DOGMATICA IV
ECCLESIOLOGIA E MARIOLOGIA
PROF. FILIPPI NICOLA
Lezione n. 25 del 17 marzo 2009
La scorsa volta abbiamo iniziato a trattare del presbiterato, affermando che attualmente si è in una
fase di rielaborazione della teologia del presbiterato perché l’identità dei sacerdoti è un po’ in
difficoltà a causa dei continui e veloci cambiamenti culturali.
Abbiamo letto un breve articolo di Dario Vitali, che dice come attualmente ci troviamo di fronte ad
una molteplicità d’interpretazioni di quello che è il cuore del ministero presbiterale, cioè l’uomo
impegnato nei sacramenti o l’uomo impegnato nella preghiera o l’uomo che è nella parrocchia o
l’uomo impegnato nei movimenti o l’uomo molto sul sociale. Tutte identità vere ma che restano
molto parziali.
Era allora necessario cercare di definire quello che è il cuore del ministero, ciò che costituisce
l’identità più profonda e che non muta al variare delle condizioni storiche.
Questo perché se ci si focalizza su una certa identità nel momento in cui, per una serie di
circostanze, quell’atteggiamento concreto viene meno, può entrare in crisi l’identità più profonda.
Quindi l’identità sacerdotale si radica in qualcosa d’altro.
Abbiamo cercato d definirla meglio partendo da una duplice prospettiva con la quale ci si approccia
al sacerdozio: c’è una prospettiva ecclesiologica che vede il ministro come un rappresentante della
Chiesa in una dimensione che possiamo definire funzionale ovvero il sacerdote è colui che ha
ricevuto un incarico dalla comunità che quello di predicare la parola e di custodire nei fedeli la fede
apostolica, pertanto il ministero viene visto come questa funzione. Ricordiamo l’affermazione
contenuta nel manuale DIANICH-NOCETI nel quale si dice che i ministri ordinati compiono il
gesto più tipico e qualificante del loro ministero quando durante le celebrazioni sacramentali
annunciano e spiegano la scrittura.
Ho anche detto che questa non è la prospettiva più cattolica che è invece quella che radica il
sacerdozio nella prospettiva cristologia ovvero di conformazione ontologica a Cristo.
Ho anche spiegato che queste due prospettive, ecclesiologica e cristologia, non sono in
contrapposizione e che quella cristologia non esclude quella ecclesiologica, ma anzi getta una luce
più autentica perché la conformazione a Cristo è finalizzata al servizio completo di Dio e dei
fratelli.
Anzi proprio perché conformati a Cristo quest'azione di servizio non è soltanto un’azione di
servizio antropologico, ma ha una rilevanza teologale cioè manifesta il volto di Dio.
Così come la testimonianza della carità da parte di un credente non deve essere solo espressione
dell’amore che un uomo nutre per un altro uomo ma espressione dell’amore di Dio per l‘uomo, allo
stesso modo la conformazione a Cristo del sacerdote dovrebbe far sì che il servizio, la dedizione
alla Chiesa e a Dio sia immagine di quella di Cristo sacramentale, segno di quella che cristo ha
voluto.
Questa impostazione cristologia è centrale nel pensiero di benedetto XVI che ai preti di Roma ha
detto che è indispensabile ritornare sempre e di nuovo alla radice del nostro sacerdozio, cioè a Gesù
Cristo.
Questa prospettiva cristologia ha come base l’affermazione che il ministero ordinato è un
sacramento, ciò vuol dire che il ministro ordinato compie delle azioni che di per sé non sarebbe in
grado di compiere, cioè dà ciò che di per sé non potrebbe dare, perché nessuno di noi ha il potere di
far diventare un pezzo di pane il corpo di cristo né di rimettere i peccati se questo potere non gli è
stato conferito dal Signore. Questa abilitazione a compiere gesti che da soli non potremmo
compiere è proprio quella che viene conferita con il sacramento. E’ per questo, come ricorda
Benedetto XVI, che il sacerdote agisce in persona Christi, per cui è chiaro che c’è una differenza
essenziale rispetto agli altri fedeli.
Voi sapete che la L.G. dice che il sacerdozio ministeriale differisce non soltanto di grado ma anche
di essenza da quello comune dei fedeli.
