conto dei limiti sopra ricordati e delle competenze già acquisite dalle Regioni
occorre quindi individuare le materie riconducibili alla nozione di "tutela e sicurezza del lavoro"; tra
le quali quelle meno dubbie sembrano le seguenti: a) la disciplina del collocamento nelle sue
diverse espressioni (secondo la definizione del D.Lgs. n. 469/97 e del D.Lgs. n. 181/2000, come
successivamente modificato); b) la regolazione delle politiche attive per il lavoro (intese ben oltre l'
accezione di cui al D.Lgs. n. 469/97 e successive integrazioni, come gli incentivi alle assunzioni di
soggetti appartenenti a fasce deboli o svantaggiate, i sostegni alla nuova imprenditoria giovanile e
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femminile, i lavori socialmente utili, le politiche per l' inserimento al lavoro di soggetti disabili o
svantaggiati, i tirocini formativi e di orientamento, ed i servizi per l' impiego), l' igiene e la
sicurezza del lavoro.
Quanto agli ammortizzatori sociali, invece, gli istituti di base sono tuttora di competenza
nazionale, considerata la potestà esclusiva dello Stato in materia di "previdenza sociale". Tuttavia,
alla Regione non dovrebbe potersi precludere la possibilità di istituire o sostenere forme integrative
degli ammortizzatori sociali strettamente correlate con le politiche attive del lavoro e le politiche
formative; in tal caso, infatti, le suddette provvidenze integrative costituirebbero degli strumenti di
politica attiva del lavoro, e -in quanto tali- rientrerebbero nella potestà concorrente.
Rispetto ad altre materie di interesse per il diritto del lavoro, non vi sono dubbi circa la
competenza concorrente in materia di previdenza complementare, stante l' espresso richiamo
costituzionale, così come dovrebbe ritenersi pacifica la competenza esclusiva regionale in materia d'
istruzione e formazione professionale, considerata la competenza esclusiva delle Regioni su tutte le
materie non espressamente menzionate nell' art. 117 Cost.
Nelle materie sopra indicate, come in tutti gli altri ambiti non espressamente riservati alla
competenza esclusiva dello Stato, la Regione può esercitare la propria potestà legislativa
concorrente nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e dei principi dell'
ordinamento comunitario.
1.3.- Difficoltà interpretative (forse non pari a quelle sopra ricordate, ma comunque) rilevanti si
incontrano anche nelle disposizioni della L. costituzionale n. 3/2001 dedicate ai rapporti tra UE e
Regioni (e Province); ciò per ragioni "di testo e di contesto": alle difficoltà di comprensione
letterale, e a quelle indotte dalla complessità del sistema giuridico comunitario, si aggiungono
quelle connesse al fatto che la maggioranza parlamentare che volle la riforma del Titolo V (oggi all'
opposizione) approvò un testo che, risentendo del clima politico del momento, non risulta di
univoca lettura (RECCHIA, 2002, p. 285). Da qui la pluralità di difficoltà interpretative e (per
quanto interessa in particolare il diritto del lavoro) l' esigenza di raccordare da un lato la nuova
normativa alla Carta costituzionale nella sua interezza, e, dall' altro di tener presente la decisa
apertura effettuata verso le norme comunitarie e quelle internazionali. In altri termini: va preso atto
che il Parlamento che partorì la L. n. 3/2001, constatata l' impossibilità di una riforma organica,
scelse implicitamente di confermare l' attualità delle norme presenti nei Principi fondamentali e nel
Titolo I. Al tempo stesso, però, volle affermare un processo di revisione costituzionale che
interveniva con gradualità sui temi specifici: queste modifiche "parziali", proprio perché tali,
devono da un lato adeguarsi armonicamente al testo previgente della Carta costituzionale e,
dall'altro, al rispetto dei principi -non solo preesistenti ma, soprattutto, dotati del carattere di
"prevalenza" e di efficacia diretta- dell' ordinamento comunitario.
In questo processo di revisione costituzionale "incrementale" (FLORIDIA, 2001), l' elemento
nuovo -rispetto al testo originario della Costituzione- è rappresentato dal formarsi di un sistema
normativo dinamico che risente -in modo più diretto ed incisivo di quanto non appaia ad una rapida
lettura- delle innnovazioni prodotte dalle istituzioni comunitarie sia sul piano della produzione
"legislativa" sia sul piano dell' interpretazione giurisprudenziale, talora decisamente "creativa", le
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quali hanno dato luogo alla costituzionalizzazione di un contesto culturale e giuridico che evidenza
una forte spinta verso l' assimilazione di istituti "pensati" e costituiti in ambito europeo (ARRIGO,
2002a, p. 71). Si pensi all' influenza che la Corte di Lussemburgo ha esercitato sulla cultura
giuridica e sul diritto (nazionale) del lavoro allorché si è pronunciata in materia di diritti sociali
fondamentali, di parità uomo-donna, di tutela dei lavoratori nelle crisi e trasformazioni aziendali, di
lavori atipici, di contratti di lavoro a causa mista (evidenziandone le "relazioni pericolose" con gli
"aiuti di Stato"), di orario di lavoro (da ultimo in materia di ferie e riposo settimanale), di
collocamento, ed altro ancora, per tacere della copiosa giurisprudenza in tema di libera circolazione,
di professioni e di sicurezza sociale, prodotta nel corso di alcuni decenni.
Questa crescente costituzionalizzazione (interna) di istituti giuridici "esterni" o "derivati" è
confermata anche dalla lettura del 1° comma dell' art. 117, Cost., là dove si prevede che l' attività
legislativa debba esercitarsi nel rispetto dei "vincoli derivanti dall' ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali". Il richiamo ulteriore ai vincoli derivanti dagli "obblighi internazionali"
rafforza l' apertura della nostra Costituzione da un lato alla cultura giuridica europea in senso
generale (si pensi, per quanto riguarda il diritto del lavoro, alla Carta sociale del Consiglio d'
Europa, oltretutto richiamata espressamente dal Trattato CE, all' art. 136, e dalla Carta di Nizza, nel
Preambolo, nonché a varie norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'
uomo e delle libertà fondamentali, richiamata peraltro dal Trattato UE, all' art. 6) e, dall' altro, alla
cultura giuridica internazionale, che nella materia del diritto del lavoro trova più saldi ancoraggi
nella produzione normativa dell' Organizzazione internazionale del lavoro. Questa apertura è
formulata in maniera così ampia da imporre all' interprete di definirne i contenuti (come sembra
voglia fare il governo in carica con il disegno di legge "La Loggia").
