CANGIANI, Michele, Karl Polanyi: idee per il nostro tempo. In: Inchesta, Revista trimestrala, Anno XXVII, n. 117-118, Lugliodicembra, 1997, p. 07-24. Página 7 Società e economia Michele Cangiani* Karl Polanyi: idee per il nostro tempo 1. Una vita nel mondo contemporaneo «La mia vita fu una vita mondiale. Ho vissuto la vita del mondo»: così Karl Polanyi (1886-1964) scriveva nel 1957 a un amico (PolanyiLevitt e Mendell, p. XXIII). C'è in queste parole il riferimento al travaglio di una vita segnata dalle vicende che hanno sconvolto il mondo, fra la fine del secolo scorso e la seconda metà del nostro. C'è inoltre, non detto, l'intreccio di senso di responsabilità civile e di brama di conoscenza, che caratterizza la vita e l'opera di Polanyi. Ci sono infine, dette nelle righe che seguono, l'amara soddisfazione di constatare che le proprie idee finalmente hanno trovato qualche sia pur critico o approssimativo ascolto, e l'ansia per il futuro di un'umanità ancora incapace di saggia e pacifica autoamministrazione. Polanyi trascorse a Budapest il primo dei cinque periodi in cui si può dividere la sua vita. Attivo nel movimento studentesco, egli diresse il Circolo Galilei e il periodico oSzabddgondoldt» [Il libero pensiero], battendosi per una riforma politica in senso radicalmente democratico; si dedicò inoltre all'istruzione per adulti, come continuerà a fare nei periodi successivi, specialmente in Inghilterra negli anni trenta. Risiedette a Vienna dal 1919, dove era arrivato malato dopo aver combattuto nelle file dell'esercito austro-ungarico. In Ungheria, nel giro di pochi mesi, alla rivoluzione democratica era succeduta quella comunista, e infine la nobiltà feudale e l'élite finanziaria avevano ripreso il potere. Nel 1933 l'ulteriore peggioramento della situazione politica in Austria, dove si avvertiva la minaccia dei nazisti e il governo Dollfuss aveva abolito le libertà politiche e civili, lo indusse a una nuova emigrazione, in Inghilterra. Risiedette negli Stati Uniti durante la guerra, per scrivere la sua opera più nota, La grande trasformazione, pubblicata nel 1944, e poi dal 1947, quando ebbe un incarico di insegnamento nella Columbia University di New York. Dal 1950, infine, si stabilì in Canada, vicino a Toronto. Budapest era animata, prima della Grande guerra, dalle più avanzate tendenze della cultura centro-europea. Polanyi era in contatto, attraverso la propria famiglia, con quella di Karl Popper e con populisti e rivoluzionari russi. All'attività del Circolo Galilei parteciparono esponenti della cultura ungherese quali il sociologo Jaszi, il musicista Bartók, lo psicoanalista Firenczi; come conferenzieri, intervennero, oltre a Lukdcs, studiosi stranieri come Sombart, Max Adler ed Eduard Bernstein. L'adesione di Polanyi al socialismo iniziò in questo periodo, ma andò precisandosi nel dopoguerra, nella «Vienna rossa», in cui continuava lo splendore della «grande Vienna» in . tutti i campi della conoscenza, dell'arte, della letteratura. Furono determinanti per la formazione di Polanyi i contatti con i socialisti — gli «austromarxisti», Otto Bauer in primo luogo — e con la «scuola austriaca» di economia. Acquistò così forma compiuta la sua concezione del socialismo come realizzazione piena della libertà: la democrazia di base, di tipo consiliare, auspicata da Bauer, doveva consentire di superare tanto il formalismo giuridico di Hans Kelsen quanto lo statalismo socialdemocratico di Karl Renner, pur mantenendo le garanzie universalistiche dello stato di diritto e un'attiva ed efficiente amministrazione statale (Cangiani 1998, cap. 5). La crisi economica e politica del capitalismo liberale imponeva di avviare una «socializzazione» dell'economia. Conquistata, anche per merito delle lotte della classe operaia, la democrazia politica, si trattava di estenderla alla sfera economica. L'organizzazione dell'economia, le scelte in essa importanti, anziché essere determinate dal motivo del profitto capitalistico e dal meccanismo del mercato, avrebbero dovuto essere competenza di tutti i lavoratori, e dell'intera società organizzata politicamente, democraticamente: mai sacrificando la libertà individuale, alla quale Polanyi teneva non meno di Friedrich Hayek, benché la contrapposizione fra i due autori, iniziata a Vienna, sia continuata poi per tutta la loro vita. Del periodo viennese varino ricordati soprattutto, di Polanyi, gli articoli per il settimanale economico e politico «Der Oesterreichische Volkswirt» (dal 1924), e gli interventi nel dibattito sulla possibilità teorica e sull'organizzazione pratica di un'economia socialista non «amministrata» dall'alto. Ebbe quale principale avversario, in questo dibattito, Ludwig von Mises, esponente liberale, come il suo allievo Hayek, della «scuola austriaca» di economia. In Inghilterra Polanyi fu tra gli animatori di un gruppo di intellettuali socialisti (chiamato Christian Left). La Gran Bretagna gli era del resto familiare da tempo; l'economia, la politica interna e internazionale, le vicende del movimento operaio di quel paese costituivano la principale Página 8 specializzazione di Polanyi giornalista. L'ambiente della sinistra socialista inglese lo interessava particolarmente; già nel 1924 egli aveva organizzato un seminario a Vienna sul Guild Socialism, in cui largamente si riconosceva, considerandolo vicino alla concezione del «socialismo funzionale» di Otto Bauer. Durante il soggiorno inglese, Polanyi tenne conferenze e scrisse saggi e articoli — specialmente sul fascismo — di cui non poteva parlare sul suo settimanale, per il quale continuò comunque a lavorare fino al 1938, quando esso non fu più pubblicato in seguito all'invasione nazista. Partecipò alle attività della Workers' Educational Association. Presidente di quest'associazione era lo storico Richard Tawney, le idee del quale, così come quelle di G. D. H. Cole, storico del movimento operaio e teorico del Guild Socialism, influenzarono Polanyi. Tawney in The Ac4ttisitive Society (1920) aveva sostenuto che nella società capitalistica, diversamente anzi inversamente rispetto a qualsiasi altra, l'economia è autonoma e dominante, a scapito delle altre funzioni sociali fondamentali, la politica e la cultura. Questa è indubbiamente una fonte di uno dei motivi centrali e più noti del pensiero di Polanyi, quello del «posto» speciale che ha nella società capitalistica l'economia, non più embedded (inserita, incorporata, determinata) entro il sistema socio-culturale complessivo, e non ancora democraticamente governata mediante la responsabile partecipazione politica di tutti i cittadini. Non va dimenticato d'altronde, riguardo a ciò, lo studio dell'opera di Marx compiuto a più riprese da Polanyi. Egli approfondì in particolare, con il gruppo della «sinistra cristiana», i Manoscritti economico-filosofici (1844), dopo la loro pubblicazione nel 1932, e altre opere di Marx, come l'analisi della merce e del feticismo svolta nel primo capitolo del Capitale. Gli scritti di quel periodo, in parte ancora inediti, documentano l'influenza di Marx sull'orientamento politico e teorico di Polanyi; essa è chiara anzitutto riguardo al concetto-chiave di "economia" e al metodo di «critica dell'economia politica» in cui esso si iscrive. (Si vedano, nel presente fascicolo, i brani pubblicati e commentati da Marguerite Mendell). La disillusione seguita alle speranze di uno sviluppo della democrazia verso la pace e il sctialismo, il desiderio di comprendere e superare la tragedia del fascismo e della guerra, condussero Polanyi a riflettere sull'intera storia del sistema di mercato capitalistico: sulle «origini del nostro tempo», come egli avrebbe voluto dapprima intitolare La grande trasformazione. Rifluiscono In quest'opera l'analisi diuturna e meditata, anche per motivi professionali, degli avvenimenti fra le due guerre mondiali, e lo studio della storia dei secoli precedenti, compiuto ai fini dell'insegnamento nei corsi per adulti. V'è inoltre il desiderio di confutare la rinascente ideologia liberale, testimoniata ad esempio dall'opera pubblicata nello stesso anno da Hayek (The Road to Serfdom) e, a ben vedere, anche dalla teoria politica esposta da Josef Schumpeter in Capitalism, Socialism, and Democracy: il dibattito «viennese» continuava, in terre anglosassoni, di qua e di là dall'Oceano. Anche gli ultimi scritti di Otto Neurath, fra i quali c'è anche una critica del libro di Hayek (Neurath 1945), rientrano nel dibattito, su posizioni simili a quelle di Polanyi. Secondo quest'ultimo, dopo la guerra si sarebbe ripresentata, in forma nuova e in un nuovo contesto, l'alternativa tra il controllo politico democratico del sistema economico e il nuovo liberismo su scala mondiale. Sostenitori di questa prospettiva di un «capitalismo universale», che si contrapponeva a qualsiasi esperimento di «pianificazione regionale» (Polanyi 1945), divennero gli USA, decisi ormai a gestire anche politicamente, non più solo nel loro continente ma nel mondo, la loro supremazia economica. La notorietà di Polanyi cominciò a diffondersi dopo la pubblicazione nel 1957 del volume collettivo da lui curato, Trade and Market in the Early Empires, risultato del suo lavoro presso la Columbia University. I saggi ivi raccolti non potevano non suscitare un dibattito, poiché erano opera di studiosi attivi nel mondo accademico e mettevano in questione interi campi del sapere, come l'antropologia economica, la storia del pensiero economico e sociale, e la storia economica, dalle società arcaiche a quella di mercato. Venivano criticati, implicitamente ed esplicitamente, tanto il metodo della scienza economica come quello della sociologia funzionalista di Parsons. La grande trasformazione ha avuto una fortuna più tardiva. Ciò si spiega in generale con l'inattualità del pensiero di Polanyi, la cui analisi critica della società di mercato-capitalistica risultava estranea non solo ai sostenitori, com'è ovvio, ma anche agli oppositori di essa, fermi di solito a una versione meccanicistica ed economicistica del marxismo. Si spiega inoltre con la complessità e la difficoltà dell'opera. Sono stipati in essa decenni di lavoro e (perché non dirlo) di passione politica, per cui 'spesso fatti e idee sono evocati più che spiegati, talvolta anche a causa di scrupoli autocensori. E soprattutto, ciò che ha creato problemi e divisioni tra gli interpreti è l'intrecciarsi di due livelli di analisi. Il primo riguarda le caratteristiche e lo sviluppo del «sistema di mercato» in senso stretto, cioè del capitalismo liberale («ottocentesco» o «vittoriano», come dice talvolta Polanyi), e la sua crisi, culminata nel crollo del 1929, che rese inevitabile la «trasformazione» degli anni trenta. Oggetto del secondo livello sono le caratteristiche più generali del sistema di mercato in senso lato, cioè della moderna società capitalistica. A questo livello, ad esempio, ha senso la comparazione con società primitive e antiche, innovativamente delineata nell'opera; mentre si situa al primo livello la storia dell'utopico tentativo di far funzionare un mercato perfettamente «autoregolato». Solo distinguendo i due livelli è possibile apprezzare il contributo teorico di Polanyi alla comprensione delle diverse fasi storiche attraversate dal sistema di mercato-capitalistico in senso lato, cioè delle trasformazioni delle istituzioni economiche e politiche, entro i vincoli determinati dalle caratteristiche più generali del sistema. Il lavoro di Polanyi dopo La grande trasformazione consiPágina 9 stette in gran parte nel tentativo di giustificare e approfondire l'analisi più generale del capitalismo come specifica organizzazione sociale storica dell'economia. Egli perseguì questo scopo, tuttavia, spostando l'attenzione dall'analisi critica di tale forma sociale allo studio delle economie antiche e primitive e dei problemi del metodo di una teoria generale comparativa dei sistemi economici. Così gli era più facile garantirsi in America, nel tempo della Guerra Fredda, il diritto di cittadinanza intellettuale, pur continuando a precisare e ad approfondire la sua critica dei postulati della scienza economica e di quello che si usa chiamare oggi il «pensiero unico» economicista e liberista. Mi occuperò nella sezione seguente dei problemi più generali dell'analisi comparata dei sistemi economici. Il metodo «istituzionale» di Polanyi implica la preminenza e la priorità dello studio dei sistemi economici nella loro natura sociale, nella loro specificità storica e nel loro complesso. Ciò conduce inevitabilmente a una critica dei concetti della scienza economica neoclassica e in particolare della loro applicazione allo studio delle economie premoderne. La stessa definizione dell'economia viene messa in questione. S'intende che il medesimo metodo vada applicato anche allo studio della società di mercato-capitalistica; solo la comprensione del modo in cui essa, ed essa sola, è organizzata, consente del resto di limitare il più possibile il rischio di proiettare sue caratteristiche su società diverse. Il livello analitico più specifico riguarda le caratteristiche istituzionali del «sistema di mercato» in senso stretto, il suo sviluppo e la sua crisi; e le diverse modalità della «trasformazione» seguita negli anni trenta. A questi temi sarà prevalentemente dedicata la terza sezione. Polanyi ha elaborato interpretazioni del fascismo e delle vicende della politica internazionale che, da una parte, inducono ad approfondire la sua filosofia politica, e dall'altra suggeriscono problemi da porre anche riguardo alla storia successiva, fino ai nostri giorni. Particolarmente interessanti sono, da questo punto di vista, gli articoli in cui egli commenta negli anni trenta le vicende inglesi: i tentativi di ristrutturazione industriale e i nuovi tratti corporativi che le istituzioni economiche e politiche tendevano ad assumere. Finora l'interesse per il Polanyi «americano», cioè per il suo lavoro successivo a La grande trasformazione, è stato di gran lunga prevalente; l'aver lasciato in ombra quest'opera e gli scritti precedenti ha reso più facili interpretazioni erronee o riduttive del suo pensiero. 