Questa radicale differenza permane per sempre perché il presbiterato conferisce il carattere, che non
è un dogma di fede ma un teologumeno, e che è indelebile anche quando un prete ridotto allo stato
laicale. Dobbiamo cercare di definire ancora meglio l’identità perché è vero che c’è la
conformazione a Cristo, che è centrale, ma dobbiamo esplicitare meglio in che cosa consista. La
definiamo con una duplice prospettiva:
- AD INTRA
rapporto personale del presbitero con il Signore
- AD EXTRA
Il Papa Benedetto XVI, per definire l’identità presbiterale, ha fatto riferimento a GV. 15,14-15
“…voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando, non vi chiamo più servi perché il servo non
sa quello che fa il suo padrone…”. Queste parole sono il cuore del sacerdozio, anzi, si potrebbe
vedere in queste parole l’istituzione del sacerdozio. Il Signore ci rende suoi amici, ci affida tutto, ci
affida se stesso, così che noi possiamo parlare con il suo “IO”.
Perché l’amicizia con Cristo costituisce il cuore dell’identità sacerdotale?
Nella messa crismale del 2006 Benedetto XVI ha spiegato cosa significa l’amicizia: “…amicizia
significa comunanza nel pensare e nel parlare..”, questo versetto è il fondamento del sacerdozio
perché se il sacerdote è chiamato ad essere un altro Cristo non può che, nella sua vita, pensare
quello che Cristo pensa e parlare con le stesse parole di cristo, quindi essere suo amico.
Potremmo anche dire che il sacerdote è chiamato ad essere amico di cristo perché deve appartenere
totalmente ed esclusivamente al Signore fino al punto di avere con lui un solo sentire, volere quello
che lui vuole e non volere quello che lui non vuole.
In queste parole si coglie la perfetta identificazione che c’è tra il sacerdote e il Signore, quindi la
prospettiva è esclusivamente cristologia non è più ecclesiologica perché il cuore del sacerdozio è
l’identificazione con Cristo, è l’essere un altro Cristo, è l’essere segno sacramentale di Cristo in
modo tale da svolgere poi il servizio.
Questa chiamata all’amicizia non nasce dall’uomo, ma è sempre comunque dono di Cristo. Nella
lettera agli ebrei, quando si parla di Melkisedech si dice che nessuno può attribuirsi questo titolo se
non chi è stato chiamato da Dio. Questo perché l’uomo non può imporre l’amicizia a Dio. Anche
nell’A.T. nell’alleanza era Dio che prendeva l’iniziativa. L’iniziativa, nella storia della salvezza è
sempre di Dio che chiama l’uomo e lo interroga nella sua libertà, allo stesso modo la chiamata al
sacerdozio è iniziativa libera di Dio cui l’uomo può rispondere o meno. Ecco perché nella Chiesa
non esiste un diritto a diventare sacerdote ma ci si affida al discernimento della stessa. Questo
amore gratuito di Dio non è condizionato dalla nostra povertà, quindi c’è la chiamata di Dio a cui
corrisponde una risposta dell’uomo.
Questa dinamica di accoglienza della chiamata di Dio, che è accoglienza ad una sequela, è l’origine
di ogni ministero nella Chiesa ed è quello che Von Balthazar chiama “principio mariano” cioè
ancora prima di svolgere un ministero ognuno nella chiesa è un discepolo, così Pietro che accoglie
l’invito a seguire Cristo, così Maria che è discepola perché accoglie la parola; quindi ogni ministero
è sempre conseguenza dell’accoglienza di una chiamata all’amicizia da parte di Dio.
Nel primo concistoro tenuto da Benedetto XVI diceva: ” Tutto nella chiesa, ogni ministero anche
quello di Pietro, è compreso sotto il manto della Vergine, nello spazio pieno di grazia del suo sì alla
volontà di Dio”
Del resto nel brano di Mc 3,14-15 quando il Signore fa i 12, li fa perché stessero con Lui e anche
per mandarli a predicare perché avessero il potere di scacciare i demoni; lo stare con Lui come
amicizia intima in modo tale da diventare una cosa sola con Lui ma anche per mandarli a predicare
la missione.
Dunque prevale la dimensione dell’amicizia, mentre il concreto esercizio della missione deve essere
conseguenza dell’amicizia con Cristo ( principio medioevale di S. Tommaso per cui l’agire segue
l’essere) Prevale perciò la dimensione dell’amicizia altrimenti il mio agire diventa una distribuzione
di servizi a chi me li viene a chiedere.
Quale missione è specifica del sacerdote?