1.4.- Secondo la prospettazione che precede, la riforma del Titolo V conferma la recezione nella
Costituzione italiana -con ritardo rispetto ad altri Stati membri- di principi ed istituti giuridici di
fonte comunitaria, innovando in tal modo la nostra tradizione giuridica. Qui è opportuno richiamare
in particolare la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (pur con poveri e nudi richiami;
v. infra) nella sua doppia declinazione di "sussidiarietà verticale" (art. 118, 1° comma e art. 120, 2°
comma), e di "sussidiarietà orizzontale" (art. 118, 3° comma). Questa costituzionalizzazione del
principio di sussidiarietà è stata certamente favorita dal riferimento esplicito fatto dal legislatore con
la legge n. 59/1997, nonché dai numerosi contributi della dottrina, i quali hanno favorito sia la
familiarità con tale principio, sia il suo coordinamento (nel nuovo testo costituzionale) con i principi
di "differenziazione ed adeguatezza", almeno per quanto attiene alla c.d. "sussidiarietà verticale"
(art. 118, 1° comma). Nella prassi istituzionale, tuttavia, il principio di sussidiarietà appare smarrito
nel labirinto delle "vie italiane" all' applicazione del principio di sussidiarietà, troppo spesso attratta
da una "differenziazione" tout court, non equilibrata dall' aggettivo "sostenibile", come sarebbe
logico combinando "differenziazione" con "adeguatezza" (art. 118, 1° comma) e, soprattutto, con
"leale collaborazione" (art. 120, 2° comma), in modo da conciliare la nostra tradizione giuridica
sulle autonomie con il processo di integrazione europea, in conformità con l' art. 5, Cost., da un lato,
e con gli artt. 5 e 10, TCE, dall' altro. E proprio una lettura meditata dell' art. 5, TCE, aiuterebbe a
capire che il principio di sussidiarietà non svolge in modo univoco e passivo il mero compito di
decentrare i poteri, ma è invece chiamato alla funzione dinamica di ripartizione dei poteri fra
Comunità e Stati -nella zona delle competenze concorrenti- commisurata da un lato "alla
dimensione ed agli effetti" delle misure da adottare, ritenute necessarie all' integrazione comunitaria
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e, dall' altro, alla migliore tutela degli interessi dei destinatari di tali misure (art. 5, 2° comma, TCE)
(ARRIGO, 1998, p. 88 ss.; VIPIANA, 2002, p. 225 ss.). Principio da non confondere oltretutto con
quello di proporzionalità (art. 5, 3° comma, TCE), come spesso succede nel più recente "dibattito"
italiano sul tema.
Il richiamato collegamento con la cultura giuridica europea si rafforza ed assume carattere più
dinamico con la costituzionalizzazione della partecipazione delle Regioni (e delle Province
autonome di Trento e Bolzano) alla "fase ascendente" e a quella "discendente" del processo di
integrazione comunitaria, segnatamente nell' art. 117, 5° comma, là dove si afferma che "nelle
materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi
comunitari e provvedono all' attuazione e all' esecuzione degli accordi internazionali e degli atti
dell' Unione europea [...]".
Questa innovazione costituzionale del ruolo affidato alle Regioni nell' ambito e comunitario e
internazionale si affianca al c.d. potere sostitutivo affidato al Governo anche nell' ipotesi di
"mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria" (art. 120, 2°
comma, Cost.). Si tratta di "poteri sostitutivi" che nel rispetto della nostra cultura costituzionale
vengono garantiti dalla c.d. "riserva di legge", ma che, in conformità al processo di integrazione
comunitaria, devono essere esercitati "nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale
collaborazione".
2.- Stato, Regioni e ordinamento comunitario dopo la riforma del Titolo V. Potere sostitutivo
dello Stato in caso di "inadempienza" (art. 117, 5° comma) e di "mancato rispetto" della normativa
comunitaria da parte delle Regioni (art. 120, 2° comma). Cenni e rinvio (al par. 5).
2.1.- Il nuovo testo costituzionale contiene pochi riferimenti all' Unione europea, che tuttavia
appaiono assai rilevanti se confrontati col precedente testo costituzionale, in cui la mancanza di
ogni riferimento alla Comunità e all' Unione europea era tale da affidare i meccanismi di
partecipazione alle politiche comunitarie alla elaborazione pretoria della Corte costituzionale sull'
art. 11, Cost.. Viene in tal modo corretto quel "difetto visivo", per così dire, della nostra
Costituzione verso l' Unione europea; in particolare viene messa a fuoco la relazione diretta tra
regioni e Union europea, che per molto tempo aveva rispecchiato la "cecità regionale" delle
istituzioni comunitarie (VIOLINI, 2001, p. 321). Tuttavia, per i limiti "di testo e contesto" della
riforma, che si sono dianzi ricordati, l' operazione non è tale da definire le questioni principali del
rapporto tra Regioni ed Unione europea né da costituire principi utili per salde soluzioni legislative.
2.2.- Nel testo costituzionale, come riformato, si fa riferimento all' Unione europea nei commi 1,
2, 3 e 5, dell' art. 117, e nell' art. 120.
2.2.1.- Il 1° comma dell' art. 117 afferma che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalla Regioni nel rispetto [...] dei vincoli derivanti dall' ordinamento comunitario", oltre che degli
obblighi internazionali. Il 2° comma, lett. a) comprende tra le materie nelle quali "lo Stato ha
legislazione esclusiva" quelle dei "rapporti dello Stato con l' Unione europea", nonché quelle
relative al "diritto di asilo e [alla] condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'
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Unione europea". Il 3° comma inserisce fra le materie di legislazione concorrente quella relativa ai
rapporti delle Regioni con l' Unione europea, oltre che i "rapporti internazionali". Il 5° comma
prevede che "le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e
provvedono all' attuazione e all' esecuzione (degli accordi internazionali e) degli atti dell' Unione
europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, che disciplina le
modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza".
2.2.2.- L' art. 120, 2° comma, afferma che il "Governo può sostituirsi a organi delle Regioni,
delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto [...] della
normativa comunitaria", oltre che nei casi di mancato rispetto di norme e trattati internazionali".
2.3.- Cominciamo dall' art. 117.
- Il 1° comma è rilevante ai fini della nostra indagine giacchè, affermando che "la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", si rivolge sia allo Stato che
alle Regioni. In tal modo non incide solo nei rapporti tra Unione europea e Stato, genericamente
inteso come comprensivo degli enti infrastatali, ma nello stesso rapporto tra Stato e Regioni "vis-àvis" dell' ordinamento comunitario. Un' interpretazione riduttiva che ne limitasse l' ambito al solo
Stato ("comprensivo" delle Regioni) o alle sole Regioni urterebbe contro la struttura del testo, in cui
Stato e Regioni appaiono in modo paritario complemento d' agente del predicato verbale "è
esercitata", il cui soggetto è "la potestà legislativa" (CARAVITA, 2002, p. 115). Né si può dare
particolare rilievo al fatto che una disposizione destinata a disciplinare la potestà legislativa statale
sia collocata nel Titolo dedicato alle Regioni e alle autonomie: la semplice collocazione di una
norma in un testo legislativo non può assumere forza dirimente per la sua interpretazione
(CARAVITA, 2002, p. 116). Tale norma va comunque letta alla luce di una consolidata
giurisprudenza comunitaria e costituzionale (v. infra), che ha già ampiamente determinato il
rapporto tra ordinamento comunitario e legislazione nazionale (nel doveroso coordinamento tra le
Costituzioni nazionali e la Carta di Nizza; ARRIGO, 2001, p. 612).
