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CANGIANI, Michele, Karl Polanyi: idee per il nostro tempo. In:
Inchesta, Revista trimestrala, Anno XXVII, n. 117-118, Lugliodicembra, 1997, p. 07-24.
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Società e economia
Michele Cangiani*
Karl Polanyi: idee per il nostro tempo
1. Una vita nel mondo contemporaneo
«La mia vita fu una vita mondiale. Ho vissuto la vita del mondo»:
così Karl Polanyi (1886-1964) scriveva nel 1957 a un amico (PolanyiLevitt e Mendell, p. XXIII). C'è in queste parole il riferimento al
travaglio di una vita segnata dalle vicende che hanno sconvolto il
mondo, fra la fine del secolo scorso e la seconda metà del nostro. C'è
inoltre, non detto, l'intreccio di senso di responsabilità civile e di
brama di conoscenza, che caratterizza la vita e l'opera di Polanyi. Ci
sono infine, dette nelle righe che seguono, l'amara soddisfazione di
constatare che le proprie idee finalmente hanno trovato qualche sia
pur critico o approssimativo ascolto, e l'ansia per il futuro di
un'umanità ancora incapace di saggia e pacifica autoamministrazione.
Polanyi trascorse a Budapest il primo dei cinque periodi in cui si può
dividere la sua vita. Attivo nel movimento studentesco, egli diresse il
Circolo Galilei e il periodico oSzabddgondoldt» [Il libero pensiero],
battendosi per una riforma politica in senso radicalmente
democratico; si dedicò inoltre all'istruzione per adulti, come
continuerà a fare nei periodi successivi, specialmente in Inghilterra
negli anni trenta. Risiedette a Vienna dal 1919, dove era arrivato
malato dopo aver combattuto nelle file dell'esercito austro-ungarico.
In Ungheria, nel giro di pochi mesi, alla rivoluzione democratica era
succeduta quella comunista, e infine la nobiltà feudale e l'élite
finanziaria avevano ripreso il potere. Nel 1933 l'ulteriore
peggioramento della situazione politica in Austria, dove si avvertiva la
minaccia dei nazisti e il governo Dollfuss aveva abolito le libertà
politiche e civili, lo indusse a una nuova emigrazione, in Inghilterra.
Risiedette negli Stati Uniti durante la guerra, per scrivere la sua opera
più nota, La grande trasformazione, pubblicata nel 1944, e poi dal
1947, quando ebbe un incarico di insegnamento nella Columbia
University di New York. Dal 1950, infine, si stabilì in Canada, vicino a
Toronto.
Budapest era animata, prima della Grande guerra, dalle più
avanzate tendenze della cultura centro-europea. Polanyi era in
contatto, attraverso la propria famiglia, con quella di Karl Popper e
con populisti e rivoluzionari russi. All'attività del Circolo Galilei
parteciparono esponenti della cultura ungherese quali il sociologo
Jaszi, il musicista
Bartók, lo psicoanalista Firenczi; come
conferenzieri, intervennero, oltre a Lukdcs, studiosi stranieri come
Sombart, Max Adler ed Eduard Bernstein.
L'adesione di Polanyi al socialismo iniziò in questo periodo, ma andò
precisandosi nel dopoguerra, nella «Vienna rossa», in cui continuava
lo splendore della «grande Vienna» in . tutti i campi della conoscenza,
dell'arte, della letteratura. Furono determinanti per la formazione di
Polanyi i contatti con i socialisti — gli «austromarxisti», Otto Bauer in
primo luogo — e con la «scuola austriaca» di economia. Acquistò così
forma compiuta la sua concezione del socialismo come realizzazione
piena della libertà: la democrazia di base, di tipo consiliare, auspicata
da Bauer, doveva consentire di superare tanto il formalismo giuridico
di Hans Kelsen quanto lo statalismo socialdemocratico di Karl Renner,
pur mantenendo le garanzie universalistiche dello stato di diritto e
un'attiva ed efficiente amministrazione statale (Cangiani 1998, cap.
5). La crisi economica e politica del capitalismo liberale imponeva di
avviare una «socializzazione» dell'economia. Conquistata, anche per
merito delle lotte della classe operaia, la democrazia politica, si
trattava di estenderla alla sfera economica. L'organizzazione
dell'economia, le scelte in essa importanti, anziché essere
determinate dal motivo del profitto capitalistico e dal meccanismo del
mercato, avrebbero dovuto essere competenza di tutti i lavoratori, e
dell'intera società organizzata politicamente, democraticamente: mai
sacrificando la libertà individuale, alla quale Polanyi teneva non meno
di Friedrich Hayek, benché la contrapposizione fra i due autori,
iniziata a Vienna, sia continuata poi per tutta la loro vita.
Del periodo viennese varino ricordati soprattutto, di Polanyi, gli
articoli per il settimanale economico e politico «Der Oesterreichische
Volkswirt» (dal 1924), e gli interventi nel dibattito sulla possibilità
teorica e sull'organizzazione pratica di un'economia socialista non
«amministrata» dall'alto. Ebbe quale principale avversario, in questo
dibattito, Ludwig von Mises, esponente liberale, come il suo allievo
Hayek, della «scuola austriaca» di economia.
In Inghilterra Polanyi fu tra gli animatori di un gruppo di intellettuali
socialisti (chiamato Christian Left). La Gran Bretagna gli era del resto
familiare da tempo; l'economia, la politica interna e internazionale, le
vicende del movimento operaio di quel paese costituivano la
principale
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specializzazione di Polanyi giornalista. L'ambiente della sinistra
socialista inglese lo interessava particolarmente; già nel 1924 egli
aveva organizzato un seminario a Vienna sul Guild Socialism, in cui
largamente si riconosceva, considerandolo vicino alla concezione del
«socialismo funzionale» di Otto Bauer.
Durante il soggiorno inglese, Polanyi tenne conferenze e scrisse
saggi e articoli — specialmente sul fascismo — di cui non poteva
parlare sul suo settimanale, per il quale continuò comunque a
lavorare fino al 1938, quando esso non fu più pubblicato in seguito
all'invasione nazista. Partecipò alle attività della Workers' Educational
Association. Presidente di quest'associazione era lo storico Richard
Tawney, le idee del quale, così come quelle di G. D. H. Cole, storico
del movimento operaio e teorico del Guild Socialism, influenzarono
Polanyi. Tawney in The Ac4ttisitive Society (1920) aveva sostenuto
che nella società capitalistica, diversamente anzi inversamente
rispetto a qualsiasi altra, l'economia è autonoma e dominante, a
scapito delle altre funzioni sociali fondamentali, la politica e la cultura.
Questa è indubbiamente una fonte di uno dei motivi centrali e più noti
del pensiero di Polanyi, quello del «posto» speciale che ha nella
società capitalistica l'economia, non più embedded (inserita,
incorporata,
determinata)
entro
il
sistema
socio-culturale
complessivo, e non ancora democraticamente governata mediante la
responsabile partecipazione politica di tutti i cittadini. Non va
dimenticato d'altronde, riguardo a ciò, lo studio dell'opera di Marx
compiuto a più riprese da Polanyi. Egli approfondì in particolare, con il
gruppo della «sinistra cristiana», i Manoscritti economico-filosofici
(1844), dopo la loro pubblicazione nel 1932, e altre opere di Marx,
come l'analisi della merce e del feticismo svolta nel primo capitolo del
Capitale. Gli scritti di quel periodo, in parte ancora inediti,
documentano l'influenza di Marx sull'orientamento politico e teorico di
Polanyi; essa è chiara anzitutto riguardo al concetto-chiave di
"economia" e al metodo di «critica dell'economia politica» in cui esso
si iscrive. (Si vedano, nel presente fascicolo, i brani pubblicati e
commentati da Marguerite Mendell).
La disillusione seguita alle speranze di uno sviluppo della
democrazia verso la pace e il sctialismo, il desiderio di comprendere e
superare la tragedia del fascismo e della guerra, condussero Polanyi a
riflettere sull'intera storia del sistema di mercato capitalistico: sulle
«origini del nostro tempo», come egli avrebbe voluto dapprima
intitolare La grande trasformazione. Rifluiscono In quest'opera
l'analisi diuturna e meditata, anche per motivi professionali, degli
avvenimenti fra le due guerre mondiali, e lo studio della storia dei
secoli precedenti, compiuto ai fini dell'insegnamento nei corsi per
adulti. V'è inoltre il desiderio di confutare la rinascente ideologia
liberale, testimoniata ad esempio dall'opera pubblicata nello stesso
anno da Hayek (The Road to Serfdom) e, a ben vedere, anche dalla
teoria politica esposta da Josef Schumpeter in Capitalism, Socialism,
and Democracy: il dibattito «viennese» continuava, in terre
anglosassoni, di qua e di là dall'Oceano. Anche gli ultimi scritti di Otto
Neurath, fra i quali c'è anche una critica del libro di Hayek (Neurath
1945), rientrano nel dibattito, su posizioni simili a quelle di Polanyi.
Secondo quest'ultimo, dopo la guerra si sarebbe ripresentata, in
forma nuova e in un nuovo contesto, l'alternativa tra il controllo
politico democratico del sistema economico e il nuovo liberismo su
scala mondiale. Sostenitori di questa prospettiva di un «capitalismo
universale», che si contrapponeva a qualsiasi esperimento di
«pianificazione regionale» (Polanyi 1945), divennero gli USA, decisi
ormai a gestire anche politicamente, non più solo nel loro continente
ma nel mondo, la loro supremazia economica.
La notorietà di Polanyi cominciò a diffondersi dopo la pubblicazione
nel 1957 del volume collettivo da lui curato, Trade and Market in the
Early Empires, risultato del suo lavoro presso la Columbia University.
I saggi ivi raccolti non potevano non suscitare un dibattito, poiché
erano opera di studiosi attivi nel mondo accademico e mettevano in
questione interi campi del sapere, come l'antropologia economica, la
storia del pensiero economico e sociale, e la storia economica, dalle
società arcaiche a quella di mercato. Venivano criticati,
implicitamente ed esplicitamente, tanto il metodo della scienza
economica come quello della sociologia funzionalista di Parsons.
La grande trasformazione ha avuto una fortuna più tardiva. Ciò si
spiega in generale con l'inattualità del pensiero di Polanyi, la cui
analisi critica della società di mercato-capitalistica risultava estranea
non solo ai sostenitori, com'è ovvio, ma anche agli oppositori di essa,
fermi di solito a una versione meccanicistica ed economicistica del
marxismo. Si spiega inoltre con la complessità e la difficoltà
dell'opera. Sono stipati in essa decenni di lavoro e (perché non dirlo)
di passione politica, per cui 'spesso fatti e idee sono evocati più che
spiegati, talvolta anche a causa di scrupoli autocensori. E soprattutto,
ciò che ha creato problemi e divisioni tra gli interpreti è l'intrecciarsi
di due livelli di analisi. Il primo riguarda le caratteristiche e lo
sviluppo del «sistema di mercato» in senso stretto, cioè del
capitalismo liberale («ottocentesco» o «vittoriano», come dice talvolta
Polanyi), e la sua crisi, culminata nel crollo del 1929, che rese
inevitabile la «trasformazione» degli anni trenta. Oggetto del secondo
livello sono le caratteristiche più generali del sistema di mercato in
senso lato, cioè della moderna società capitalistica. A questo livello,
ad esempio, ha senso la comparazione con società primitive e
antiche, innovativamente delineata nell'opera; mentre si situa al
primo livello la storia dell'utopico tentativo di far funzionare un
mercato perfettamente «autoregolato». Solo distinguendo i due livelli
è possibile apprezzare il contributo teorico di Polanyi alla
comprensione delle diverse fasi storiche attraversate dal sistema di
mercato-capitalistico in senso lato, cioè delle trasformazioni delle
istituzioni economiche e politiche, entro i vincoli determinati dalle
caratteristiche più generali del sistema.
Il lavoro di Polanyi dopo La grande trasformazione consiPágina 9
stette in gran parte nel tentativo di giustificare e approfondire l'analisi
più generale del capitalismo come specifica organizzazione sociale
storica dell'economia. Egli perseguì questo scopo, tuttavia, spostando
l'attenzione dall'analisi critica di tale forma sociale allo studio delle
economie antiche e primitive e dei problemi del metodo di una teoria
generale comparativa dei sistemi economici. Così gli era più facile
garantirsi in America, nel tempo della Guerra Fredda, il diritto di
cittadinanza intellettuale, pur continuando a precisare e ad
approfondire la sua critica dei postulati della scienza economica e di
quello che si usa chiamare oggi il «pensiero unico» economicista e
liberista.
Mi occuperò nella sezione seguente dei problemi più generali
dell'analisi comparata dei sistemi economici. Il metodo «istituzionale»
di Polanyi implica la preminenza e la priorità dello studio dei sistemi
economici nella loro natura sociale, nella loro specificità storica e nel
loro complesso. Ciò conduce inevitabilmente a una critica dei concetti
della scienza economica neoclassica e in particolare della loro
applicazione allo studio delle economie premoderne. La stessa
definizione dell'economia viene messa in questione. S'intende che il
medesimo metodo vada applicato anche allo studio della società di
mercato-capitalistica; solo la comprensione del modo in cui essa, ed
essa sola, è organizzata, consente del resto di limitare il più possibile
il rischio di proiettare sue caratteristiche su società diverse.
