SOMMARIO: 1 - Persona e Danno

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SOMMARIO: 1. La separazione consensuale. - 2. Il contenuto dell’accordo di separazione. - 3.
L’omologazione della separazione consensuale. - 3.1. Poteri del giudice dell’omologazione. - 3.2.
Poteri sostitutivi del giudice. - 4. Gli accordi non omologati. - 5. Clausole di carattere non
patrimoniale inserite nei contratti della crisi coniugale. - 5.1. Gli accordi sull’uso del cognome.
1. La separazione consensuale.
Legislazione c.c. 144, 158, 160 – c.p.c. 706, 707, 708, 711.
Bibliografia D’Antonio 1959 - Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 - D’Anna 1985 - Briguglio
1987 - Russo 1989 - Jannuzzi 1990 - Zoppini 1990 - De Paola 1991 - Casola 1993 - Comporti 1995
- Curti 1995 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 Ceccherini 1999 - Oberto 1999 - Mattiangeli 2000.
La separazione personale consensuale dei coniugi (così come il divorzio a firme congiunte) è
fondata sull'accordo – appunto il “consenso” - dei coniugi separandi omologato dal giudice (art. 158
c.c.):
l'accordo dei coniugi debitamente omologato (art. 158 c.c.; art. 711 c.p.c.) costituisce altra fonte della separazione
personale, che si distingue sul piano processuale da quella giudiziale perché l'intero procedimento si svolge nelle
forme della giurisdizione volontaria, della quale è più appariscente, in questa ipotesi, il presupposto, cioè l'assenza
di conflitto di interessi.
Avuto riguardo all'interesse familiare, è innegabile che la separazione consensuale sia preferibile a quella giudiziale,
sia perché caratterizzata dalla mancanza della contesa giudiziaria, che inasprisce i rapporti fra i coniugi e rende più
difficile la riconciliazione, sia perché è più accentuata l'autonomia delle parti e si possono raggiungere più
facilmente intese proficue nell'interesse della prole
(Jannuzzi 1990, 870).
È dunque ben evidente la distinzione tra separazione giudiziale e consensuale, caratterizzate
rispettivamente dalla presenza e dall’assenza di un conflitto di interessi:
nella lettera attuale della legge l’accordo dei coniugi sulla separazione e sulle condizioni della medesima ha un
particolare rilievo essendo il punto distintivo, lo spartiacque fra due tipi di procedura di separazione (giudiziale e
consensuale); e di ciò è chiara manifestazione il provvedimento di omologazione, che presuppone un atto già
perfezionato nei suoi particolari, sul quale deve essere effettuato un controllo, che per quanto variamente articolato,
non può sostituirsi alla volontà dei coniugi
(Curti 1995, 128).
La separazione consensuale, quindi, consiste in un atto di autonomia privata dei coniugi:
la separazione consensuale è il risultato di un accordo che i coniugi sono abilitati a stipulare tra loro in virtù della
generica capacità di agire o dell’autonomia privata che a loro compete.
(Jannuzzi 1990, 851. Nello stesso senso Briguglio 1987, 134).
Con tale atto di autonomia i coniugi dispongono del proprio interesse individuale e
contemporaneamente di quello comune all’unità della famiglia, con il solo limite della necessaria
tutela degli interessi della prole (D’Anna 1984, 597).
A proposito del consenso alla separazione espresso dai coniugi dinanzi al presidente del tribunale,
occorre verificare se i due consensi, anziché fondersi in un accordo, possano rimanere distinti ed
autonomi, due atti processuali di parte, due dichiarazioni unilaterali di volontà dirette da ciascuno
dei coniugi, per proprio conto, alla autorità giudiziaria e collegate solo dalla contestualità, cioè dal
fatto che vengono effettuate nella stessa fase del procedimento.
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Tale costruzione è stata nettamente respinta in quanto ritenuta artificiosa - data la contestualità,
l’identità del contenuto e del fine delle manifestazioni di volontà dei coniugi - e poco conciliabile
con la lettera della legge:
nella redazione del processo verbale, susseguente al fallito tentativo di conciliazione, non ci si limita infatti a dar
atto del consenso dei coniugi alla separazione, ma si enunciano anche le condizioni riguardanti i coniugi stessi e la
prole. Le parti, cioè, non solo esprimono la loro volontà di addivenire alla separazione, ma sottopongono all’esame
dell’autorità giudiziaria anche una concreta disciplina dei loro futuri rapporti; e si tratta di disciplina unitaria,
predisposta concordemente da entrambi i coniugi, con carattere precettivo: basta questo per affermare che siamo in
presenza di una fattispecie negoziale. La statuizione di tali condizioni avviene in vista della e subordinatamente alla
pronuncia della separazione; il loro tenore influisce sulla concessione dell’omologazione (che dipende infatti dalla
loro convenienza ed opportunità), e quindi sul verificarsi di quanto i coniugi dichiarano di volere; inoltre, la
contemporaneità e la contestualità esistenti tra manifestazione del consenso e predisposizione del regime di vita
separata ci dicono che i coniugi non solo vogliono separarsi, ma lo vogliono a quelle determinate condizioni. Ne
deduciamo che sarebbe molto strano disconoscere la natura negoziale del consenso a cui si riconnettono tali effetti.
E se a ciò si aggiunge il fatto che il consenso è prestato in vista di un unico e identico fine, la cessazione del
rapporto di convivenza che intercorre tra i coniugi, cui le volontà di entrambe le parti convergono, abbiamo lo
schema tipico dell’accordo
(D’Antonio 1959, 462).
Le dichiarazioni di volontà dei coniugi non restano dunque isolate, ma si fondono tra loro dando
vita ad un atto avente natura negoziale. A tal proposito è stato precisato che
tale accordo deve ritenersi perfezionato nel momento in cui i consensi delle parti convergono; perciò, ad esempio,
per verificare la sussistenza dei vizi della volontà dei coniugi occorrerà far riferimento appunto a tale momento, e
non necessariamente al momento dell’omologazione (con l’ovvia conseguenza che il giudice in sede di
omologazione, se riscontra uno di tali vizi non può rimuoverlo, ma deve farlo presente alle parti le quali possono
provvedere a rinnovare l’accordo medesimo, o a stipulare un nuovo accordo)
(Curti 1995, 128).
Nella previsione dell’art. 158 c.c. può dunque ravvisarsi uno dei momenti più significativi della
negozialità nell’ambito di una materia – il diritto di famiglia – che, sul presupposto della funzione
sociale della famiglia, è stata spesso ricondotta nell’ambito del diritto pubblico con conseguente
restrizione degli spazi di operatività dell’autonomia privata:
la separazione personale consensuale costituisce la sede statisticamente più frequente di esercizio dell’autonomia
negoziale familiare ed a tale esercizio naturalmente deputata, dal momento che, per il prevalente orientamento, lo
stesso accordo di separazione ha natura negoziale e costituisce una delle più importanti manifestazioni
dell’autonomia privata in ambito familiare
(Angeloni 1997, 221. Così pure Cass. 22.1.1994, n. 657, VN, 1995, 126; NGCC, 1994, I, 710; Cass. 24.2.1993, n.
2270, DFP, 1994, 554; GC, 1994, I, 213).
Il legislatore, pur riconoscendo ampia rilevanza all’autonomia dei coniugi, ha tuttavia subordinato
l’efficacia degli accordi ad un controllo giudiziario (omologazione) finalizzato alla necessaria tutela
dell’interesse pubblico alla stabilità della famiglia ed alla cura dei figli.
L’art. 144 c.c. (…) introduce per il governo della famiglia la regola dell’accordo e costituisce la fonte di
legittimazione di ogni manifestazione negoziale dei coniugi; l’accordo dei coniugi pone le regole del ménage e può
dettare la regolamentazione dei rapporti connessi al venir meno dello stesso. Ma la legge, se lascia all’attività
negoziale dei privati la disciplina dei rapporti familiari, pone però dei limiti, a tutela di interessi ritenuti preminenti e
necessitari di tutela. La norma dialetticamente contrapposta al citato art. 144 è dettata dall’art. 160 c.c., che,
sancendo l’inderogabilità dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, pone un limite di carattere generale
all’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi. Il limite specifico per quanto attiene alla separazione personale dei
coniugi è rinvenibile nel comma 2 dell’art. 158 c.c., che attribuisce poteri di controllo e di indirizzo al giudice a
tutela dell’interesse della prole
(Mattiangeli 2000, 320-321).
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In sostanza,
la legge di riforma del diritto di famiglia, sensibile all’esigenza di maggiore autonomia della “famiglia”, ha cercato
di contemperare i vari interessi lasciando ai coniugi piena discrezionalità in ordine al “se separarsi”, subordinando
però le determinazioni concordate relative al “come separarsi” (soprattutto in vista “dell’interesse dei figli”) al
controllo del giudice
(D’Anna 1984, 595).
Caratteristica precipua del procedimento di separazione personale consensuale è dunque
rappresentata dall’intreccio fra il consenso e l’intervento giudiziale, fra negozialità e controllo, fra
aspetti privatistici ed aspetti pubblicistici:
la separazione consensuale prevista dall’art. 158 c.c. e disciplinata dall’art. 711 c.p.c. ha natura pubblicistica in
quanto effetto di una procedura giurisdizionale, se pur volontaria (ex art. 737 c.p.c.), nella quale è preminente
l’esigenza di tutelare diritti ed interessi scaturenti da una fondamentale istituzione sociale quale è il nucleo della
famiglia, il che motiva fra l’altro il tentativo di conciliazione al quale è diretto il primo intervento del presidente del
Tribunale adito. Ciò non toglie che la separazione consensuale trovi la sua ragion d’essere nell’accordo dei coniugi
separandi, i quali attraverso volontà dichiarate in atti del procedimento dispongono del proprio rapporto coniugale,
personale e patrimoniale, così come delle condizioni familiari ed economiche riguardanti i figli. Particolarmente in
funzione di questa ultima esigenza il legislatore ha sottoposto a condizione sospensiva di efficacia la convenzione di
separazione dei coniugi in forza del provvedimento di omologazione, che agendo come condicio iuris tende a
salvaguardare l’interesse superiore della prole. Il principio consensualistico rimane comunque dominatore della
separazione consensuale
(Miccoli 1997, 521).