- Il 2° e il 3° comma consolidano la figura triangolare disegnata nel 1° comma, nel senso che sia
lo Stato che le Regioni intrattengono "rapporti con l' Unione europea"; dunque: "da soggetti passivi
a interlocutori privilegiati" (FURLAN, 2001, p. 303). Non poteva essere diversamente, considerato
che a questa geometria si ispira lo stesso ordinamento comunitario. Anche in ragione del fatto che
sono ormai ben otto, sui quindici (finora) appartenenti all' Unione, gli Stati membri aventi una
struttura regional/federale, tra cui tutti i maggiori (Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia,
Portogallo, Regno Unito e Spagna), l' Unione non solo "vede" meglio il fenomeno regionalefederale, ma vi presta maggiore attenzione nell' ambito delle modifiche ipotizzate nel Libro Bianco
sulla "governance europea" (COMMISSIONE, 2001), dove si propone che l' Europa, soprattutto
dopo il suo prossimo allargamento, sia governata non solo dalle istituzioni europee e dalle autorità
nazionali ma anche dalle regioni e dagli enti locali (e in questo quadro si inserisce la proposta di
fare del Comitato delle Regioni il "garante comunitario" della sussidiarietà).
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- Più complesso è il discorso sulle innovazioni introdotte dal 5° comma, che attribuisce alle
Regioni e alle Province autonome "nelle materie di loro competenza" il diritto di partecipare "alle
decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari" (c.d. fase ascendente) nonché il
compito di provvedere "all' attuazione e all' esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'
Unione europea" (c.d. fase discendente). Malgrado la sua generica formulazione, la norma citata
sembra escludere ogni potere del legislatore ordinario di modificare, o di rendere reversibile, il
rapporto diretto tra le Regioni (e le Province autonome di Trento e Bolzano) e l' Unione europea
(TORCHIA, 2001, p. 1203), consolidato oltretutto nella legislazione più recente (soprattutto a
partire dalla L. n. 59/1997). Con questa implicita "clausola di non regresso" si riconosce e si
costituzionalizza il diritto delle Regioni (e delle Province autonome di Trento e Bolzano), nelle
materie di loro competenza, di partecipare alla "fase ascendente" dell' integrazione comunitaria, sia
pure "nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità
di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza". Inoltre, si riconosce il diritto-dovere
delle Regioni (e delle Province autonome di Trento e Bolzano), sempre nelle materie di loro
competenza, di partecipare alla "fase discendente" nonché di provvedere "all' attuazione ed
esecuzione degli accordi internazionali", sempre "nel rispetto delle norme di procedura stabilite da
legge dello Stato".
2.4.- Ancora più incisivo, nel rapporto tra Stato e Regioni "vis-à-vis" dell' ordinamento
comunitario, è la previsione dell' art. 120, 2° comma, che attribuisce al Governo il potere di
"sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso
di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di
pericolo grave per l' incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'
unità giuridica o dell' unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge
definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione". La formula qui usata è più ampia
dell' ultima frase del 5° comma dell' art. 117, Cost.: mentre nell' art. 117, 5° comma, si fa
riferimento ad un potere sostitutivo da esercitare in caso di "inadempienza", nell' art. 120, 2°
comma, ciò è possibile solo per il mancato rispetto della "normativa comunitaria". Inoltre, nel 5°
comma dell' art. 117 non viene indicato il titolare del potere sostitutivo, mentre nel 2° comma dell'
art. 120 si dice espressamente che il (solo) soggetto abilitato al suo esercizio è il Governo.
Da questa sistemazione deriva che, mentre il potere sostitutivo generale esclude interventi
sostitutivi di rango legislativo (MANGIAMELI, 2002, p. 150), la legge di procedura menzionata dal
5° comma dell' art. 117, regolando un caso particolare di potere sostitutivo, potrebbe anche -per
evitare la responsabilità dello Stato per inadempimento degli obblighi comunitari (ex art. 10, TCE)prevedere atti con forza di legge. In dottrina si è anche ipotizzato che, nella legge comunitaria
annuale, il Governo possa essere delegato ad interventi sostitutivi rispetto agli inadempimenti
regionali, alla scadenza del termine per la recezione: una siffatta disciplina sarebbe più rispettosa
del nuovo rapporto Stato-Regione nelle materie di potestà legislativa concorrente, non mettendo le
Regioni di fronte al fatto compiuto di una disciplina statale completa e di immediata applicazione
(CARAVITA, 2002, p. 126). Del potere sostitutivo in caso di inadempienza o di mancato rispetto
della normativa comunitaria torneremo ad occuparci più diffusamente nel par. 5, dopo aver
esaminato il rapporto tra Unione europea, Stato ed enti infrastatali alla luce del diritto comunitario.
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3.- Il rispetto della normativa comunitaria (da parte di Stato e Regioni) alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale.
3.1.- Esaminiamo ora il rapporto tra Unione europea, Stato ed enti infrastatali dalla prospettiva
del diritto comunitario, per vedere se e come la riforma del Titolo V, parte II della Costituzione
incida sugli obblighi dello Stato italiano -considerato nella sua articolazione istituzionale- verso l'
ordinamento comunitario.
3.2.- Si deve anzitutto osservare, con l' occhio rivolto ai principi del diritto comunitario, che la
ripartizione di competenze fra Stato e Regioni non costituisce oggetto di disciplina da parte del
diritto comunitario. Questo, infatti, secondo la giurisprudenza comunitaria, "non impone agli Stati
membri alcuna modifica della ripartizione delle competenze e delle responsabilità tra gli enti
pubblici territoriali esistenti sul loro territorio"; il diritto comunitario però non autorizza uno Stato
membro a "far valere la ripartizione delle competenze e delle responsabilità tra gli enti locali
esistenti nel proprio ordinamento giuridico interno per sottrarsi alla propria responsabilità al
riguardo" (Corte di Giustizia, Konle, 1 giugno 1999, causa 302/97).
Tale orientamento della Corte di Giustizia corrisponde ampiamente a quello della nostra Corte
costituzionale, la quale, nella sent. n. 425/1999 -prendendo le distanze da quanto sostenuto in
particolare nelle sentt. nn. 126/1996, 224/1994, 399/1987- ha ribadito che l' ordinamento
comunitario è, in linea di massima, indifferente alle caratteristiche costituzionali (accentrate, decentrate, regionali o federali) degli Stati membri: pertanto l' obbligo di attuazione non determina, di per
sé, alcuna alterazione dell' ordine delle competenze (ANZON, 1996, p. 1062; MIDIRI, 2001, p.