Il livello analitico più specifico riguarda le caratteristiche istituzionali
del «sistema di mercato» in senso stretto, il suo sviluppo e la sua
crisi; e le diverse modalità della «trasformazione» seguita negli anni
trenta. A questi temi sarà prevalentemente dedicata la terza sezione.
Polanyi ha elaborato interpretazioni del fascismo e delle vicende della
politica internazionale che, da una parte, inducono ad approfondire la
sua filosofia politica, e dall'altra suggeriscono problemi da porre
anche riguardo alla storia successiva, fino ai nostri giorni.
Particolarmente interessanti sono, da questo punto di vista, gli articoli
in cui egli commenta negli anni trenta le vicende inglesi: i tentativi di
ristrutturazione industriale e i nuovi tratti corporativi che le istituzioni
economiche e politiche tendevano ad assumere.
Finora l'interesse per il Polanyi «americano», cioè per il suo lavoro
successivo a La grande trasformazione, è stato di gran lunga
prevalente; l'aver lasciato in ombra quest'opera e gli scritti precedenti
ha reso più facili interpretazioni erronee o riduttive del suo pensiero.
2 . L'«analisi istituzionale» e il problema dell'economia
2.1. Il posto dell'economia
Al contrario che nella nostra società, in quelle precedenti l'economia
non si presenta come un sistema dotato di norme proprie, che lo
differenzino da altri ambiti e funzioni del sistema sociale complessivo.
Ciò risulta particolarmente evidente nelle società primitive, nelle
quali, scrive Polanyi (1978, p. 82), l'insieme degli «aspetti
economici», pur possedendo «unità e coerenza», non forma «un tutto
significativo». Non esiste «una sfera economica distinta»; gli elementi
dell'economia sono invece «incorporati (embedded) in istituzioni non
economiche, mentre il processo economico è regolato da legami di
parentela, matrimoniali, tra gruppi di coetanei e tra società segrete,
da associazioni totemiche e da cerimonie pubbliche». Da quelle
istituzioni e da quei legami, dal sistema complessivo dei rapporti e
delle norme sociali, dipendono le motivazioni individuali, che quindi
non possono dirsi «economiche». Come afferma Bronislaw Malinowski
(1922), le ricerche antropologiche del quale sono per Polanyi una
fonte importante, «le norme tradizionali, le concezioni magiche e
mitologiche, introducono un ordine sistematico nell'attività economica
degli individui e la organizzano al livello della società».
Deriva da ciò che, in primo luogo, «raggruppare i frammenti del
processo economico e ordinarli» è per lo studioso delle società
primitive un compito non facile, la cui soluzione non è mai immediata,
ma richiede un lavoro di ricostruzione teorica (Polanyi 1978, p. 82).
In secondo luogo, questo modo di esistenza dell'economia nelle
società primitive costringe a prendere atto del fatto che sempre, in
qualsiasi società, l'economia è socialmente organizzata. Essa è
comunque un «fatto» culturale, è una realtà sociale, risultato di un
processo storico. Non esistono «fatti economici» dati come tali, tanto
«naturali» quanto immediatamente comprensibili nella loro
concretezza. Non esistono neanche nella nostra società, nella quale
l'economia è autonoma e dominante, e viene quindi distinta come
tale. Anzi, proprio questo particolare <Tosto», che l'economia occupa
nella nostra società, la rende non solo visibile, ma abbagliante: essa
allora, secondo Marx e secondo Polanyi, tende ad essere concepita
feticisticamente. L'economia capitalistica non viene cioè compresa
nella sua specificità, in quanto forma storica, in quanto
organizzazione sociale. Accade così che i prodotti del lavoro umano
appaiano dotati di per sé di valore, mentre il valore rappresenta, in
realtà, la loro qualità sociale (cfr. Marx 1964, cap.I, § 4). Commenta
Polanyi: «il movimento delle merci nel mercato appare governato da
una forza (il loro valore) che sta nelle merci stesse, come se gli
oggetti in cui esse consistono fossero dotati di vita propria, di un loro
spirito»: mentre il valore di scambio «è, in realtà, solo il riflesso dei
rapporti materiali degli esseri umani» (Polanyi s. d.). Va poi
sottolineato che anche per lui, come per Marx, occorre proseguire
l'analisi dalla merce al capitale e al comunemente accettato concetto
feticistico di esso.
Per spiegare la concreta vita economica in società date, insomma,
occorre analizzare il modo in cui tali società sono organizzate, la loro
forma. In ogni società l'economia è istituzionalizzata in modo
specifico, e così è determinato
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il suo posto nella società. «Studiare il mutamento del posto occupato
dall'economia nelle società non vuole dire altro che studiare i modi in
cui, nelle diverse epoche e nelle diverse località, il processo
economico è stato istituzionalizzato» (Polanyi 1978, p. 305). In ogni
società esiste una produzione, ma essa non è determinata, scrive
Marx, da «leggi di natura eterne, indipendenti dalla storia». Se si
pretende che lo sia, si confondono due livelli logici diversi, due tipi
diversi di problemi: 1) l'economia in generale; 2) l'organizzazione
sociale, specifica che l'economia assume di volta in volta. In realtà,
«ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo
all'interno e a mezzo di una determinata forma sociale» (Marx 1976,
pp. 9-10).
Anche Polanyi — il quale, secondo Rhoda Halperin (1984), ha in
complesso in
comune con Marx il «paradigma istituzionale» —
assume una Posizione critica dello stesso tipo quando parla della
«fallacia economicistica», la quale consiste nello stabilire l'identità fra
l'economia in generale e la sua forma moderna («di mercato»,
capitalistica). Si commette cioè, secondo Polanyi, un vero e proprio
«errore logico» ritenendo che «un fenomeno vasto e generico sia
identico a una sua specie particolare, che si dà il caso ci sia
familiare». «Non appena le attività quotidiane dell'uomo — egli spiega
— si sono organizzate secondo mercati di vari tipi, basati sui moventi
del profitto, determinati da atteggiamenti competitivi, e governati da
una scala di valori utilitaristici, la società diviene un organismo che è,
sotto tutti gli aspetti essenziali, sottoposto a fini di guadagno. Avendo
così assolutizzato il movente del guadagno economico nella pratica,
l'uomo perde la capacità di tornare a relativizzarlo mentalmente»
(Polanyi 1984, p. 28 e p. 10). Questa specifica forma sociale di
economia, cioè, non viene riconosciuta come tale, ma viene intesa
senz'altro come l'economia: e ciò dipende proprio dalla peculiarità di
tale forma sociale, la quale può dirsi specificamente economica,
poiché si fonda sull'«economizzare» (nel senso che si chiarirà man
mano meglio).
2.2. Definire l'economia
Dovrebbe ormai essere un luogo' comune — scrive Polanyi con gli
altri due curatori (C.M. Arensberg e H. W. Pearson) di Traffici e
mercati negli antichi imperi — la concezione della società come
organizzazione storica dell'esistenza umana: dei «processi sociali»
come «intreccio di rapporti tra l'uomo, definito come entità biologica,
e quella particolare struttura di simboli e di tecniche che è sorta nel
corso della sua lotta per l'esistenza» (Polanyi 1978, p. 291).
Dovrebbe esserlo, si può aggiungere, almeno da quando Marx scrisse
le Undici Tesi su Feuerbach.
Anche l'economia fa parte del processo sociale — come dovrebbe
essere ovvio, ma non è, dato che permane il dominio del punto di
vista feticistico riguardo all'economia e della forma sociale di
economia di cui esso è espressione. Secondo la concezione corrente,
«economico»
è
«un
certo
tipo
di
azione»:
«l'azione
dell'economizzare», che consiste nell'applicazione della razionalità,
insita negli individui umani come tali, per trarre il massimo vantaggio
dalle risorse disponibili, per definizione scarse. Questo tipo di
definizione dell'economia viene detto «formale» perchè pretende di
concernere la forma dell'agire economico; forma generale, in quanto
consiste in un certo modo di applicare la razionalità umana e
prescinde dagli oggetti e dagli scopi dell'agire, cioè da qualsiasi
contesto. Si tratta, in realtà, di una definizione che rispecchia
acriticamente il modo di esistenza, il «posto» dell'economia nella
società capitalistica. Polanyi e i suoi collaboratori vollero dimostrare,
mediante ricerche storiche e antropologiche, che «la struttura
istituzionale dell'economia non richiede sempre, come nel sistema di
mercato, che si compiano azioni economizzanti» (Polanyi
1978, p. 292). Occorreva dunque, a loro avviso, una definizione
dell'economia più generale di quella corrente, per poter comprendere
sistemi economici organizzati socialmente, «istituzionalizzati»
storicamente in modo diverso rispetto al sistema di mercato.
Che cosa è dunque economico, e che cosa non lo è? Che cos'è
l'economia? Polanyi sostiene che l'unico significato che si può dare in
generale all'economia è quello che egli chiama «sostanziale» (o
«materiale») («substantive»). «Esso si riferisce a quell'interscambio
fra il soggetto e il suo ambiente naturale e sociale che ha per scopo di
procurargli i mezzi materiali per il soddisfacimento dei suoi bisogni»
(1978, p. 297). «La produzione — egli scrive già nel 1922 (1987, p.
16) — è un processo di lavoro, cioè un processo di lotta e
adattamento tra uomo e natura, che serve a soddisfare i bisogni
materiali dell'uomo».
Questa definizione è un metaconcetto, o un concetto-insieme, così
come, in Marx, il concetto di «processo lavorativo» quale «ricambio
organico» fra l'uomo e l'ambiente naturale. È un concetto che pone
un problema, ma che rinvia, per la soluzione, all'analisi delle diverse
forme sociali, dei diversi elementi dell'insieme. Come per Marx, anche
per Polanyi (1978, p. 302) ciò che va studiato sono i «concreti sistemi
economici», nei quali si tratta sempre di «un processo
istituzionalizzato di interazione fra l'uomo e il suo ambiente». «Il fatto
di essere istituzionalizzato conferisce al processo economico la sua
unità e stabilità; ciò dà vita a una struttura che ha una specifica
funzione in seno alla società; trasferisce il processo nel mezzo della
società conferendo così un significato alla sua storia; orienta
l'interesse verso i valori, le motivazioni e le scelte politiche. Unità e
stabilità, struttura e funzione, storia e politica esprimono in termini
operativi il contenuto della nostra affermazione che l'economia umana
è un processo istituzionalizzato». Si tratta dunque di comprendere il
«contesto sociale» o «istituzionale», «l'intrico di rapporti sociali in cui
l'economia era inserita» nelle società precedenti (ib., pp. 305, 291,
292 e 295), così come il «posto» particolare che essa assume,
differenziandosi e autonomizzandosi, quando il suo «contesto
istituzionale» è costituito dalla società di mercato capitalistica.
L'approccio polanyiano implica, scrive J.R. Stanfield (1986,
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p. 48), «niente meno che un punto di partenza radicalmente
differente per l'analisi dell'economia umana come processo sociale».
Il concetto «sostanziale» dell'economia e il metodo «istituzionale» —
che, dunque, si implicano reciprocamente — si contrappongono alla
cosiddetta definizione «formale» e al relativo metodo di analisi. La più
nota e canonica formulazione dell'orientamento formalistico è quella
di Lionel Robbins nel suo Essay on the Nature & Significance of
Economie Science del 1932. Robbins critica le concezioni che
distinguono l'economia in base al suo oggetto (reperimento e
trasformazione di beni materiali) e al suo fine (il benessere
materiale), a cominciare dalla definizione del «lavoro produttivo» di
Adam Smith, basata appunto sull'oggetto della produzione. Conviene
rammentare che Marx aveva opposto a quella di Smith la definizione
basata sulla forma del rapporto di produzione (capitalistico, in vista
del profitto): sulla «Forni», cioè sull'organizzazione sociale del
sistema economico. Robbins, ovviamente, non cita la soluzione di
Marx; il suo «formalismo» è ben diverso, è tutto il contrario, poiché
mira ad escludere dalla teoria la forma sociale. Egli spiega, a partire
idealmente dalla «Crusoe Economy» (da una orobinsonata», direbbe
Marx), che l'economia consiste nell'insieme delle scelte (individuali)
riguardo all'impiego del tempo e delle risorse, in rapporto con il
sistema dei bisogni (esigenze e desideri). La scelta è necessaria, e
possibile, ogni volta che i mezzi non siano sufficienti per soddisfare
completamente i bisogni, e inoltre: 1) i mezzi (tipicamente, il tempo)
possano essere usati per scopi diversi; 2) sia possibile ordinare gli
scopi secondo la loro importanza. Ecco dunque la definizione di
Robbins: l'economia è la scienza che studia «l'aspetto economico» del
comportamento umano, la forma che esso assume in conseguenza
della scarsità: il comportamento rivolto a istituire, mediante scelte,
un «rapporto tra i fini e mezzi scarsi che hanno usi alternativi»
(Robbins 1962, pp. 11-17).