Il procedimento di separazione personale consensuale si promuove con ricorso con il quale uno o
entrambi i coniugi manifestano la volontà di separarsi e chiedono al presidente del tribunale di
fissare l'udienza di comparizione per l'esperimento del tentativo di conciliazione (art. 711 c.p.c.) da
effettuarsi con le stesse modalità previste per la separazione giudiziale.
Se il tentativo di conciliazione fallisce il cancelliere, sotto la direzione del Presidente, redige il
processo verbale nel quale si dà atto "del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni
riguardanti i coniugi stessi e la prole" (art. 711, 2° co., c.c.).
Dunque, affinché la volontà di separarsi abbia rilevanza giuridica è essenziale che il consenso alla
separazione venga manifestato dai coniugi davanti al presidente del tribunale dopo che questi abbia
compiuto un infruttuoso tentativo di conciliazione e che tale consenso venga documentato nel
processo verbale:
il processo verbale, comunque, se compilato, è normalmente sottoscritto dalle parti, oltre che dal presidente e dal
cancelliere (art. 126 c.p.c.). È necessaria, invece, la documentazione dell’accordo dei coniugi alla separazione ed
alle condizioni di questa, se il tentativo di conciliazione non riesce. Il carattere essenziale si desume dall’ulteriore
svolgimento del processo e, specificatamente, dalla necessità dell’omologazione, che, diversamente, non potrebbe
aver luogo. Prima ancora che alla documentazione, però, la validità del consenso è condizionata alla sua
manifestazione davanti al presidente del tribunale, e ciò in ragione della natura degli interessi da tutelare ed inoltre
perché l’accordo deve essere preceduto dal tentativo di conciliazione nelle forme stabilite
(Jannuzzi 1990, 873-874).
2. Il contenuto dell’accordo di separazione.
Legislazione c.c. 144, 158, 160 – c.p.c. 711.
Bibliografia D’Antonio 1959 - Bergamini 1974 - Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 D’Anna 1985 - Briguglio 1987 - Russo 1989 - Jannuzzi 1990 - Zoppini 1990 - De Paola 1991 Giunchi 1993 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 Ceccherini 1999 - Oberto 1999 - Mattiangeli 2000.
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L’accordo dei coniugi, risultante dal verbale presidenziale, deve naturalmente contenere la
decisione di vivere separati.
Accertata la libertà del consenso, il Tribunale dovrà stabilire anche se sussista una effettiva volontà di entrambi i
coniugi diretta alla separazione. (…) Sennonché ci sembra dovere distinguere tra motivi della separazione e volontà
della separazione consensuale la quale può mancare pur affermando il coniuge di volere l’accordo di separazione.
Così: se il coniuge non ricorrente in sede di tentativo di conciliazione si dicesse vittima dell’altro, ne denunciasse le
malefatte e concludesse aderendo alla separazione ed indicandola, per ignoranza della legge, come unico rimedio
all’intollerabilità della vita in comune. È evidente, nell’esempio riportato, che il coniuge nessuna volontà aveva di
giungere ad una separazione consensuale accettandola nella ignoranza di una diversa forma di separazione. Ma al di
fuori di questo caso limite – oggi poco frequente per la maggiore consapevolezza dei propri diritti anche negli strati
più modesti della popolazione – altri invece se ne presentano molto spesso nella pratica giudiziaria. Avviene cioè
che il coniuge, che si afferma vittima, dichiari di aderire alla separazione per amore della famiglia o per non
danneggiare la prole o la particolare situazione di congiunti conviventi.
Dinanzi a simili affermazioni ci sembra di potere concludere che manca una inequivoca volontà di separarsi, salvo
che la parte, resa edotta dal presidente – in sede di comparizione – che i fatti, se provati, porterebbero
all’accoglimento di una domanda di separazione giudiziale (per altro non più invocabili una volta omologata la
separazione) non dichiari che, nonostante ciò, il suo intendimento è quello di pervenire ad una separazione
consensuale
(Scardulla 1996, 94-95).
In esso, però, possono essere determinate anche le condizioni riguardanti l’affidamento della prole,
l’assegnazione della casa coniugale, la misura e le modalità di mantenimento del coniuge che non
abbia adeguati redditi propri, vale a dire tutti quei patti indispensabili affinché si possa instaurare un
nuovo regime di vita.
Inoltre, i coniugi ben possono regolare con l’accordo di separazione altri rapporti di contenuto
personale o patrimoniale:
i coniugi nel fissare le condizioni della separazione possono dar vita anche ad altri negozi giuridici per regolare
precedenti rapporti o per porre in essere rapporti giuridici idonei a rendere attuabili le condizioni della separazione o
per dare una nuova regolamentazione a situazioni preesistenti che non avevano originato inconvenienti durante la
convivenza, ma potrebbero sicuramente crearne durante la separazione
(Scardulla 1996, 102).
In proposito, è opportuno, dunque, operare una distinzione tra il negozio di separazione in senso
stretto (vale a dire l’atto con cui i coniugi mirano ad influire direttamente sul rapporto di
convivenza) e gli atti e negozi che ad esso si accompagnano, restando strutturalmente autonomi ma
tuttavia collegati l’uno all’altro per motivi sia formali (l’essere contenuti nel verbale) che
funzionali.
Le condizioni menzionate nel testo legislativo, di natura personale (prima, tra tutte, affidamento della prole) e
patrimoniale, possono essere disparate ed eterogenee, tanto che l’accordo dei coniugi è stato riportato alla categoria
dell’atto complesso, degli atti a contenuto plurimo e inquadrato nella teoria dei negozi collegati. Quest’ultimo
profilo è esatto, in quanto l’unicità del documento non sopprime l’innegabile autonomia strutturale delle singole
fattispecie che vi sono incorporate, pur se funzionalmente collegate
(Jannuzzi 1990, 874).
Più precisamente, si distingue tra contenuto necessario (o tipico o, ancora, principale) e contenuto
eventuale (o atipico o, ancora, accessorio) dell’accordo di separazione.
Il contenuto necessario può essere identificato con tutte quelle pattuizioni, clausole e condizioni che
devono obbligatoriamente essere contenute nell’accordo di separazione affinché questo possa
giuridicamente venire ad esistenza e produrre effetti; invece, nel contenuto eventuale vanno
comprese tutte quelle pattuizioni, clausole e condizioni che non devono ma possono essere inserite
nell’accordo di separazione cosicché la loro mancanza non produce alcuna conseguenza sul
perfezionamento, sulla validità o sull’efficacia dell’accordo stesso:
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la distinzione tra contenuto necessario e contenuto eventuale (o, se si preferisce: tipico e atipico) non è mai intesa
come una dicotomia tra ciò che può e ciò che non può essere inserito negli accordi da presentare al vaglio
dell’omologazione, bensì come tra ciò che deve necessariamente (contenuto minimo) e ciò che può anche non
essere oggetto dell’intesa da consacrarsi nel verbale
(Oberto 1999, 1265).
Pur convenendo dottrina e giurisprudenza sulla distinzione fra contenuto necessario e contenuto
eventuale dell’accordo di separazione, non vi è concordanza di vedute quando si passa ad
individuare il tipo di accordi che dovrebbe comporre l’una o l’altra categoria.
Secondo un primo orientamento nel contenuto necessario andrebbero compresi non solo l’accordo
di vivere separati, bensì anche le intese sull’affidamento della prole, l’assegnazione della casa
coniugale, la misura e le modalità del mantenimento del coniuge privo di redditi propri adeguati.
Il contenuto eventuale consisterebbe, invece, in tutti quei patti o “negozi dipendenti” che, pur
essendo destinati a divenire operativi in vista della separazione, hanno natura accessoria in quanto
meramente occasionati – e non già determinati sul piano causale – dalla separazione:
nel contenuto necessario rientrano, oltre al mutuo consenso sulla interruzione della convivenza, anche le pattuizioni
(le condizioni) accessorie e complementari al nuovo status di vita separata, relative al mantenimento ed
all’assistenza, sia del coniuge economicamente più debole che della prole; nel contenuto eventuale rientrano tutte le
altre possibili pattuizioni, dall’oggetto più vario, (trasferimento di beni, divisioni, donazioni, ecc.) riportate, su
richiesta concorde delle parti, nel processo verbale fatto redigere dal presidente del tribunale a cura del cancelliere,
che non hanno causa ma solo occasione nell’accordo di separazione
(De Paola 1991, 228 ss.).
In sostanza, alla categoria del contenuto eventuale apparterrebbero quei rapporti rispetto ai quali il
matrimonio si pone non già come “titolo costitutivo” ma come “fonte occasionale”.
In tal senso si è esemplificativamente espressa la Suprema Corte la quale, dopo aver affermato la
possibilità che nell’accordo di separazione possa essere contenuta una pluralità di pattuizioni oltre
quelle integranti il contenuto essenziale, precisa nel senso predetto il contenuto di quest’ultimo:
l’accordo con il quale i coniugi pongono fine alla convivenza regolando i loro rapporti intersoggettivi e nei confronti
della prole può racchiudere una pluralità di pattuizioni, oltre quelle integranti il suo contenuto tipico e consistenti nel
consenso a vivere separati ed in tutte le altre clausole eventualmente necessarie al fine dell’instaurazione del nuovo
regime di vita (in ordine all’assegno di mantenimento, all’affidamento e mantenimento della prole, al diritto di visita
ai figli, all’assegnazione della casa familiare, ecc.). Esso può invero riguardare anche negozi che, pur trovando sede
ed occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in questa, in quanto non sono direttamente collegati ai
diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio: tali negozi pertanto non si configurano come
convenzioni di famiglia, quali figure giuridiche distinte dai contratti e caratterizzate da un sostanziale parallelismo di
interessi e volontà (…), ma costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale. Come questa Suprema Corte
ha frequentemente affermato (…), è diritto di ciascuno dei coniugi condizionare il proprio consenso alla separazione
personale ad un soddisfacente assetto globale dei propri interessi economici, sempre che con tale composizione non
si realizzi una lesione di diritti inderogabili
(Cass. 15.3.1991, n. 2788, FI, 1991, I, 1791).