2 . L'«analisi istituzionale» e il problema dell'economia 2.1. Il posto dell'economia Al contrario che nella nostra società, in quelle precedenti l'economia non si presenta come un sistema dotato di norme proprie, che lo differenzino da altri ambiti e funzioni del sistema sociale complessivo. Ciò risulta particolarmente evidente nelle società primitive, nelle quali, scrive Polanyi (1978, p. 82), l'insieme degli «aspetti economici», pur possedendo «unità e coerenza», non forma «un tutto significativo». Non esiste «una sfera economica distinta»; gli elementi dell'economia sono invece «incorporati (embedded) in istituzioni non economiche, mentre il processo economico è regolato da legami di parentela, matrimoniali, tra gruppi di coetanei e tra società segrete, da associazioni totemiche e da cerimonie pubbliche». Da quelle istituzioni e da quei legami, dal sistema complessivo dei rapporti e delle norme sociali, dipendono le motivazioni individuali, che quindi non possono dirsi «economiche». Come afferma Bronislaw Malinowski (1922), le ricerche antropologiche del quale sono per Polanyi una fonte importante, «le norme tradizionali, le concezioni magiche e mitologiche, introducono un ordine sistematico nell'attività economica degli individui e la organizzano al livello della società». Deriva da ciò che, in primo luogo, «raggruppare i frammenti del processo economico e ordinarli» è per lo studioso delle società primitive un compito non facile, la cui soluzione non è mai immediata, ma richiede un lavoro di ricostruzione teorica (Polanyi 1978, p. 82). In secondo luogo, questo modo di esistenza dell'economia nelle società primitive costringe a prendere atto del fatto che sempre, in qualsiasi società, l'economia è socialmente organizzata. Essa è comunque un «fatto» culturale, è una realtà sociale, risultato di un processo storico. Non esistono «fatti economici» dati come tali, tanto «naturali» quanto immediatamente comprensibili nella loro concretezza. Non esistono neanche nella nostra società, nella quale l'economia è autonoma e dominante, e viene quindi distinta come tale. Anzi, proprio questo particolare <Tosto», che l'economia occupa nella nostra società, la rende non solo visibile, ma abbagliante: essa allora, secondo Marx e secondo Polanyi, tende ad essere concepita feticisticamente. L'economia capitalistica non viene cioè compresa nella sua specificità, in quanto forma storica, in quanto organizzazione sociale. Accade così che i prodotti del lavoro umano appaiano dotati di per sé di valore, mentre il valore rappresenta, in realtà, la loro qualità sociale (cfr. Marx 1964, cap.I, § 4). Commenta Polanyi: «il movimento delle merci nel mercato appare governato da una forza (il loro valore) che sta nelle merci stesse, come se gli oggetti in cui esse consistono fossero dotati di vita propria, di un loro spirito»: mentre il valore di scambio «è, in realtà, solo il riflesso dei rapporti materiali degli esseri umani» (Polanyi s. d.). Va poi sottolineato che anche per lui, come per Marx, occorre proseguire l'analisi dalla merce al capitale e al comunemente accettato concetto feticistico di esso. Per spiegare la concreta vita economica in società date, insomma, occorre analizzare il modo in cui tali società sono organizzate, la loro forma. In ogni società l'economia è istituzionalizzata in modo specifico, e così è determinato Página 10 il suo posto nella società. «Studiare il mutamento del posto occupato dall'economia nelle società non vuole dire altro che studiare i modi in cui, nelle diverse epoche e nelle diverse località, il processo economico è stato istituzionalizzato» (Polanyi 1978, p. 305). In ogni società esiste una produzione, ma essa non è determinata, scrive Marx, da «leggi di natura eterne, indipendenti dalla storia». Se si pretende che lo sia, si confondono due livelli logici diversi, due tipi diversi di problemi: 1) l'economia in generale; 2) l'organizzazione sociale, specifica che l'economia assume di volta in volta. In realtà, «ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo all'interno e a mezzo di una determinata forma sociale» (Marx 1976, pp. 9-10). Anche Polanyi — il quale, secondo Rhoda Halperin (1984), ha in complesso in comune con Marx il «paradigma istituzionale» — assume una Posizione critica dello stesso tipo quando parla della «fallacia economicistica», la quale consiste nello stabilire l'identità fra l'economia in generale e la sua forma moderna («di mercato», capitalistica). Si commette cioè, secondo Polanyi, un vero e proprio «errore logico» ritenendo che «un fenomeno vasto e generico sia identico a una sua specie particolare, che si dà il caso ci sia familiare». «Non appena le attività quotidiane dell'uomo — egli spiega — si sono organizzate secondo mercati di vari tipi, basati sui moventi del profitto, determinati da atteggiamenti competitivi, e governati da una scala di valori utilitaristici, la società diviene un organismo che è, sotto tutti gli aspetti essenziali, sottoposto a fini di guadagno. Avendo così assolutizzato il movente del guadagno economico nella pratica, l'uomo perde la capacità di tornare a relativizzarlo mentalmente» (Polanyi 1984, p. 28 e p. 10). Questa specifica forma sociale di economia, cioè, non viene riconosciuta come tale, ma viene intesa senz'altro come l'economia: e ciò dipende proprio dalla peculiarità di tale forma sociale, la quale può dirsi specificamente economica, poiché si fonda sull'«economizzare» (nel senso che si chiarirà man mano meglio). 2.2. Definire l'economia Dovrebbe ormai essere un luogo' comune — scrive Polanyi con gli altri due curatori (C.M. Arensberg e H. W. Pearson) di Traffici e mercati negli antichi imperi — la concezione della società come organizzazione storica dell'esistenza umana: dei «processi sociali» come «intreccio di rapporti tra l'uomo, definito come entità biologica, e quella particolare struttura di simboli e di tecniche che è sorta nel corso della sua lotta per l'esistenza» (Polanyi 1978, p. 291). Dovrebbe esserlo, si può aggiungere, almeno da quando Marx scrisse le Undici Tesi su Feuerbach. Anche l'economia fa parte del processo sociale — come dovrebbe essere ovvio, ma non è, dato che permane il dominio del punto di vista feticistico riguardo all'economia e della forma sociale di economia di cui esso è espressione. Secondo la concezione corrente, «economico» è «un certo tipo di azione»: «l'azione dell'economizzare», che consiste nell'applicazione della razionalità, insita negli individui umani come tali, per trarre il massimo vantaggio dalle risorse disponibili, per definizione scarse. Questo tipo di definizione dell'economia viene detto «formale» perchè pretende di concernere la forma dell'agire economico; forma generale, in quanto consiste in un certo modo di applicare la razionalità umana e prescinde dagli oggetti e dagli scopi dell'agire, cioè da qualsiasi contesto. Si tratta, in realtà, di una definizione che rispecchia acriticamente il modo di esistenza, il «posto» dell'economia nella società capitalistica. Polanyi e i suoi collaboratori vollero dimostrare, mediante ricerche storiche e antropologiche, che «la struttura istituzionale dell'economia non richiede sempre, come nel sistema di mercato, che si compiano azioni economizzanti» (Polanyi 1978, p. 292). Occorreva dunque, a loro avviso, una definizione dell'economia più generale di quella corrente, per poter comprendere sistemi economici organizzati socialmente, «istituzionalizzati» storicamente in modo diverso rispetto al sistema di mercato. Che cosa è dunque economico, e che cosa non lo è? Che cos'è l'economia? Polanyi sostiene che l'unico significato che si può dare in generale all'economia è quello che egli chiama «sostanziale» (o «materiale») («substantive»). «Esso si riferisce a quell'interscambio fra il soggetto e il suo ambiente naturale e sociale che ha per scopo di procurargli i mezzi materiali per il soddisfacimento dei suoi bisogni» (1978, p. 297). «La produzione — egli scrive già nel 1922 (1987, p. 16) — è un processo di lavoro, cioè un processo di lotta e adattamento tra uomo e natura, che serve a soddisfare i bisogni materiali dell'uomo». Questa definizione è un metaconcetto, o un concetto-insieme, così come, in Marx, il concetto di «processo lavorativo» quale «ricambio organico» fra l'uomo e l'ambiente naturale. È un concetto che pone un problema, ma che rinvia, per la soluzione, all'analisi delle diverse forme sociali, dei diversi elementi dell'insieme. Come per Marx, anche per Polanyi (1978, p. 302) ciò che va studiato sono i «concreti sistemi economici», nei quali si tratta sempre di «un processo istituzionalizzato di interazione fra l'uomo e il suo ambiente». «Il fatto di essere istituzionalizzato conferisce al processo economico la sua unità e stabilità; ciò dà vita a una struttura che ha una specifica funzione in seno alla società; trasferisce il processo nel mezzo della società conferendo così un significato alla sua storia; orienta l'interesse verso i valori, le motivazioni e le scelte politiche. Unità e stabilità, struttura e funzione, storia e politica esprimono in termini operativi il contenuto della nostra affermazione che l'economia umana è un processo istituzionalizzato». Si tratta dunque di comprendere il «contesto sociale» o «istituzionale», «l'intrico di rapporti sociali in cui l'economia era inserita» nelle società precedenti (ib., pp. 305, 291, 292 e 295), così come il «posto» particolare che essa assume, differenziandosi e autonomizzandosi, quando il suo «contesto istituzionale» è costituito dalla società di mercato capitalistica. L'approccio polanyiano implica, scrive J.R. Stanfield (1986, Página 11 p. 48), «niente meno che un punto di partenza radicalmente differente per l'analisi dell'economia umana come processo sociale». Il concetto «sostanziale» dell'economia e il metodo «istituzionale» — che, dunque, si implicano reciprocamente — si contrappongono alla cosiddetta definizione «formale» e al relativo metodo di analisi. La più nota e canonica formulazione dell'orientamento formalistico è quella di Lionel Robbins nel suo Essay on the Nature & Significance of Economie Science del 1932. Robbins critica le concezioni che distinguono l'economia in base al suo oggetto (reperimento e trasformazione di beni materiali) e al suo fine (il benessere materiale), a cominciare dalla definizione del «lavoro produttivo» di Adam Smith, basata appunto sull'oggetto della produzione. Conviene rammentare che Marx aveva opposto a quella di Smith la definizione basata sulla forma del rapporto di produzione (capitalistico, in vista del profitto): sulla «Forni», cioè sull'organizzazione sociale del sistema economico. Robbins, ovviamente, non cita la soluzione di Marx; il suo «formalismo» è ben diverso, è tutto il contrario, poiché mira ad escludere dalla teoria la forma sociale. Egli spiega, a partire idealmente dalla «Crusoe Economy» (da una orobinsonata», direbbe Marx), che l'economia consiste nell'insieme delle scelte (individuali) riguardo all'impiego del tempo e delle risorse, in rapporto con il sistema dei bisogni (esigenze e desideri). La scelta è necessaria, e possibile, ogni volta che i mezzi non siano sufficienti per soddisfare completamente i bisogni, e inoltre: 1) i mezzi (tipicamente, il tempo) possano essere usati per scopi diversi; 2) sia possibile ordinare gli scopi secondo la loro importanza. Ecco dunque la definizione di Robbins: l'economia è la scienza che studia «l'aspetto economico» del comportamento umano, la forma che esso assume in conseguenza della scarsità: il comportamento rivolto a istituire, mediante scelte, un «rapporto tra i fini e mezzi scarsi che hanno usi alternativi» (Robbins 1962, pp. 11-17). Marshall Sahlins, riassumendo i risultati delle proprie ricerche sulle società primitive, e rifacendosi a Polanyi, definisce in generale l'economia come l'organizzazione sociale dell'approvvigionamento materiale e dell'adattamento nell'ambiente naturale. L'economia non va definita, egli scrive, «come l'applicazione di scarsi mezzi disponibili a fini alternativi (fini materiali e non)». Dall'analisi delle società non capitalistiche risulta piuttosto che «dai mezzi al fine l'economia va concepita come una componente della cultura e non come una particolare azione umana»; come «il processo vitale e materiale della società», non come «un modo di comportamento individuale che soddisfi bisogni» (Sahlins 1980, p. 190, nota). 