Marshall Sahlins, riassumendo i risultati delle proprie ricerche sulle
società primitive, e rifacendosi a Polanyi, definisce in generale
l'economia come l'organizzazione sociale dell'approvvigionamento
materiale e dell'adattamento nell'ambiente naturale. L'economia non
va definita, egli scrive, «come l'applicazione di scarsi mezzi disponibili
a fini alternativi (fini materiali e non)». Dall'analisi delle società non
capitalistiche risulta piuttosto che «dai mezzi al fine l'economia va
concepita come una componente della cultura e non come una
particolare azione umana»; come «il processo vitale e materiale della
società», non come «un modo di comportamento individuale che
soddisfi bisogni» (Sahlins 1980, p. 190, nota).
2.3. L'analisi comparata dei sistemi economici
L'uscita nel 1957 di Trade and Market in the Early Empires (Polanyi
1978), diede il via a un vasto dibattito sul metodo dell'analisi
comparata dei sistemi economici. Furono soprattutto gli antropologi a
dividersi tra «formalisti» e osostantivisti»; i secondi si rifacevano a
Polanyi, cogliendo raramente, tuttavia, le più profonde implicazioni
del suo principio, che oggetto dell'analisi economica debbano essere
le forme sociali dell'economia.
Sahlins è tra i pochi a seguire fino in fondo la via che porta, come
egli dice, dall'«economia comparata» all'«economia antropologica»
(Sahlins 1960; Cangiani 1990). Quest'ultima rispecchia il metodo di
Polanyi. L'«economia comparata» invece — in cui si tratta, come
dichiara Melville Herskovits (1952, p. 4), di «comprendere le
implicazioni interculturali del processo dell'economizzare» — cade
nella «fallacia economicistica», presupponendo che la differenza tra i
più lontani sistemi economici consista solo nel diverso grado di
sviluppo e nel diverso ambiente culturale, il quale resta però esterno
rispetto all'agire economico propriamente detto. I concetti della
scienza economica contemporanea risultano quindi universalmente
applisabili, e il metodo comparativo consiste nel confronto di sistemi
economici storicamente specifici in riferimento a un modello generale
dell'agire economico.
L'apparato concettuale impiegato da Herskovits, scrive Daniel
Fusfeld, corrisponde a una situazione in cui, come nell'economia
contemporanea, il «complesso dei mercati e dei prezzi, dei profitti e
della ricerca del guadagno» fornisce «gli strumenti istituzionalizzati
mediante i quali compiere le scelte». Quando invece l'economia si
fonda sui doni, sulla parentela, in generale su motivazioni sociali, la
teoria della scelta razionalmente «economica» «può portare soltanto
all'affermazione generica e imprecisa che c'è stata massimizzazione
delle soddisfazioni», e a privilegiare aspetti secondari come lo
scambio intertribale, a scapito di quelli più importanti, come il modo
in cui avvengono la distribuzione e l'impiego delle risorse e del
prodotto all'interno del sistema economico (Fusfeld 1978, pp. 427428).
Un altro collaboratore del volume Traffici e mercati, Harry Pearson,
svolge la critica del modo «naturalistico», falsamente generale, in cui
viene di solito inteso al concetto di «surplus». Il significato e
l'esistenza stessa del surplus dipendono, in realtà, dalle particolari
«caratteristiche istituzionali» dell'economia, ed è solo nell'economia di
mercato che il sukplus diventa istituzionalmente determinante
riguardo all'allocazione delle risorse, alla divisione del lavoro, ai
rapporti sociali, e quindi acquista un significato generale. Pearson fa
riferimento al concetto di «plusvalore» e sottolinea che Marx ha per
primo rilevato «l'origine istituzionale» del surplus nel rapporto tra
lavoratore e capitalista (Pearson 1978', in particolare pp. 394,
409 e 417).
A Marx va fatto risalire in generale, come abbiamo visto, il concetto
di feticismo: oltre a quello della merce, c'è il feticismo del capitale,
tuttora rilevabile in quegli studi di «economia comparata», per i quali
«capitale» è qualsiasi bene strumentale, in qualsiasi società. Sahlins,
ne L'economia dell'età della pietra, richiama anche a questo proPágina 12
posito la necessità che la teoria si rivolga alle istituzioni e ai rapporti
sociali. Egli si sofferma sulla qualità del rapporto, che esiste nelle
società primitive, tra l'uomo e i suoi mezzi di produzione, i quali sono
nello stesso tempo «di sussistenza»: essi vengono prodotti da coloro
che li usano e che sono anche i destinatari del prodotto. Il possesso
dei mezzi di produzione, allora, non mette in atto né riproduce una
divisione sociale; il controllo delle risorse appartiene ai produttoriconsumatori; è semmai lo status che consente la disponibilità di
ricchezza, non viceversa. Condizione del prestigio sociale può, d'altra
parte, essere la generosità, il dare di più di quanto si riceva; lo
constatano tanto Sahlins a proposito del «big man» nella Melanesia,
quanto studiosi delle culture dell'America del Sud come Claude LéviStrauss (1967) o Pierre Clastres (1980). La razionalità econòmica e il
«surplus» non sono comunque mai un fine in sé, non determinano in
quanto tali l'organizzazione e la dinamica dell'economia.
Nell'antropologia economica di orientamento «formale» più recente
la diversità dei sistemi economici viene riconosciuta, ma concepita
come diversità che riguarda solo l'oggetto e le condizioni del
comportamento «economizzante»; ad esempio, nelle società primitive
si tratterà di massimizzare il prestigio sociale piuttosto che il
guadagno monetario (cfr. Schneider 1985). Si può obiettare, sempre
rifacendosi alla critica svolta da Polanyi, che, se la razionalità
economizzante viene riferita alla produzione materiale, la sua
generalizzazione interculturale è insostenibile; se viene estesa a
qualsiasi fatto e atto sociale, quest'applicazione «imperialistica» della
teoria economica risulta tanto riduttiva riguardo alle società
premoderne quanto sfuggente riguardo alla specificità della nostra.
Aderendo invece al punto di vista «sostanziale» di Polanyi, Sahlins
collega l'assenza dell'interesse individuale con la complessità del fatto
economico e la sua «immersione» nella totalità sociale, che danno
luogo a una determinazione unitaria e contestuale dei fini e dei mezzi.
Inoltre, egli mette in rilievo che il processo di approvvigionamento
materiale della società è finalizzato alla riproduzione della società
come organizzazione complessiva e peculiare (questo spiega anche
peithé tale processo non riguardi solamente la soddisfazione dei
bisogni materiali, i quali, del resto, non esistono in sé, ma sono
sempre socialmente definiti). Queste indicazioni di Sahlins
consentono di comprendere meglio perché il concetto di Polanyi del
processo economico come «approvvigionamento materiale della
società», come processo di adattamento dell'uomo nel suo ambiente,
sia antieconomicistico: non semplicemente per l'importanza che dà ai
fattori istituzionali e culturali, e perché considera limitata alla società
capitalistica l'esistenza di una sfera economica definita in sé e per sé:
ma perché intende il problema dell'economia come problema della
sua forma (organizzazione) sociale, e quindi del suo significato (del
suo «posto») in rapporto con il sistema sociale complessivo.
Che l'economia sia sempre «istituzionalizzata» significa che sono
socialmente determinate le norme (e le sanzioni) che regolano i fini e
i modi dell'attività degli individui, la loro partecipazione al processo
economico. L'economia in senso sostanziale, l'acquisizione e la
disposizione di risorse necessarie per la riproduzione della società, si
attua così di volta in volta, prendendo una specifica forma sociale. È
grazie alla sua istituzionalizzazione che l'economia costituisce un
sistema: «Le proprietà dell'unità e della stabilità, della struttura e
della funzione, della storia e della politica sono conferite all'economia
dal suo manto istituzionale» (Polanyi 1984, pp. 59-60). Si tratta
sempre di una particolare istituzionalizzazione, che delimita e orienta,
secondo scelte definite, sia il sistema nel suo complesso, sia l'attività
e i rapporti degli individui, sia i «motivi» dell'agire economico.
Si vede bene come la contrapposizione con il punto di vista
«formale» dell'economia neoclassica verta essenzialmente sul fatto
che in esso il problema della struttura sociale venga rimosso, per cui
oggetto dell'analisi economica diventa, lo si voglia o no, l'homo
oeconomicus. Polanyi critica tanto l'individualismo metodologico
quanto la riduzione dell'oggetto della scienza economica all'agire
razionale «economizzante». Il problema, per lui, è la forma sociale
dell'economia, non la forma «economica» del comportamento
individuale o la «razionalità economica» in generale. «Gli effetti
sociali dei comportamenti individuali — egli scrive (1978, p. 307) —
dipendono sempre dalla presenza di determinate condizioni
istituzionali». Anzi, dipendono da queste ultime le stesse motivazioni
degli individui, oltre che gli scopi, i modi, i limiti della loro attività
economica: la quale è insomma di volta in volta significativa e
«integrata» entro uno specifico sistema sociale.
Nel sistema dell'economia capitalistica, «tutti i beni e i servizi,
compreso l'uso del lavoro, della terra e del capitale, possono essere
acquistati sul mercato e ricevono pertanto un prezzo»; «la generale
introduzione del potere di acquisto come mezzo di appropriazione
trasforma il processo attraverso il quale si fa fronte ai bisogni nello
stanziamento di mezzi insufficienti aventi usi alternativi, in particolare
del denaro» (ib., p. 302). La scarsità appare allora un fattore storicoistituzionale, invece che, come nell'economia neoclassica, un
presupposto generale dell'agire economico. La definizione teorica di
questa situazione storica, di questa forma sociale dell'economia,
consente di spiegare sia i caratteri e i motivi del comportamento
economico degli individui sia l'origine del «metodo formale», il quale
descrive l'economia come «una serie di atti economizzanti, ossia di
scelte dettate da situazioni di scarsità» (ib.).
Il concetto «sostanziale» e i principi dell'«analisi istituzionale»
dell'economia valgono dunque, com'è naturale, anche perla società di
mercato-capitalistica; proprio nella riflessione su questa società, anzi,
si trova l'origine degli interessi antropologici e della ricerca
metodologica di Polanyi.
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Dobbiamo constatare che nelle società diverse dalla nostra, egli
scrive, «l'assenza del motivo del guadagno, l'assenza del motivo del
lavoro per una remunerazione, l'assenza del principio del minimo
sforzo e in particolare l'assenza di qualunque istituzione separata e
distinta basata su motivi economici». Ciò vuol dire, da una parte, che
questi motivi tipicamente «economici» sorgono «dal contesto della
vita sociale», quando essa è organizzata sulla base di un sistema di
mercato. Tali «motivi», quindi, non solo sono fuorvianti quando si
devono analizzare modi di organizzazione diversi, ma non possono
nemmeno essere addotti a principio di spiegazione e a giustificazione
del sistema di mercato. D'altra parte, l'assenza di questi motivi — i
quali, nella scienza economica, appaiono principi generali dell'attività
economica — non implica affatto che non sia «assicurato l'ordine nella
produzione e nella distribuzione» (Polanyi 1974, p. 62). Si tratta di
capire come è assicurato.
A questo fine Polanyi individua tre tipi generali di organizzazione, tre
«forme di integrazione» dell'economia: «reciprocità, ridistribuzione e
scambio». Ognuna delle tre forme di integrazione poggia su una
«base istituzionale» congrua. Ad esempio, nel caso della reciprocità, i
sistemi simmetrici di gruppi di parenti; nel caso della ridistribuzione,
gli stati antichi, in cui si è differenziato un sistema politico. Lo
scambio, infine, «integra» l'economia sulla base del «sistema di
mercato».
In tutte le società che si possono far rientrare nelle «forme» della
reciprocità e della ridistribuzione, l'economia è «immersa nei rapporti
sociali», è parte di un'organizzazione sociale in cui sono
complessivamente regolati tutti gli aspetti della vita sociale — anche
se di volta in volta il sistema della parentela o quello politico-religioso
appaiono dominanti, e dunque sono essenzialmente essi ad
«istituzionalizzare» l'economia.
La peculiarità dell'economia moderna consiste nel suo essere — in
quanto economia di mercato-capitalistica — istituzionalizzata
«economicamente». Questa è la sua specifica forma sociale. Si spiega
allora il perché del «posto» particolare occupato dall'economia, del
fatto che essa non sia più embedded nei rapporti sociali, che diventi
autonoma e dominante.
Maurice Godelier prende da qui lo spunto per riformulare il
materialismo storico. È ben vero, a suo avviso, che la struttura
economica è dominante solo nella società capitalistica; ma la
struttura della parentela o quella politica, che sono dominanti in altre
società, non potrebbero esserlo se non avessero la funzione di
rapporti di produzione, se non organizzassero anzitutto l'attività
economica (si veda p. es. Godelier 1978).