A tale indirizzo restrittivo si contrappone un orientamento certamente più “generoso” che amplia
sensibilmente la sfera di applicazione dell’autonomia privata dei coniugi nella determinazione del
contenuto dell’accordo di separazione. Il contenuto necessario sarebbe così ristretto al solo accordo
sulla cessazione della coabitazione, mentre farebbero parte del contenuto eventuale dell’accordo di
separazione le pattuizioni in tema di mantenimento del coniuge, nonché di affidamento e
mantenimento della prole, con l’ovvia conseguenza che queste ultime ben potrebbero mancare
nell’accordo di separazione consensuale:
detto accordo ha un contenuto essenziale (consenso reciproco a vivere separati) ed un contenuto eventuale, di cui
fanno parte tutte le pattuizioni che, a seconda dei casi, si rendono necessarie al fine della instaurazione del nuovo
stato di vita separata (assegno di mantenimento a favore di uno dei coniugi; affidamento e mantenimento della prole;
rapporti con i figli da parte del genitore non affidatario, ecc.)
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(Cass. 25.9.1978, n. 4277, GC, 1979, I, 84).
La Cassazione ha recentemente ribadito tale conclusione, consolidando così il proprio orientamento:
come questa Corte ha già rilevato (Cass. 25 settembre 1978, n. 4277), detto accordo ha un contenuto essenziale – il
consenso reciproco a vivere separati – ed un contenuto eventuale, costituito dalle pattuizioni necessarie ed
opportune, in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della situazione familiare
(affidamento dei figli; assegni di mantenimento; statuizioni economiche connesse)
(Cass. 15.5.1997, n. 4306, RN, 1998, 173).
In verità, ci sembra che tale orientamento, pur condivisibile per quanto attiene alle clausole relative
al mantenimento del coniuge e più in generale da pattuizioni attinenti i rapporti patrimoniali fra i
coniugi, debba invece essere rivisto per quanto riguarda le pattuizioni concernenti i figli minori.
In proposito, si deve opportunamente distinguere fra separazione in presenza e separazione in
assenza di figli minori.
Infatti, in presenza di prole minorenne, è fuor di dubbio che le condizioni relative all’affidamento
ed al mantenimento dei figli costituiscano una parte essenziale e necessaria dell’accordo di
separazione, come confermato da una attenta lettura del dato legislativo:
nell’accordo di separazione personale è possibile distinguere un contenuto necessario, essenzialmente identificato
nella concorde volontà diretta a modificare lo status, ed un contenuto eventuale, diretto a stabilire le condizioni di
separazione. (…) L’art. 158 c.c. prevede espressamente il sindacato del giudice in sede di omologazione solo
rispetto alle condizioni relative al mantenimento ed all’affidamento dei figli, tra l’altro senza il potere di sostituzione
delle determinazioni dei coniugi, potendo soltanto, dopo l’esito insoddisfacente della loro riconvocazione, rifiutare,
allo stato, l’omologazione. Da tale norma può dedursi, innanzitutto, che le determinazioni relative a tale aspetto
vanno ad ampliare il contenuto essenziale dell’accordo di separazione tra coniugi con prole
(Mattiangeli 2000, 318).
Viceversa, in assenza di figli minori, l’accordo di separazione può ben prescindere, oltre che da
pattuizioni relative ai rapporti patrimoniali fra i coniugi, anche da accordi circa l’affidamento ed il
mantenimento della prole.
3. L’omologazione della separazione consensuale.
Legislazione c.c. 158 – c.p.c. 711.
Bibliografia Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 - D’Anna 1985 - Zatti 1985 - Briguglio 1987
- Russo 1989 - Jannuzzi 1990 - Zoppini 1990 - De Paola 1991 - Giunchi 1993 - Dogliotti 1995 Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 - Russo 1997 - Ceccherini 1999 Oberto 1999.
Una volta esaurita la fase presidenziale, il procedimento continua davanti al tribunale in camera di
consiglio per l’emissione del decreto di omologazione.
Al collegio è affidato il controllo di legittimità ed in parte di merito sull’accordo dei coniugi e sulle condizioni da
essi convenute, al fine di tutelare l’interesse della famiglia (…); tale finalità segna i limiti del sindacato del tribunale,
il quale, pertanto, non potrebbe indagare sui motivi che hanno determinato il consenso delle parti.
Sotto l’aspetto positivo il controllo di legittimità è diretto ad accertare la libertà e la regolarità nella formazione del
consenso, la compatibilità delle singole pattuizioni con le norme inderogabili regolatrici dell’organismo familiare, la
ritualità, in genere, della fase presidenziale. L’indagine limitata al merito consente, poi, al tribunale, di rifiutare
l’omologazione quando non reputi conveniente per la prole l’accordo concluso dai genitori, trattandosi di materia
sottratta alla libera disponibilità dei coniugi. Non sono, invece, sufficienti a negare l’omologazione le ragioni di
convenienza che riguardino i coniugi, non potendo il tribunale indagare sui motivi nonché sugli scopi che essi si
propongono di conseguire
(Jannuzzi 1990, 878).
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Con l’omologazione del tribunale l’accordo dei coniugi acquista efficacia:
la separazione consensuale è il risultato di un accordo che i coniugi sono abilitati a stipulare tra loro in virtù della
generica capacità di agire o dell’autonomia privata che a loro compete.
Ma, poiché tale accordo incide su un rapporto regolato con norme inderogabili, esso non diviene efficace prima che
il tribunale abbia verificato che l’intesa fra i coniugi non contrasti con dette norme, oltre che liberamente conseguita.
All’uopo è prescritta l’omologazione (…) che è appunto diretta a conferire efficacia all’accordo tra i coniugi. Ora la
funzione esplicata dal giudice nel concedere o negare l’omologazione attiene sicuramente alla giurisdizione
volontaria, poiché essa è diretta ad attribuire efficacia ad un’intesa posta in essere dalle parti in regime di autonomia
negoziale, e non a dirimere una controversia intorno ad un diritto, previo accertamento della sua esistenza e
mediante l’applicazione della legge ad una situazione controversa. Non v’è un diritto alla separazione consensuale
che possa trovare attuazione, in caso di contestazione, mediante una pronuncia del giudice, ma il diritto a vivere
separati sorge dopo che l’accordo volontario è divenuto efficace mediante l’omologazione
(Jannuzzi 1990, 851).
Va così ribadito il concetto per cui la separazione consensuale ha titolo nell’accordo dei coniugi che
integra un negozio giuridico di diritto privato autonomo e perfetto; il decreto di omologazione non
si contrappone alla convenzione di separazione conclusa dai coniugi ma ne costituisce solo una
condizione legale di efficacia del negozio il quale, pertanto, non produce i propri effetti tipici
prima dell’omologazione stessa:
la separazione consensuale, però, si traduce in un procedimento (artt. 158 c.c. e 711 c.p.c.), nel quale il regolamento
concordato tra i coniugi, acquista efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione, come
emerge dal tenore dell’art. 711 quarto comma c.p.c. Né varrebbe addurre in contrario che tale norma riferisce
l’efficacia alla “separazione consensuale” e non all’accordo, per inferirne che quest’ultimo acquisterebbe efficacia
ex se indipendentemente dalla omologazione ed anche prima di questa, in forza della nozione stessa di patto e
secondo le norme che disciplinano l’efficacia del contratto (art. 1372 c.c.). Si deve replicare, sul piano letterale, che
l’art. 711, quarto comma c.p.c., attribuisce all’omologazione l’effetto giuridico di rendere efficace la separazione
consensuale, così rimarcando che l’accordo diventa parte costitutiva della separazione in quanto questa sia
omologata e ribadendo il principio, già espresso sul piano sostanziale dall’art. 158, primo comma c.c., in base al
quale la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice. Dal punto di
vista logico sistematico, poi, si deve riaffermare che, in base all’impianto complessivo dell’art. 711 c.p.c. (in
combinato disposto col già citato art. 158, primo comma c.c.), il procedimento in detta norma descritto dà vita ad
una fattispecie complessa nella quale il contenuto del regolamento concordato tra i coniugi, se trova la sua fonte nel
relativo accordo, acquista però efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione, cui
compete l’essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti tra i coniugi siano conformi agli interessi
superiori della famiglia (v. Cass., 5 gennaio 1984, n.14). Ne deriva che l’accordo finalizzato a disciplinare la
separazione consensuale, qualora per una qualsiasi ragione questa non sia omologata, rimane privo di efficacia
giuridica appunto perché non sottoposto al controllo del giudice in sede di omologazione
(Cass. 18.9.1997, n. 9287, VN, 1998, 224-225).
Negli ultimi anni, la giurisprudenza si è espressa costantemente in senso analogo (Cass. 8.3.1995, n.
2700, DFP, 1995, 1390; Trib. Monza 19.11.1992, CorG, 1993, 205; Cass. 13.2.1985, n. 1208, RN,
1985, 1183; NGCC, 1985, I, 658; GC, 1985, I, 1654; Cass. 5.1.1984, n. 14, RN, 1984, 375; RN,
1984, 593; Trib. Firenze 6.1.1982, RN, 1982, 198).
L’intervento dell’autorità giudiziaria è giustificato dalla considerazione che l’accordo dei coniugi
relativo alla separazione incide su rapporti attinenti alla famiglia ed in particolare sui doveri dei
genitori verso i figli; il controllo, in cui si sostanzia l’omologazione, costituisce pertanto lo
strumento attraverso il quale l’ordinamento giuridico persegue il pubblico interesse della tutela della
prole che non può essere compromesso dal negozio posto in essere dai coniugi.
L’omologazione consiste, dunque, in un controllo del tribunale cui è subordinata l’efficacia
dell’accordo fra i coniugi:
il decreto di omologazione, invero, è un atto di controllo privo di contenuto decisorio perché incide ma non decide
su diritti soggettivi perfetti.
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Non ha, quindi, alcuna attitudine ad acquistare la efficacia del giudicato sostanziale. È, per conseguenza,
impugnabile con reclamo alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 730 c.p.c.; ed è revocabile, ai sensi dell’art. 742
c.p.c., per vizi di legittimità, che non si convertono in motivi di gravame (con la conseguente preclusione dell’art.