2.3. L'analisi comparata dei sistemi economici L'uscita nel 1957 di Trade and Market in the Early Empires (Polanyi 1978), diede il via a un vasto dibattito sul metodo dell'analisi comparata dei sistemi economici. Furono soprattutto gli antropologi a dividersi tra «formalisti» e osostantivisti»; i secondi si rifacevano a Polanyi, cogliendo raramente, tuttavia, le più profonde implicazioni del suo principio, che oggetto dell'analisi economica debbano essere le forme sociali dell'economia. Sahlins è tra i pochi a seguire fino in fondo la via che porta, come egli dice, dall'«economia comparata» all'«economia antropologica» (Sahlins 1960; Cangiani 1990). Quest'ultima rispecchia il metodo di Polanyi. L'«economia comparata» invece — in cui si tratta, come dichiara Melville Herskovits (1952, p. 4), di «comprendere le implicazioni interculturali del processo dell'economizzare» — cade nella «fallacia economicistica», presupponendo che la differenza tra i più lontani sistemi economici consista solo nel diverso grado di sviluppo e nel diverso ambiente culturale, il quale resta però esterno rispetto all'agire economico propriamente detto. I concetti della scienza economica contemporanea risultano quindi universalmente applisabili, e il metodo comparativo consiste nel confronto di sistemi economici storicamente specifici in riferimento a un modello generale dell'agire economico. L'apparato concettuale impiegato da Herskovits, scrive Daniel Fusfeld, corrisponde a una situazione in cui, come nell'economia contemporanea, il «complesso dei mercati e dei prezzi, dei profitti e della ricerca del guadagno» fornisce «gli strumenti istituzionalizzati mediante i quali compiere le scelte». Quando invece l'economia si fonda sui doni, sulla parentela, in generale su motivazioni sociali, la teoria della scelta razionalmente «economica» «può portare soltanto all'affermazione generica e imprecisa che c'è stata massimizzazione delle soddisfazioni», e a privilegiare aspetti secondari come lo scambio intertribale, a scapito di quelli più importanti, come il modo in cui avvengono la distribuzione e l'impiego delle risorse e del prodotto all'interno del sistema economico (Fusfeld 1978, pp. 427428). Un altro collaboratore del volume Traffici e mercati, Harry Pearson, svolge la critica del modo «naturalistico», falsamente generale, in cui viene di solito inteso al concetto di «surplus». Il significato e l'esistenza stessa del surplus dipendono, in realtà, dalle particolari «caratteristiche istituzionali» dell'economia, ed è solo nell'economia di mercato che il sukplus diventa istituzionalmente determinante riguardo all'allocazione delle risorse, alla divisione del lavoro, ai rapporti sociali, e quindi acquista un significato generale. Pearson fa riferimento al concetto di «plusvalore» e sottolinea che Marx ha per primo rilevato «l'origine istituzionale» del surplus nel rapporto tra lavoratore e capitalista (Pearson 1978', in particolare pp. 394, 409 e 417). A Marx va fatto risalire in generale, come abbiamo visto, il concetto di feticismo: oltre a quello della merce, c'è il feticismo del capitale, tuttora rilevabile in quegli studi di «economia comparata», per i quali «capitale» è qualsiasi bene strumentale, in qualsiasi società. Sahlins, ne L'economia dell'età della pietra, richiama anche a questo proPágina 12 posito la necessità che la teoria si rivolga alle istituzioni e ai rapporti sociali. Egli si sofferma sulla qualità del rapporto, che esiste nelle società primitive, tra l'uomo e i suoi mezzi di produzione, i quali sono nello stesso tempo «di sussistenza»: essi vengono prodotti da coloro che li usano e che sono anche i destinatari del prodotto. Il possesso dei mezzi di produzione, allora, non mette in atto né riproduce una divisione sociale; il controllo delle risorse appartiene ai produttoriconsumatori; è semmai lo status che consente la disponibilità di ricchezza, non viceversa. Condizione del prestigio sociale può, d'altra parte, essere la generosità, il dare di più di quanto si riceva; lo constatano tanto Sahlins a proposito del «big man» nella Melanesia, quanto studiosi delle culture dell'America del Sud come Claude LéviStrauss (1967) o Pierre Clastres (1980). La razionalità econòmica e il «surplus» non sono comunque mai un fine in sé, non determinano in quanto tali l'organizzazione e la dinamica dell'economia. Nell'antropologia economica di orientamento «formale» più recente la diversità dei sistemi economici viene riconosciuta, ma concepita come diversità che riguarda solo l'oggetto e le condizioni del comportamento «economizzante»; ad esempio, nelle società primitive si tratterà di massimizzare il prestigio sociale piuttosto che il guadagno monetario (cfr. Schneider 1985). Si può obiettare, sempre rifacendosi alla critica svolta da Polanyi, che, se la razionalità economizzante viene riferita alla produzione materiale, la sua generalizzazione interculturale è insostenibile; se viene estesa a qualsiasi fatto e atto sociale, quest'applicazione «imperialistica» della teoria economica risulta tanto riduttiva riguardo alle società premoderne quanto sfuggente riguardo alla specificità della nostra. Aderendo invece al punto di vista «sostanziale» di Polanyi, Sahlins collega l'assenza dell'interesse individuale con la complessità del fatto economico e la sua «immersione» nella totalità sociale, che danno luogo a una determinazione unitaria e contestuale dei fini e dei mezzi. Inoltre, egli mette in rilievo che il processo di approvvigionamento materiale della società è finalizzato alla riproduzione della società come organizzazione complessiva e peculiare (questo spiega anche peithé tale processo non riguardi solamente la soddisfazione dei bisogni materiali, i quali, del resto, non esistono in sé, ma sono sempre socialmente definiti). Queste indicazioni di Sahlins consentono di comprendere meglio perché il concetto di Polanyi del processo economico come «approvvigionamento materiale della società», come processo di adattamento dell'uomo nel suo ambiente, sia antieconomicistico: non semplicemente per l'importanza che dà ai fattori istituzionali e culturali, e perché considera limitata alla società capitalistica l'esistenza di una sfera economica definita in sé e per sé: ma perché intende il problema dell'economia come problema della sua forma (organizzazione) sociale, e quindi del suo significato (del suo «posto») in rapporto con il sistema sociale complessivo. Che l'economia sia sempre «istituzionalizzata» significa che sono socialmente determinate le norme (e le sanzioni) che regolano i fini e i modi dell'attività degli individui, la loro partecipazione al processo economico. L'economia in senso sostanziale, l'acquisizione e la disposizione di risorse necessarie per la riproduzione della società, si attua così di volta in volta, prendendo una specifica forma sociale. È grazie alla sua istituzionalizzazione che l'economia costituisce un sistema: «Le proprietà dell'unità e della stabilità, della struttura e della funzione, della storia e della politica sono conferite all'economia dal suo manto istituzionale» (Polanyi 1984, pp. 59-60). Si tratta sempre di una particolare istituzionalizzazione, che delimita e orienta, secondo scelte definite, sia il sistema nel suo complesso, sia l'attività e i rapporti degli individui, sia i «motivi» dell'agire economico. Si vede bene come la contrapposizione con il punto di vista «formale» dell'economia neoclassica verta essenzialmente sul fatto che in esso il problema della struttura sociale venga rimosso, per cui oggetto dell'analisi economica diventa, lo si voglia o no, l'homo oeconomicus. Polanyi critica tanto l'individualismo metodologico quanto la riduzione dell'oggetto della scienza economica all'agire razionale «economizzante». Il problema, per lui, è la forma sociale dell'economia, non la forma «economica» del comportamento individuale o la «razionalità economica» in generale. «Gli effetti sociali dei comportamenti individuali — egli scrive (1978, p. 307) — dipendono sempre dalla presenza di determinate condizioni istituzionali». Anzi, dipendono da queste ultime le stesse motivazioni degli individui, oltre che gli scopi, i modi, i limiti della loro attività economica: la quale è insomma di volta in volta significativa e «integrata» entro uno specifico sistema sociale. Nel sistema dell'economia capitalistica, «tutti i beni e i servizi, compreso l'uso del lavoro, della terra e del capitale, possono essere acquistati sul mercato e ricevono pertanto un prezzo»; «la generale introduzione del potere di acquisto come mezzo di appropriazione trasforma il processo attraverso il quale si fa fronte ai bisogni nello stanziamento di mezzi insufficienti aventi usi alternativi, in particolare del denaro» (ib., p. 302). La scarsità appare allora un fattore storicoistituzionale, invece che, come nell'economia neoclassica, un presupposto generale dell'agire economico. La definizione teorica di questa situazione storica, di questa forma sociale dell'economia, consente di spiegare sia i caratteri e i motivi del comportamento economico degli individui sia l'origine del «metodo formale», il quale descrive l'economia come «una serie di atti economizzanti, ossia di scelte dettate da situazioni di scarsità» (ib.). Il concetto «sostanziale» e i principi dell'«analisi istituzionale» dell'economia valgono dunque, com'è naturale, anche perla società di mercato-capitalistica; proprio nella riflessione su questa società, anzi, si trova l'origine degli interessi antropologici e della ricerca metodologica di Polanyi. Página 13 Dobbiamo constatare che nelle società diverse dalla nostra, egli scrive, «l'assenza del motivo del guadagno, l'assenza del motivo del lavoro per una remunerazione, l'assenza del principio del minimo sforzo e in particolare l'assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici». Ciò vuol dire, da una parte, che questi motivi tipicamente «economici» sorgono «dal contesto della vita sociale», quando essa è organizzata sulla base di un sistema di mercato. Tali «motivi», quindi, non solo sono fuorvianti quando si devono analizzare modi di organizzazione diversi, ma non possono nemmeno essere addotti a principio di spiegazione e a giustificazione del sistema di mercato. D'altra parte, l'assenza di questi motivi — i quali, nella scienza economica, appaiono principi generali dell'attività economica — non implica affatto che non sia «assicurato l'ordine nella produzione e nella distribuzione» (Polanyi 1974, p. 62). Si tratta di capire come è assicurato. A questo fine Polanyi individua tre tipi generali di organizzazione, tre «forme di integrazione» dell'economia: «reciprocità, ridistribuzione e scambio». Ognuna delle tre forme di integrazione poggia su una «base istituzionale» congrua. Ad esempio, nel caso della reciprocità, i sistemi simmetrici di gruppi di parenti; nel caso della ridistribuzione, gli stati antichi, in cui si è differenziato un sistema politico. Lo scambio, infine, «integra» l'economia sulla base del «sistema di mercato». In tutte le società che si possono far rientrare nelle «forme» della reciprocità e della ridistribuzione, l'economia è «immersa nei rapporti sociali», è parte di un'organizzazione sociale in cui sono complessivamente regolati tutti gli aspetti della vita sociale — anche se di volta in volta il sistema della parentela o quello politico-religioso appaiono dominanti, e dunque sono essenzialmente essi ad «istituzionalizzare» l'economia. La peculiarità dell'economia moderna consiste nel suo essere — in quanto economia di mercato-capitalistica — istituzionalizzata «economicamente». Questa è la sua specifica forma sociale. Si spiega allora il perché del «posto» particolare occupato dall'economia, del fatto che essa non sia più embedded nei rapporti sociali, che diventi autonoma e dominante. Maurice Godelier prende da qui lo spunto per riformulare il materialismo storico. È ben vero, a suo avviso, che la struttura economica è dominante solo nella società capitalistica; ma la struttura della parentela o quella politica, che sono dominanti in altre società, non potrebbero esserlo se non avessero la funzione di rapporti di produzione, se non organizzassero anzitutto l'attività economica (si veda p. es. Godelier 1978). Per concludere riguardo al problema dell'analisi comparata dei sistemi economici, si possono così riassumere i principali assunti di un metodo «polanyiano»: a) le differenze e le somiglianze fra sistemi economici si possono stabilire solo sulla base dello studio delle singole società, delle loro specifiche istituzioni. Non si può invece partire da modelli e concetti generali (come quelli della teoria economica neoclassica). b) I diversi sistemi, studiati nella loro organizzazione specifica e complessiva, possono rientrare in schemi teorici più generali, quali sono le tre «forme di integrazione». c) Il riconoscimento della specificità storica dell'economia di mercato-capitalistica è preliminare per poter procedere a «generalizzare le nostre conoscenze sui modi in cui i concreti processi economici sono istituzionalizzati» (Pearson 19782, p. 390). Questo evita il rischio di proiettare su società diverse caratteristiche della nostra cultura, la quale inevitabilmente è termine di comparazione. O almeno, tale,rischio può essere ridotto se l'approfondimento della conoscenza della nostra società consente di comprendere meglio le altre, e viceversa: secondo il metodo chiamato della «comparazione riflessiva» da Louis Dumont (1983). d) Non c'è logicaniente ragione di ritenere che l'analisi delle società e dei rispettivi sistemi economici nella loro specificità implichi una rinuncia relativistica alle generalizzazioni teoriche. Tale analisi, invece, può fornire criteri meglio fondati per la comparazione. Ciò significa in particolare che una teoria capace di definire la specificità storica dell' «economizzazione» (in base alla teoria del modo in cui l'economia è istituzionalizzata nella società di mercato) è più generale di una teoria per la quale l'«economizzazione» valga come postulato generale. Così, infatti, il concetto «formale» di economia viene svelato come espressione ideologica di una data organizzazione sociale, e può essere formulato il concetto «sostanziale», che è più generale, o generale davvero. 