Con quali categorie il Magistero o meglio la Scrittura identifica questa missione?
Seguendo la tradizione biblica e teologica tedesca post-conciliare il motivo del PASTORE è stato
quello più caratterizzante. Allora la missione cui è chiamato il presbitero, che scaturisce dal suo
stare con Cristo, è essere pastore.
In questi termini Benedetto XVI interpreta la missione e la vita del sacerdote tanto da affermare che
il ministero sacerdotale è l’ufficio del buon pastore che offre la vita per le pecore.
Nella messa per le ordinazioni presbiterali del 2006 diceva: “ Il sacerdote, mediante il sacramento,
viene totalmente inserito in Cristo affinché partendo da Lui e agendo in vista di Lui egli svolga il
servizio dell’unico pastore Gesù nel quale Dio vuole essere nostro pastore.
Faccio un inciso sulla figura del pastore. La figura del pastore in Israele era molto nota poiché
Israele era un popolo nomade per cui l’immagine del pastore era comprensibile e familiare in
quanto si sapeva bene chi fosse, qual era il suo ruolo e come viveva. Era un’immagine che diceva
molto sul piano esistenziale perché rispecchiava la vita i tutti i giorni.
E’ per questo che gli autori sacri, ispirati dallo S.S., non esitano ad attribuire a Dio il titolo di
pastore di Israele. Per di più figure significative della storia di Israele erano stati i pastori (Mosè e
Davide).
Queste figure carismatiche pria di diventare capi e dunque pastori del loro popolo erano stati
realmente pastori di greggi.
Jhwh stesso, attraverso la bocca del profeta EZ. 34,11 ss., si definisce come pastore.
Per cui c’è una profezia per la quale Dio si definisce il pastore che si prenderà cura del suo popolo e
successivamente viene anche espresso il modo con il quale Dio si prenderà cura.
Questa promessa si realizza in Gesù di Nazareth che dice: “Io sono il buon pastore”. Gesù dicendo
che è il buon pastore annuncia che Dio stesso si prende cura della sua creatura, l’uomo, e lo
conduce al vero pascolo. La traduzione più vera, però, è: “Io sono il pastore, quello bello”. In questa
espressione c’è la pretesa di Gesù ei una rivelazione, c’è tutta la forza di dire che quelli prima di lui
non sono i pastori buoni e inoltre l’espressione EGO E IMI (Io sono) nella teologia di Giovanni
richiama l’esodo e quindi Gesù compie le attese di Israele.
Anche in altri scritti neo. Testamentari torna l’immagine di Cristo come pastore: EB 13,20 Cristo è
il pastore grande delle pecore; uno PT 5,4 Cristo viene definito “l’arcipastore” il primo dei pastori,
il pastore supremo e anche in AP si dice”l’agnello sarà il loro pastore”.
Inoltre, è chiaro da una lettura dei vangeli che Cristo interpreta la sua missione nei termini del
pastore che si pone alla ricerca della pecorella smarrita, del pastore che raduna il gregge e che nutre
un grande amore per le folle che definisce come pecore senza pastore. In tal modo Gesù pretende di
avere una missione diretta da parte di Dio e quindi di rappresentare l’autorità stessa di Dio nella
propria persona.
Questo essere pastore è stato da sempre interpretato come un tratto caratteristico del ministero
ecclesiastico. In EF 4,11 l’apostolo tratta dei diversi ministeri e dici: “Lui che ha donato alla sua
Chiesa apostoli, evangelisti, dottori, pastori e maestri” e in 1PT 5,2: “pascete il gregge di Dio in
mezzo al quale lo S.S. vi ha posto e anche in AT 20,28 Luca chiama i vescovi “pastori per la Chiesa
di Dio”.
Quindi abbiamo molteplici attestazioni dove il ministero è sempre stato interpretato in questa
prospettiva pastorale ed emerge che si può essere pastore del gregge di Cristo soltanto per mezzo di
Lui e nella più intima comunione con Lui.
Questo costituisce il cuore dell’identità sacerdotale: essere amici di Cristo nella prospettiva
dell’essere pastori. Quindi qualunque altra condizione esterna non potrà mai inficiare questa
identità sia che si è pastore nella preghiera, nell’amministrazione dei sacramenti, di un piccolo o di
un grande gregge, di un movimento o di una parrocchia.