161 c.p.c.), ma sono in ogni tempo deducibili nell’ambito della giurisdizione camerale; e sono pure eccepibili in un
processo ordinario – ad esempio, riguardante lo scioglimento del vincolo matrimoniale – dove l’esistenza di un
valido decreto di omologazione si presenti come imprescindibile condizione di legittimità dell’azione (…).
Orbene, data la natura del procedimento della Corte d’appello, che è inidoneo, per le ragioni esposte, a produrre gli
effetti propri del giudicato sostanziale, non si può ritenere esperibile contro di esso il ricorso per cassazione ai sensi
dell’art. 111 della Costituzione.
È questa la conseguenza necessaria del carattere intrinsecamente non decisorio del decreto di omologazione
(Cass. 24.8.1990, n. 8712, GC, 1990, I, 2827-2828).
Si tratta, in particolare, di un controllo preventivo - che impedisce l’effetto della separazione sulla
base di accordi non ritenuti conformi alla legge – preferito dal legislatore ad un controllo successivo
il quale, invece, inciderebbe sulla separazione in termini di validità della stessa:
non è dato all’autonomia incontrollata dei coniugi di provocare e di regolare il passaggio dall’unità alla divisione
legale del gruppo: la determinazione e la disciplina dello stato di separazione sono lasciati all’autonomia solo
attraverso un controllo giudiziale che ha il limitato, ma essenziale scopo di tutelare gli interessi indisponibili della
prole e dei coniugi stessi.
Ora, derivare dal limitato oggetto del controllo giudiziale la conclusione che, fermo il rispetto dei diritti inderogabili,
resta alle parti l’autonomia negoziale, che può quindi esercitarsi, salvo quel limite, secondo le regole comuni (…)
significa disconoscere che obiettivi identici – il rispetto, da parte dei privati, di determinate regole e principi non
derogabili – può essere perseguito dal legislatore con tecniche e precauzioni diverse: con la sanzione di nullità degli
accordi, cioè con un controllo giudiziale a posteriori, come avviene comunemente per i contratti, e come avviene
più specificamente nell’ambito delle convenzioni matrimoniali (art. 160 cod. civ.); o con una tecnica di controllo
preventivo, che escluda a priori la configurazione di un accordo apparentemente “legale” e in realtà contrario alla
legge, com’è appunto nella particolare soluzione prescelta dal legislatore quando ha riunito la concorde decisione di
separarsi con la concorde determinazione del regolamento degli interessi delle parti e della prole assoggettando il
tutto alla omologazione
(Zatti 1985, 663-664).
L’espressa previsione di un controllo giudiziale non contraddice l’aspetto, per così dire, “negoziale”
della separazione consensuale:
l’omologazione non può che apparire come uno strumento di controllo di tipo garantistico, diretto a tutelare, da un
lato, la salvezza degli interessi non disponibili delle parti, dall’altro gli interessi dei minori o (…) della parte
“debole”.
Va esclusa, invece, ogni configurazione di questo provvedimento che ne faccia lo strumento di “guida” e di governo
della separazione consensuale, risolta in una modalità di separazione “fatta dal giudice”.
Le esigenze d’orientamento che pure legittimamente si pongono in questa occasione, debbono affidarsi o al tentativo
di conciliazione e ai suggerimenti che comunque il giudice possa dare, o, piuttosto, a interventi pubblici di altro
ordine, e cioè all’offerta di assistenza del consultorio familiare.
L’apice della separazione consensuale va dunque collocato nell’accordo; e le conseguenze sono immaginabili.
Il consenso manifestato da ciascuna delle parti non va considerato come singolo elemento di una “procedura” che si
conclude solo con l’avvenuta omologazione, ma prima e soprattutto come costitutivo di un accordo con il quale le
parti stabiliscono le regole dei loro futuri rapporti nell’ambito degli interessi disponibili
(Zatti 1982, 126).
In sostanza, la separazione – appunto – consensuale ha e deve necessariamente aver titolo
nell’accordo dei coniugi, ovvero in un “negozio avente per oggetto la separazione” (Cass.
24.8.1990, n. 8712, GC, 1990, I, 2827); con il provvedimento di omologazione il tribunale esercita
una mera attività di controllo sull’osservanza del rito e sulla conformità delle clausole
convenzionali alle norme che regolano la materia e, eventualmente, all’interesse dei figli:
la separazione consensuale prevista dall’art. 158 c.c. e disciplinata dall’art. 711 c.p.c. ha natura pubblicistica in
quanto effetto di una procedura giurisdizionale, se pur volontaria (ex art. 737 c.p.c.), nella quale è preminente
l’esigenza di tutelare diritti ed interessi scaturenti da una fondamentale istituzione sociale quale è il nucleo della
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famiglia, il che motiva fra l’altro il tentativo di conciliazione al quale è diretto il primo intervento del presidente del
Tribunale adito. Ciò non toglie che la separazione consensuale trovi la sua ragion d’essere nell’accordo dei coniugi
separandi, i quali attraverso volontà dichiarate in atti del procedimento dispongono del proprio rapporto coniugale,
personale e patrimoniale, così come delle condizioni familiari ed economiche riguardanti i figli. Particolarmente in
funzione di questa ultima esigenza il legislatore ha sottoposto a condizione sospensiva di efficacia la convenzione di
separazione dei coniugi in forza del provvedimento di omologazione, che agendo come condicio iuris tende a
salvaguardare l’interesse superiore della prole. Il principio consensualistico rimane comunque dominatore della
separazione consensuale
(Miccoli 1997, 521).
Anche la più recente giurisprudenza di legittimità non ha mancato di sottolineare la preminenza del
ruolo dell’autonomia privata dei coniugi nel procedimento di separazione consensuale:
nel procedimento per la separazione consensuale dei coniugi, di cui all’art. 711 c.p.c., il provvedimento di
omologazione del Tribunale, operando esclusivamente sul piano del controllo, ha lo scopo di attribuire efficacia
all’accordo privato dall’esterno, senza operare per ciò alcuna integrazione della volontà negoziale delle parti
(Cass. 8.3.1995, n. 2700, DFP, 1995, 1391).
Inoltre, considerazioni di carattere sistematico confortano il prevalente orientamento dottrinale e
giurisprudenziale che, pur in presenza dell’intervento giurisdizionale, ravvisa nel consenso
l’elemento fondamentale della separazione consensuale:
la conclusione appare avvalorata – oltre che dal già esposto rilievo per cui l’art. 158 c.c. fonda l’istituto in discorso
sul “solo consenso” dei coniugi – dal fatto che il preminente ruolo del consenso è sottolineato anche da altre
chiarissime indicazioni normative, come quella che impone al giudice di tener conto, anche in sede di separazione
giudiziale, degli eventuali accordi dei coniugi (art. 155, 7° co., c.c.; cfr. Zatti 1982, 124, nota 8), nonché
dell’espressione letterale dell’art. 711 c.p.c., il quale dispone che la separazione consensuale “acquista efficacia” con
l’omologazione del tribunale
(Oberto 1999, 264).
In conclusione,
la legge di riforma del diritto di famiglia, sensibile all’esigenza di maggiore autonomia della “famiglia”, ha cercato
di contemperare i vari interessi lasciando ai coniugi piena discrezionalità in ordine al “se separarsi”, subordinando
però le determinazioni concordate relative al “come separarsi” (soprattutto in vista “dell’interesse dei figli”) al
controllo del giudice
(D’Anna 1984, 595).
3.1. Poteri del giudice dell’omologazione.
Legislazione c.c. 158 – c.p.c. 711.
Bibliografia Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 - D’Anna 1985 - Zatti 1985 - Briguglio 1987
- Russo 1989 - Zatti 1989 - Jannuzzi 1990 - Vitalone 1990 - De Paola 1991 - Giunchi 1993 - Doria
1994 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 - Russo
1997 - Ceccherini 1999 - Oberto 1999.
Il controllo del tribunale in sede di omologazione è esclusivamente di legittimità e non può in alcun
modo comportare una valutazione di merito delle motivazioni e condizioni della separazione:
il controllo in questione deve avere ad oggetto la non contrarietà delle intese dei coniugi a norme imperative,
all’ordine pubblico e al buon costume, tramite dunque un esame che non investe il profilo dell’opportunità delle
scelte operate dai coniugi, né la tutela di particolari interessi degli stessi, al di là di quello generale alla non
violazione di disposizioni o di principi di carattere imperativo
(Oberto 1999, 249-250).
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L’esclusione di un controllo giudiziario sulla serietà dei motivi che hanno spinto i coniugi a
separarsi rappresenta una significativa conferma dell’importanza del ruolo svolto dall’autonomia
privata nel campo della crisi coniugale:
una volta venuta meno, dunque, ogni possibilità per il giudice di sindacare, nell’ambito del procedimento ex art. 158
c.c., la serietà delle ragioni che inducono due coniugi a separarsi, non appare più possibile nutrire dubbi sulla natura
negoziale dell’atto-cardine in cui si sostanzia la separazione consensuale, vale a dire l’accordo con il quale le parti
decidono di porre fine alla coabitazione
(Oberto 1999, 198).
Parte della dottrina ha però affermato che il tribunale, oltre a verificare che le clausole della
separazione non siano illecite o contrarie all’ordine pubblico o al buon costume, possa svolgere
anche un controllo diretto ad accertare l’esistenza di clausole vessatorie, cioè clausole che siano
espressione di coartazione della volontà di un coniuge da parte dell’altro ovvero si traducono in un
pregiudizio per uno solo dei coniugi (quali, ad esempio, la rinuncia al mantenimento da parte della
moglie che risulta senza reddito proprio e senza che altri possano provvedere al suo mantenimento
oppure la rinuncia preventiva alla revisione dell’assegno di mantenimento, pur in presenza di
giustificati motivi):
quanto all’interesse dei coniugi, o come si usa dire del coniuge “debole” (ma potrebbe essere il coniuge “indebolito”
dall’accordo stesso) credo che un apprezzamento del giudice non possa svolgersi in modo da escludere la
disponibilità degli interessi da parte dei titolari, ma debba orientarsi a verificare che l’eventuale sacrificio non
nasconda una situazione di inferiorità o di esasperazione che conduca ad un consenso “ad ogni prezzo”, o non sia
tale, per iniquità o imprevidenza, da far presumere la fragilità dell’accordo e un andamento contenzioso dei rapporti
tra le parti
(Zatti 1989, 127-128).