Per concludere riguardo al problema dell'analisi comparata dei
sistemi economici, si possono così riassumere i principali assunti di un
metodo «polanyiano»:
a) le differenze e le somiglianze fra sistemi economici si possono
stabilire solo sulla base dello studio delle singole società, delle loro
specifiche istituzioni. Non si può invece partire da modelli e concetti
generali (come quelli della teoria economica neoclassica).
b) I diversi sistemi, studiati nella loro organizzazione specifica e
complessiva, possono rientrare in schemi teorici più generali, quali
sono le tre «forme di integrazione».
c) Il riconoscimento della specificità storica dell'economia di
mercato-capitalistica è preliminare per poter procedere a
«generalizzare le nostre conoscenze sui modi in cui i concreti processi
economici sono istituzionalizzati» (Pearson 19782, p. 390). Questo
evita il rischio di proiettare su società diverse caratteristiche della
nostra cultura, la quale inevitabilmente è termine di comparazione. O
almeno, tale,rischio può essere ridotto se l'approfondimento della
conoscenza della nostra società consente di comprendere meglio le
altre, e viceversa: secondo il metodo chiamato della «comparazione
riflessiva» da Louis Dumont (1983).
d) Non c'è logicaniente ragione di ritenere che l'analisi delle società
e dei rispettivi sistemi economici nella loro specificità implichi una
rinuncia relativistica alle generalizzazioni teoriche. Tale analisi,
invece, può fornire criteri meglio fondati per la comparazione. Ciò
significa in particolare che una teoria capace di definire la specificità
storica dell' «economizzazione» (in base alla teoria del modo in cui
l'economia è istituzionalizzata nella società di mercato) è più generale
di una teoria per la quale l'«economizzazione» valga come postulato
generale. Così, infatti, il concetto «formale» di economia viene
svelato come espressione ideologica di una data organizzazione
sociale, e può essere formulato il concetto «sostanziale», che è più
generale, o generale davvero.
2.4. Il valore come forma sociale
Lo scambio generalizzato come forma o «connessione sociale» è
l'oggetto dell'analisi di Marx al livello della «circolazione semplice»,
primo livello della sua teoria della società capitalistica. I concetti
fondamentali per la spiegazione di tale forma di società sono, a
questo primo livello, «valore» (di scambio) e «lavoro astratto» (quale
unico elemento «generalmente sociale» che consenta la scambiabilità
delle merci). Poiché ciò è sufficiente per definire la «connessione» —
cioè la forma, l'organizzazione sociale del rapporto fra gli individui —
si spiega la natura essenzialmente ed autonomamente «economica»
di tale organizzazione.
Polanyi, analogamente, considera lo «scambio» come la terza delle
«forme di integrazione», cioè di organizzazione, dell'economia,
precisando che ciò è possibile in quanto esso costituisce un sistema, e
lo costituisce in quanto poggia sulla «struttura istituzionale» del
mercato (1978, p. 308). È questa struttura che integra, cioè connette
e rende coerente, nello spazio e nel tempo, l'agire economico dei
singoli. Data questa «forma», altre «differenze», motivazioni e
relazioni degli individui, e le altre
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istituzioni sociali, possono variare ed essere più o meno rilevanti, ma
restano comunque contingenti (la teoria economica le considera
variabili esogene). Appare questa una situazione inversa rispetto a
quella caratteristica delle società primitive, nelle quali — come
osserva Sahlins concludendo il suo saggio sulla Sociologia dello
scambio primitivo (1980, p. 234) — è lo scambio definito
esclusivamente dalla razionalità «economica», cioè l'«economizzare»,
che «appare nel complesso come un fattore esogeno».
Attraverso Polanyi, diviene più chiaro ed evidente ciò che Marx
(1964, pp. 112-113, nota 32) dichiara essere il carattere distintivo
della «critica dell'economia politica»: i concetti di valore e di lavoro
astratto non vanno circoscritti, quanto al loro significato, entro
l'analisi economica dei prezzi di equilibrio in un sistema
concorrenziale di mercato; essi determinano, invece, una particolare
struttura sociale. Mediante tali concetti viene definito il rapporto
specifico fra individui, fra individui e produzione sociale, fra società e
ambiente; viene delineata una particolare situazione storica, a partire
dal fatto che l'attività lavorativa non avviene più entro i rapporti e le
finalità, che, in una «società organica», sono invece precostituiti nella
loro concretezza e complessità. L'affermarsi della società di mercato,
osserva Polanyi, corrisponde alla «liquidazione della società organica»
(1974, p. 212). Quando, egli scrive (1980, p. 62), «il meccanismo di
mercato» diviene «determinante per la vita del corpo sociale», ne
risulta una «società 'economica'», nella quale regnano i cosiddetti
«moventi economici», si diffonde la «concezione utilitaristica», e si
sviluppa l'economia politica fino al «formalismo» neoclassico.
Le forme precapitalistiche della produzione sono caratterizzate,
secondo Marx (1976, pp. 451-452), dal fatto che «il lavoratore ha
un'esistenza oggettiva indipendentemente dal lavoro». L'individuo
vive cioè in una società che garantisce la «sussistenza» dei suoi
membri entro un'organizzazione in cui sono socialmente definiti, a
priori e contestualmente, sia il modo in cui viene «letto» l'ambiente
naturale, sia il modo in cui si attua l'intervento lavorativo dei singoli,
sia le' finalità che esso persegue. Tutto ciò costituisce il presupposto e
il significato dei singoli atti lavorativi e dell'economia nel suo insieme.
Tutto ciò può inoltre essere considerato, dal punto di vista del singolo
(non «individualizzato», cioè non ancora divenuto il moderno
individuo), anche come definizione sociale della sua «soggettività»,
oltre che della sua «esistenza oggettiva», entro l'organizzazione
pratica e insieme conoscitiva della relazione fra uomo e ambiente
costituita (prodotta) dal sistema sociale.
Nella società capitalistica si ha invece il lavoratore «in forma nuda»,
ed è questa secondo Marx un'assoluta novità storica. Il lavoro «nudo»
della società capitalistica corrisponde al ridursi dello scopo del lavoro
alla produzione di «ricchezza astratta», cioè di valore. È nella forma
di lavoro astratto che il lavoro produce le condizioni della
«sussistenza dell'uomo» e della vita sociale e, anzittutto riproduce
l'organizzazione sociale della produzione. La «creazione di valore»
come scopo viene dunque contrapposta da Marx a qualsiasi altro
modo sociale della produzione, a qualsiasi altra forma sociale
dell'economia. Non si tratta, inoltre, semplicemente di uno dei tanti
modi in cui l'economia è stata organizzata socialmente, ma
dell'autonomizzarsi dell'attività economica, del suo presentarsi in
forma astratta, «nuda» di qualsiasi altro significato e scopo sociale
presupposti.
Come in Marx, anche in Polanyi l'autonomia dell'economia va intesa
nel suo concetto, cioè in riferimento al modo in cui il sistema
economico è organizzato, non semplicemente in riferimento al
processo empirico di differnziazione sistemica della società, il quale
ne è semmai, logicamente, una conseguenza. Per Polanyi, in effetti,
l'economia ha sempre una forma sociale: anche quando questa forma
o «base istituzionale», che consente l'«integrazione» delle attività
economiche, conferendo ad esse significato sociale, coerenza e
continuità, è il mercato capitalistico. Si tratta in questo caso di una
forma sociale essenzialmente «economica» dell'economia in senso
generale-sostanziale: la forma dell'«economizzazione». Il concetto
«formale» di economia, e l'analisi economica che su di esso si fonda,
sono espressione immediata, non critica, di questo modo sociale di
organizzazione dell'economia (cfr. Polanyi 1978, pp. 301-302).
2.5. Mercato e capitalismo
Il mercato, quale «congegno istituzionale», «organizza gli esseri
umani», insieme alla terra e ad ogni altra risorsa, «in unità industriali
dirette da privati impegnati soprattutto a comprare e a vendere allo
scopo di realizzare un profitto» (Polanyi 1984, p. 32). Tutta la
produzione è in vendita sul mercato e tutti i redditi derivano dalla
vendita. Ciò implica che vi siano mercati «per tutti gli elementi
dell'industria» e anzitutto «per il lavoro, la terra e la moneta»
(Polanyi 1974, p. 89): sicché «la stessa sostanza della società
umana» viene coinvolta e stravolta. Lo sviluppo dell'economia di
mercato, sospinto da quello dei rapporti capitalistici di produzione, dà
luogo a «un'intera società incorporata (embedded) nel meccanismo
della sua stessa economia: una società di mercato» (Polanyi 198z p.
32).
Data «l'importanza vitale del fattore economico per l'esistenza della
società», «una volta che il sistema economico sia organizzato in
istituzioni separate, basate su motivi specifici e conferenti uno
speciale status, la società deve essere formata in modo da
permettere.a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi»
(Polanyi 1974, p. 74). La situazione appare rovesciata rispetto alle
società precedenti, in cui il baratto e lo scambio rientrano «in un tipo
di transazione precostituito nel quale sono già fissati gli oggetti ed il
loro ammontare equivalente» (ib., p. 79).
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Precostituito, s'intende, entro un sistema sociale che organizza nel
suo complesso la «sussistenza dell'uomo», che organizza i modi, il
significato, l'oggetto stesso della produzione. Il fatto che questa
funzione sia assunta dal mercato, mentre «mai prima del nostro
tempo i mercati erano stati qualcosa di più che elementi accessori
della vita economica» (ib., p. 88), rende evidente la radicalità del
cambiamento. La produzione e i bisogni sono ora definiti e organizzati
dallo scambio, e dal «produrre per lo scambio». Questa struttura
tipicamente e autonomamente «economica» diviene dominante,
determinando il sistema sociale nel suo complesso.
Divenendo autonomo il sistema economico, il «posto» dell'economia
nella società è determinato dall'economia stessa, in quanto essa è,
per così dire, auto-istituzionalizzata. L'organizzazione dell'economia
non dipende più da strutture, istituzioni e rapporti sociali non
immediatamente e specificamente economici. Anzi, è la società, sono
i suoi diversi aspetti e funzioni, e in particolare i rapporti di classe,
che si configurano e si trasformano sulla base dell'attività economica.
Qualsiasi aspetto della vita sociale e della cultura, secondo Polanyi
(1947, p. 100), non può non «venir modellato in modo congruo con le
necessità del sistema» di mercato. Sulla base del fatto che cambiano
le condizioni e le motivazioni dell'attività produttiva, cambia anzi
l'immagine stessa dell'uomo e della società, insieme con la loro realtà
di
fatto.
«Il
particolare
movente
prescelto
rappresenta
inevitabilmente l'uomo "reale"» (Polanyi 1984, p. 34): e in una
società di mercato non si possono avere che «atomi umani», mossi
dai «motivi della fame e del guadagno». Il controllo del sistema
sociale, quando esso assume una forma «economica», è affidato,
fondamentalmente, proprio a tali motivi, a tali «incentivi». Essi
mediano la partecipazione dei singoli alla produzione; integrano
praticamente e conformano ideologicamente i soggetti entro un
sistema sociale in cui l'economia (in senso generale-sostanziale) è
senz'altro «attività economizzante», e così viene intesa e teorizzata.
Polanyi sottolinea l'assoluta novità storica di tale «materialità» e
unilateralità dei motivi.
Quando il mercato si generalizza, si verifica un cambiamento
qualitativo, radicale, che Polanyi non manca di connettere con la
struttura capitalistica della produzione. Si ha infatti un vero e proprio
sistema di mercato quando «le basi materiali dell'esistenza umana
sono garantite da istituzioni mosse da moventi economici e regolate
da leggi specificamente economiche, come l'impresa privata e il
sistema salariale» (Polanyi 1978, p. 79-80).
Max Weber, similmente, scrive (1993, p. 244): «Un'epoca nel suo
complesso può essere definita tipicamente capitalistica solo se la
copertura dei fabbisogni è talmente orientata in senso capitalistico,
che se venisse meno questo tipo di organizzazione, l'intera copertura
del fabbisogno crollerebbe». Solo nella seconda metà del XIX secolo,
secondo Weber, si realizza questa situazione. Polanyi a sua volta si
sofferma ne La grande trasformazione sull'importanza, per
l'affermazione piena della società di mercato capitalistica, delle
riforme del Parlamento, della Legge sui poveri, della Banca
d'Inghilterra e del sistema di protezione doganale, attuate in Gran
Bretagna tra il 1832 e il 1846. Quel che più importa, comunque, è
che tanto in Weber quanto in Polanyi l'affermarsi della produzione
capitalistica appaia come il fondamento del sistema di mercato e
quindi della sua «artificiosità».
Polanyi riprende da Max Weber il concetto della fame e del
guadagno come «motivi» prettamente «economici», tipici della
società capitalistica di mercato. Weber parla di due
tipi
complementari di «motivi» dell'agire economico, che corrispondono a
una divisione gerarchica e che caratterizzano in modo non
contingente la produzione capitalistica: da una parte il «rischio di una
mancanza totale di approvvigionamento» per sé e per la propria
famiglia, dall'altra il «rischio del proprio capitale» e le «opportunità di
guadagno in connessione con la disposizione »professionale
all'acquisizione
razionale«.