235).
Il rispetto delle norme comunitarie deve essere infatti garantito da "tutte le autorità degli Stati
membri, siano esse autorità del potere centrale dello Stato, autorità di uno Stato federale o altre
autorità territoriali [...] nell' ambito delle loro competenze" (Corte di Giustizia, Commissione c.
Germania, 12 giugno 1990, causa 8/88). In particolare, affinché gli obblighi comunitari dello Stato
membro siano adempiuti, "negli Stati membri a struttura federale, al risarcimento dei danni causati
ai singoli da provvedimenti interni adottati in violazione del diritto comunitario non deve
necessariamente provvedere lo Stato federale" (Corte di Giustizia, Konle, 1 giugno 1999, causa
302/97). Anzi, aggiunge il giudice comunitario, in una decisione successiva (Corte di Giustizia, S.
Haim c. Kassenzahnaertzliche Vereinigung Nordrhein, 4 luglio 2000, causa 424/97), perché gli
obblighi comunitari di uno Stato membro siano adempiuti, "negli Stati membri nei quali talune
funzioni legislative e amministrative sono assunte in maniera decentrata da enti locali dotati di una
certa autonomia o da qualsiasi altro ente di diritto pubblico giuridicamente diverso dallo Stato, il
risarcimento di tali danni, causati da provvedimenti adottati da un ente di diritto pubblico, può
essere garantito da quest' ultimo". Infine, conclude la Corte, "il diritto comunitario non osta neppure
a che sia chiamata in causa la responsabilità incombente a un ente di diritto pubblico di risarcire i
danni provocati ai singoli da provvedimenti da esso adottati in violazione del diritto comunitario in
aggiunta alla responsabilità dello Stato membro stesso". In tal modo, divenendo responsabili
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direttamente anche di fronte al diritto comunitario, le Regioni entrano -per così dire- nella
"maggiore età" (VIOLINI, 2001, p. 333).
3.3.- A questa più recente giurisprudenza in tema di responsabilità delle Regioni per violazione
del diritto comunitario si affianca la linea giurisprudenziale che tende a consentire l' accesso delle
Regioni europee al Tribunale di Primo grado per ottenere l' annullamento di atti comunitari
(Regione Friuli-Venezia Giulia c. Commissione, 15 giugno 1999, causa T-228/97). Questa
decisione, come si è fatto opportunamente rilevare, "comporta il riconoscimento della pluralità di
interessi pubblici che, all' interno dell' ordinamento nazionale possono coesistere e possono avere
più piani diversi di tutela, nonché un ridimensionamento del ruolo monopolistico svolto dallo Stato
nella materia degli aiuti di Stato e la configurazione di un ruolo dei poteri locali autonomo rispetto a
quello degli Stati stessi" (FURLAN, 2001, p. 314). Con questo ampliamento della capacità
processuale degli enti territoriali, ex art. 230, 4° comma, TCE (che pure è stato considerato
insufficiente dalla dottrina, più propensa a conferire agli enti territoriali l' accesso privilegiato ex
art. 230, 2° comma, TCE) le Regioni cominciano a porsi come diretti interlocutori delle istituzioni
comunitarie a fianco degli Stati (FURLAN, 2001, p. 318). Questo fenomeno è corroborato da altre
forme di relazione diretta Regioni-Istituzioni comunitarie, già nella fase ascendente del processo
decisionale comunitario: prescindendo dall' interfaccia dello Stato nazionale, le Regioni hanno
incominciato ad entrare -oltre che nella dimemsione istituzionale comunitaria- anche nella dinamica
delle decisioni che si sviluppano a livello informale a Bruxelles e a Strasburgo, attraverso i molti
uffici di rappresentanza aperti in quelle sedi.
3.4.- Ora, se è certo che la Comunità (attraverso la Commissione) non può pronunciarsi sulla
ripartizione delle competenze interne a ciascuno Stato membro e sugli obblighi che in uno Stato a
struttura federale possono incombere rispettivamente alle autorità federali e alle autorità degli Stati
federati; e che, a maggior ragione, il diritto comunitario non può imporre agli Stati membri alcuna
modifica della ripartizione delle competenze e delle responsabilità tra gli enti pubblici territoriali
esistenti nel loro territorio (Corte di Giustizia, Konle, 1 giugno 1999, cit. punto 63), è altrettanto
indubbio che la Commissione può "controllare se il complesso delle misure di sorveglianza e di
controllo istituito secondo le modalità dell' ordinamento giuridico nazionale sia sufficientemente
efficace per consentire un' applicazione corretta delle norme comunitarie (Corte di Giustizia,
Commissione c. Germania, 12 giugno 1990, causa 8/88). Tale controllo può vertere, in particolare,
sulle "modalità procedurali poste in essere nell' ordinamento giuridico interno" richiedendosi "una
tutela effettiva dei diritti derivanti ai singoli dall' ordinamento comunitario", senza che "sia più
difficoltoso far valere tali diritti rispetto a quelli derivanti agli stessi singoli dall' ordinamento
interno" (Corte di Giustizia, Konle, 1 giugno 1999, causa 302/97). Detto altrimenti, l' obbligo di
garantire l' efficacia del diritto comunitario prescinde dall' articolazione interna degli Stati, così
come il loro assetto interno non li esenta da controlli della Comunità vertenti sulla predisposizione
di misure di sorveglianza e di controllo, istituite secondo le modalità dell' ordinamento giuridico
nazionale, per garantire un' applicazione corretta delle norme comunitarie, ex art. 10, TCE.
Coerentemente ai principi sopra ricordati si può affermare dunque che la riforma costituzionale
introdotta dalla L. n. 3/2001 non incide sugli obblighi generali dello Stato italiano (considerato nella
sua articolazione istituzionale) verso la Comunità e l' Unione. C' è di più: secondo la più recente
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giurisprudenza della Corte di Giustizia, è possibile che la Regione inadempiente -e che abbia
causato danni ai singoli- sia obbligata "al loro risarcimento, anche in aggiunta alla responsabilità
dello Stato membro stesso".