La più recente dottrina ha assunto una posizione più elastica sostenendo che siffatto potere non
spetti al giudice tout court, bensì soltanto qualora le clausole vessatorie integrino clausole illecite,
contrarie all’ordine pubblico o al buon costume:
l’art. 158 c.c., nella sua attuale formulazione, fornisce alcune indicazioni più precise, ma limitatamente al rapporto
genitori-figli. Alla luce di tale disposizione, si possono tuttavia ricostruire in modo più generale i limiti
dell’intervento del giudice. È evidente l’impossibilità di modificare o integrare l’accordo, ma semmai soltanto di
rifiutarlo. Ma ciò nell’interesse del minore. E per i rapporti tra i coniugi? Il tribunale dovrebbe controllare la
legittimità del procedimento nonché la libera manifestazione del consenso alla separazione, ma anche il contenuto
delle clausole indicate e recepite nel verbale dell’udienza presidenziale. È possibile un rifiuto nel caso di clausole
vessatorie, di posizioni di inferiorità di un coniuge verso l’altro? La risposta pare affermativa, ma solo in presenza di
clausole nulle appunto perché contrarie, nella specie, all’ordine pubblico, al buon costume o a norme imperative,
ove i coniugi abbiano cioè disposto in ordine a diritti indisponibili (…); in caso contrario si avrebbe un intervento
del giudice troppo penetrante, con pericoli per l’autonomia stessa della famiglia, senza che ciò sia giustificato da
alcuna previsione normativa. In tal senso, una rinuncia temporanea al mantenimento, pur se il coniuge non avesse
redditi propri, non potrebbe condurre di per sé al rifiuto dell’omologa (il rifiuto si giustificherebbe soltanto con una
rinuncia perpetua e irrevocabile)
(Dogliotti 1995, 14-15).
Se il controllo del tribunale deve essere di legittimità e pertanto non può essere diretto ad accertare
se sussistano o no in concreto giusti motivi di separazione, un controllo di merito è invece
possibile, rectius obbligatorio, sulle condizioni della separazione concernenti l’affidamento ed il
mantenimento dei figli:
la nuova formulazione dell’art.158 c.c. toglie ogni dubbio circa il peso e l’incidenza del controllo del giudice della
omologazione. Se il giudice può rifiutare l’omologazione, questo significa che il controllo deve essere pieno, esteso,
non limitato ad eventuale contrasto delle clausole con i principi di ordine pubblico, ma involgente anche il merito
delle pattuizioni, cioè il loro essere o non conformi all’interesse dei figli. (…) La separazione consensuale
omologata è fattispecie complessa nella quale il contenuto del regolamento concordato tra i coniugi, se trova la fonte
nel relativo accordo, acquista efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione. Il giudice
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può rifiutare l’omologazione se ritiene non conforme all’interesse dei figli la pattuizione che riguarda il loro
affidamento e il loro mantenimento. La possibilità di rifiuto trova la sua base nel diritto-dovere del giudice di
controllare la congruità delle pattuizioni all’interesse dei figli
(Cass. 13.2.1985, n. 1208, RN, 1985, 1185-1186; NGCC, 1985, I, 660-661; GC, 1985, I, 1656-1657).
Il tribunale può dunque legittimamente esercitare un controllo (positivo) di merito sulla sostanziale
rispondenza dell’accordo dei coniugi all’interesse della famiglia, fino al punto da rifiutarne
l’omologazione o esigerne la modificazione o richiedere l’aggiunta di altri, quando ritiene che
l’interesse della famiglia non sia adeguatamente salvaguardato dall’attuazione dei patti stipulati dai
coniugi.
Va a tal proposito ribadito che la separazione personale consensuale ha titolo nell’accordo dei
coniugi e tale carattere di atto di autonomia privata non viene sminuito dal controllo dell’autorità
giudiziaria, neppure quando tale controllo diventa più penetrante ed incisivo, fino a coinvolgere il
merito delle clausole contenute nell’accordo:
gli effetti della separazione consensuale trovano fonte primaria ed indefettibile nell’accordo espresso dai coniugi,
costituendo il provvedimento giudiziale – sotto l’aspetto strutturale – null’altro che una condizione legale di
efficacia (condicio iuris), specie con riferimento alla produzione degli effetti di natura personale conseguenti alla
separazione; ed infatti il provvedimento di omologazione non ha alcun rapporto diretto ed immediato con l’accordo
di separazione sotto il profilo sostanziale, in quanto le valutazioni del giudice non investono l’accordo in sé e per sé
considerato, ma sono funzionali, da un lato, a controllare la validità dell’iter procedimentale, e, dall’altro, a tutelare
l’interesse dei figli.
Pertanto, con riferimento agli accordi disciplinanti i rapporti tra coniugi, l’autonomia negoziale non risulta
sottoposta a limiti particolari. In questi casi, invece, il potere è attribuito alle parti, che lo esercitano nelle forme
della autonomia negoziale; le parti esercitano, insomma, un potere proprio e senza concorrenza con altri poteri.
Nella diversa ipotesi di accordi relativi all’affidamento ed al mantenimento dei figli, il potere di autonomia viene,
invece, sottoposto a penetranti limiti, funzionali alle esigenze di tutela dell’interesse dei figli medesimi. L’esistenza
di tali limiti, però, non esclude che, nella specie, gli accordi raggiunti tra i coniugi costituiscono, comunque,
esercizio di un potere di autonomia negoziale. Al riguardo è, infatti, innegabile che la salvaguardia delle esigenze
dei figli corrisponde ad un interesse proprio dei genitori, i quali, anche perché titolari della potestà sui figli minori,
tendono con l’indicata programmazione negoziale a completare e disciplinare il quadro dei rapporti del nucleo
familiare nel suo complesso, susseguenti alla separazione personale
(Doria 1994, 566-567).
È stato però rilevato come nella pratica spesso il giudizio di omologazione risulti quasi meramente
formale e del tutto insufficiente alla tutela di quegli interessi che il legislatore ha ritenuto
preminenti:
la pratica invalsa in molti tribunali ha svuotato di molto la rilevanza del giudizio di omologazione, ridotto molto
spesso a mera formalità e rientrante oramai nella cosiddetta giustizia dei timbri o “a stampone”. Raramente perciò il
Collegio, chiamato ad omologare i verbali di separazione consensuale, entra nel merito, verifica compiutamente la
rispondenza delle condizioni ai principi fondamentali della tutela della famiglia e dei figli. Il discorso fin qui fatto,
perciò, rischia di rimanere nella sfera della pura esercitazione teorica che la pratica, ogni giorno invece, supera e
forse avvilisce.
Vi è da dire peraltro che l’evoluzione della normativa in materia di separazione e divorzio e la previsione in essa dei
riti camerali (vedi divorzio congiunto) comporta, necessariamente , visto lo stato della giustizia civile, un controllo
più blando del tribunale, cosicché il giudice appare sempre più relegato ad una funzione notarile e sempre meno è
portato ad intervenire e controllare lasciando ampio margine alla autonomia dei coniugi che non sempre conduce ad
accordi in cui la dignità ed i diritti di ciascuno di loro e dei figli vengono compiutamente realizzati
(Vitalone 1990, 426-427).
3.2. Poteri sostitutivi del giudice.
Legislazione c.c. 158 – c.p.c. 711.
Bibliografia Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 - D’Anna 1985 - Zatti 1985 - Briguglio 1987
- Russo 1989 - Zatti 1989 - Jannuzzi 1990 - Vitalone 1990 - De Paola 1991 - Giunchi 1993 - Doria
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1994 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 - Russo
1997 - Ceccherini 1999 - Oberto 1999.
Con riferimento all’ampiezza dei poteri dei giudici in sede di omologazione, è ammessa senza
dubbio alcuno la possibilità del rifiuto dell’omologazione qualora il tribunale ritenga le condizioni
della separazione non conformi alla legge o in contrasto con gli interessi dei figli.
È lecito chiedersi, però, se il giudice - qualora il tribunale ritenga le condizioni della separazione
non conformi alla legge o in contrasto con gli interessi dei figli - debba limitarsi a negare
l’omologazione o possa anche modificare o integrare le clausole che ritiene non omologabili,
ovvero possa colmare eventuali lacune dell’accordo oppure inserire d’ufficio le clausole che egli
ritiene più opportune sostituendo così con proprie condizioni quelle che si è rifiutato di omologare.
Sotto l’imperio dell’abrogata disciplina trovava largo seguito in giurisprudenza l’opinione secondo
cui i poteri del collegio non dovevano intendersi limitati al mero controllo ma comprendevano
anche la facoltà di modificare le condizioni che non apparissero opportune o di sostituirle con altre
giudicate più conformi agli interessi superiori della famiglia:
il regime della separazione personale fra coniugi, anche per quanto riguarda l’affidamento della prole, coinvolgendo
interessi che trascendono quelli delle parti, può costituire oggetto di esplicazione della autonomia dei coniugi
separandi a condizione che intervenga l’approvazione del giudice, espressa nell’omologazione, con il conseguente
controllo anche di merito e con i poteri modificativi di quanto convenzionalmente stabilito
(Cass. 29.5.1971, n. 1619, RGI, 1971, Separazione dei coniugi, 112. Conf. Cass. 19.12.1956, n. 4458, GCM, 1956,
1539).
La tesi della giurisprudenza si fondava sull’affermazione che il decreto di omologazione non aveva
una semplice funzione di approvazione dell’accordo dei coniugi, ma era diretto ad accertare la
sussistenza delle condizioni previste dalla legge per la validità dei patti della separazione e che
questi fossero conclusi nell’effettivo interesse della famiglia e della prole.