Sacerdozio agli uomini:
- ordinazione maschile (prescrizione di diritto divino)
- celibato (diritto umano-positivo)
Queste due questioni non hanno la stessa importanza perché il celibato è una legge valida per la
Chiesa latina ed è quindi una legge di disciplina ecclesiastica, di diritto positivo, imposta dalla
Chiesa ad un certo punto della storia.
La prima questione, invece, è una legge imposta dalla rivelazione.
Le conseguenze pratiche sono che la prima non si può toccare, la Chiesa non ha il diritto di
conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne né ieri né oggi né domani, la seconda, essendo di
diritto positivo, potrebbe invece essere cambiata.
La prima questione è dibattuta in campo ecumenico, perché altre confessioni ammettono
l’ordinazione alle donne, e anche in campo cattolico ma dopo la lettera di GP II un po’ di meno ed
po’ più aperto il dibattito sul celibato. Il dibattito sulla prima questione inizia nel 1958 quando la
Chiesa luterana di Svezia ammette le donne al ministero pastorale, successivamente altri Sinodi di
Chiese riformate presero una decisione analoga.
Ma già nel 1970 Paolo VI si espresse su questo punto ricordando come la Chiesa cattolica non
potesse cambiare il comportamento del Signore.
Nel 1975 si svolse l’anno internazionale della donna (siamo dopo il 1968) parte una campagna per
chiedere l’ordinazione delle donne poiché si diceva che la Chiesa cattolica le discriminasse.
Mi soffermo sul 1975 perché il documento più importante che abbiamo su questa questione è del
15-10.1976 ed è una dichiarazione C.D.F.: INTER-INSIGNIORES. Altro documento importante è
l’ORDINATIO SACERDOTALIS di G.P. II 22.05.1994.
E’ bene che voi sappiate che questa lettera di GP II non aggiunge nulla di nuovo alla Interinsigniores, ma la ribadisce aggiungendo la frase finale che questa dottrina è de considerarsi
definitiva.
Prima di addentrarci nell’esame d’inter-insigniores è utile contestualizzare la problematica nel
conteso attuale per capire le difficoltà che incontrano oggi queste motivazioni.
Cioè la inter-insigniores risponde alle obiezioni in un certo modo e la cultura contemporanea non
comprende più queste motivazioni. Mi spiego: “ se il prete deve essere segno sacramentale di cristo
buon pastore, Gesù di Nazareth era maschio e il sesso è determinato biologicamente”. La cultura
attuale del GENDER afferma che l’identità sessuale non è determinata biologicamente ma è
determinata dal dato culturale per cui se io nasco donna ma mi sento uomo la mia identità sessuale è
essere uomo, se io nasco uomo, ma il contesto mi fa sentire donna, io sono donna.
Per di più siccome la cultura evolve io posso nascere maschio biologicamente, cresco in un
ambiente che mi convince di essere donna, cambio ambiente e mi sento maschio, per questo ho una
pluri- identità.
Quindi Gesù è nato maschio, ma se la cultura oggi afferma che essere maschio dipende da come io
mi sento, perché una donna che si sente maschio non può diventare prete?
La C.D.F. nel 2004 pubblicò un documento sulla complementarietà tra maschio e femmina
contestando quest'interpretazione. L’omosessualità è diventata un dato acquisito e il passaggio
successivo sarà che l’identità io me la scelgo. Noi dovremmo obiettare che il sesso è biologico e
non culturale, ma nello stesso tempo dovremmo anche essere in grado di dialogare.
Un’altra obiezione è che Cristo è lo sposo della Chiesa: complementarietà tra Cristo che era
maschio e la Chiesa femmina. In questo contesto di legalizzazione di matrimonio omosessuale e
perché allora non può essere una donna a rappresentare Cristo, visto che il matrimonio è un’alleanza
tra persone dello stesso sesso, ed a questo aggiungete la difficoltà della cultura moderna che ha
smarrito il senso del simbolo.
Quindi noi ci troviamo con delle motivazione del 1976 valide, ribadite nel 1994, ma con le quali
facciamo fatica a rispondere se non le inquadriamo in un discorso dottrinale un po’ più ampio,
ovvero: punto di partenza è porsi in ascolto della rivelazione composta dalla scrittura e dalla
tradizione. E’ vero che nella Scrittura non c’è un’affermazione chiara, ma per noi cattolici c’è anche
la Tradizione a differenza dei protestanti per i quali conta solo la scrittura, mentre gli ortodossi la
pensano come noi.