3.5.- Tra gli obblighi generali derivanti dal Trattato, quello più direttamente rilevante nel
rapporto tra Stato e Comunità concerne l' adeguamento al diritto comunitario. Esso riguarda in
primo luogo le norme dei Trattati (il che avviene normalmente attraverso leggi interne, nazionali, di
esecuzione) e, in secondo luogo, quelle degli atti normativi comunitari. Riguardo a questi ultimi
vengono ad evidenza problemi diversi a seconda della natura e della forza (o efficacia) delle norme
da integrare nell' ordinamento interno nonché degli strumenti prescelti a tal fine. Detto altrimenti: l'
esercizio della potestà normativa degli Stati varia per autonomia e intensità a seconda che la norma
comunitaria abbia o no efficacia diretta e che l' efficacia diretta sia solo verticale (come è previsto
per le direttive) o anche orizzontale (come è previsto per i regolamenti e per certe norme del
Trattato). In via di principio è possibile affermare che non pone problemi la recezione dei
regolamenti da parte delle Regioni, compresi quelli che, formulati in termini generali, richiedono
espressamente o implicitamente di essere affiancati da norme nazionali di dettaglio (che a voler
essere pignoli non sono atti di esecuzione ma di integrazione dei regolamenti comunitari).
Altrettanto dicasi, per le direttive già autoapplicative, in ciò confortati dall' insegnamento della
Corte costituzionale (sent. n. 168/91), la cui eventuale recezione da parte delle Regioni non
rappresenta un problema per il diritto comunitario, sempre che essa avvenga nel rispetto dei principi
dianzi ricordati.
3.6.- Questioni più rilevanti suscita invece la recezione delle direttive "non autosufficienti", e
quelle non direttamente applicabili, le quali necessitano di una disciplina interna di integrazione o di
dettaglio che, specificando i criteri e i principi in esse stabiliti, ne consenta l' applicazione al caso
concreto.
E' dunque la recezione delle direttive in generale a porre i problemi più delicati. Ricordiamo
infatti che, secondo il Trattato e una consolidata giurisprudenza comunitaria, le direttive hanno
carattere obbligatorio nei confronti degli Stati membri destinatari e possiedono un' efficacia
normativa indiretta (perché filtrata attraverso l' atto interno di recezione). Gli Stati, obbligati al
conseguimento degli scopi previsti dalla direttiva (obbligazione di risultato e non di mezzo),
conservano tuttavia autonomia istituzionale e procedurale, in ordine cioè alla scelta delle forme e
dei mezzi più idonei a darvi attuazione (art. 249, TCE). Autonomia istituzionale in senso stretto
significa che "ogni Stato membro è libero di ripartire nel modo che ritiene opportuno le competenze
sul piano interno e di attuare una direttiva mediante misure prese dalle autorità regionali o locali"
(Corte di Giustizia, Commissione c. Paesi Bassi, 25 maggio 1982, causa 97/81). Autonomia
procedurale significa che l' attuazione può certamente aver luogo "nel rispetto delle forme e delle
procedure nazionali" (Corte di Giustizia, Fleischkontor, 11 dicembre 1971, causa 39/70), ma "il
rispetto delle forme e delle procedure nazionali deve conciliarsi con le necessità di una applicazione
uniforme del diritto comunitario" (Corte di Giustizia, Schlueter, 6 giugno 1972, causa 94/71).
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3.7.- A proposito dell' effetto diretto delle direttive, non si può non trascurare un elemento che
emerge con sufficiente chiarezza dalla prassi e cioè che tale effetto, più che essere costruito come
una qualità intrinseca della direttiva, come sarebbe normale e come si verifica per le disposozioni
del Trattato e per i regolamenti, risulta collegato ad un intento per così dire di tipo pedagogico,
addirittura sanzionatorio, qual è quello di ovviare, per quanto possibile, alle negligenze e ai ritardi
degli Stati membri nell' adempimento puntuale e corretto degli obblighi loro imposti da una
direttiva. In tale prospettiva, l' effetto diretto è stato concepito -ed nei fatti è- una vera e propria
sanzione per gli Stati inadempienti, nella misura in cui attribuisce al giudice nazionale,
eventuamente attraverso la cooperazione anche del giudice comunitario, il compito -sostitutivo di
quello del legislatore- di realizzare comunque lo scopo della direttiva in funzione della tutela delle
posizioni giuridiche individuali in ipotesi lese dal comportamento dello Stato (e della Regione)
(TESAURO, 2001 pp. 146-7).
4.- Segue: questioni connesse alla recezione delle direttive (anche mediante contratto collettivo).
4.1.- Quanto agli "strumenti" della recezione (legge, decreto legge, decreto legislativo,
regolamento, legge regionale, e, nel campo del diritto del lavoro, contratto collettivo) va ricordato
che la piena autonomia degli Stati membri nell' individuare i presupposti e le condizioni di
intervento di ciascuna tipologia di atti normativi, fa ritenere operante un principio di
"interscambiabilità" degli strumenti traspositivi, che, però, non comprende il contratto collettivo
privo di efficacia erga omnes (Corte di Giustizia, Commissione c. Repubblica italiana, 8 giugno
1982, causa 91/81; Commissione c. Repubblica italiana, 6 novembre 1985, causa 131/84;
Commissione c. Regno del Belgio, 15 aprile 1986, causa 237/84).
La Corte di Giustizia si è occupata più volte dell' attuazione delle direttive con contratti
collettivi. Nella causa 235/84 (Commissione c. Repubblica italiana, sent. 10 luglio 1986) essa,
richiamando una sua precedente statuizione (Commissione c. Danimarca, sent. 30 gennaio 1985,
causa 143/85), ha affermato che "è certo consentito agli Stati membri affidare in primo luogo alle
parti sociali il compito di realizzare gli obiettivi di politica sociale indicati in una direttiva", ma
questa facoltà non esonera gli Stati dall' obbligo di assicurare, con appropriate misure legislative,
regolamentari o amministrative, che tutti i lavoratori della Comunità possano beneficiare della
protezione prevista dalla direttiva in tutta la sua ampiezza". In particolare, "la garanzia statale deve
intervenire in tutti i casi in cui manchi una protezione effettiva assicurata con altri mezzi,
indipendentemente dai motivi di tale mancanza, e in particolare allorché i lavoratori interessati non
siano sindacalizzati, o un settore determinato non sia compreso in un contratto collettivo o quest'
ultimo non garantisca il principio di parità retributiva in tutta la sua estensione". Questa
giurisprudenza comunitaria ha quindi influenzato la stessa formulazione di alcune direttive, a partire
dalla Dir. n. 91/533, relativa all' obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle
condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro, il cui art. 9.1 stabilisce che "gli Stati
membri adottano le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per
conformarsi alla persente direttiva al più tardi il [...], ovvero si assicurano [...] che le parti sociali
prendano le disposizioni necessarie mediante accordo, fermo restando l' obbligo per gli stati membri
di prendere le misure necessarie per consentire loro di essere in ogni momento in grado di garantire
i risultati imposti dalla presente direttiva"
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Questa formula, espressa in termini analoghi, la ritroviamo in varie direttive successive (come la
n. 92/56, sui licenziamenti collettivi; la Dir. n. 92/85, sulla tutela della salute e sicurezza delle
lavoratrici madri; la n. 93/104, sull' organizzazione dell' orario di lavoro; la n. 94/33, sulla
protezione dei giovani sul lavoro; la n. 94/45, sui Comitati aziendali europei; la n. 96/34, sul
congedo parentale; la n. 97/81, sul lavoro a tempo parziale; la n. 99/70, sul lavoro a tempo
determinato, ecc). Ma, soprattutto, essa figura nell' art. 137.2, TCE, come modificato dal Trattato di
Nizza, il quale così recita: "Uno Stato membro può affidare alle parti sociali, a loro richiesta
congiunta, il compito di mettere in atto le direttive prese a norma del paragrafo 2. In tal caso esso si
assicura che, al più tardi alla data in cui una direttiva deve essere recepita a norma dell' art. 249, le
Parti sociali abbiano stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo
Stato membro interessato deve adottare le misure necessarie che gli permettano di garantire in
qualsiasi momento i risultati imposti da detta direttiva". Responsabili ultimi dell' attuazione delle
norme comunitarie, e del conseguimento dell' effetto utile delle stesse, non sono dunque le parti
sociali, bensì gli Stati membri. Dalla formula dell' art. 137.2, sembra pertanto potersi desumere un
potere sostitutivo dello Stato atto a garantire non solo l' attuazione ma anche l' effetto utile della
direttiva. Il che sembra condizionare, se non limitare alquanto, la concreta possibilità della Regione
di affidare alle Parti sociali (si immagina al livello territoriale più adeguato) il compito di mettere in
atto le direttive adottate a norma del paragrafo 2, per esempio in materia di "integrazione delle
persone escluse dal mercato del lavoro (lett. h) o di "lotta contro l' esclusione sociale (lett. j), anche
nell' ambito delle sue competenze "esclusive", ferme restando le perplessità avanzate già dalla
stessa Corte di Giustizia, oltre che dall' interprete italiano, circa l' idoneità a tal fine del contratto
collettivo di diritto comune.