Tale corrente di pensiero era vivacemente contrastata in dottrina rilevandosi che essa non trovava
alcun fondamento legislativo e che dai principi generali non era consentito dedurre che all’attività di
mero controllo dell’autorità giudiziale si accompagnasse un potere sostitutivo della volontà delle
parti.
Il legislatore della riforma ha quindi definitivamente fatto chiarezza sul punto, eliminando con la
nuova disciplina ogni incertezza:
il 2° comma dell’art. 158 C. Civ. precisa infatti: “quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al
mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi, il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le
modificazioni da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato
l’omologazione”.
Al giudice è dunque consentito, nell’interesse superiore dei figli, soltanto indicare ai coniugi quali modificazioni
devono essere apportate agli accordi relativi all’affidamento ed al mantenimento della prole: se i coniugi non vi si
adeguano il tribunale può rifiutare l’omologazione. Non ha altro potere. Segnatamente non può più svolgere
quell’attività sostitutiva della volontà delle parti in passato rivendicata da un deciso indirizzo giurisprudenziale,
ancorché tesa alla tutela dell’interesse superiore della famiglia.
La disposizione de qua è opportuna giacché l’intervento autoritario del giudice modificativo, o addirittura
sostitutivo, della volontà delle parti era in stridente contraddizione con la natura del negozio di separazione, che è
quella di un atto di privata autonomia, sia pur destinato ad incidere in un’area giuridica, qual è quella del diritto di
famiglia, largamente sottratta alla disponibilità delle parti.
In realtà, il compito del giudice, attraverso l’omologazione, che è mera attività di controllo, è quello di impedire che
sia posto in essere un accordo contrario alla legge, non quello di far sì che si realizzi necessariamente un negozio ad
essa conforme, anche se in contrasto con la volontà delle parti. In tale ipotesi si sarebbe fuori dallo schema della
separazione consensuale che, come appare ovvio, è fondata appunto sul consenso. La norma in esame ha in realtà
esplicitato, molto opportunamente, un significato normativo che già poteva cogliersi abbastanza facilmente nel testo
previgente
(Briguglio 1987, 133-134).
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Il momento essenziale della separazione consensuale è rappresentato dall’accordo intervenuto tra i
coniugi il quale è e rimane un atto di autonomia privata; al giudice non spetta alcun potere di
determinazione del contenuto dell’accordo: egli, in presenza di condizioni non ritenute conformi
alla legge o all’interesse dei figli, deve solo riconvocare i coniugi ed indicare loro le modifiche da
apportare al loro accordo:
è giusto, infatti, che i coniugi sappiano per quali motivi viene negata l’omologazione e sappiano, altresì, attraverso
quali integrazioni o modifiche degli accordi l’omologazione potrà essere possibile
(D’Anna 1984, 598).
Se i coniugi si adeguano ai suggerimenti del giudice, questi potrà omologare l’accordo; in caso
contrario, il giudice “può rifiutare allo stato l’omologazione” (art. 158, 2° co., c.c.). In proposito, è
stata sottolineata la sconvenienza del linguaggio legislativo:
l’uso del verbo potere è erroneo e si spiega con l’ormai consueta superficialità linguistica del Legislatore. È di tutta
evidenza che avrebbe dovuto adoperarsi il verbo dovere, non essendo ammissibile che al giudice possa essere
consentito di omologare un accordo che si rivela in contrasto con gli interessi dei figli, specie dopo che sono state
indicate ai coniugi le modifiche da adottare ritenute necessarie, salvo che i coniugi non abbiano fornito gli opportuni
chiarimenti sul loro intento, idonei a superare le perplessità manifestate dal Tribunale e che avevano determinato la
riconvocazione delle parti dinanzi al Presidente
(Scardulla 1996, 96).
La Cassazione si è espressa recentemente in senso conforme, ovvero negando in capo al giudice
dell’omologazione ogni potere sostitutivo o integrativo, avallando così le conclusioni cui è
pervenuta la dottrina prevalente:
il giudice, invero, se non può di sua iniziativa mutare le condizioni della separazione consensuale, ha il potere di
indicare ai coniugi le modifiche da adottare nell’interesse dei figli ed in casi di inidonea soluzione può soltanto allo
stato rifiutare l’omologazione (art. 158 comma 2° c.c.)
(Cass. 5.1.1984, n. 14, RN, 1984, 377).
Il giudice dell’omologazione è dunque privo di qualsivoglia potere discrezionale; si tratta, in realtà,
di un potere vincolato dall’accordo dei coniugi:
la posizione del giudice è del tutto peculiare: tale posizione è vincolata, e le parti hanno un preciso diritto ad
ottenere una pronuncia giudiziale conforme alle proprie determinazioni. L’eterodeterminazione delle “condizioni” di
separazione può avvenire solo quando vi sia disaccordo delle parti (c.d. separazione giudiziale, che può essere più
esattamente definita come separazione con determinazioni eteronome); si tratta perciò di un potere in un certo senso
subordinato o succedaneo, di carattere eventuale, che si pone soltanto in difetto dell’accordo delle parti. (…) Risulta
che il profilo processuale e quello sostanziale si intrecciano in un groviglio difficilmente dipanabile; ma appare
chiaramente che nella specie non opera soltanto il generale principio dell’obbligo del giudice di conformarsi alle
domande delle parti, ma vi è qualcosa di più: il diritto delle parti di ottenere una forma giudiziale conforme alle
proprie determinazioni. La forma giudiziale, pertanto, non costituisce determinazione eteronoma, ma semplicemente
la forma con la quale, nell’ordinamento, acquistano efficacia questi particolari accordi delle parti. (…) La posizione
soggettiva delle parti non è solo quella, propria di ogni cittadino, di ottenere una pronuncia giudiziale sulle proprie
domande, bensì quella, qualificata ed attinente alla sfera delle libertà personali, di ottenere un provvedimento
giudiziale che attribuisce efficacia alle determinazioni della propria autonomia privata (accordo di separazione,
accordo di divorzio).
La posizione del giudice è, quindi, per così dire, doppiamente vincolata: egli agisce come organo della funzione
giurisdizionale e come espressione di un dovere di attribuire efficacia a certi accordi che la legge rimette alla
autonomia delle parti.
La particolare posizione del giudice è bene espressa dal potere-dovere di omologazione
(Russo 1997, 1049 ss.).
In conclusione, l’accordo dei coniugi, in quanto espressione della loro libera volontà ed esercizio
dell’autonomia privata, non può essere modificato dal giudice. Quest’ultimo ha solo in dovere di
indicare le modifiche da apportare all’accordo di separazione, invitando i coniugi a trovare una
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soluzione diversa da quella concordata; se i coniugi non aderiscono alle modifiche richieste, il
giudice non ha alcun potere sostitutivo ma solo il potere-dovere di rifiutare l’omologazione.
4. Gli accordi non omologati.
Legislazione c.c. 158, 160 – c.p.c. 711.
Bibliografia Zatti 1982 - D’Anna 1984 - Bianca 1985 - D’Anna 1985 - Finocchiaro 1985 - Zatti
1985 - Calò 1986 - Briguglio 1987 - Marti 1989 - Russo 1989 - Zatti 1989 - Jannuzzi 1990 Vitalone 1990 - Zoppini 1990 - De Paola 1991 - Giorgianni 1992 - Giunchi 1993 - Ferrari 1994 Doria 1994 - Morace Pinelli 1994 - Conte 1995 - Metitieri 1995 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996
- Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Miccoli 1997 - Russo 1997 - Ceccherini 1999 - Oberto 1999.
L’omologazione costituisce una condizione legale di efficacia dell’accordo di separazione il quale,
pertanto, non produce effetti finché non sia stato omologato.
Invero, è pacifico che in assenza dell’omologazione non si produce l’effetto tipico dell’accordo,
ovvero non si instaura lo status di coniugi legalmente separati:
è chiaro che nessun rilievo può assumere, per quanto attiene all’instaurazione dello status di coniugi legalmente
separati, un eventuale accordo di separazione non omologato, posto che qui difetta la condicio iuris rappresentata
dal provvedimento del tribunale. Condizione, questa, per il cui avverarsi è necessario, tra l’altro, il rispetto della
procedura prevista: va dunque escluso che il consenso alla separazione possa essere espresso a soggetto diverso dal
presidente del tribunale, prima di essere sottoposto ad omologa. Si pensi all’ipotesi in cui le parti volessero
dichiarare al notaio l’intenzione di separarsi, incaricando quest’ultimo di presentare al tribunale l’atto per
l’omologazione
(Oberto 1999, 326).
La dottrina e la giurisprudenza sono però divise circa l’efficacia degli accordi non omologati, e più
precisamente delle condizioni della separazione non omologate perché convenute al di fuori del
verbale di separazione. È ben possibile, infatti, la conclusione di accordi a latere dell’accordo di
separazione e non trasfusi nel relativo verbale.
In sostanza, ci si chiede se sia subordinata al provvedimento del giudice, oltre al conseguimento
dello status di coniuge legalmente separato, anche l’efficacia di tutte le condizioni della separazione
ovvero se queste possano o meno ritenersi efficaci e vincolanti per i coniugi pur in assenza del
decreto di omologazione; ci si chiede, inoltre, se i coniugi possano modificare ad libitum, con
accordi non sottoposti al controllo del tribunale, i patti precedentemente assunti e regolarmente
omologati.
In passato la Cassazione si è espressa in senso assai restrittivo, ritenendo del tutto inefficaci gli
accordi non omologati, in qualunque momento intervenuti ed indipendentemente dal loro contenuto:
è da ritenere che se si accoglie la tesi innanzi svolta non è possibile riconoscere efficacia giuridica tra i coniugi a
condizioni della separazione consensuale diverse da quelle consacrate nel relativo verbale omologato del tribunale,
sulle quali non si è potuto svolgere l’attività di controllo per legge devoluta al giudice in sede di giurisdizione
volontaria (art. 711 c.p.c.).
Non può quindi seguirsi la distinzione accolta dall’impugnata sentenza tra condizioni della separazione consensuale
contenute nel ricorso per separazione e non riprodotte nel verbale omologato (che sarebbero inefficaci) e condizioni
non contenute nel ricorso ed estranee al procedimento di separazione consensuale (che sarebbero invece efficaci). In
entrambi i casi, invece, ciò che rileva è il dato obiettivo che si tratta di condizioni le quali, non essendo state
riprodotte dai coniugi nel relativo verbale, non sono state sottoposte al controllo del giudice in sede di omologazione
e sono pertanto prive di efficacia giuridica.