2.4. Il valore come forma sociale Lo scambio generalizzato come forma o «connessione sociale» è l'oggetto dell'analisi di Marx al livello della «circolazione semplice», primo livello della sua teoria della società capitalistica. I concetti fondamentali per la spiegazione di tale forma di società sono, a questo primo livello, «valore» (di scambio) e «lavoro astratto» (quale unico elemento «generalmente sociale» che consenta la scambiabilità delle merci). Poiché ciò è sufficiente per definire la «connessione» — cioè la forma, l'organizzazione sociale del rapporto fra gli individui — si spiega la natura essenzialmente ed autonomamente «economica» di tale organizzazione. Polanyi, analogamente, considera lo «scambio» come la terza delle «forme di integrazione», cioè di organizzazione, dell'economia, precisando che ciò è possibile in quanto esso costituisce un sistema, e lo costituisce in quanto poggia sulla «struttura istituzionale» del mercato (1978, p. 308). È questa struttura che integra, cioè connette e rende coerente, nello spazio e nel tempo, l'agire economico dei singoli. Data questa «forma», altre «differenze», motivazioni e relazioni degli individui, e le altre Página 14 istituzioni sociali, possono variare ed essere più o meno rilevanti, ma restano comunque contingenti (la teoria economica le considera variabili esogene). Appare questa una situazione inversa rispetto a quella caratteristica delle società primitive, nelle quali — come osserva Sahlins concludendo il suo saggio sulla Sociologia dello scambio primitivo (1980, p. 234) — è lo scambio definito esclusivamente dalla razionalità «economica», cioè l'«economizzare», che «appare nel complesso come un fattore esogeno». Attraverso Polanyi, diviene più chiaro ed evidente ciò che Marx (1964, pp. 112-113, nota 32) dichiara essere il carattere distintivo della «critica dell'economia politica»: i concetti di valore e di lavoro astratto non vanno circoscritti, quanto al loro significato, entro l'analisi economica dei prezzi di equilibrio in un sistema concorrenziale di mercato; essi determinano, invece, una particolare struttura sociale. Mediante tali concetti viene definito il rapporto specifico fra individui, fra individui e produzione sociale, fra società e ambiente; viene delineata una particolare situazione storica, a partire dal fatto che l'attività lavorativa non avviene più entro i rapporti e le finalità, che, in una «società organica», sono invece precostituiti nella loro concretezza e complessità. L'affermarsi della società di mercato, osserva Polanyi, corrisponde alla «liquidazione della società organica» (1974, p. 212). Quando, egli scrive (1980, p. 62), «il meccanismo di mercato» diviene «determinante per la vita del corpo sociale», ne risulta una «società 'economica'», nella quale regnano i cosiddetti «moventi economici», si diffonde la «concezione utilitaristica», e si sviluppa l'economia politica fino al «formalismo» neoclassico. Le forme precapitalistiche della produzione sono caratterizzate, secondo Marx (1976, pp. 451-452), dal fatto che «il lavoratore ha un'esistenza oggettiva indipendentemente dal lavoro». L'individuo vive cioè in una società che garantisce la «sussistenza» dei suoi membri entro un'organizzazione in cui sono socialmente definiti, a priori e contestualmente, sia il modo in cui viene «letto» l'ambiente naturale, sia il modo in cui si attua l'intervento lavorativo dei singoli, sia le' finalità che esso persegue. Tutto ciò costituisce il presupposto e il significato dei singoli atti lavorativi e dell'economia nel suo insieme. Tutto ciò può inoltre essere considerato, dal punto di vista del singolo (non «individualizzato», cioè non ancora divenuto il moderno individuo), anche come definizione sociale della sua «soggettività», oltre che della sua «esistenza oggettiva», entro l'organizzazione pratica e insieme conoscitiva della relazione fra uomo e ambiente costituita (prodotta) dal sistema sociale. Nella società capitalistica si ha invece il lavoratore «in forma nuda», ed è questa secondo Marx un'assoluta novità storica. Il lavoro «nudo» della società capitalistica corrisponde al ridursi dello scopo del lavoro alla produzione di «ricchezza astratta», cioè di valore. È nella forma di lavoro astratto che il lavoro produce le condizioni della «sussistenza dell'uomo» e della vita sociale e, anzittutto riproduce l'organizzazione sociale della produzione. La «creazione di valore» come scopo viene dunque contrapposta da Marx a qualsiasi altro modo sociale della produzione, a qualsiasi altra forma sociale dell'economia. Non si tratta, inoltre, semplicemente di uno dei tanti modi in cui l'economia è stata organizzata socialmente, ma dell'autonomizzarsi dell'attività economica, del suo presentarsi in forma astratta, «nuda» di qualsiasi altro significato e scopo sociale presupposti. Come in Marx, anche in Polanyi l'autonomia dell'economia va intesa nel suo concetto, cioè in riferimento al modo in cui il sistema economico è organizzato, non semplicemente in riferimento al processo empirico di differnziazione sistemica della società, il quale ne è semmai, logicamente, una conseguenza. Per Polanyi, in effetti, l'economia ha sempre una forma sociale: anche quando questa forma o «base istituzionale», che consente l'«integrazione» delle attività economiche, conferendo ad esse significato sociale, coerenza e continuità, è il mercato capitalistico. Si tratta in questo caso di una forma sociale essenzialmente «economica» dell'economia in senso generale-sostanziale: la forma dell'«economizzazione». Il concetto «formale» di economia, e l'analisi economica che su di esso si fonda, sono espressione immediata, non critica, di questo modo sociale di organizzazione dell'economia (cfr. Polanyi 1978, pp. 301-302). 2.5. Mercato e capitalismo Il mercato, quale «congegno istituzionale», «organizza gli esseri umani», insieme alla terra e ad ogni altra risorsa, «in unità industriali dirette da privati impegnati soprattutto a comprare e a vendere allo scopo di realizzare un profitto» (Polanyi 1984, p. 32). Tutta la produzione è in vendita sul mercato e tutti i redditi derivano dalla vendita. Ciò implica che vi siano mercati «per tutti gli elementi dell'industria» e anzitutto «per il lavoro, la terra e la moneta» (Polanyi 1974, p. 89): sicché «la stessa sostanza della società umana» viene coinvolta e stravolta. Lo sviluppo dell'economia di mercato, sospinto da quello dei rapporti capitalistici di produzione, dà luogo a «un'intera società incorporata (embedded) nel meccanismo della sua stessa economia: una società di mercato» (Polanyi 198z p. 32). Data «l'importanza vitale del fattore economico per l'esistenza della società», «una volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate, basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status, la società deve essere formata in modo da permettere.a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi» (Polanyi 1974, p. 74). La situazione appare rovesciata rispetto alle società precedenti, in cui il baratto e lo scambio rientrano «in un tipo di transazione precostituito nel quale sono già fissati gli oggetti ed il loro ammontare equivalente» (ib., p. 79). Página 15 Precostituito, s'intende, entro un sistema sociale che organizza nel suo complesso la «sussistenza dell'uomo», che organizza i modi, il significato, l'oggetto stesso della produzione. Il fatto che questa funzione sia assunta dal mercato, mentre «mai prima del nostro tempo i mercati erano stati qualcosa di più che elementi accessori della vita economica» (ib., p. 88), rende evidente la radicalità del cambiamento. La produzione e i bisogni sono ora definiti e organizzati dallo scambio, e dal «produrre per lo scambio». Questa struttura tipicamente e autonomamente «economica» diviene dominante, determinando il sistema sociale nel suo complesso. Divenendo autonomo il sistema economico, il «posto» dell'economia nella società è determinato dall'economia stessa, in quanto essa è, per così dire, auto-istituzionalizzata. L'organizzazione dell'economia non dipende più da strutture, istituzioni e rapporti sociali non immediatamente e specificamente economici. Anzi, è la società, sono i suoi diversi aspetti e funzioni, e in particolare i rapporti di classe, che si configurano e si trasformano sulla base dell'attività economica. Qualsiasi aspetto della vita sociale e della cultura, secondo Polanyi (1947, p. 100), non può non «venir modellato in modo congruo con le necessità del sistema» di mercato. Sulla base del fatto che cambiano le condizioni e le motivazioni dell'attività produttiva, cambia anzi l'immagine stessa dell'uomo e della società, insieme con la loro realtà di fatto. «Il particolare movente prescelto rappresenta inevitabilmente l'uomo "reale"» (Polanyi 1984, p. 34): e in una società di mercato non si possono avere che «atomi umani», mossi dai «motivi della fame e del guadagno». Il controllo del sistema sociale, quando esso assume una forma «economica», è affidato, fondamentalmente, proprio a tali motivi, a tali «incentivi». Essi mediano la partecipazione dei singoli alla produzione; integrano praticamente e conformano ideologicamente i soggetti entro un sistema sociale in cui l'economia (in senso generale-sostanziale) è senz'altro «attività economizzante», e così viene intesa e teorizzata. Polanyi sottolinea l'assoluta novità storica di tale «materialità» e unilateralità dei motivi. Quando il mercato si generalizza, si verifica un cambiamento qualitativo, radicale, che Polanyi non manca di connettere con la struttura capitalistica della produzione. Si ha infatti un vero e proprio sistema di mercato quando «le basi materiali dell'esistenza umana sono garantite da istituzioni mosse da moventi economici e regolate da leggi specificamente economiche, come l'impresa privata e il sistema salariale» (Polanyi 1978, p. 79-80). Max Weber, similmente, scrive (1993, p. 244): «Un'epoca nel suo complesso può essere definita tipicamente capitalistica solo se la copertura dei fabbisogni è talmente orientata in senso capitalistico, che se venisse meno questo tipo di organizzazione, l'intera copertura del fabbisogno crollerebbe». Solo nella seconda metà del XIX secolo, secondo Weber, si realizza questa situazione. Polanyi a sua volta si sofferma ne La grande trasformazione sull'importanza, per l'affermazione piena della società di mercato capitalistica, delle riforme del Parlamento, della Legge sui poveri, della Banca d'Inghilterra e del sistema di protezione doganale, attuate in Gran Bretagna tra il 1832 e il 1846. Quel che più importa, comunque, è che tanto in Weber quanto in Polanyi l'affermarsi della produzione capitalistica appaia come il fondamento del sistema di mercato e quindi della sua «artificiosità». Polanyi riprende da Max Weber il concetto della fame e del guadagno come «motivi» prettamente «economici», tipici della società capitalistica di mercato. Weber parla di due tipi complementari di «motivi» dell'agire economico, che corrispondono a una divisione gerarchica e che caratterizzano in modo non contingente la produzione capitalistica: da una parte il «rischio di una mancanza totale di approvvigionamento» per sé e per la propria famiglia, dall'altra il «rischio del proprio capitale» e le «opportunità di guadagno in connessione con la disposizione »professionale all'acquisizione razionale«. Tale disposizione e l'attività