4.2.- In base a quanto ora detto è possibile affermare che, in via di principio, il diritto
comunitario non pone limiti agli enti infrastatali nella recezione delle direttive, con le procedure e
gli strumenti ritenuti più idonei al conseguimento dei risultati imposti da una direttiva. E, quindi,
sempre ragionando in via teorica, anche mediante contratto collettivo ma nel rispetto delle
condizioni individuate dalla Corte di Giustizia (con la dovuta precisazione che anche negli Stati
federali, nei quali esistono meccanismi di estensione erga omnes dell' efficacia del contratto
collettivo, come ad es. la Germania, le direttive vengono invece recepite con legge federale)
(PALLINI, 2002, p. 38; ARRIGO, 2002b p. 203). Resta comunque fermo il potere sostitutivo dello
Stato nei limiti e per gli scopi ricordati.
5.- Competenza delle Regioni ad attuare la normativa comunitaria. Esercizio del potere
sostitutivo dello Stato. Condizioni. Limiti.
5.1.- E' noto che, per quanto riguarda la fase discendente del processo di integrazione
comunitaria, la L. n. 86/1989, come modificata dalla L. n. 128/1998, aveva già attribuito a tutte le
Regioni, sia ordinarie che speciali, il potere di attuazione diretta ed immediata delle direttive
comunitarie nelle materie di propria competenza, salvo eventuale adeguamento alle norme statali di
principio sopravvenute (ARRIGO, 2002c, p. 113). La L. n. 422/2000 aveva inoltre riconosciuto la
possibilità di operare l' attuazione anche tramite atti normativi secondari.
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Nel nuovo quadro costituzionale, i principali problemi sembrano così essere quelli che attengono
al significato e all' ampiezza della potestà concorrente dello Stato in materia di rapporti con l'
Unione europea delle Regioni, alla predisposizione da parte delle Regioni di meccanismi di
coordinamento delle politiche regionali nell' attuazione delle direttive comunitarie, e in particolare
all' individuazione delle modalità più corrette per l' esercizio del potere sostitutivo. Connesso a
quest' ultimo aspetto, anche alla luce del nuovo quadro costituzionale interno e dell' assetto
"costituzionale" europeo attuale e futuro, occorre valutare gli strumenti necessari per far fronte alla
responsabilità statale nei confronti dell' Unione europea, più volte affermata dalla Corte di Giustizia
(e ricordata dalla Corte cost. italiana nella citata sent. n. 126 del 1996).
5.2.- Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la stabilità dell' equiparazione tra Regioni
e Stato rispetto all' Unione europea sembra dipendere dall' interpretazione di due norme "chiave",
dai confini elastici, quali sono gli artt. 117, 5° comma e 120, 2° comma, relative all' esercizio del
potere sostitutivo, di cui s' è anticipato un breve commento ma che merita qui di approfondire,
anche per individuarne le possibili implicazioni sulle competenze regionali in materia di lavoro.
Come ricordato, l' art. 117, 5° comma, riferendosi ad un' ipotesi particolare -riferita alle sole
Regioni- stabilisce che con legge dello Stato sono disciplinate "le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza" regionale quanto all' attuazione ed esecuzione [...] degli atti
dell' Unione europea".
L' art. 120, 2° comma invece, riferendosi sia alle Regioni che agli enti locali, precisa i casi in cui
-e le modalità con le quali- il Governo può sostituirsi agli organi di tali enti.
Ora, se leggiamo con più attenzione il secondo comma dell' art. 120 (v. testo supra, par. 2.4), ci
accorgiamo che l' esercizio del potere sostitutivo può scattare in tre ipotesi, vale a dire:
a) "in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria";
b) "in caso di pericolo grave per l' incolumità e la sicurezza pubblica";
c) "quando lo richiedano la tutela dell' unità giuridica o dell' unità economica e in particolare la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai
confini territoriali dei governi locali".
5.2.1.- L' ipotesi sub a) è affine a quella contemplata nel 5° comma dell' art. 117, e configura una
sostituzione successiva all' inerzia (non solo) di Regioni (ma anche di enti locali), conforme al
principio di sussidiarietà inteso come "metro di valutazione dell' esercizio dei poteri sostitutivi del
Governo" e "fondamento dei poteri sostitutivi del Governo" (RIDOLA, 2001, pp. 245 e 246), ma
coerente anche con la giurisprudenza della Corte di Giustizia: il mancato intervento dei livelli
decentrati di governo (e quindi il venir meno agli obblighi che derivano agli Stati dalla loro
appartenenza all' UE) giustifica l' intervento del livello superiore, ferma restando la possibile
condanna della Regione al risarcimento dei danni causati ai singoli dal suo inadempimento.