Tale
disposizione
e
l'attività
corrispondente vengono considerate come una «forma di dominio
autonomo sugli uomini che dipendono dalle proprie prescrizioni, ed
anche sulle possibilità di approvvigionamento di una pluralità
indeterminata di individui, le quali rivestono importanza per la loro
cultura o per la loro vita: insomma, come forma di potere« (Weber
1980, vol. I, p. 106). Weber sottolinea dunque che il «dominio»
capitalistico si esercita nello stesso tempo nei confronti dei lavoratori,
all'interno del processo lavorativo, e riguardo al modo in cui la società
provvede alla propria sussistenza. I due motivi della fame e del
guadagno segnano una divisione nella società, definendo due classi
sistematicamente dotate di potere diverso riguardo al funzionamento
e all'organizzazione stessa della società. Come la fame diventi un
elemento funzionale del sistema è un tema non secondario
dell'analisi, svolta ne La grande trasformazione, dello sviluppo della
società capitalistica e delle teorie economiche e sociali che lo
accompagnano.
L'emancipazione
del
lavoratore,
osserva
sinteticamente e crudamente Polanyi, aveva «il fine dichiarato di
rendere efficace la minaccia della morte per fame» (1974, p. 238). La
teoria dell'organizzazione capitalistica della produzione mette in
evidenza che la forma sociale specifica del processo lavorativo
consiste nOla sua finalizzazione alla valorizzazione del capitale; ciò
spiega l'autonomia della «sfera economica». Tale autonomia, scrive
Polanyi (1974, p. 218), si verifica insieme con l'affermarsi del
«principio del guadagno e del profitto come forza organizzatrice della
società». Anche il motivo della fame acquista allora significato nella
teoria, in quanto anch'esso connota il rapporto fra gli individui e una
data organizzazione sociale della produzione. Sembra che fame e
guadagno siano di per sé i motivi dell'agire economico, in quanto
appaiono essenzialmente motivi economici. In realtà, questa è
un'apparenza feticistica: «nessun movente economico è economico in
sé», scrive Polanyi (1980, pp. 62-63); «tutto è dato dalle circostanze
sociali, non da quelle
Página 16
naturali». Come la produzione, anche i motivi sono sempre sociali.
Solo nella «società di mercato», in cui l'attività economica si
autonomizza, la fame e il guadagno divengono — socialmente —
motivi, al posto di quelli che in precedenza venivano variamente
determinati dallo status, dagli obblighi e dalle credenze, insomma
dalla cultura che costituiva i singoli — non ancora «individui» — in
soggetti sociali.
2.6. Il capitalismo e il problema della società
Polanyi rappresenta l'instaurazione del sistema di mercato come
«catastrofe culturale», che ha in primo luogo l'effetto di sottrarre agli
uomini la proprietà delle condizioni della loro esistenza, proprietà che
in precedenza coincideva con l'appartenenza alla comunità.
«Separare il lavoro dalle altre attività della vita — egli scrive (1974,
p. 210) — ed assoggettarlo alle leggi del mercato significava
annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un
tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico». L'analisi
di Polanyi ricorda quella marxiana dell'«accumulazione originaria»,
quando, ad esempio, egli parla della «distruzione di strutture sociali
per estrarne l'elemento lavoro» (Polanyi 1974, p. 211). E anche temi
e concetti sviluppati da Marx, in particolare nei Grundrisse, per
esempio a proposito dell'«individualizzazione» dell'uomo quale
risultato del «processo storico», nella situazione in cui il valore di
scambio costituisce la «connessione sociale». Quest'ultima consiste
infatti nella «dipendenza reciproca e universale degli individui
indifferenti gli uni agli altri», cioè nel rapporto in cui i soggetti «sono
determinati semplicemente come soggetti di scambio», sicché «la loro
ulteriore differenza individuale non li riguarda affatto» (Marx 1976,
pp. 476, 88, 183, 185). Polanyi — che, come dovrebbe essere ormai
chiaro, tiene a sottolineare, al pari di Marx, la specificità della società
capitalistica — ricorda che Thomas Carlyle chiamò cash nexus «i
legami tra persone unite soltanto da rapporti di mercato» (Polanyi
1978, p. 81). Egli cita inoltre, più di una volta, sia la contrapposizione
di H.S. Maine fra le società fondate sullo status e quella moderna
fondata sul contractus, sia la distinzione di Ferdinand Thnnies (ripresa
da Weber) tra comunità e società.
L'autonomizzazione dell'economia determina la nascita della scienza
economica: la società non può' non porsi il problema dell'economia,
una volta che l'attività economica, non più oembedded», sia divenuta
fine a se stessa. Nello stesso tempo, si pone il problema della società:
come garantire, oltre alla «ricchezza delle nazioni», l'ordine sociale e
magari una buona società? Ne La grande trasformazione Polanyi
analizza lo sviluppo del «credo» utilitarista, secondo il quale il libero
giuoco delle leggi naturali dell'economia avrebbe risolto — nel modo
più efficace, più «economico» — il problema del (migliore) ordine
sociale.
La prospettiva di Polanyi, le questioni che egli pone riguardo alla
realtà sociale ed economica, vanno riferite a questo ambito e a
questo livello di problemi. Si evidenziano così la vastità e la
profondità di tale prospettiva e, corrispondentemente, la radicalità
della sua critica e del suo progetto: si tratta per lui ancora — e siamo
nel bel mezzo del nostro secolo — di adattare «la civiltà industriale
L.] ai requisiti dell'esistenza umana», se si vuole che l'umanità
sopravviva (Polanyi 1947, p. 96). In un saggio di alcuni anni prima
egli si richiama a Marx, quale rappresentante della tendenza «verso
una riproduzione a più alto livello della primitiva armonia dell'uomo
con il suo ambiente» (Polanyi 1987, p. 107). L'autonomia del sistema
economico va superata; la possibilità di determinare — secondo una
scelta sociale non subordinata alle esigenze del sistema di mercato —
gli scopi e i modi della produzione, è l'obiettivo che è necessario e
dunque realistico perseguire.
Polanyi si rende conto, naturalmente, che, come dice Marx
riferendosi alle società primitive, «è ridicolo rimpiangere quella
pienezza originaria» (Marx 1976, p. 94); che è sulla base dello
sviluppo tecnologico, della libertà individuale, dell'apertura e della
differenziazione del sistema sociale, che va ricercata una nuova
armonia, a un nuovo livello. Il problema dell'economia va ormai posto
in quanto tale, poiché è impensabile il ritorno a una «incorporazione»
immediata dell'attività economica entro istituzioni, ruoli e motivazioni
non economici. Non si può comunque porre tale problema senza
distinguere
fra
economia
nel
significato
sostanziale
ed
«economizzazione». Senza rilevare che, nella teoria economica
neoclassica, l'assenza di tale distinzione impedisce di comprendere
l'«economizzazione» come specifica forma storica e, quindi, di porre il
problema della «sussistenza dell'uomo» nei termini che la situazione
storica impone.
3. Le trasformazioni della società di mercato
3.1. La crisi del sistema liberale
Nelle conferenze tenute nel 1922, pubblicate quattro anni dopo nel
volume Religion and the Rise of Capitalism, Richard Tawney muove
dalle «domande che gli uomini si pongono oggi». Ora, egli sostiene,
l'autonomia dell'economia non è più un'ovvietà come nell'epoca
vittoriana. Ora si torna a cercare «un metro di giudizio per le azioni e
le istituzioni collettive dell'umanità», per l'economia anzitutto.
È questo «l'interesse conoscitivo» (come direbbe Max Weber) che
porta lo storico inglese a indagare il passaggio, avvenuto fra i secoli
XVI e XVIII, «da una prospettiva che considerava l'attività economica
come uno dei tanti generi di condotta morale a quella che la fa
dipendere da forze impersonali e quasi automatiche». «C'è un
abisso», egli afferma, fra la società organica e gerarPágina 17
chica, retta da principi religiosi e comunitari, e quella moderna,
individualistica, «che considera l'utilità come criterio unico del
comportamento» (Tawney 1967, pp. 29, 22 e 28). La nostra società
«acquisitiva» — scrive Tawney in un libro precedente (1920) — è
caratterizzata dal predominio della funzione economica su quella
culturale e quella politica; sarebbe tempo di tornare ad invertire
quest'innaturale gerarchia, mantenendo però le conquiste della
società moderna, il superamento della società gerarchica in primo
luogo. Dello stesso anno è l'opera di G.D. H. Cole sul Guild Socialism
(Cole 1920); in essa viene ripensata in modo sistematico l'ipotesi di
una democrazia socialista, basata sull'autogestione della produzione,
sulla «democrazia industriale», ma anche su istituzioni politiche
democratiche, in grado di affrontare i problemi e di coordinare le
esigenze dei diversi settori produttivi e dei diversi ambiti della vita
sociale, di compone i conflitti, di rendere ogni individuo tanto
partecipe quanto responsabile del bene comune.
Polanyi dialogava, per così dire, con Cole e Tawney ancora prima di
trasferirsi in Gran Bretagna, cioè quando, a Vienna, condivideva con i
socialisti austriaci il programma di un'economia democraticamente
organizzata e di un controllo politico democratico su di essa, che
consentisse davvero l'ottimizzazione dell'uso delle risorse. Il
socialismo «funzionale» di Otto Bauer aveva molto in comune con il
Guild Socialism e rientrava nel più vasto movimento dei «consigli».
Da esso Polanyi prende l'idea di un sistema sociale formato da
sottosistemi relativamente autonomi, distinti secondo la loro
funzione, all'interno dei quali gli individui interagiscano liberamente e
democraticamente, e a partire dai quali sia possibile coordinare e
indirizzare la produzione e lo sviluppo stesso della società. Questo
tipo di organizzazione garantirebbe la massima «capacità di vedere»
(Polanyi 1987, p. 56), cioè, diremmo oggi, di distinguere e di
elaborare informazioni, per poter conseguire la migliore utilizzazione
delle risorse e, prima ancora, scegliere quale essa debba essere, per
quali fini. Sono inadeguati da questo punto di vista, meno efficienti,
_secondo Polanyi, sia «l'economia amministrata», cioè la
pianificazione centralizzata, sia il mercato.
Su questo punto la contrapposizione con gli economisti liberali della
«scuola austriaca» è netta. Nel 1920, ad esempio, Ludwig von Mises
sostiene che solo in un mercato libero è possibile un calcolo dei costi
tale da consentire la distribuzione ottimale di risorse limitate fra gli
impieghi possibili, in vista della soddisfazione dei bisogni individuali.
L'azione indipendente di ogni individuo, in qualità di consumatore o di
produttore, e il sistema di prezzi che ne risulta, vengono dunque
presentati come l'unica possibile garanzia della razionalità
complessiva dell'economia (cfr. Mises 1920). Appare sulla stessa
rivista nel 1922 il saggio sulla Contabilità socialista, in cui Polanyi
contrappone le proprie tesi a quelle di Mises. Il problema, egli scrive,
è di assicurare la «produttività» del ,sistema economico non solo dal
punto di vista della razionalità economica formale, ma anche da
quello delle valutazioni sociali, dell'ottimizzazione delle risposte del
sistema produttivo alle sollecitazioni dell'ambiente (sociale, umano e
naturale). L'economia capitalistica, invece, «per sua natura, non
riesce a comprendere l'effetto retroattivo del processo di produzione
sulla vita della comunità. Le manca l'organo per capire [l'organo di
senso: Sinnesorgan come si formano la salute, il riposo, l'essere
spirituale e morale dei produttori e di chi risiede intorno ai luoghi di
produzione, come il bene generale è favorito o pregiudicato da questo
o quell'orientamento della produzione o del modo della produzione
attraverso i loro lontani effetti retroattivi. Ancora meno riescé a
promuovere i fini positivi del bene generale: le mete spirituali,
culturali e morali della comunità, in quanto la loro realizzazione
dipende dai mezzi materiali. Infine deve rinunciare completamente
dove gli obiettivi economici toccano i fini generali dell'umanità, come
l'aiuto internazionaleee la pace dei popoli» (Polanyi 1987, p. 19).
Il dibattito su questi temi era vivo e aperto nel primo dopoguerra,
quando, in tempi ancora a ridosso del culmine raggiunto dalla forza
del movimento operaio, la «socializzazione» era all'ordine del giorno.
Lo era, almeno per certi settori, come quello carbonifero, anche in
Gran Bretagna. In questo paese, scrive Cole, il socialismo, divenuto
«una forza formidabile» fin dal periodo di intense lotte sociali che va
dal 1910 al 1914, intorno alla fine della guerra si rafforza ancora
(Cole 1935, p. 36).
In quel periodo sembrava che la crisi del capitalismo liberale
sarebbe sfociata nel superamento del capitalismo stesso, nel
passaggio a una società socialista. La controrivoluzione tuttavia
prevalse, secondo Polanyi, rapidamente: non anni ma mesi dopo la
fine della guerra. Ed egli intuisce almeno dal 1926, come si evince dai
suoi commenti sul fallimento dello sciopero generale in Gran Bretagna
(Polanyi 1993, pp. 32 sgg.), che una ristrutturazione istituzionale
guidata dalla classe dominante consentirà la riproduzione del
capitalismo in forme diverse da quella liberale. In quello stesso anno,
da una parte, Otto Bauer constata le difficoltà che bloccano il
socialismo austriaco e più in generale la via del superamento pacifico
del capitalismo; Keynes, d'altra parte, asserisce «la fine del laissez
faire»
come insierne di principi generali e naturali, auspicando
riforme che rendano meno esclusivo e pervasivo «il movente
"denaro"» e consentano il miglioramento della «tecnica del
capitalismo moderno attraverso l'azione pubblica» (Keynes 1968, p.