corrispondente vengono considerate come una «forma di dominio autonomo sugli uomini che dipendono dalle proprie prescrizioni, ed anche sulle possibilità di approvvigionamento di una pluralità indeterminata di individui, le quali rivestono importanza per la loro cultura o per la loro vita: insomma, come forma di potere« (Weber 1980, vol. I, p. 106). Weber sottolinea dunque che il «dominio» capitalistico si esercita nello stesso tempo nei confronti dei lavoratori, all'interno del processo lavorativo, e riguardo al modo in cui la società provvede alla propria sussistenza. I due motivi della fame e del guadagno segnano una divisione nella società, definendo due classi sistematicamente dotate di potere diverso riguardo al funzionamento e all'organizzazione stessa della società. Come la fame diventi un elemento funzionale del sistema è un tema non secondario dell'analisi, svolta ne La grande trasformazione, dello sviluppo della società capitalistica e delle teorie economiche e sociali che lo accompagnano. L'emancipazione del lavoratore, osserva sinteticamente e crudamente Polanyi, aveva «il fine dichiarato di rendere efficace la minaccia della morte per fame» (1974, p. 238). La teoria dell'organizzazione capitalistica della produzione mette in evidenza che la forma sociale specifica del processo lavorativo consiste nOla sua finalizzazione alla valorizzazione del capitale; ciò spiega l'autonomia della «sfera economica». Tale autonomia, scrive Polanyi (1974, p. 218), si verifica insieme con l'affermarsi del «principio del guadagno e del profitto come forza organizzatrice della società». Anche il motivo della fame acquista allora significato nella teoria, in quanto anch'esso connota il rapporto fra gli individui e una data organizzazione sociale della produzione. Sembra che fame e guadagno siano di per sé i motivi dell'agire economico, in quanto appaiono essenzialmente motivi economici. In realtà, questa è un'apparenza feticistica: «nessun movente economico è economico in sé», scrive Polanyi (1980, pp. 62-63); «tutto è dato dalle circostanze sociali, non da quelle Página 16 naturali». Come la produzione, anche i motivi sono sempre sociali. Solo nella «società di mercato», in cui l'attività economica si autonomizza, la fame e il guadagno divengono — socialmente — motivi, al posto di quelli che in precedenza venivano variamente determinati dallo status, dagli obblighi e dalle credenze, insomma dalla cultura che costituiva i singoli — non ancora «individui» — in soggetti sociali. 2.6. Il capitalismo e il problema della società Polanyi rappresenta l'instaurazione del sistema di mercato come «catastrofe culturale», che ha in primo luogo l'effetto di sottrarre agli uomini la proprietà delle condizioni della loro esistenza, proprietà che in precedenza coincideva con l'appartenenza alla comunità. «Separare il lavoro dalle altre attività della vita — egli scrive (1974, p. 210) — ed assoggettarlo alle leggi del mercato significava annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico». L'analisi di Polanyi ricorda quella marxiana dell'«accumulazione originaria», quando, ad esempio, egli parla della «distruzione di strutture sociali per estrarne l'elemento lavoro» (Polanyi 1974, p. 211). E anche temi e concetti sviluppati da Marx, in particolare nei Grundrisse, per esempio a proposito dell'«individualizzazione» dell'uomo quale risultato del «processo storico», nella situazione in cui il valore di scambio costituisce la «connessione sociale». Quest'ultima consiste infatti nella «dipendenza reciproca e universale degli individui indifferenti gli uni agli altri», cioè nel rapporto in cui i soggetti «sono determinati semplicemente come soggetti di scambio», sicché «la loro ulteriore differenza individuale non li riguarda affatto» (Marx 1976, pp. 476, 88, 183, 185). Polanyi — che, come dovrebbe essere ormai chiaro, tiene a sottolineare, al pari di Marx, la specificità della società capitalistica — ricorda che Thomas Carlyle chiamò cash nexus «i legami tra persone unite soltanto da rapporti di mercato» (Polanyi 1978, p. 81). Egli cita inoltre, più di una volta, sia la contrapposizione di H.S. Maine fra le società fondate sullo status e quella moderna fondata sul contractus, sia la distinzione di Ferdinand Thnnies (ripresa da Weber) tra comunità e società. L'autonomizzazione dell'economia determina la nascita della scienza economica: la società non può' non porsi il problema dell'economia, una volta che l'attività economica, non più oembedded», sia divenuta fine a se stessa. Nello stesso tempo, si pone il problema della società: come garantire, oltre alla «ricchezza delle nazioni», l'ordine sociale e magari una buona società? Ne La grande trasformazione Polanyi analizza lo sviluppo del «credo» utilitarista, secondo il quale il libero giuoco delle leggi naturali dell'economia avrebbe risolto — nel modo più efficace, più «economico» — il problema del (migliore) ordine sociale. La prospettiva di Polanyi, le questioni che egli pone riguardo alla realtà sociale ed economica, vanno riferite a questo ambito e a questo livello di problemi. Si evidenziano così la vastità e la profondità di tale prospettiva e, corrispondentemente, la radicalità della sua critica e del suo progetto: si tratta per lui ancora — e siamo nel bel mezzo del nostro secolo — di adattare «la civiltà industriale L.] ai requisiti dell'esistenza umana», se si vuole che l'umanità sopravviva (Polanyi 1947, p. 96). In un saggio di alcuni anni prima egli si richiama a Marx, quale rappresentante della tendenza «verso una riproduzione a più alto livello della primitiva armonia dell'uomo con il suo ambiente» (Polanyi 1987, p. 107). L'autonomia del sistema economico va superata; la possibilità di determinare — secondo una scelta sociale non subordinata alle esigenze del sistema di mercato — gli scopi e i modi della produzione, è l'obiettivo che è necessario e dunque realistico perseguire. Polanyi si rende conto, naturalmente, che, come dice Marx riferendosi alle società primitive, «è ridicolo rimpiangere quella pienezza originaria» (Marx 1976, p. 94); che è sulla base dello sviluppo tecnologico, della libertà individuale, dell'apertura e della differenziazione del sistema sociale, che va ricercata una nuova armonia, a un nuovo livello. Il problema dell'economia va ormai posto in quanto tale, poiché è impensabile il ritorno a una «incorporazione» immediata dell'attività economica entro istituzioni, ruoli e motivazioni non economici. Non si può comunque porre tale problema senza distinguere fra economia nel significato sostanziale ed «economizzazione». Senza rilevare che, nella teoria economica neoclassica, l'assenza di tale distinzione impedisce di comprendere l'«economizzazione» come specifica forma storica e, quindi, di porre il problema della «sussistenza dell'uomo» nei termini che la situazione storica impone. 3. Le trasformazioni della società di mercato 3.1. La crisi del sistema liberale Nelle conferenze tenute nel 1922, pubblicate quattro anni dopo nel volume Religion and the Rise of Capitalism, Richard Tawney muove dalle «domande che gli uomini si pongono oggi». Ora, egli sostiene, l'autonomia dell'economia non è più un'ovvietà come nell'epoca vittoriana. Ora si torna a cercare «un metro di giudizio per le azioni e le istituzioni collettive dell'umanità», per l'economia anzitutto. È questo «l'interesse conoscitivo» (come direbbe Max Weber) che porta lo storico inglese a indagare il passaggio, avvenuto fra i secoli XVI e XVIII, «da una prospettiva che considerava l'attività economica come uno dei tanti generi di condotta morale a quella che la fa dipendere da forze impersonali e quasi automatiche». «C'è un abisso», egli afferma, fra la società organica e gerarPágina 17 chica, retta da principi religiosi e comunitari, e quella moderna, individualistica, «che considera l'utilità come criterio unico del comportamento» (Tawney 1967, pp. 29, 22 e 28). La nostra società «acquisitiva» — scrive Tawney in un libro precedente (1920) — è caratterizzata dal predominio della funzione economica su quella culturale e quella politica; sarebbe tempo di tornare ad invertire quest'innaturale gerarchia, mantenendo però le conquiste della società moderna, il superamento della società gerarchica in primo luogo. Dello stesso anno è l'opera di G.D. H. Cole sul Guild Socialism (Cole 1920); in essa viene ripensata in modo sistematico l'ipotesi di una democrazia socialista, basata sull'autogestione della produzione, sulla «democrazia industriale», ma anche su istituzioni politiche democratiche, in grado di affrontare i problemi e di coordinare le esigenze dei diversi settori produttivi e dei diversi ambiti della vita sociale, di compone i conflitti, di rendere ogni individuo tanto partecipe quanto responsabile del bene comune. Polanyi dialogava, per così dire, con Cole e Tawney ancora prima di trasferirsi in Gran Bretagna, cioè quando, a Vienna, condivideva con i socialisti austriaci il programma di un'economia democraticamente organizzata e di un controllo politico democratico su di essa, che consentisse davvero l'ottimizzazione dell'uso delle risorse. Il socialismo «funzionale» di Otto Bauer aveva molto in comune con il Guild Socialism e rientrava nel più vasto movimento dei «consigli». Da esso Polanyi prende l'idea di un sistema sociale formato da sottosistemi relativamente autonomi, distinti secondo la loro funzione, all'interno dei quali gli individui interagiscano liberamente e democraticamente, e a partire dai quali sia possibile coordinare e indirizzare la produzione e lo sviluppo stesso della società. Questo tipo di organizzazione garantirebbe la massima «capacità di vedere» (Polanyi 1987, p. 56), cioè, diremmo oggi, di distinguere e di elaborare informazioni, per poter conseguire la migliore utilizzazione delle risorse e, prima ancora, scegliere quale essa debba essere, per quali fini. Sono inadeguati da questo punto di vista, meno efficienti, _secondo Polanyi, sia «l'economia amministrata», cioè la pianificazione centralizzata, sia il mercato. Su questo punto la contrapposizione con gli economisti liberali della «scuola austriaca» è netta. Nel 1920, ad esempio, Ludwig von Mises sostiene che solo in un mercato libero è possibile un calcolo dei costi tale da consentire la distribuzione ottimale di risorse limitate fra gli impieghi possibili, in vista della soddisfazione dei bisogni individuali. L'azione indipendente di ogni individuo, in qualità di consumatore o di produttore, e il sistema di prezzi che ne risulta, vengono dunque presentati come l'unica possibile garanzia della razionalità complessiva dell'economia (cfr. Mises 1920). Appare sulla stessa rivista nel 1922 il saggio sulla Contabilità socialista, in cui Polanyi contrappone le proprie tesi a quelle di Mises. Il problema, egli scrive, è di assicurare la «produttività» del ,sistema economico non solo dal punto di vista della razionalità economica formale, ma anche da quello delle valutazioni sociali, dell'ottimizzazione delle risposte del sistema produttivo alle sollecitazioni dell'ambiente (sociale, umano e naturale). L'economia capitalistica, invece, «per sua natura, non riesce a comprendere l'effetto retroattivo del processo di produzione sulla vita della comunità. Le manca l'organo per capire [l'organo di senso: Sinnesorgan come si formano la salute, il riposo, l'essere spirituale e morale dei produttori e di chi risiede intorno ai luoghi di produzione, come il bene generale è favorito o pregiudicato da questo o quell'orientamento della produzione o del modo della produzione attraverso i loro lontani effetti retroattivi. Ancora meno riescé a promuovere i fini positivi del bene generale: le mete spirituali, culturali e morali della comunità, in quanto la loro realizzazione dipende dai mezzi materiali. Infine deve rinunciare completamente dove gli obiettivi economici toccano i fini generali dell'umanità, come l'aiuto internazionaleee la pace dei popoli» (Polanyi 1987, p. 19). Il dibattito su questi temi era vivo e aperto nel primo dopoguerra, quando, in tempi ancora a ridosso del culmine raggiunto dalla forza del movimento operaio, la «socializzazione» era all'ordine del giorno. Lo era, almeno per certi settori, come quello carbonifero, anche in Gran Bretagna. In questo paese, scrive Cole, il socialismo, divenuto «una forza formidabile» fin dal periodo di intense lotte sociali che va dal 1910 al 1914, intorno alla fine della guerra si rafforza ancora (Cole 1935, p. 36). In quel periodo sembrava che la crisi del capitalismo liberale sarebbe sfociata nel superamento del capitalismo stesso, nel passaggio a una società socialista. La controrivoluzione tuttavia prevalse, secondo Polanyi, rapidamente: non anni ma mesi dopo la fine della guerra. Ed egli intuisce almeno dal 1926, come si evince dai suoi commenti sul fallimento dello sciopero generale in Gran Bretagna (Polanyi 1993, pp. 32 sgg.), che una ristrutturazione istituzionale guidata dalla classe dominante consentirà la riproduzione del capitalismo in forme diverse da quella liberale. In