Non ha pregio quindi la tesi sostenuta dalla difesa della resistente, secondo cui nulla vieta ai coniugi di concordare a
latere altri patti o di modificare i precedenti senza che sia necessario rivolgersi al tribunale.
Essa non considera che fin quando i coniugi sono d’accordo, non si pone neppure il problema proposto il quale si
presenta in tutta la sua ampiezza quando, cessato l’accordo, i coniugi decidono di sottoporsi al regime della
separazione consensuale, nel quale le condizioni della separazione (senza possibilità di distinzione alcuna) sono tutte
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soggette al controllo giurisdizionale ed acquistano quindi efficacia giuridica soltanto nel caso che quel controllo si
sia esaurito positivamente
(Cass. 5.1.1984, n. 14, RN, 1984, 377).
La più recente giurisprudenza di legittimità, pur non negando validità alle pattuizioni anteriori o
contemporanee al verbale di omologazione ma in esso non contenute, tuttavia riconosce loro una
efficacia in qualche modo limitata o, per così dire, minore.
Le pattuizioni non omologate antecedenti o coeve alla separazione, per poter produrre gli effetti
voluti dalle parti pur prescindendo dall’intervento del giudice, non devono, in primo luogo, superare
il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c.:
il secondo profilo di censura attiene alla asserita nullità del negozio per illiceità della causa e dei motivi, essendosi
con esso perseguita – ad avviso del ricorrente – la finalità di addivenire ad una separazione consensuale a condizioni
diverse da quelle soggette al vaglio dell’autorità giudiziaria preposta all’omologazione, ed implicanti un’attribuzione
patrimoniale a titolo gratuito costituente una donazione fra coniugi, allora vietata ai sensi dell’art. 781 cod. civ.
Anche tali censure sono destituite di fondamento. Il problema della liceità del negozio ha formato oggetto di
appropriata indagine da parte della Corte del merito, la quale lo ha risolto correttamente sul rilievo della libertà delle
parti di regolare i loro rapporti patrimoniali determinando, anche al di fuori della omologazione del Tribunale,
l’entità delle prestazioni relative al mantenimento della moglie. Nessun errore giuridico si annida in tali affermazioni
poiché non può disconoscersi il diritto di ciascuno dei coniugi di condizionare il proprio consenso alla separazione
ad un soddisfacente assetto dei propri interessi economici, sempre che in tal modo non si realizzi una lesione di
diritti inderogabili.
Nella fattispecie, peraltro, il giudizio di merito non ha evidenziato il superamento dei limiti della inderogabilità,
posto che la prestazione cui il Mattera si era obbligato era rimasta contenuta nell’ambito di un’obbligazione di
mantenimento adeguata alla capacità economica dei due coniugi. Né può avere rilevanza che le condizioni
economiche previste per la separazione consensuale non siano state trasfuse nel verbale redatto dinanzi al Presidente
del Tribunale e siano state perciò sottratte alla valutazione del giudice che provvide alla omologazione, poiché ad
esse deve essere riconosciuta validità, anche senza omologazione del Tribunale, nei limiti in cui non siano lesive
delle norme relative al mantenimento od agli alimenti
(Cass. 5.7.1984, n. 3940, DFP, 1984, 935).
La rispondenza ai principi dettati dall’art. 160 c.c. è però elemento necessario ma non sufficiente
per poter riconoscere validità alle pattuizioni in esame; infatti,
è innegabile che si toglierebbe ogni senso ad un istituto di diritto positivo, quale è l’omologazione, se si ammettesse
che anche le pattuizioni anteriori o contemporanee, in esse non tradotte, possono in ogni caso avere autonoma e
prevalente efficacia, col solo limite anzidetto dell’inderogabilità ex art. 160
(Cass. 22.1.1994, n. 657, VN, 1995, 133; NGCC, 1994, I, 713).
Le intese non omologate, dunque, devono collocarsi, rispetto all’accordo omologato, in posizione di
“non interferenza” oppure in posizione di conclamata e incontestabile maggiore rispondenza
all’interesse tutelato con il controllo di cui all’art. 158 c.c.:
con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 158 c.c., nonché insufficienza e
contraddittorietà di motivazione, rilevando che, proprio perché erano state omologate dal Tribunale le condizioni di
mantenimento della moglie e dei figli stabilite nel ricorso per separazione consensuale, non poteva non essere
riconosciuta legittima e vincolante anche la pattuizione aggiuntiva, stipulata dai coniugi collateralmente alla
sottoscrizione del ricorso, perché essa, sebbene non assoggettata ad omologazione, incrementava l’assegno dovuto
dal Figari e quindi assicurava condizioni di mantenimento più favorevoli. Unica differenza, secondo la ricorrente, è
che le pattuizioni omologate sono, ex se, titolo esecutivo, mentre quella in esame, non assoggettata ad omologa,
richiede, in quanto contestata, un accertamento giudiziale. In ogni caso non rileva, secondo la ricorrente, che le
pattuizioni non assoggettate ad omologazione siano anteriori o successive rispetto all’intervento del Tribunale ex art.
158 c.c., una volta che esse non comportino condizioni deteriori per l’interesse dei figli, che è il parametro al quale
la norma fa riferimento. Il motivo è fondato e va accolto
(Cass. 24.2.1993, n. 2270, DFP, 1994, 555; GC, 1994, I, 213).
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Le pattuizioni collaterali all’accordo omologato devono, in altri termini, risultare più vantaggiose
rispetto all’accordo omologato; solo così esse possono essere considerate libera e non illecita
manifestazione dell’autonomia negoziale familiare:
a parte il problema di fatto, peraltro estraneo al caso di specie, se il mancato recepimento di esse nell’accordo
sottoposto all’omologazione esprima eventualmente la volontà di abbandonarle, è certo che per esse si presentano
minori ragioni di riconoscimento dell’autonomia privata rispetto a quanto avviene per le pattuizioni successive.
Queste, infatti, (…) rispondono ad una apprezzabile esigenza di messa a punto di singoli aspetti dell’accordo anche
in relazione all’esperienza fattane, mentre le clausole già stipulate, ma non esteriorizzate in sede di omologazione,
possono addirittura generare il sospetto di essere rimaste “riservate” per non creare ostacolo all’esito positivo del
controllo.
Ritiene il Collegio che ciò non consenta di negare senz’altro validità a tale ipotesi di clausole, ma le ponga su un
piano diverso rispetto a quelle successive all’omologazione: nel senso che, mentre queste ultime possono incidere
sull’accordo omologato (sia pure in aspetti particolari) e trovano limite soltanto nel canone generale di
inderogabilità di cui all’art. 160 c.c., invece le clausole anteriori, non trasfuse nell’accordo omologato, non possono
incidere su questo con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispondenza
all’interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all’art. 158 c.c. In questo senso potrebbe riconoscersi
validità alle clausole anteriori concernenti un aspetto poi non preso in considerazione dall’accordo omologato,
sicuramente compatibili con questo e non modificative della sua sostanza e dei suoi equilibri; oppure a clausole
meramente specificative dell’accordo stesso, non portate al controllo proprio per il loro carattere di disciplina
“secondaria”.
Classica ipotesi di possibile riconoscimento è, infine, quella, non infrequente nella pratica e ricorrente nel caso di
specie, dell’assegno di mantenimento preconcordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione: in
questo caso, essendo di matematica evidenza la maggiore vantaggiosità della pattuizione a latere in rapporto
all’interesse protetto dalla norma e, quindi, la tutelabilità di essa in quanto libera manifestazione di autonomia. Altro
non sarebbe, quindi, se non inutile sacrificio di tale interesse il disconoscimento, in tal caso, della volontà
liberamente manifestata dalle parti: un sacrificio che risponderebbe ad una vecchia concezione del controllo
pubblico del diritto privato e che non terrebbe conto dei valori di autodeterminazione e di negozialità che anche nel
diritto di famiglia si vanno affacciando
(Cass. 24.2.1993, n. 2270, DFP, 1994, 558-559; GC, 1994, I, 215. Conf. Cass. 18.9.1997, n. 9287, VN, 1998, 217;
Cass. 28.7.1997, n. 7029, RGI, 1997, Separazione dei coniugi, 137; Cass. 22.1.1994, n. 657, VN, 1995, 126; NGCC,
1994, I, 710).
Sarebbe dunque contraddittorio e non rispondente alla ratio della norma negare validità ad accordi
più vantaggiosi solo perché non sottoposti al controllo giudiziale. Pertanto, come ha sintetizzato una
recente dottrina,
sembra preferibile interpretare l’attuale trend della Cassazione non tanto come inteso a potenziare il controllo del
giudice attribuendo all’accordo puro e semplice un’efficacia claudicante e limitata sino a che non se ne accerti la
contrarietà a patti omologati, quanto piuttosto a sottolineare che qualunque manifestazione di autonomia dei coniugi
è valida ed efficace ma solamente se, come poi accade nella maggior parte dei casi, tuteli in maniera più intensa
l’interesse protetto dalle norme che qui vengono in considerazione e cioè quello del soggetto più debole sotto il
profilo economico (coniuge che non abbia adeguati redditi propri, figli minori)
(Ceccherini 1996, 393).
In verità, l’orientamento della Cassazione, che riconosce validità ed efficacia ai patti precedenti o
contemporanei all’omologazione ma non formalizzati nell’accordo successivamente omologato,
non è ritenuto pienamente convincente, pur presentando innegabili vantaggi dal punto di vista
pratico:
se pure questa statuizione consente di mantenere in vita quei negozi che nella prassi vengono di frequente stipulati, a
latere dell’accordo omologato, migliorativi dei patti in esso contenuti, al fine di evitare imposizioni fiscali,
riteniamo di non poter condividere la pronuncia della Suprema Corte.
Ci sembra infatti incongruo che la valutazione del carattere migliorativo di tali pattuizioni spetti ai coniugi –
soprattutto in presenza di prole – e non al Tribunale, che solo può garantire la tutela del pubblico interesse
perseguito dall’art. 158 c.c.