245).
La grande trasformazione, come ho già accennato, va letta tenendo
presenti i due livelli di analisi che s'intrecciano in essa. Al primo
livello, vengono definite, anche mediante la comparazione con società
diverse, caratteristiche generali della società in cui l'economia si
autonomizza, la società la cui organizzazione è tipicamente basata sul
«principio del guadagno e del profitto» (Polanyi 1974, p. 163). A
questo livello è significativa la
proposta di un'organizzazione
alternativa dell'economia e della soPágina 18
cietà, qui sopra ricordata. Scrivendo durante la guerra, Polanyi
confida che, dopo la catastrofe del fascismo e del conflitto mondiale,
quella proposta possa ritornare attuale, sia pure in forme e contesti
nuovi.
Al secondo livello, più concreto, di analisi — preparato anche dal
lavoro svolto da Polanyi dal 1924 al 1938 come commentatore
economico
e
politico
per
il
settimanale
viennese
«Der
Oesterreichische Volkswirt» — si tratta della natura, della genesi,
della crisi e della fine di una fase dello sviluppo della società
capitalistica: il «sistema di mercato» in senso stretto, ossia il
capitalismo liberale. Questa specifica «struttura istituzionale» venne
assunta dal capitalismo solo nei primi decenni del XIX secolo in Gran
Bretagna. Le quattro istituzioni fondamentali di essa vengono indicate
nella prima pagina de La grande trasformazione: l'equilibrio fra le
potenze europee, la base aurea delle monete, il mercato
autoregolato, lo stato liberale. In tale struttura, l'autonomia
capitalistica dell'economia assume la forma dell'autoregolazione del
mercato e della separazione tra l'economia e la sfera politica. La
divisione di classe, determinata nella sfera economica, viene sancita,
nella sfera politica della democrazia rappresentativa, dalla limitazione
del suffragio. La pace è garantita dal «concerto europeo», ma è
anzitutto interesse della haute finance evitare guerre importanti.
L'autoregolazione — l'istituzione determinante, «fonte e matrice»
del sistema liberale — è tuttavia, secondo Polanyi, irrealizzabile,
«utopistica»; un mercato perfettamente libero e concorrenziale si
trova solo nelle teorie economiche, per la buona ragione, anzitutto,
che la società non può non cercare una «difesa» dalle conseguenze
negative del meccanismo del mercato. Lo sviluppo del capitalismo
liberale risulta così da un «doppio movimento», basato su due
«principi contrastanti»: da una parte l'autoregolazione, dall'altra il
contenimento e la correzione di essa, al fine di proteggere sia le
condizioni di vita degli individui sia la stessa attività economica.
Questo «contromovimento» provoca difficoltà di funzionamento e di
riequilibrio del sistema, tanto più in quanto l'organizzazione cosciente
e la conquista della democratizzazione della rappresentanza politica
consentono alla classe operaia di battersi efficacemente per la propria
protezione, diventando protagonista del movimento di difesa. Viene
allora criticata l'invadenza della politica nell'economia, sebbene essa
derivi anche dalle pressioni di interessi capitalistici, più spesso di
gruppo che generali. Cresce la sfiducia nella politica e soprattutto
nella democrazia, ma lo smantellamento della regolazione politica
dell'economia, che viene invocato, si rivela impossibile o
controproducente.
Seguendo «i liberali della scuola di Mises», scrive Polanyi nel 1935
(1987, p. 115), si arriva ad invocare un «governo forte», e persino ad
assolvere il fascismo come «salvaguardia dell'economia liberale»,
almeno in quanto si condanna la democrazia, la quale, interferendo
nel sistema dei prezzi, danneggia l'economia. Questa posizione
appare l'esito estremo, paradossale, della tesi secondo la quale il
sistema anliberale non funziona perché il «complotto antili- berale»
glielo impedisce, e non haperché non può e non ha mai potuto
funzionare. Essa è poi un'ulteriore dimostrazione del fatto che da un
pezzo ormai il capitalismo e la democrazia hanno cessato di
svilupparsi
parallelamente,
che
anzi
tendono
a
risultare
«reciprocamente incompatibili» quando, nella congiuntura della crisi
economica, il sistema liberale-democratico diventa non solo obsoleto,
ma impraticabile (Polanyi 1987, p. 119).
Già alla fine del XIX secolo la concentrazione del capitale,
l'imperialismo, la protezione doganale, gli interventi politici per
attenuare la «questione sociale» si frapponevano sistematicamente
all'autoregolazione del mercato. La prima guerra mondiale, poi, è non
solo l'esito della destabilizzazione dell'equilibrio di potere ottocentesco
fra
imperi e all'interno di essi, ma anche l'origine di nuovi,
irrimediabili squilibri economici, sociali, politici. Si può i ricordare a
questo proposito la convinzione di Polanyi, che la guerra abbia
determinato non solo l'ondata rivoluzionaria immediatamente
successiva, ma anche più duraturi fattori di crisi, come la
questione delle riparazioni di guerra e dei prestiti internazionali, e il
contrasto di inte- i ressi fra i grandi imprenditori, i piccoli, i rentiers,
i capita- n listi agrari, gli operai, i contadini (si veda p. es. il saggio
v del 1933, Il meccanismo della crisi economica mondiale (1987, pp.
74-89)).
Nonostante tutto, negli anni venti l'ideologia e la politica n
economica non deflettono dalla fede nelle «leggi inevitabili del
mercato»; ma inevitabile è piuttosto la fine del «sistema di mercato»
liberale in conseguenza del suo stesso p sviluppo, e le politiche in
voga negli anni venti finiscono per renderne più clamoroso il tracollo,
e più gravido di funeste conseguenze, quali sono state la diffusione
del fascismo e la nuova guerra mondiale.
Nei «conservatori» anni venti, lo standard aureo e la pres- a sione
della stabilità dei cambi sull'economia dei diversi A paesi restano «lo
schema indistruttibile all'interno del
fi quale interessi economici e
partiti, industria e stato si adattano alla tensione» (Polanyi 1974, p.
274). La teoria economica classica ha ancora illusoriamente successo.
È
si effettivo, d'altronde, il successo ottenuto, anche per suo
e
tramite, dalla controrivoluzione. La stabilità del cambio
p della
moneta, che i governi tentano di riportare al livello prebellico, non
concede alternative alla deflazione; essa
o diventa «il braccio
estremamente potente della leva che preme sul livello salariale» e in
generale lo strumento per risolvere i «problemi in sospeso tra datori
di lavoro e lavoratori», ovviamente a favore dei primi. «In Austria nel
1923, in Belgio e in Francia nel 1926, in Germania nel 1931 i partiti
operai devono lasciare il governo per "salp vare la moneta"»
(Polanyi 1974, pp. 288-289). Riguardo c alla Gran Bretagna, il titolo
di un articolo del 1931 — «Democrazia e moneta in Inghilterra» —
riassume il senso
che Polanyi dà all'insediamento del cosiddetto
«governo nazionale», formato da Ramsey Macdonald, primo mini- c
stro del precedente governo laburista, con rappresentanti
Página 19
laburisti, conservatori e liberali. Egli fa notare che le preoccupazioni
della City per le sorti della sterlina e le pressioni per diminuire il
sussidio di disoccupazione (e i salari) determinano la caduta del
governo laburista; che con il «governo nazionale» si contravviene al
principio
dell'alternanza,
interrompendo
«le
tradizioni
della
democrazia [...1 a svantaggio delle masse» (Polanyi 1993, p. 81);
che si aprono nuove possibilità per la politica economica, ora che il
vincolo monetario, insieme al solito pretestuoso anticomunismo, ha
reso il servizio di interrompere il secondo tentativo di governo
laburista (prima del terzo passeranno molti anni, e la guerra). In
effetti, la sterlina abbandona il gold standard pochi giorni dopo la
pubblicazione dell'articolo di Polanyi, il 21 settembre 1931. Un anno e
mezzo dopo toccherà al dollaro, anche in conseguenza della tendenza
dei paesi la cui moneta resta ancorata all'oro, della Francia in primo
luogo, a convertire in oro le proprie riserve in dollari.
Il crollo del sistema aureo rappresenta bene, per metonimia, quello
della «struttura istituzionale» del «sistema di mercato» (in senso
stretto). Il modo in cui esso avviene, inoltre, costituisce un esempio
empirico del principio generale che un modo di organizzazione della
società diventa obsoleto ed eventualmente impraticabile quando i
meccanismi di retroazione insiti in esso aggravano lo squilibrio invece
che correggerlo. Keynes ragiona in modo simile quando osserva che,
durante la crisi, la caduta dei prezzi tende ad autoalimentarsi invece
che a stimolare la ripresa produttiva. Polanyi applica lo stesso
principio anche riguardo alla genesi del «sistema di mercato». I
tentativi di opporre vincoli e difese contro il dilagare del mercato,
specialmente di quello della forza-lavoro, con l'intento di migliorare le
condizioni di vita dei poveri, finiscono per avere l'effetto opposto. Si
diffonde allora l'opinione che occorra cambiare sistema. Acquistano
forza i progetti e le politiche, che portano infine all'instaurazione del
«sistema di mercato», del libero mercato del lavoro anzitutto. Polanyi
mette in risalto in particolare il nuovo orientamento «naturalistico»
della scienza economica, la quale rinuncia a presupposti morali e
politici, per affidarsi al principio che, come aveva scritto
profeticamente Daniel Defoe, «il commercio ha le sue leggi»; che
l'economia ha un suo modo «naturale» di procedere per trovare
l'equilibrio e creare ricchezza.
3.2. La grande trasformazione
Finita l'epoca della «separazione» — del resto mai compiuta — tra la
sfera politica e quella economica, si tratta di capire quale sia e quale
debba essere la loro relazione. Da una parte, al livello più generale,
l'alternativa di uno sviluppo della democrazia in direzione del
socialismo, che riporti l'economia sotto il controllo degli individui
associati, resta, per Polanyi, il punto di riferimento ideale e il metro
per valutare l'evoluzione effettiva della società. Dall'altra parte, al
livello più concreto, occorre comprendere proprio tale evoluzione: le
diverse trasformazioni — dal nazismo al New Deal — mediante le
quali il capitalismo, assumendo «forme non liberali cioè corporative»,
«continua illeso la sua esistenza sotto altro nome» (Polanyi 1987, p.
96).
In Polanyi convivono, tipicamente, una tenace, utopica fiducia nello
sviluppo della democrazia, o almeno la fedeltà assoluta a questo
ideale, e l'analisi realistica dei processi storici in corso. Lo si riscontra,
ad esempio, nella corrispondenza del 1934 da Londra per Der
Oesterreichische Volkswirt, intitolata «L'Inghilterra riflette». Quasi la
metà del breve 'articolo è dedicata al fatto stesso che l'Inghilterra
«rifletta». Si discute in circoli, associazioni, scuole estive e
conferenze; c'è la «volontà di pensare collettivamente» mirando alla
«formazione della volonté générale»: così scrive Polanyi, basandosi
anche sull'esperienza della propria Atività di insegnamento agli adulti
e riaffermando la convinzione che questa formazione «capillare» e
autonoma dell'opinione pubblica sia il vero fondamento della
democrazia. L'oggetto prevalente della riflessione, d'altra parte, gli
interessa per la sua importanza in quella situazione storica: si discute
la possibilità di combinare la «democrazia politica con il principio
corporativo nell'economia». Ci si chiede, a partire da questo
problema, quale sia il significato del socialismo e del fascismo. La
«legislazione rooseveltiana» viene studiata, e un interesse forse
anche maggiore suscitano «certe strutture corporative dell'economia
italiana» (Polanyi 1993, pp. 159-160). Si tratta, insomma, delle
«relazioni reciproche fra la sfera politica e quella economica». La
separazione delle due sfere, sulla quale si reggeva il sistema liberale,
tende ad essere superata mediante nuove istituzioni, sperimentate in
molti paesi. L'Inghilterra appare più restia
a cambiare —
comprensibilmente, dato che il capitalismo liberale si era diffuso a
partire da essa, divenendo tramite della sua egemonia mondiale.
Anche in Gran Bretagna, comunque, si discute da anni di
riorganizzazione
programmatica
e
concertata
dell'economia,
dell'intervento dello stato, di nuove relazioni industriali. Ben prima
dello scoppio della crisi, Polanyi è attentissimo alle proposte e ai
sintomi di innovazione; convinto della crisi della formalberale dello
sviluppo capitalistico, egli cerca di comprendere la nuova forma, in
senso lato corporativa, che si sta profilando.