quello stesso anno, da una parte, Otto Bauer constata le difficoltà che bloccano il socialismo austriaco e più in generale la via del superamento pacifico del capitalismo; Keynes, d'altra parte, asserisce «la fine del laissez faire» come insierne di principi generali e naturali, auspicando riforme che rendano meno esclusivo e pervasivo «il movente "denaro"» e consentano il miglioramento della «tecnica del capitalismo moderno attraverso l'azione pubblica» (Keynes 1968, p. 245). La grande trasformazione, come ho già accennato, va letta tenendo presenti i due livelli di analisi che s'intrecciano in essa. Al primo livello, vengono definite, anche mediante la comparazione con società diverse, caratteristiche generali della società in cui l'economia si autonomizza, la società la cui organizzazione è tipicamente basata sul «principio del guadagno e del profitto» (Polanyi 1974, p. 163). A questo livello è significativa la proposta di un'organizzazione alternativa dell'economia e della soPágina 18 cietà, qui sopra ricordata. Scrivendo durante la guerra, Polanyi confida che, dopo la catastrofe del fascismo e del conflitto mondiale, quella proposta possa ritornare attuale, sia pure in forme e contesti nuovi. Al secondo livello, più concreto, di analisi — preparato anche dal lavoro svolto da Polanyi dal 1924 al 1938 come commentatore economico e politico per il settimanale viennese «Der Oesterreichische Volkswirt» — si tratta della natura, della genesi, della crisi e della fine di una fase dello sviluppo della società capitalistica: il «sistema di mercato» in senso stretto, ossia il capitalismo liberale. Questa specifica «struttura istituzionale» venne assunta dal capitalismo solo nei primi decenni del XIX secolo in Gran Bretagna. Le quattro istituzioni fondamentali di essa vengono indicate nella prima pagina de La grande trasformazione: l'equilibrio fra le potenze europee, la base aurea delle monete, il mercato autoregolato, lo stato liberale. In tale struttura, l'autonomia capitalistica dell'economia assume la forma dell'autoregolazione del mercato e della separazione tra l'economia e la sfera politica. La divisione di classe, determinata nella sfera economica, viene sancita, nella sfera politica della democrazia rappresentativa, dalla limitazione del suffragio. La pace è garantita dal «concerto europeo», ma è anzitutto interesse della haute finance evitare guerre importanti. L'autoregolazione — l'istituzione determinante, «fonte e matrice» del sistema liberale — è tuttavia, secondo Polanyi, irrealizzabile, «utopistica»; un mercato perfettamente libero e concorrenziale si trova solo nelle teorie economiche, per la buona ragione, anzitutto, che la società non può non cercare una «difesa» dalle conseguenze negative del meccanismo del mercato. Lo sviluppo del capitalismo liberale risulta così da un «doppio movimento», basato su due «principi contrastanti»: da una parte l'autoregolazione, dall'altra il contenimento e la correzione di essa, al fine di proteggere sia le condizioni di vita degli individui sia la stessa attività economica. Questo «contromovimento» provoca difficoltà di funzionamento e di riequilibrio del sistema, tanto più in quanto l'organizzazione cosciente e la conquista della democratizzazione della rappresentanza politica consentono alla classe operaia di battersi efficacemente per la propria protezione, diventando protagonista del movimento di difesa. Viene allora criticata l'invadenza della politica nell'economia, sebbene essa derivi anche dalle pressioni di interessi capitalistici, più spesso di gruppo che generali. Cresce la sfiducia nella politica e soprattutto nella democrazia, ma lo smantellamento della regolazione politica dell'economia, che viene invocato, si rivela impossibile o controproducente. Seguendo «i liberali della scuola di Mises», scrive Polanyi nel 1935 (1987, p. 115), si arriva ad invocare un «governo forte», e persino ad assolvere il fascismo come «salvaguardia dell'economia liberale», almeno in quanto si condanna la democrazia, la quale, interferendo nel sistema dei prezzi, danneggia l'economia. Questa posizione appare l'esito estremo, paradossale, della tesi secondo la quale il sistema anliberale non funziona perché il «complotto antili- berale» glielo impedisce, e non haperché non può e non ha mai potuto funzionare. Essa è poi un'ulteriore dimostrazione del fatto che da un pezzo ormai il capitalismo e la democrazia hanno cessato di svilupparsi parallelamente, che anzi tendono a risultare «reciprocamente incompatibili» quando, nella congiuntura della crisi economica, il sistema liberale-democratico diventa non solo obsoleto, ma impraticabile (Polanyi 1987, p. 119). Già alla fine del XIX secolo la concentrazione del capitale, l'imperialismo, la protezione doganale, gli interventi politici per attenuare la «questione sociale» si frapponevano sistematicamente all'autoregolazione del mercato. La prima guerra mondiale, poi, è non solo l'esito della destabilizzazione dell'equilibrio di potere ottocentesco fra imperi e all'interno di essi, ma anche l'origine di nuovi, irrimediabili squilibri economici, sociali, politici. Si può i ricordare a questo proposito la convinzione di Polanyi, che la guerra abbia determinato non solo l'ondata rivoluzionaria immediatamente successiva, ma anche più duraturi fattori di crisi, come la questione delle riparazioni di guerra e dei prestiti internazionali, e il contrasto di inte- i ressi fra i grandi imprenditori, i piccoli, i rentiers, i capita- n listi agrari, gli operai, i contadini (si veda p. es. il saggio v del 1933, Il meccanismo della crisi economica mondiale (1987, pp. 74-89)). Nonostante tutto, negli anni venti l'ideologia e la politica n economica non deflettono dalla fede nelle «leggi inevitabili del mercato»; ma inevitabile è piuttosto la fine del «sistema di mercato» liberale in conseguenza del suo stesso p sviluppo, e le politiche in voga negli anni venti finiscono per renderne più clamoroso il tracollo, e più gravido di funeste conseguenze, quali sono state la diffusione del fascismo e la nuova guerra mondiale. Nei «conservatori» anni venti, lo standard aureo e la pres- a sione della stabilità dei cambi sull'economia dei diversi A paesi restano «lo schema indistruttibile all'interno del fi quale interessi economici e partiti, industria e stato si adattano alla tensione» (Polanyi 1974, p. 274). La teoria economica classica ha ancora illusoriamente successo. È si effettivo, d'altronde, il successo ottenuto, anche per suo e tramite, dalla controrivoluzione. La stabilità del cambio p della moneta, che i governi tentano di riportare al livello prebellico, non concede alternative alla deflazione; essa o diventa «il braccio estremamente potente della leva che preme sul livello salariale» e in generale lo strumento per risolvere i «problemi in sospeso tra datori di lavoro e lavoratori», ovviamente a favore dei primi. «In Austria nel 1923, in Belgio e in Francia nel 1926, in Germania nel 1931 i partiti operai devono lasciare il governo per "salp vare la moneta"» (Polanyi 1974, pp. 288-289). Riguardo c alla Gran Bretagna, il titolo di un articolo del 1931 — «Democrazia e moneta in Inghilterra» — riassume il senso che Polanyi dà all'insediamento del cosiddetto «governo nazionale», formato da Ramsey Macdonald, primo mini- c stro del precedente governo laburista, con rappresentanti Página 19 laburisti, conservatori e liberali. Egli fa notare che le preoccupazioni della City per le sorti della sterlina e le pressioni per diminuire il sussidio di disoccupazione (e i salari) determinano la caduta del governo laburista; che con il «governo nazionale» si contravviene al principio dell'alternanza, interrompendo «le tradizioni della democrazia [...1 a svantaggio delle masse» (Polanyi 1993, p. 81); che si aprono nuove possibilità per la politica economica, ora che il vincolo monetario, insieme al solito pretestuoso anticomunismo, ha reso il servizio di interrompere il secondo tentativo di governo laburista (prima del terzo passeranno molti anni, e la guerra). In effetti, la sterlina abbandona il gold standard pochi giorni dopo la pubblicazione dell'articolo di Polanyi, il 21 settembre 1931. Un anno e mezzo dopo toccherà al dollaro, anche in conseguenza della tendenza dei paesi la cui moneta resta ancorata all'oro, della Francia in primo luogo, a convertire in oro le proprie riserve in dollari. Il crollo del sistema aureo rappresenta bene, per metonimia, quello della «struttura istituzionale» del «sistema di mercato» (in senso stretto). Il modo in cui esso avviene, inoltre, costituisce un esempio empirico del principio generale che un modo di organizzazione della società diventa obsoleto ed eventualmente impraticabile quando i meccanismi di retroazione insiti in esso aggravano lo squilibrio invece che correggerlo. Keynes ragiona in modo simile quando osserva che, durante la crisi, la caduta dei prezzi tende ad autoalimentarsi invece che a stimolare la ripresa produttiva. Polanyi applica lo stesso principio anche riguardo alla genesi del «sistema di mercato». I tentativi di opporre vincoli e difese contro il dilagare del mercato, specialmente di quello della forza-lavoro, con l'intento di migliorare le condizioni di vita dei poveri, finiscono per avere l'effetto opposto. Si diffonde allora l'opinione che occorra cambiare sistema. Acquistano forza i progetti e le politiche, che portano infine all'instaurazione del «sistema di mercato», del libero mercato del lavoro anzitutto. Polanyi mette in risalto in particolare il nuovo orientamento «naturalistico» della scienza economica, la quale rinuncia a presupposti morali e politici, per affidarsi al principio che, come aveva scritto profeticamente Daniel Defoe, «il commercio ha le sue leggi»; che l'economia ha un suo modo «naturale» di procedere per trovare l'equilibrio e creare ricchezza. 3.2. La grande trasformazione Finita l'epoca della «separazione» — del resto mai compiuta — tra la sfera politica e quella economica, si tratta di capire quale sia e quale debba essere la loro relazione. Da una parte, al livello più generale, l'alternativa di uno sviluppo della democrazia in direzione del socialismo, che riporti l'economia sotto il controllo degli individui associati, resta, per Polanyi, il punto di riferimento ideale e il metro per valutare l'evoluzione effettiva della società. Dall'altra parte, al livello più concreto, occorre comprendere proprio tale evoluzione: le diverse trasformazioni — dal nazismo al New Deal — mediante le quali il capitalismo, assumendo «forme non liberali cioè corporative», «continua illeso la sua esistenza sotto altro nome» (Polanyi 1987, p. 96). In Polanyi convivono, tipicamente, una tenace, utopica fiducia nello sviluppo della democrazia, o almeno la fedeltà assoluta a questo ideale, e l'analisi realistica dei processi storici in corso. Lo si riscontra, ad esempio, nella corrispondenza del 1934 da Londra per Der Oesterreichische Volkswirt, intitolata «L'Inghilterra riflette». Quasi la metà del breve 'articolo è dedicata al fatto stesso che l'Inghilterra «rifletta». Si discute in circoli, associazioni, scuole estive e conferenze; c'è la «volontà di pensare collettivamente» mirando alla «formazione della volonté générale»: così scrive Polanyi, basandosi anche sull'esperienza della propria Atività di insegnamento agli adulti e riaffermando la convinzione che questa formazione «capillare» e autonoma dell'opinione pubblica sia il vero fondamento della democrazia. L'oggetto prevalente della riflessione, d'altra parte, gli interessa per la sua importanza in quella situazione storica: si discute la possibilità di combinare la «democrazia politica con il principio corporativo nell'economia». Ci si chiede, a partire da questo problema, quale sia il significato del socialismo e del fascismo. La «legislazione rooseveltiana» viene studiata, e un interesse forse anche maggiore suscitano «certe strutture corporative dell'economia italiana» (Polanyi 1993, pp. 159-160). Si tratta, insomma, delle «relazioni reciproche fra la sfera politica e quella economica». La separazione delle due sfere, sulla quale si reggeva il sistema liberale, tende ad essere superata mediante nuove istituzioni, sperimentate in molti paesi. L'Inghilterra appare più restia a cambiare — comprensibilmente, dato che il capitalismo liberale si era diffuso a partire da essa, divenendo tramite della sua egemonia mondiale. Anche in Gran Bretagna, comunque, si discute da anni di riorganizzazione programmatica e concertata dell'economia, dell'intervento dello stato, di nuove relazioni industriali. Ben prima dello scoppio della crisi, Polanyi è attentissimo alle proposte e ai sintomi di innovazione; convinto della crisi della formalberale dello sviluppo capitalistico, egli cerca di comprendere la nuova forma, in senso lato corporativa, che si sta profilando. Una consapevolezza del genere è rara tra gli osservatori dell'epoca, divisi in genere tra «crollismo» marxista e obsoleto liberalismo. E si pensi ad esempio anche a un economista apprezzato proprio per