5.2.2.- Le ipotesi sub b) e c) sembrano invece configurare una sostituzione preventiva all' inerzia
delle Regioni (e degli enti locali): qui il rischio di un contrasto col principio di sussidiarietà è
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elevato, e appare difficilmente temperabile attraverso il principio di leale collaborazione, specie
laddove compete al Governo nazionale ogni valutazione della gravità del pericolo o dell' esigenza di
tutela. Oltretutto, se si guarda alle modalità dell' esercizio del potere sostitutivo del Governo, ci si
avvede che la norma costituzionale rinvia sul punto al legislatore ponendogli il solo vincolo di
definirle esigendo il rispetto del principio di sussidiarietà, seppur rafforzato dal dovere di leale
collaborazione.
5.3.- Il testo costituzionale, come riformato, sembra concepire il potere sostitutivo in modo
differente rispetto a quanto anteriormente previsto dal legislatore ordinario, in particolare nel d.lgs.
n. 112/1998: qui, infatti, nel disciplinare per la prima volta la sostituzione statale nei confronti delle
funzioni amministrative proprie, il legislatore l' aveva circoscritta alle ipotesi di accertata inattività
comportante inadempimenti degli obbighi derivanti dall' Unione europea, ovvero al pericolo di
grave pregiudizio agli interessi nazionali (art. 5). Nel primo caso il riferimento obbligatorio era all'
art. 2 dello stesso decreto, relativo alla responsabilità dello Stato in materia di rappresentanza
internazionale e di coordinamento dei rapporti con l' Unione europea, nonché ai compiti preordinati
all' attuazione nazionale degli obblighi comunitari e degli accordi internazionali. Nel secondo caso
era implicito il riferimento all' esigenza di tutela dell' unità e indivisibilità della Repubblica, di cui
all' art. 5, Cost. (il cui comma 4° faceva espressamente salvi "i poteri sostitutivi previsti dalla
legislazione vigente").
Dal nuovo testo della Costituzione emerge invece una scelta diversa: da un lato, è stata
cancellato la locuzione "interessi nazionali" e, dall' altro, è stato inserito nell' art. 120, 2° comma, al
posto di una clausola unica e generale, un elenco dettagliato di svariate ipotesi che giustificano l'
intervento sostitutivo dello Stato, dalla cui lettura risulta evidente come la scomparsa dell' interesse
nazionale -come limite all' autonomia costituzionale delle Regioni- sia solo apparente. Infatti,
ognuno dei singoli presupposti che legittimano il potere sostitutivo dello Stato è seguito "a ruota" da
una scansione del vecchio interesse nazionale, così come si è venuto concretizzando nella
previgente legislazione statale con l' avallo della giurisprudenza costituzionale.
Tra le nuove e varie ipotesi, la più significativa sembra quella del "mancato rispetto di norme e
trattati internazionali o della normativa comunitaria", che appare una specificazione dell' interesse
nazionale (riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale più sopra richiamata) ad evitare l'
insorgenza della responsabilità statale sul piano comunitario e internazionale. Tale "sospetto" è
rafforzato da una lettura coordinata sia degli artt. 117 e 120, sia delle ipotesi che legittimano il
potere sostitutivo dello Stato. Così "la tutela dell' unità giuridica o dell' unità economica" -che
riunisce due clausole indeterminate ed ambigue- se correlata all' interesse nazionale ad evitare l'
insorgenza della responsabilità statale sul piano comunitario, può essere giudicata sufficiente a
ripristinare vecchi limiti alla potestà regionale, come i principi generali dell' ordinamento giuridico
e le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, da integrare con le norme dei Trattati, con
certi principi della Carta di Nizza e con l' acquis comunitario: principi intesi come direttive generali
capaci di imporsi nei diversi settori dell' ordinamento giuridico nazionale e di prevalere su
contrastanti norme interne, di diverso livello, anche successive (si v. a tal proposito l' art. 53 della
Carta di Nizza, che stabilisce un principio di supremazia e di maggior protezione delle disposizioni
della Carta rispetto ad altre fonti e, in particolare, "alle Costituzioni degli Stati membri". Nell'
eventualità di un conflitto tra un diritto riconosciuto dalla Carta e un diritto riconosciuto da una
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Costituzione nazionale, in altri termini, è destinato a prevalere quello formulato nei termini più
ampi; ARRIGO, 2001, p. 612).
A sua volta, la locuzione "tutela dell' unità giuridica", se intesa in modo ampio e combinata con
quella del "rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria", potrebbe
servire a sanzionare discipline giuridiche differenziate di norme comunitarie che chiedono una
disciplina unitaria, esclusion fatta per gli aspetti di mero dettaglio (TRUINI, 2001, p. 371). Questa
interpretazione restrittiva parrebbe conciliarsi con il richiamato orientamento della Corte di
Giustizia secondo cui "il rispetto delle forme e delle procedure nazionali deve conciliarsi con le
necessità di una applicazione uniforme del diritto comunitario" (Corte di Giustizia, Schlueter, 6
giugno 1972, causa 94/71). Orbene, questa "necessità di una applicazione uniforme del diritto
comunitario", salvo discipline più favorevoli, sembra potersi ravvisare anzitutto nelle numerose
direttive connesse ai regolamenti sulla libera circolazione e la sicurezza sociale (per il prevalente
aspetto della non discriminazione in base alla nazionalità), nonché in quelle sulla tutela della salute
e la sicurezza nei luoghi di lavoro e su alcune direttive sulla non discriminazione tra lavoratori e
lavoratrici, in particolare connesse alla tutela giurisdizionale. Ma essa verrebbe in rilievo anche
nelle direttive in materia di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori, specie se
riferite a situazioni aziendali e societarie di "dimensione comunitaria", nonché nelle direttive che
contengono prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro, le quali, specie se garantite da
clausole di non regresso indirizzate agli Stati, ammetterebbero discipline differenziate su base
regionale solo se più favorevoli agli interessati.
Ugualmente subordinata ad una legge statale, seppur di principi, sembra la possibilità -concessa
dalla dir. n. 2000/78, del 27 novembre 2000 ("che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro")- di prevedere eccezioni al
principio in argomento "laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'
ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del
lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale e i mezzi per il conseguimento di tale
finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in
particolare [...] la definizione di condizioni speciali di accesso all' occupazione e alla formazione
professionale, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori
anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l' inserimento professionale o assicurare la
protezione degli stessi". La previsione di "condizioni speciali" all' applicazione del principio di
parità da parte dei "legislatori nazionali", stante il suo carattere di eccezione rispetto al principio di
non discriminazione, sembra ammissibile solo previa individuazione, con norme di principio, che
soltanto il legislatore statale può dare, delle ipotesi che giustificano "oggettivamente e
ragionevolmente, nell' ambito del diritto nazionale", l' applicazione di quelle "condizioni speciali".
Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche per "la tutela in particolare dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali". In questo caso il potere sostitutivo troverebbe giustificazione nell' esigenza di individuare
una funzione di "contraltare centralistico" e di predisporre pertanto dei controlli sulla corretta
applicazione del diritto comunitario -anche al fine di garantire l' irrogazione di sanzioni in caso di
inosservanza delle norme comunitarie- a fronte dell' abolizione di ogni forma di controllo
preventivo, e senza la predisposizione di strumenti efficaci di integrazione politica nazionale
(PANUNZIO, 2001, p. 379).
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Il potere sostitutivo, potendo prescindere "dai confini territoriali dei governi locali" parrebbe
addirittura autorizzare un intervento dello Stato in tutte le materie di spettanza regionale, con
conseguente omologazione verso il basso delle "capacità legislative" delle assemblee locali. La
definizione dei contenuti e dei limiti di tale potestà (di ambito assai ampio, anche perché -come
detto- resa immune dal limite dei "confini territoriali dei governi locali"), come pure delle connesse
procedure di svolgimento, sarebbe allora esercitabile dal legislatore ordinario con il solo limite del
"rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione" (nuovo art. 120,
comma 2°).
6.- Conclusioni.
6.1.- Le difficoltà interpretative del nuovo testo costituzionale -sul piano dei rapporti tra Unione
europea, Stato ed enti infrastatali- sono accentuate dal fatto che il legislatore neo-costituente ha
adottato delle previsioni di principio -peraltro di non agevole interpretazione e di complicato
raccordo con le norme costituzionali e le leggi previgenti- senza apprestare effettivi strumenti
operativi. Le nuove disposizioni costituzionali sono infatti così generiche e spesso ambigue, nel far
riferimento alla partecipazione regionale al processo di integrazione comunitaria, da lasciare molto
spazio alla legge ordinaria di esecuzione-attuazione (essendo peraltro legittime, oltre che necessarie,
norme statali di tale natura) e al potere sostitutivo dello Stato.
Proposte in materia non mancavano, anche se comprendevano opzioni tra loro assai diverse:
secondo alcuni si poteva specializzare una delle Camere, attribuendo magari al Senato (nello spirito
della "Camera delle Regioni") un ruolo particolare di raccordo e d' informazione con le autonomie
regionali; secondo altri sarebbe stato auspicabile un intervento del legislatore statale con la "legge
comunitaria", facendo riferimento ad un intervento degli statuti regionali, prevedendo compiti di
monitoraggio e di informazione sulle norme comunitarie in itinere, anche per preparare la recezione
in sede regionale delle direttive, eventualmente attraverso una "legge comunitaria" della Regione
(MIDIRI, 2001, p. 242). Quest' ultima ipotesi nasce dalla constatazione delle difficoltà che si
frappongono all' attuazione delle singole direttive da parte delle Regioni, anche perché la loro
recezione è possibile solo attraverso leggi regionali.
6.2.- Al fine di superare tali difficoltà si è dunque ipotizzato che, nell'ambito di una revisione del
sistema delle fonti regionali, una "legge regionale comunitaria" (analoga alla legge comunitaria
nazionale) possa prevedere l' attuazione successiva di alcune direttive anche attraverso regolamenti
(BILANCIA, 2002, p. 73). Questa "legge regionale comunitaria" potrebbe disporre l' attuazione
diretta delle direttive comunitarie solo per le materie di competenza regionale esclusiva, salvo in
ogni caso -secondo alcuni- il potere dello Stato di intervenire (anche in via preventiva, secondo l'
opinione prevalente) ad indicare quali norme di principio inderogabili debbano prevalere in materia
di competenza legislativa concorrente e a stabilire gli strumenti mediante i quali le Regioni
partecipano alla fase discendente. Questo "ostacolo" non parrebbe eludibile mediante la previsione
negli Statuti regionali, in assenza di una legge dello Stato, di norme-fonti sulla produzione di una
legge comunitaria regionale, perché si verrebbero a dettare delle norme generali in materia di
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procedure di attuazione del diritto comunitario derivato da parte delle Regioni, che la Costituzione
riserva espressamente al legislatore nazionale.
Va in ogni caso considerato che, in base al principio ricavabile dal nuovo testo costituzionale che intende promuovere la partecipazione delle Regioni alle fasi di attuazione del diritto
comunitario- e dalle leggi precedenti, la Regione, in attesa dell' intervento del legislatore statale,
potrebbe anche decidere di accorpare in "una" legge regionale (che può anche chiamare, se vuole,
"legge comunitaria regionale") la molteciplicità di atti normativi che dovrebbe porre in essere per
recepire il diritto comunitario nelle materie rimesse alla sua competenza esclusiva. Non si
dimentichi infatti che, come già ricordato (v. supra, par. 5.1), la L. n. 86/1989, come modificata
dalla L. n. 128/1998, aveva già attribuito a tutte le Regioni, sia ordinarie che speciali, il potere di
attuazione diretta ed immediata delle direttive comunitarie nelle materie di propria (esclusiva)
competenza, salvo eventuale adeguamento alle norme statali di principio sopravvenute; e che la L.
n. 422/2000 aveva già riconosciuto la possibilità di operare tale attuazione anche con atti normativi
secondari.
Più controversa sembra invece la recezione diretta, con legge regionale, delle norme comunitarie
nelle materie di competenza concorrente: in questo caso la legge regionale (si chiami, o no,
comunitaria) dovrebbe comunque rispettare i principi fondamentali fissati con legge dello Stato. Un'
attuazione diretta del diritto comuitario nelle materie di competenza concorrente, farebbe i conti con
un intervento successivo dello Stato, inteso a indicare quali norme inderogabili di principio debbano
prevalere. Oltretutto rimarrebbe sempre la possibilità, riconosciuta dalla Corte costituzionale, di
annullamento della legge regionale, nel giudizio in via principale, nell' ipotesi di non corretta
attuazione di normativa comunitaria (Corte cost. nn. 384/1994, 94/1995, e 424/1999).
6.3.- Decisamente più dubbia pare invece la possibilità di recepire (anche solo una) parte delle
norme comunitarie -nelle materie di competenza esclusiva e concorrente- mediante regolamenti
regionali: in questo caso, infatti, eventuali lesioni di competenza da parte delle fonti secondarie
regionali non potrebbero essere oggetto del sindacato di legittimità della Corte (controllo che,
invece, potrebbe già esistere a monte sulla "legge regionale comunitaria"), potendo essere rimesse
alla Corte solo tramite il conflitto di attribuzione Stato-Regioni. Verrebbe a cambiare l' ambito della
tutela delle situazioni soggettive considerate dalla normativa regionale, con la possibilità di adire la
gustizia amministativa. In altri termini: non più cessazione dell' efficacia erga omnes di una norma
legislativa regionale che violasse una situazione soggettiva tutelata dalla costituzione, semmai
dovesse capitare, ma semplice ricorso alla giustizia amministrativa per illegittimità di un
regolamento (BILANCIA, 2002, p. 76).
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