Una consapevolezza del genere è rara tra gli osservatori dell'epoca,
divisi in genere tra «crollismo» marxista e obsoleto liberalismo. E si
pensi ad esempio anche a un economista apprezzato proprio per i
suoi interessi sociologici e storici, e per i suoi contributi allo studio
della «dinamica» del sistema capitalistico: Schumpeter non
comprende la questione della trasformazione come questione delle
diverse strutture istituzionali che la società capitalistica assume,
passando attraverso crisi non riducibili ai cicli economici di diverso
periodo né al demoralizzarsi degli imprenditori. Non negli anni venti,
ma ancora dopo
Página 20
la seconda guerra mondiale, come è evidente nell'ultimo dei suoi
scritti, egli teme che «il sistema dell'impresa privata» non possa
durare, a causa di interventi politici quali le misure di stabilizzazione,
la redistribuzione del reddito, la regolazione dei prezzi e i
provvedimenti antitrust, il controllo pubblico sui mercati del lavoro e
della moneta, gli enti rivolti ai bisogni sociali, la legislazione
riguardante le condizioni di lavoro e la previdenza (Schumpeter 1950,
pp. 448-450).
Polanyi invece — pur restando fedele, a differenza di Schumpeter,
agli ideali della «Vienna rossa» del primo dopoguerra — sa bene che
la
diffusione
del
capitalismo
manageriale
e
organizzato,
dell'intervento politico nell'economia, del welfare state non è
distruttiva per il capitalismo. Sa che i timori e i disamori della Classe
dominante contano molto poco a paragone della sua capacità di
coinvolgere la classe operaia, e se necessario di combatterla e
vincerla. Egli ha già compreso tutto ciò nel periodo tra le due guerre.
In un articolo, ad esempio, egli riferisce, condividendola, l'opinione
del ministro americano dell'agricoltura Henry Wallace, che la politica
di Roosevelt, e perfino il principio che «la produzione è una faccenda
di pubblico interesse», consentono al capitalismo di permanere, di
rafforzarsi, di svilupparsi (Polanyi 1993, p. 217). Schumpeter, invece,
è ostile al New Deal proprio perché non comprende questo suo
significato. Negli articoli sulla questione delle miniere di carbone in
Gran Bretagna, nel 1925-26, Polanyi (1993, pp. 23 sgg.) inquadra i
problemi della ristrutturazione industriale nel contesto storico
complessivo, soffermandosi in particolare sulle lotte sociali e sugli
accordi salariali. Non solo egli constata l'istituzionalizzazione
dell'intervento del governo nelle trattative, accanto ai vertici delle
organizzazioni operaie e padronali, ma si rende anche conto che il
superamento del sistema liberale, che non aveva potuto essere
realizzato nella prospettiva del socialismo, può esserlo nell'interesse
e sotto l'egemonia del capitale.
Due articoli dell'inizio del 1928 esaminano le riforme proposte in
Britain's Industrial Future, il rapporto patrocinato dal Partito liberale e
in particolare da Lloyd George, redatto da un gruppo di lavoro di cui
facedva parte Keynes. Il liberalismo dei «riformatori liberali», osserva
Polanyi, supera l'utilitarismo classico, l'individualismo, la fede nel
puro e semplice meccanismo dei prezzi. Viene posto anzitutto il
problema di una riorganizzazione della produzione che investa interi
settori industriali, i quali dovrebbero dotarsi di organi di autogoverno.
Lo stato, poi, dovrebbe indirizzare gli investimenti privati, controllare
i trusts che agiscono in condizioni di oligopolio, creare public concerns
e authorities, che suppliscano all'iniziativa privata dove questa non
arriva o la sostituiscano in caso di monopolio. Viene posta, sottolinea
Polanyi, la questione dell'«integrazione» della classe operaia, e
prospettata una «politica sociale» che offra concessioni e garanzie in
cambio della pace sociale. La parola d'ordine è «cooperazione
industriale»; questo fine hanno le proposte di organismi paritetici più
efficaci ed estesi di quelli esistenti, di un prudente profit-sharing, cioè
della distribuzione di parte degli utili ai lavoratori, di un «in- n
condizionato riconoscimento del compito delle Trade it Unions quali
interpreti di interessi», di un coinvolgimento dello stato nella
composizione dei conflitti. Non sfugge a ti Polanyi l'innovativo invito a
un dialogo permanente — poi p effettivamente avviatosi nel corso del
1928 — rivolto da te Alfred Mond, presidente delle Imperial Chemical
Industries, al TUC (Trades Union Congress).
Sono questi, si chiede Polanyi, segni in direzione del supera- in
mento della «società la cui sostanza è il cash-nexus», cioè fe della
società in cui la connessione, 1' «integrazione» fra i sin- e goli e fra
le loro attività èxostituita dal mercato, dal calcolo cc utilitario, in
breve dal denaro? E risponde che esiste, sì, l'in- tu tenzione di
«elevare il lavoro salariato da mero rapporto h contrattuale a status
garantito giuridicamente e sostanziato di valori sociali»: ma non certo
quella di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione o di
intaccare il potere capitalistico e manageriale (Polanyi 1993, pp. 5064).
Proposte di ristrutturazione del sistema economico e dell'as- pe
setto istituzionale — le proposte che contavano, quelle non ce
esplicitamente in contrasto con gli interessi dei detentori del de
potere economico — erano dunque già state formulate in pre- qu
cedenza: ma solo la crisi economica, iniziata drammatica- 11,11
mente alla fine del 1929, fa sl che l'inevitabile trasforma- 19 zione
venga messa in atto. Adesso — negli anni trenta «rivo- Le luzionari»
rispetto ai «conservatori» anni venti — la società si
rei trova
effettivamente in un' impasse e deve reagire. Adesso po non si può
non constatare che istituzioni economiche fonda- no mentali del
sistema liberale, come il libero scambio e il gold flu standard, sono
crollate; l'autoregolazione del mercato si può pie ormai ricordare solo
con ironia, di fronte a una depressione tar tanto generale quanto
persistente. Anche le istituzioni poli- del tiche dello stato liberale —
entrate in crisi quando hanno ces- coi sato di essere riservate alla
classe dominante, divenendo gia campo di azione e strumento di
potere delle classi lavoratrici est — sono investite dalla
trasformazione, la quale presuppone il
du consolidamento
dell'egemonia della classe dominante anche nei paesi in cui il
fascismo non prende il potere.
Polanyi dedica diversi articoli al New Deal. Gli sembra che poi la
trasformazione americana parta da lontano, dato che la
sin
Costituzione stessa esclude l'economia dalla propria giuricoi
sdizione e dalle competenze del governo federale. Egli si
dei
sofferma in particolare, infatti, sul conflitto tra Roosevelt e sai la
Corte suprema riguardo alla costituzionalità delle nuove un leggi.
L'America, tuttavia, arriva anche più lontano, ad La esempio, della
Gran Bretagna: non tanto, forse, per la legi- Le slazione sul lavoro,
per l'istituzione della contrattazione col- tiv lettiva e per i servizi
pubblici e sociali, quanto per l'entità e 16' la qualità dell'intervento
governativo nell'economia. Polanyi fa riferimento, per esempio, ai
grandi lavori pubblici, ai provvedimenti riguardanti il sistema bancario
e fi- 3.2 nanziario, all'organizzazione e all'inquadramento legislativo
dei sindacati, e ai «codici», cioè agli accordi, con va- I t lore
normativo grazie alla sanzione e al controllo del go- vis verno, che
consentivano nei diversi settori industriali limi- rzz tazioni della
concorrenza sui prezzi in cambio della gaPágina 21
ranzia di condizioni minime a favore dei lavoratori. Viene inoltre
messa in rilievo, specialmente in tre lunghi articoli sulle realizzazioni
della Tennessee Valley Authority e le difficoltà da essa incontrate, la
sperimentazione di una gestione pubblica, nel pubblico interesse,
globale e non distruttiva del territorio e delle risorse energetiche.
Nella Grande trasformazione non rimarrà quasi traccia né degli
articoli sul New Deal né di quelli sulla ristrutturazione in Gran
Bretagna. Riguardo a quest'ultima, Polanyi si sofferma in particolare
sull'industria mineraria, su quella tessile e su quella siderurgica, oltre
che sulla nuova politica agricola «dirigistica e autarchica» e sulla
barriera doganale istituita nel 1932 dopo quasi un secolo di libero
scambio. Nel 1934 egli considera i tentativi di razionalizzazione
dell'industria del cotone del Lancashire, ora in crisi dopo essere stata
il motore della rivoluzione industriale, dell'egemonia britannica, della
stessa ideologia liberale. Polanyi esamina anche i fattori che
consentono all'industria tessile giapponese di superare ormai quella
britannica: il progresso tecnico, la concentrazione, le tecniche di
vendita, e anche la permanenza della cultura tradizionale, che rende
naturali in Giappone quelle relazioni industriali corporative e
paternalistiche, che in Europa ci si sforza di instaurare o restaurare
(Polanyi 1993, pp. 138-158).
Le «crescenti tendenze pianificatrici» sono evidenti nella realtà,
nelle elaborazioni teoriche e nelle diverse posizioni politiche. Anche il
conservatore Harold Macmillan (1933) non crede più nell'equilibrio
come risultato automatico della fluttuazione dei prezzi e auspica una
moderata politica di piano e un moderato corporativismo, inteso come
rappresentanza pluralistica degli interessi e come coordinamento
dell'attività industriale, all'interno e fra i diversi settori, e con la
politica statale. Polanyi cerca di comprendere l'atteggiamento e il
ruolo delle organizzazioni della classe operaia, esaminando ad
esempio il piano di socializzazione dell'industria siderurgica elaborato
nel 1934 dal TUC. Il piano non esprime, a suo avviso, una «tendenza
socialista», una politica complessiva e alternativa; i sindacati,
piuttosto, si propongono come rappresentanti degli «interessi
corporativi di singole categorie di lavoratori», impegnandosi a
risolvere le contese in cambio della possibilità di intervenire nella
scelta
dei
dirigenti.
L'immedesimarsi
dei
sindacati
«nella
responsabilità per il processo di produzione viene presentato come
un'evoluzione ineluttabile». Il piano viene approvato dal Labour Party,
nonostante l'opposizione della Socialist League, secondo la quale si
tratta di «una soluzione corporativa del problema della
socializzazione» (Polanyi 1993 pp.162-163 e 166-167).
3.3. Il fascismo
I temi indicati in «L'Inghilterra riflette» — il corporativismo nelle
sue diverse modalità, la crisi della demoI
cfazia, l'antitesi tra
socialismo e fascismo — vengono approfonditi da Polanyi, prima che
ne La grande trasformazione, in articoli per il periodico inglese «New
Britain» sempre nel 1934, in numerose conferenze di cui rimangono
testi e appunti manoscritti, nel saggio L'essenza del fascismo uscito a
Londra nel 1935: non nelle corrispondenze per «Der Oesterreichische
Volkswirt», del quale era divenuto «direttore all'estero». Il
settimanale viennese, per sopravvivere in Austria, doveva
autocensurarsi.
Nei regimi fascisti, secondo Polanyi, gli individui perdono la qualità
di liberi soggetti politici, al punto che si può parlare dell'abolizione
dello «Stato politico» e della negazione del concetto moderno di
società. Ne consegue che il potere economico non trovi più limiti nel
potere politico (degli individi4i mediante istituzioni democratiche in
cui le classi lavoratrici siano congruamente rappresentate). Il sistema
corporativo fascista tende a conferire il pieno controllo, se non la
diretta gestione, delle funzioni politiche e giurisdizionali alla classe
che, dominando nell'economia, domina le corporazioni. 411 risultato è
che, mentre «il capitalismo così com'è organizzato nei diversi rami
dell'industria diventa l'intera società», ai lavoratori, alla massa dei
cittadini esclusi dalla politica, non resta che la qualità di soggetti
economici: essi «sono considerati produttori e soltanto produttori»
(Polanyi 1987, pp. 115-116).
L'anomalia della «separazione» tra sfera economica e sfera politica,
sancita dalle istituzioni del capitalismo liberale, doveva cessare. Essa
avrebbe potuto venire superata democraticamente, cioè mediante un
governo popolare e un'organizzazione socialista-funzionale della
produzione. Con il fascismo si realizza la soluzione opposta: in esso
non c'è più la separazione tra economia e politica, ma non perché
l'economia venga politicamente, democraticamente inquadrata e
controllata, bensì perché la politica non può più essere libera e
autonoma. Si rafforza invece l'autonomia dell'economia: lo slogan
hitleriano del «primato della politica sull'economia» suona dunque
ironico.
Le
modalità
democratico-corporative
della
grande
trasformazione, che dopo la guerra vanno generalizzandosi, sono,
certo, qualitativamente differenti dal fascismo. La teoria polanyiana
della trasformazione consente tuttavia di individuare alcune tendenze
generali nella fase postliberale della società capitalistica. La fine della
«separazione» significa che l'economia capitalistica ha intrapreso una
consapevole riorganizzazione, coinvolgendo non solo lo stato, ma
l'intera società. Il potere economico ha acquistato una capacità
maggiore e più diretta di determinare decisioni politiche, di assumere
funzioni politiche. È facile quindi che diminuisca lo spazio di
autonomia politica degli individui e delle istituzioni della democrazia
rappresentativa.