i suoi interessi sociologici e storici, e per i suoi contributi allo studio della «dinamica» del sistema capitalistico: Schumpeter non comprende la questione della trasformazione come questione delle diverse strutture istituzionali che la società capitalistica assume, passando attraverso crisi non riducibili ai cicli economici di diverso periodo né al demoralizzarsi degli imprenditori. Non negli anni venti, ma ancora dopo Página 20 la seconda guerra mondiale, come è evidente nell'ultimo dei suoi scritti, egli teme che «il sistema dell'impresa privata» non possa durare, a causa di interventi politici quali le misure di stabilizzazione, la redistribuzione del reddito, la regolazione dei prezzi e i provvedimenti antitrust, il controllo pubblico sui mercati del lavoro e della moneta, gli enti rivolti ai bisogni sociali, la legislazione riguardante le condizioni di lavoro e la previdenza (Schumpeter 1950, pp. 448-450). Polanyi invece — pur restando fedele, a differenza di Schumpeter, agli ideali della «Vienna rossa» del primo dopoguerra — sa bene che la diffusione del capitalismo manageriale e organizzato, dell'intervento politico nell'economia, del welfare state non è distruttiva per il capitalismo. Sa che i timori e i disamori della Classe dominante contano molto poco a paragone della sua capacità di coinvolgere la classe operaia, e se necessario di combatterla e vincerla. Egli ha già compreso tutto ciò nel periodo tra le due guerre. In un articolo, ad esempio, egli riferisce, condividendola, l'opinione del ministro americano dell'agricoltura Henry Wallace, che la politica di Roosevelt, e perfino il principio che «la produzione è una faccenda di pubblico interesse», consentono al capitalismo di permanere, di rafforzarsi, di svilupparsi (Polanyi 1993, p. 217). Schumpeter, invece, è ostile al New Deal proprio perché non comprende questo suo significato. Negli articoli sulla questione delle miniere di carbone in Gran Bretagna, nel 1925-26, Polanyi (1993, pp. 23 sgg.) inquadra i problemi della ristrutturazione industriale nel contesto storico complessivo, soffermandosi in particolare sulle lotte sociali e sugli accordi salariali. Non solo egli constata l'istituzionalizzazione dell'intervento del governo nelle trattative, accanto ai vertici delle organizzazioni operaie e padronali, ma si rende anche conto che il superamento del sistema liberale, che non aveva potuto essere realizzato nella prospettiva del socialismo, può esserlo nell'interesse e sotto l'egemonia del capitale. Due articoli dell'inizio del 1928 esaminano le riforme proposte in Britain's Industrial Future, il rapporto patrocinato dal Partito liberale e in particolare da Lloyd George, redatto da un gruppo di lavoro di cui facedva parte Keynes. Il liberalismo dei «riformatori liberali», osserva Polanyi, supera l'utilitarismo classico, l'individualismo, la fede nel puro e semplice meccanismo dei prezzi. Viene posto anzitutto il problema di una riorganizzazione della produzione che investa interi settori industriali, i quali dovrebbero dotarsi di organi di autogoverno. Lo stato, poi, dovrebbe indirizzare gli investimenti privati, controllare i trusts che agiscono in condizioni di oligopolio, creare public concerns e authorities, che suppliscano all'iniziativa privata dove questa non arriva o la sostituiscano in caso di monopolio. Viene posta, sottolinea Polanyi, la questione dell'«integrazione» della classe operaia, e prospettata una «politica sociale» che offra concessioni e garanzie in cambio della pace sociale. La parola d'ordine è «cooperazione industriale»; questo fine hanno le proposte di organismi paritetici più efficaci ed estesi di quelli esistenti, di un prudente profit-sharing, cioè della distribuzione di parte degli utili ai lavoratori, di un «in- n condizionato riconoscimento del compito delle Trade it Unions quali interpreti di interessi», di un coinvolgimento dello stato nella composizione dei conflitti. Non sfugge a ti Polanyi l'innovativo invito a un dialogo permanente — poi p effettivamente avviatosi nel corso del 1928 — rivolto da te Alfred Mond, presidente delle Imperial Chemical Industries, al TUC (Trades Union Congress). Sono questi, si chiede Polanyi, segni in direzione del supera- in mento della «società la cui sostanza è il cash-nexus», cioè fe della società in cui la connessione, 1' «integrazione» fra i sin- e goli e fra le loro attività èxostituita dal mercato, dal calcolo cc utilitario, in breve dal denaro? E risponde che esiste, sì, l'in- tu tenzione di «elevare il lavoro salariato da mero rapporto h contrattuale a status garantito giuridicamente e sostanziato di valori sociali»: ma non certo quella di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione o di intaccare il potere capitalistico e manageriale (Polanyi 1993, pp. 5064). Proposte di ristrutturazione del sistema economico e dell'as- pe setto istituzionale — le proposte che contavano, quelle non ce esplicitamente in contrasto con gli interessi dei detentori del de potere economico — erano dunque già state formulate in pre- qu cedenza: ma solo la crisi economica, iniziata drammatica- 11,11 mente alla fine del 1929, fa sl che l'inevitabile trasforma- 19 zione venga messa in atto. Adesso — negli anni trenta «rivo- Le luzionari» rispetto ai «conservatori» anni venti — la società si rei trova effettivamente in un' impasse e deve reagire. Adesso po non si può non constatare che istituzioni economiche fonda- no mentali del sistema liberale, come il libero scambio e il gold flu standard, sono crollate; l'autoregolazione del mercato si può pie ormai ricordare solo con ironia, di fronte a una depressione tar tanto generale quanto persistente. Anche le istituzioni poli- del tiche dello stato liberale — entrate in crisi quando hanno ces- coi sato di essere riservate alla classe dominante, divenendo gia campo di azione e strumento di potere delle classi lavoratrici est — sono investite dalla trasformazione, la quale presuppone il du consolidamento dell'egemonia della classe dominante anche nei paesi in cui il fascismo non prende il potere. Polanyi dedica diversi articoli al New Deal. Gli sembra che poi la trasformazione americana parta da lontano, dato che la sin Costituzione stessa esclude l'economia dalla propria giuricoi sdizione e dalle competenze del governo federale. Egli si dei sofferma in particolare, infatti, sul conflitto tra Roosevelt e sai la Corte suprema riguardo alla costituzionalità delle nuove un leggi. L'America, tuttavia, arriva anche più lontano, ad La esempio, della Gran Bretagna: non tanto, forse, per la legi- Le slazione sul lavoro, per l'istituzione della contrattazione col- tiv lettiva e per i servizi pubblici e sociali, quanto per l'entità e 16' la qualità dell'intervento governativo nell'economia. Polanyi fa riferimento, per esempio, ai grandi lavori pubblici, ai provvedimenti riguardanti il sistema bancario e fi- 3.2 nanziario, all'organizzazione e all'inquadramento legislativo dei sindacati, e ai «codici», cioè agli accordi, con va- I t lore normativo grazie alla sanzione e al controllo del go- vis verno, che consentivano nei diversi settori industriali limi- rzz tazioni della concorrenza sui prezzi in cambio della gaPágina 21 ranzia di condizioni minime a favore dei lavoratori. Viene inoltre messa in rilievo, specialmente in tre lunghi articoli sulle realizzazioni della Tennessee Valley Authority e le difficoltà da essa incontrate, la sperimentazione di una gestione pubblica, nel pubblico interesse, globale e non distruttiva del territorio e delle risorse energetiche. Nella Grande trasformazione non rimarrà quasi traccia né degli articoli sul New Deal né di quelli sulla ristrutturazione in Gran Bretagna. Riguardo a quest'ultima, Polanyi si sofferma in particolare sull'industria mineraria, su quella tessile e su quella siderurgica, oltre che sulla nuova politica agricola «dirigistica e autarchica» e sulla barriera doganale istituita nel 1932 dopo quasi un secolo di libero scambio. Nel 1934 egli considera i tentativi di razionalizzazione dell'industria del cotone del Lancashire, ora in crisi dopo essere stata il motore della rivoluzione industriale, dell'egemonia britannica, della stessa ideologia liberale. Polanyi esamina anche i fattori che consentono all'industria tessile giapponese di superare ormai quella britannica: il progresso tecnico, la concentrazione, le tecniche di vendita, e anche la permanenza della cultura tradizionale, che rende naturali in Giappone quelle relazioni industriali corporative e paternalistiche, che in Europa ci si sforza di instaurare o restaurare (Polanyi 1993, pp. 138-158). Le «crescenti tendenze pianificatrici» sono evidenti nella realtà, nelle elaborazioni teoriche e nelle diverse posizioni politiche. Anche il conservatore Harold Macmillan (1933) non crede più nell'equilibrio come risultato automatico della fluttuazione dei prezzi e auspica una moderata politica di piano e un moderato corporativismo, inteso come rappresentanza pluralistica degli interessi e come coordinamento dell'attività industriale, all'interno e fra i diversi settori, e con la politica statale. Polanyi cerca di comprendere l'atteggiamento e il ruolo delle organizzazioni della classe operaia, esaminando ad esempio il piano di socializzazione dell'industria siderurgica elaborato nel 1934 dal TUC. Il piano non esprime, a suo avviso, una «tendenza socialista», una politica complessiva e alternativa; i sindacati, piuttosto, si propongono come rappresentanti degli «interessi corporativi di singole categorie di lavoratori», impegnandosi a risolvere le contese in cambio della possibilità di intervenire nella scelta dei dirigenti. L'immedesimarsi dei sindacati «nella responsabilità per il processo di produzione viene presentato come un'evoluzione ineluttabile». Il piano viene approvato dal Labour Party, nonostante l'opposizione della Socialist League, secondo la quale si tratta di «una soluzione corporativa del problema della socializzazione» (Polanyi 1993 pp.162-163 e 166-167). 3.3. Il fascismo I temi indicati in «L'Inghilterra riflette» — il corporativismo nelle sue diverse modalità, la crisi della demoI cfazia, l'antitesi tra socialismo e fascismo — vengono approfonditi da Polanyi, prima che ne La grande trasformazione, in articoli per il periodico inglese «New Britain» sempre nel 1934, in numerose conferenze di cui rimangono testi e appunti manoscritti, nel saggio L'essenza del fascismo uscito a Londra nel 1935: non nelle corrispondenze per «Der Oesterreichische Volkswirt», del quale era divenuto «direttore all'estero». Il settimanale viennese, per sopravvivere in Austria, doveva autocensurarsi. Nei regimi fascisti, secondo Polanyi, gli individui perdono la qualità di liberi soggetti politici, al punto che si può parlare dell'abolizione dello «Stato politico» e della negazione del concetto moderno di società. Ne consegue che il potere economico non trovi più limiti nel potere politico (degli individi4i mediante istituzioni democratiche in cui le classi lavoratrici siano congruamente rappresentate). Il sistema corporativo fascista tende a conferire il pieno controllo, se non la diretta gestione, delle funzioni politiche e giurisdizionali alla classe che, dominando nell'economia, domina le corporazioni. 