L' «essenza del fascismo» consiste nell'impedire la stessa possibilità
sociale e culturale di una vita politica democratica, nel distruggere la
«sostanza» stessa della democrazia. Il fascismo mira infatti ad
instaurare «un ordine strutturale di società che esclude la dipendenza
del tutto dalla volontà e dagli scopi coscienti degli individui che la
costituiscono»; e se la società non dev' essere più concepita
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«come rapporto fra persone», deve cambiare «la natura stessa della
coscienza umana» (Polanyi 1987, pp. 116-
117). Anche qui viene posta una questione generale, che non
riguarda solo il fascismo; Polanyi ci propone la sua grande utopia,
quella di una società di individui, come punto di riferimento teorico
per valutare in quale modo e in quale direzione la società si sviluppi
effettivamente.
Si tratta di un'utopia tipica della società moderna, nella quale il
soggetto sociale diviene individuo. Ciò che distingue il fascismo da
«altre sfumature e varianti dell'antisocialismo reazionario» — scrive
Polanyi, riferendosi in particolare a Othmar Spann, esponente
viennese della reazione «romantica», medievaleggiante, totalitaria
contro la società liberale — è il suo «antiindividualismo». Se, poi,
come fa eminentementt il fascismo, si impedisce all'individuo di
diventare «un'unità sociale», diventa indispensabile qualche cemento
mistico per «costruire un centro artificiale di coscienza» (Polanyi
1987, pp. 93, 103 e 109). Il fascismo si presenta, così, come «una
concezione dell'universo umano» che si contrappone a secoli di
sviluppo civile; esso è caratterizzato dal rifiuto di considerare la
società come «campo dell'autorealizzazione dell'uomo» e di intendere
la storia moderna come sviluppo della libertà. Il fascismo è, in questo
senso, un «radicale irrazionalismo», e Spann non esagera reclamando
un «contro-Rinascimento» (Polanyi 1934). L'inserimento del problema
del fascismo in una concezione generale della natura e dello sviluppo
della società moderna consente a Polanyi di spiegare il fascismo come
prodotto della crisi della società liberale, come modo regressivo e
perverso di riconoscere la «realtà della società» e di rimediare alla
«catastrofe culturale» provocata dal diffondersi dei rapporti di
mercato. Un sistema che demandava l'organizzazione della vita
sociale alla combinazione inconsapevole dell'agire utilitaristico dei
singoli, cioè al meccanismo del mercato, non poteva non andare in
crisi, suscitando, con il socialismo e il fascismo, proposte antitetiche
di un nuovo ordine. Questo è il senso della frase che leggiamo
all'inizio de La grande trasformazione: «Per capire il fascismo tedesco
dobbiamo ritornare all'Inghilterra ricardiana» (Polanyi 1974, p.459).
La congiuntura storica della crisi finale del «sistema di mercato»,
dopo il 1929, spiega poi, più concretamente, la «situazione fascista»,
la congiuntura che consente al fascismo di diventare un «fattore
politico» decisivo, di andare al potere in molti paesi (Polanyi 1974,
pp. 304-305).
Considerando il fascismo, da una parte, come esito della crisi della
società liberale, e dall'altra come radicale antiliberalismo, Polanyi
confuta, per così dire preventivamente, la concezione «revisionista»,
che riduce il fascismo a una reazione totalitaria al totalitarismo
comunista. Nei confronti di certe interpretazioni marxiste, d'altro
canto, la critica di Polanyi è esplicita: esse rischiano di non
comprendere il fascismo perché considerano la democrazia una
sovrastruttura dei rapporti di produzione capitalistici, e non un
problema che caratterizza in generale l'epoca moderna e che lo
sviluppo capitalistico consente di porre, ma non di risolvere. Il cambia
mento radicale operato dal fascismo nel sistema politicc istituzionale
va considerato in tutta la sua rilevanza ri guardo a questo problema
generale. È una rottura rivolu zionaria nel sistema sociale, che non va
sottovalutata nome della continuità, cioè del fatto incontestabile che i
mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici «I proprio la
raison d'être del fascismo» (Polanyi 1987, p
118). Se si tratta, d'altra parte, di spiegare in particolare la
congiuntura del diffondersi del fascismo, proprio il con . cetto
dell'incompatibilità fra capitalismo e democrazi consente di farlo.
Anche il diventare acuto del conflitto fn le classi appare in tal modo
un fattore significativo, nu sempre in rapporto con una situazione
storica comples siva, che si tratta di comprendere anzitutto in quanto
tale
3.4. La guerra civile internazionale
Le questioni internazionali, insieme agli eventi britannici
costituiscono la principale competenza di Polanyi giorna lista. Esse
divengono il tema preponderante dei suoi arti coli dal 1935, quando
l'aggressione dell'Italia conti.' l'Etiopia rende evidente il cambiamento
della situazion mondiale. Polanyi comprende che la crisi e la
trasforma zione hanno investito anche i rapporti fra nazioni, scon
volgendo i precedenti equilibri, determinando nuovo schieramenti
secondo nuovi criteri, e, a ben vedere, la de riva verso una nuova
guerra mondiale (Otto Bauer pub blica nel 1936 Tra due guerre
mondiali?).
In un articolo del 1935 — «La pietra miliare 1935» (1993 pp. 179
sgg.) — e nell'opuscolo Europe Today del 193 (1995) Polanyi sostiene
che si è aperta una nuova fas nella politica internazionale, a partire
almeno dalla pres del potere di Hitler. La contrapposizione del
dopoguerr fra vincitori e sconfitti, fra paesi che miravano alla «sicun
rezza collettiva» sulla base dei trattati di pace e paesi cha chiedevano
la revisione dei trattati, è ora superata dc nuovi schieramenti,
determinati dalle diverse forme di or . ganizzazione sociale adottate
per uscire dalla crisi del si sterna liberale. Questo concetto viene
ripreso all'inizi della Grande trasformazione, dove la seconda guerr
mondiale è interpretata come il generalizzarsi del conflitt armato tra
le trasformazioni alternative. In Europe Toda Polanyi osserva che
nella guerra civile spagnola, in cors mentre egli scrive, è all'opera «la
nuova politica di inter ventismo sociale» dei paesi fascisti; guerra
esterna guerra civile si intrecciano, il «conflitto tra fascismo e dest
mocrazia» esplode «a livello internazionale» (Polanyú 1995, pp. 74 e
5).
La polarità tra fascismo e democrazia è tuttavia complict cata, a
volte sopraffatta, dalla polarità secolare tra capitar lismo e socialismo.
Questo è il senso più profondo ded fatto che la contrapposizione tra
Germania e URSS sia dist venuta «un elemento essenziale della
politica europea x (Polanyi 1995, p. 54). Così si spiega perché in
campo inPágina 23
ternazionale il fascismo non venga adeguatamente contrastato, fino a
quando ciò diventa inevitabile a causa della guerra scatenata dalla
Germania. Si spiega perché, inoltre, l'alleanza delle cosiddette
democrazie occidentali con l'URSS dipenda anch'essa, per così dire,
dall'iniziativa di Hitler, e mentre la guerra è ancora in corso sia già
chiaro che essa è tattica e contingente, anzi precaria. Polanyi lo
intuisce: si parla di una Carta atlantica, egli osserva (1943, p. 407),
ed essa rischia di essere una continuazione del disastroso Patto delle
Quattro Potenze firmato nel 1933 da Francia e Gran Bretagna con
Germania e Italia. Quella firma fu un passo significativo nella politica
della «pacificazione» con le due potenze fasciste, l'altra faccia della
quale era l'ostilità contro l'Unione Sovietica.
La Germania nazista, leggiamo nella Grande trasformazione, si
giova anche della «sua capacità di costringere i paesi del mondo ad
un allineamento contro il bolscevismo», assumendo un ruolo di guida
in un tipo di trasformazione che, contrapposto a quello sovietico,
sembra nonostante tutto «raccogliere l'adesione incondizionata delle
classi proprietarie, e per la verità non sempre di queste sole» (Polanyi
1974, p. 308). «La politica dei dittatori è stata quella di puntare sulle
simpatie e sui tremori del conservatorismo inglese», scrive a sua
volta Tawney (1975, p. 755). Polanyi, in articoli del 1926 e del 1935
(1993, pp. 36 e 174), ricorda le simpatie per Mussolini di eminenti
uomini politici inglesi come Joynson-Hicks e Churchill.
Se i paesi democratici non avessero escluso un rapporto realistico e
costruttivo con l'URSS, forse l'invasione giapponese in Manciuria e
quella italiana in Etiopia avrebbero potuto essere fermate, forse la
Spagna repubblicana si sarebbe salvata. L'avallo concesso dalla Gran
esa Bretagna, a Monaco nel 1938, all'aggressione nazista '1.1"a
contro la Cecoslovacchia non solo spiega l'accordo "- russo-tedesco
del 1939, ma si dimostra controproducente che ai fini della pace.
L'atteggiamento antisovietico, conda clude Polanyi nell'articolo del
1943 già ricordato, è stato determinante.
Nel 1945 gli pare assodato che gli Stati Uniti abbiano aszi sunto,
insieme con l'egemonia mondiale, anche il ruolo Tra
di polo
antisovietico. Sconfitti i regimi fascisti, la «polaitto rità» decisiva è
più che mai «civile» e ideologica, foniaY data su ipotesi opposte di
organizzazione sociale; e coinrso volge ora il mondo intero. Gli USA
sono rimasti «la paer del capitalismo liberale» (non riducibile al
«classico laissez faire»), e perseguono una politica «universalistica»,
la politica del «capitalismo universale», identificato con la libertà e la
democrazia. Appena pubblicata La grande trasformazione, Polanyi ne
mette alla prova le conclusioni, riflettendo sul corso degli eventi.
Davvero l'utopia liberale è sorpassata? La lezione del fascismo e lei
della guerra è servita? La pace e la libertà verranno perseguite di per
sé e consapevolmente, oppure, come nel 'a) XIX secolo, saranno un
prodotto secondario e condizioin nato degli interessi finanziari, ora
davvero globali? Sarà possibile sperimentare forme diverse di
autoorganizzazione e di pianificazione democratica in aree limitate?
Sembra invece prevalere il programma degli USA, che prevede non
semplicemente l'abolizione di restrizioni e privilegi commerciali basati
sui sistemi coloniali, quello britannico anzitutto, ma l'instaurazione di
un nuovo ordine, che, come dimostrano gli accordi di Bretton Woods
del luglio 1944, consisterà nella garanzia a livello mondiale tanto della
libertà dei capitali quanto della supremazia americana. Ma il tentativo
di «ripristinare i liberi mercati», sottraendo alle popolazioni il controllo
delle loro condizioni di vita per demandarlo alle élites finanziarie, può
sdatenare per reazione un «nazionalismo folle» — scrive Polanyi
all'inizio del 1945 (Polanyi 1987, pp.142-143, 146 e 159), riferendosi
in particolare ai paesi balcanici. Possiamo capire oggi tutto il
significato di quest'affermazione, dojo la guerra nella ex-Jugoslavia, e
con la prospettiva che, insieme con l'unione monetaria e finanziaria
dell'Europa, continuino a svilupparsi ottusi regionalismi. Questo tipo
di nazionalismo non è incompatibile, più in generale, con l'economia
«globale» dell'epoca della ripresa «postfordista» del liberismo,
un'economia che si espande e assolutizza fino ad assumere
caratteristiche che vanificano di fatto la possibilità di controllo politico
democratico.
Finita la guerra — come si suol dire, con la vittoria della democrazia
— il problema restava quello della democrazia. Esso va posto pur
sempre, scrive Polanyi nel 1947 (1980, pp. 74-75), in riferimento a
un'alternativa radicale: da una parte, lo sviluppo della democrazia
verso il socialismo, verso la soluzione del problema dell'economia
mediante l'«intervento programmato», «consapevole e responsabile»,
«degli stessi produttori e consumatori»; oppure, dall'altra parte, «una
società adattata più intimamente al sistema economico», dominata
da élites e aristocrazie, dalla grande impresa e dal managerialismo.
A livello internazionale, la politica di coesistenza doveva significare
anche che alle due alternative fossero garantite almeno pari dignità e
possibilità di manifestarsi in molteplici e diverse esperienze politiche.
Questo era un aspetto essenziale del programma di Co-Existence, la
rivista ideata e realizzata da Polanyi, il cui primo numero uscì pochi
giorni dopo la sua morte, nel 1964 (cfr. PolanyiLevitt 1990). Nei suoi
ultimi anni, insieme con la moglie Ilona Duczynska, egli curò anche
un'antologia letteraria, The Plough and the Pen: Writings from
Hungary 1930-1956. Essa è una testimonianza tanto dell'impegno
nell'indagine sociale e nella politica tipico degli scrittori ungheresi,
quanto dell'interpretazione che i coniugi Polanyi davano della
rivoluzione ungherese del 1956, e dell'indicazione per il futuro che ne
traevano: una lotta per una «terza via» davvero socialista e davvero
democratica. Questa posizione, sempre minoritaria nel nostro secolo,
lo era in particolare riguardo al 1956 ungherese, il quale, in piena
guerra fredda, doveva essere invece inteso, ad Ovest come ad Est, in
termini di anticomunismo.
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