411 risultato è che, mentre «il capitalismo così com'è organizzato nei diversi rami dell'industria diventa l'intera società», ai lavoratori, alla massa dei cittadini esclusi dalla politica, non resta che la qualità di soggetti economici: essi «sono considerati produttori e soltanto produttori» (Polanyi 1987, pp. 115-116). L'anomalia della «separazione» tra sfera economica e sfera politica, sancita dalle istituzioni del capitalismo liberale, doveva cessare. Essa avrebbe potuto venire superata democraticamente, cioè mediante un governo popolare e un'organizzazione socialista-funzionale della produzione. Con il fascismo si realizza la soluzione opposta: in esso non c'è più la separazione tra economia e politica, ma non perché l'economia venga politicamente, democraticamente inquadrata e controllata, bensì perché la politica non può più essere libera e autonoma. Si rafforza invece l'autonomia dell'economia: lo slogan hitleriano del «primato della politica sull'economia» suona dunque ironico. Le modalità democratico-corporative della grande trasformazione, che dopo la guerra vanno generalizzandosi, sono, certo, qualitativamente differenti dal fascismo. La teoria polanyiana della trasformazione consente tuttavia di individuare alcune tendenze generali nella fase postliberale della società capitalistica. La fine della «separazione» significa che l'economia capitalistica ha intrapreso una consapevole riorganizzazione, coinvolgendo non solo lo stato, ma l'intera società. Il potere economico ha acquistato una capacità maggiore e più diretta di determinare decisioni politiche, di assumere funzioni politiche. È facile quindi che diminuisca lo spazio di autonomia politica degli individui e delle istituzioni della democrazia rappresentativa. L' «essenza del fascismo» consiste nell'impedire la stessa possibilità sociale e culturale di una vita politica democratica, nel distruggere la «sostanza» stessa della democrazia. Il fascismo mira infatti ad instaurare «un ordine strutturale di società che esclude la dipendenza del tutto dalla volontà e dagli scopi coscienti degli individui che la costituiscono»; e se la società non dev' essere più concepita Página 22 «come rapporto fra persone», deve cambiare «la natura stessa della coscienza umana» (Polanyi 1987, pp. 116- 117). Anche qui viene posta una questione generale, che non riguarda solo il fascismo; Polanyi ci propone la sua grande utopia, quella di una società di individui, come punto di riferimento teorico per valutare in quale modo e in quale direzione la società si sviluppi effettivamente. Si tratta di un'utopia tipica della società moderna, nella quale il soggetto sociale diviene individuo. Ciò che distingue il fascismo da «altre sfumature e varianti dell'antisocialismo reazionario» — scrive Polanyi, riferendosi in particolare a Othmar Spann, esponente viennese della reazione «romantica», medievaleggiante, totalitaria contro la società liberale — è il suo «antiindividualismo». Se, poi, come fa eminentementt il fascismo, si impedisce all'individuo di diventare «un'unità sociale», diventa indispensabile qualche cemento mistico per «costruire un centro artificiale di coscienza» (Polanyi 1987, pp. 93, 103 e 109). Il fascismo si presenta, così, come «una concezione dell'universo umano» che si contrappone a secoli di sviluppo civile; esso è caratterizzato dal rifiuto di considerare la società come «campo dell'autorealizzazione dell'uomo» e di intendere la storia moderna come sviluppo della libertà. Il fascismo è, in questo senso, un «radicale irrazionalismo», e Spann non esagera reclamando un «contro-Rinascimento» (Polanyi 1934). L'inserimento del problema del fascismo in una concezione generale della natura e dello sviluppo della società moderna consente a Polanyi di spiegare il fascismo come prodotto della crisi della società liberale, come modo regressivo e perverso di riconoscere la «realtà della società» e di rimediare alla «catastrofe culturale» provocata dal diffondersi dei rapporti di mercato. Un sistema che demandava l'organizzazione della vita sociale alla combinazione inconsapevole dell'agire utilitaristico dei singoli, cioè al meccanismo del mercato, non poteva non andare in crisi, suscitando, con il socialismo e il fascismo, proposte antitetiche di un nuovo ordine. Questo è il senso della frase che leggiamo all'inizio de La grande trasformazione: «Per capire il fascismo tedesco dobbiamo ritornare all'Inghilterra ricardiana» (Polanyi 1974, p.459). La congiuntura storica della crisi finale del «sistema di mercato», dopo il 1929, spiega poi, più concretamente, la «situazione fascista», la congiuntura che consente al fascismo di diventare un «fattore politico» decisivo, di andare al potere in molti paesi (Polanyi 1974, pp. 304-305). Considerando il fascismo, da una parte, come esito della crisi della società liberale, e dall'altra come radicale antiliberalismo, Polanyi confuta, per così dire preventivamente, la concezione «revisionista», che riduce il fascismo a una reazione totalitaria al totalitarismo comunista. Nei confronti di certe interpretazioni marxiste, d'altro canto, la critica di Polanyi è esplicita: esse rischiano di non comprendere il fascismo perché considerano la democrazia una sovrastruttura dei rapporti di produzione capitalistici, e non un problema che caratterizza in generale l'epoca moderna e che lo sviluppo capitalistico consente di porre, ma non di risolvere. Il cambia mento radicale operato dal fascismo nel sistema politicc istituzionale va considerato in tutta la sua rilevanza ri guardo a questo problema generale. È una rottura rivolu zionaria nel sistema sociale, che non va sottovalutata nome della continuità, cioè del fatto incontestabile che i mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici «I proprio la raison d'être del fascismo» (Polanyi 1987, p 118). Se si tratta, d'altra parte, di spiegare in particolare la congiuntura del diffondersi del fascismo, proprio il con . cetto dell'incompatibilità fra capitalismo e democrazi consente di farlo. Anche il diventare acuto del conflitto fn le classi appare in tal modo un fattore significativo, nu sempre in rapporto con una situazione storica comples siva, che si tratta di comprendere anzitutto in quanto tale 3.4. La guerra civile internazionale Le questioni internazionali, insieme agli eventi britannici costituiscono la principale competenza di Polanyi giorna lista. Esse divengono il tema preponderante dei suoi arti coli dal 1935, quando l'aggressione dell'Italia conti.' l'Etiopia rende evidente il cambiamento della situazion mondiale. Polanyi comprende che la crisi e la trasforma zione hanno investito anche i rapporti fra nazioni, scon volgendo i precedenti equilibri, determinando nuovo schieramenti secondo nuovi criteri, e, a ben vedere, la de riva verso una nuova guerra mondiale (Otto Bauer pub blica nel 1936 Tra due guerre mondiali?). In un articolo del 1935 — «La pietra miliare 1935» (1993 pp. 179 sgg.) — e nell'opuscolo Europe Today del 193 (1995) Polanyi sostiene che si è aperta una nuova fas nella politica internazionale, a partire almeno dalla pres del potere di Hitler. La contrapposizione del dopoguerr fra vincitori e sconfitti, fra paesi che miravano alla «sicun rezza collettiva» sulla base dei trattati di pace e paesi cha chiedevano la revisione dei trattati, è ora superata dc nuovi schieramenti, determinati dalle diverse forme di or . ganizzazione sociale adottate per uscire dalla crisi del si sterna liberale. Questo concetto viene ripreso all'inizi della Grande trasformazione, dove la seconda guerr mondiale è interpretata come il generalizzarsi del conflitt armato tra le trasformazioni alternative. In Europe Toda Polanyi osserva che nella guerra civile spagnola, in cors mentre egli scrive, è all'opera «la nuova politica di inter ventismo sociale» dei paesi fascisti; guerra esterna guerra civile si intrecciano, il «conflitto tra fascismo e dest mocrazia» esplode «a livello internazionale» (Polanyú 1995, pp. 74 e 5). La polarità tra fascismo e democrazia è tuttavia complict cata, a volte sopraffatta, dalla polarità secolare tra capitar lismo e socialismo. Questo è il senso più profondo ded fatto che la contrapposizione tra Germania e URSS sia dist venuta «un elemento essenziale della politica europea x (Polanyi 1995, p. 54). Così si spiega perché in campo inPágina 23 ternazionale il fascismo non venga adeguatamente contrastato, fino a quando ciò diventa inevitabile a causa della guerra scatenata dalla Germania. Si spiega perché, inoltre, l'alleanza delle cosiddette democrazie occidentali con l'URSS dipenda anch'essa, per così dire, dall'iniziativa di Hitler, e mentre la guerra è ancora in corso sia già chiaro che essa è tattica e contingente, anzi precaria. Polanyi lo intuisce: si parla di una Carta atlantica, egli osserva (1943, p. 407), ed essa rischia di essere una continuazione del disastroso Patto delle Quattro Potenze firmato nel 1933 da Francia e Gran Bretagna con Germania e Italia. Quella firma fu un passo significativo nella politica della «pacificazione» con le due potenze fasciste, l'altra faccia della quale era l'ostilità contro l'Unione Sovietica. La Germania nazista, leggiamo nella Grande trasformazione, si giova anche della «sua capacità di costringere i paesi del mondo ad un allineamento contro il bolscevismo», assumendo un ruolo di guida in un tipo di trasformazione che, contrapposto a quello sovietico, sembra nonostante tutto «raccogliere l'adesione incondizionata delle classi proprietarie, e per la verità non sempre di queste sole» (Polanyi 1974, p. 308). «La politica dei dittatori è stata quella di puntare sulle simpatie e sui tremori del conservatorismo inglese», scrive a sua volta Tawney (1975, p. 755). Polanyi, in articoli del 1926 e del 1935 (1993, pp. 36 e 174), ricorda le simpatie per Mussolini di eminenti uomini politici inglesi come Joynson-Hicks e Churchill. Se i paesi democratici non avessero escluso un rapporto realistico e costruttivo con l'URSS, forse l'invasione giapponese in Manciuria e quella italiana in Etiopia avrebbero potuto essere fermate, forse la Spagna repubblicana si sarebbe salvata. L'avallo concesso dalla Gran esa Bretagna, a Monaco nel 1938, all'aggressione nazista '1.1"a contro la Cecoslovacchia non solo spiega l'accordo "- russo-tedesco del 1939, ma si dimostra controproducente che ai fini della pace. L'atteggiamento antisovietico, conda clude Polanyi nell'articolo del 1943 già ricordato, è stato determinante. Nel 1945 gli pare assodato che gli Stati Uniti abbiano aszi sunto, insieme con l'egemonia mondiale, anche il ruolo Tra di polo antisovietico. Sconfitti i regimi fascisti, la «polaitto rità» decisiva è più che mai «civile» e ideologica, foniaY data su ipotesi opposte di organizzazione sociale; e coinrso volge ora il mondo intero. Gli USA sono rimasti «la paer del capitalismo liberale» (non riducibile al «classico laissez faire»), e perseguono una politica «universalistica», la politica del «capitalismo universale», identificato con la libertà e la democrazia. Appena pubblicata La grande trasformazione, Polanyi ne mette alla prova le conclusioni, riflettendo sul corso degli eventi. Davvero l'utopia liberale è sorpassata? La lezione del fascismo e lei della guerra è servita? La pace e la libertà verranno perseguite di per sé e consapevolmente, oppure, come nel 'a) XIX secolo, saranno un prodotto secondario e condizioin nato degli interessi finanziari, ora davvero globali? Sarà possibile sperimentare forme diverse di autoorganizzazione e di pianificazione democratica in aree limitate? Sembra invece prevalere il programma degli USA, che prevede non semplicemente l'abolizione di restrizioni e privilegi commerciali basati sui sistemi coloniali, quello britannico anzitutto, ma l'instaurazione di un nuovo ordine, che, come dimostrano gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, consisterà nella garanzia a livello mondiale tanto della libertà dei capitali quanto della supremazia americana. Ma il tentativo di «ripristinare i liberi mercati», sottraendo alle popolazioni il controllo delle loro condizioni di vita per demandarlo alle élites finanziarie, può sdatenare per reazione un «nazionalismo folle» — scrive Polanyi all'inizio del 1945 (Polanyi 1987, pp.142-143, 146 e 159), riferendosi in particolare ai paesi balcanici. Possiamo capire oggi tutto il significato di quest'affermazione, dojo la guerra nella ex-Jugoslavia, e con la prospettiva che, insieme con l'unione monetaria e finanziaria dell'Europa, continuino a svilupparsi ottusi regionalismi. Questo tipo di nazionalismo non è incompatibile, più in generale, con l'economia «globale» dell'epoca della ripresa «postfordista» del liberismo, un'economia che si espande e assolutizza fino ad assumere caratteristiche che vanificano di fatto la possibilità di controllo politico democratico. Finita la guerra — come si suol dire, con la vittoria della democrazia — il problema restava quello della democrazia. Esso va posto pur sempre, scrive Polanyi nel 1947 (1980, pp. 74-75), in riferimento a un'alternativa radicale: da una parte, lo sviluppo della democrazia verso il socialismo, verso la soluzione del problema dell'economia mediante l'«intervento programmato», «consapevole e responsabile», «degli stessi produttori e consumatori»; oppure, dall'altra parte, «una società adattata più intimamente al sistema economico», dominata da élites e aristocrazie, dalla grande impresa e dal managerialismo. A livello internazionale, la politica di coesistenza doveva significare anche che alle due alternative fossero garantite almeno pari dignità e possibilità di manifestarsi in molteplici e diverse esperienze politiche. Questo era un aspetto essenziale del programma di Co-Existence, la rivista ideata e realizzata da Polanyi, il cui primo numero uscì pochi giorni dopo la sua morte, nel 1964 (cfr. PolanyiLevitt 1990). Nei suoi ultimi anni, insieme con la moglie Ilona Duczynska, egli curò anche un'antologia letteraria, The Plough and the Pen: Writings from Hungary 1930-1956. Essa è una testimonianza tanto dell'impegno nell'indagine sociale e nella politica tipico degli scrittori ungheresi, quanto dell'interpretazione che i coniugi Polanyi davano della rivoluzione ungherese del 1956, e dell'indicazione per il futuro che ne traevano: una lotta per una «terza via» davvero socialista e davvero democratica. Questa posizione, sempre minoritaria nel nostro secolo, lo era in particolare riguardo al 1956 ungherese, il quale, in piena guerra fredda, doveva essere invece inteso, ad Ovest come ad Est, in termini di anticomunismo. Página 24 BIBLIOGRAFIA Bauer Otto, 1979, Tra due guerre mondiali?, Einaudi, Torino (Zwischen zwei Weltkriegen? Der Krise der Weltwirtschaft, der Demokratie und des Sozialismus, Eugen Prager Verlag, 1936). 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