Non sempre, infatti, il carattere migliorativo risulta evidente come nell’ipotesi descritta dalla sentenza citata
(determinazione di un assegno di mantenimento di importo superiore a quello descritto nel verbale omologato), ma
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può essere soltanto apparente. Si pensi, ad esempio, allo scambio della casa familiare con un’altra, sita in zona più
prestigiosa, ma vetusta e/o priva di comfort
(Morace Pinelli 1994, 308).
In altri termini, i criteri della “non interferenza” e della “conclamata e incontestabile maggior
rispondenza rispetto all’interesse tutelato”, enunciati dalla Cassazione (Cass. 22.1.1994, n. 657, VN,
1995, 126; NGCC, 1994, I, 710), oltre a non avere un fondamento normativo (Oberto 1999, 370;
Oberto 2001, 788), nella pratica possono essere difficilmente valutabili – e perciò pericolosi - ben
potendo pattuizioni apparentemente più vantaggiose nascondere situazioni non conformi alla legge.
Pertanto, in un campo, quale quello dei rapporti familiari, in cui è facile che si verifichino abusi e
prevaricazioni soprattutto da parte del coniuge più forte economicamente a danno dell’altro coniuge
e dei figli, diviene irrinunciabile il controllo del tribunale
che elimina in radice l’insorgenza di contenziosi che trovano la loro origine in scritture la cui interpretazione può
essere equivoca, proprio perché la formulazione dell’accordo resta nella sfera privata dei contraenti, senza ricevere
l’apporto chiarificatore e di verifica del magistrato in un campo, quale quello dei rapporti familiari, che facilmente si
presta a vessazione ed abusi
(Trib. Genova 2.6.1990, GM, 1992, I, 59).
In merito agli accordi modificativi o integrativi di quelli contenuti nel verbale di separazione
consensuale omologato dal tribunale, la Corte di Cassazione in una nota sentenza ne ha stabilito la
validità e l’efficacia senza necessità di alcun controllo giudiziale, purché non siano lesivi dei diritti
inderogabili nascenti dal matrimonio:
i patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed efficaci,
anche senza la omologazione del tribunale, qualora essi non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti,
riconducibile ad diritto-dovere di assistenza (art. 143 c.c.), avente natura inderogabile (art. 160 c.c.), ma la parte che
lamenta tale lesione per il superamento dei limiti della derogabilità, che non è ravvisabile quando tale diritto sia
maggiormente tutelato, può provocare il relativo accertamento giudiziale (nella specie: il marito aveva convenuto di
corrispondere alla moglie consensualmente separata una somma mensile doppia rispetto a quella fissata in sede di
omologazione a titolo di mantenimento, ma successivamente aveva dedotto la nullità di tale pattuizione; il giudice
del merito aveva ritenuto valido il patto modificativo e la suprema corte ha confermato tale pronuncia)
(Cass. 22.4.1982, n. 2481, RGI, 1982, Separazione dei coniugi, 78).
In altri termini, a parere della Suprema Corte, dette convenzioni successive, pur modificando il
contenuto delle clausole originarie, sono perfettamente valide anche se non hanno formato oggetto
di ulteriore esame ed omologazione da parte del tribunale a condizione che non alterino gli accordi
precedenti in senso peggiorativo.
La Suprema Corte in recenti pronunce ha ribadito la validità di pattuizioni successive all’accordo
omologato, senza che ciò venga a privare la parte “debole” del rapporto di una adeguata tutela
giuridica:
nella realtà delle cose, le parti, se d’accordo, porranno in essere la pattuizione modificativa e la attueranno in
concreto, e certo non può dirsi, come è stato da taluno sostenuto, che in conseguenza di ciò la separazione muta
titolo, trasformandosi da consensuale omologata in consensuale di fatto. La separazione resta “omologata” e il patto
modificativo di un aspetto particolare trova fondamento nell’art. 1322 c.c., essendo apprezzabile la possibilità che
l’accordo originario sia adeguato da successive messe a punto affidate alle intese e al senso di responsabilità dei
coniugi. Se uno di questi si convinca poi che la modificazione urta nel limite più volte ricordato dell’art. 160 c.c.,
potrà portarla davanti al giudice con un ordinario processo contenzioso e chiedere l’accertamento negativo della sua
validità; ma più spesso, poiché il patto modificativo così stipulato non ha efficacia di titolo esecutivo, la parte
obbligata si asterrà dall’adempimento e sarà l’altra a dover adire il giudice per l’accertamento della validità del
patto. Comunque la questione pervenga al giudice, certo è che la parte, la quale nega la validità del patto
modificativo, non potrà limitarsi a denunciare la diversità di esso rispetto all’accordo omologato (perché questo
aspetto è già superato dalla rilevanza che si è riconosciuta all’autonomia delle parti), ma dovrà dedurre che la
modificazione varca il limite di derogabilità consentito dal citato art. 160 c.c. Insomma, un controllo giurisdizionale
resta anche secondo la costruzione qui indicata, pur se operante soltanto in forma virtuale attraverso il processo
contenzioso
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(Cass. 24.2.1993, n. 2270, DFP, 1994, 558; GC, 1994, I, 215. Conf. Cass. 22.1.1994, n. 657, VN, 1995, 126; NGCC,
1994, I, 710; App. Brescia 16.4.1987, GM, 1987, I, 843; Pret. Cavalese 21.1.1987, GM, 1987, I, 843).
I patti modificativi – che possono essere giustificati da un mutamento della situazione di fatto ma
anche dall’apprezzabile esigenza di messa a punto di singoli aspetti dell’accordo alla luce
dell’esperienza fattane - sono dunque considerati lecita espressione dell’autonomia contrattuale dei
coniugi (art. 1322 c.c.) essendo pienamente rispondente ai principi del diritto di famiglia il fatto che
gli accordi fra i coniugi separati siano anzitutto governabili dall’intesa dei medesimi; l’unico limite
che i coniugi incontrano consiste nel canone generale di inderogabilità di cui all’art. 160 c.c.
5. Clausole di carattere non patrimoniale inserite nei contratti della crisi coniugale.
Legislazione c.c. 158, 160 – c.p.c. 711.
Bibliografia Zatti 1982 - Bianca 1985 - Briguglio 1987 - De Paola 1991 - Metitieri 1995 - Dogliotti
1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 - Ceccherini 1999 - Oberto 1999 – Oberto
1999a.
Nella prassi, tra le clausole di contenuto non patrimoniale più frequentemente ricorrenti negli
accordi diretti a disciplinare gli effetti della crisi coniugale vanno annoverate quelle dirette a
regolamentare i rapporti tra gli ex coniugi ovvero le relazioni dell’uno e dell’altro coniuge ed i terzi:
le intese di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta (a differenza dei contratti di convivenza)
trovano, invero, un’espressa sanzione nella normativa vigente, che affida ai coniugi il potere di regolare –
nell’ambito di un negozio composto di aspetti personali (si pensi, in primis, alla reciproca liberazione dal dovere di
coabitazione, nella separazione consensuale o nella liberazione dal vincolo da precedente matrimonio, nel divorzio),
così come patrimoniali – le proprie relazioni nella maniera ritenuta più opportuna, redigendo una lista di
“condizioni” destinate a disciplinare i rapporti futuri. Dunque, (…) nulla esclude a priori che (…) tale elenco di
condizioni possa anche contenere un vero e proprio “galateo per separati (o divorziati)”, teso a disciplinare anche i
più minuziosi aspetti del comportamento dei protagonisti dell’intesa negoziale
(Oberto 1999a, 342-343).
Tra le “condizioni” della separazione o del divorzio a firme congiunte spesso viene inserito il
divieto di frequentare determinate persone non gradite all’altro o di instaurare una convivenza
more uxorio.
La validità di siffatte clausole è fortemente dubbia in quanto esse pongono limiti forse eccessivi alla
autonomia personale in un settore – quale quello delle relazioni affettive e sociali - che, invece,
dovrebbe essere contraddistinto dalle più assolute libertà e discrezionalità:
sotto questo profilo non vi è dubbio che, in linea di principio, l’ordinamento non possa tollerare una compressione
della libertà della persona in tutte quelle che sono le manifestazioni della propria socialità: dalla mera
frequentazione, all’amicizia, alla sessualità, alla condivisione di una casa, alla unione delle vite. Dunque, nessuno
spazio può consentirsi ad impegni quali, per esempio, quello di non iniziare alcuna forma di convivenza (in
generale, così come con una persona determinata), ovvero di mantenersi in uno stato di “fedeltà postconiugale”, o
anche solo di non frequentare determinate persone. Parimenti contrarie all’ordine pubblico dovrebbero ritenersi
quelle clausole che tendessero ad imporre il rispetto di tali obblighi per via indiretta, mediante la pattuizione di
penali (per esempio: ti darò cento se inizierò una convivenza more uxorio). Proprio come si è rilevato nel campo dei
contratti di convivenza, previsioni di questo genere si porrebbero in contrasto con il principio d’ordine pubblico che
vuole salvaguardata la libertà personale, specie nelle manifestazioni di socialità ed affettività, come è del resto
indirettamente confermato dall’art. 79 c.c.
(Oberto 1999a, 343).
Dunque non può ammettersi l’inserimento nei contratti della crisi coniugale di clausole tali da
incidere restrittivamente sulla libertà personale, considerata un diritto inviolabile della persona
costituzionalmente garantito (art. 13 Cost.).
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Spesso l’instaurazione di una convivenza more uxorio viene configurata alla stregua di una
condizione risolutiva del diritto all’assegno o ad altra prestazione patrimoniale.
In proposito si ritiene che la condizione di cui si discute sia illecita - e quindi tale da causare la
nullità dell’accordo alla luce del ricordato principio costituzionale - solo quando sia diretta
esclusivamente o principalmente a limitare la libertà personale degli ex coniugi.
Viceversa, nessun motivo di invalidità può riscontrarsi qualora il venir meno del diritto all’assegno
o ad altra prestazione patrimoniale sia determinato dall’instaurarsi di una convivenza caratterizzata
da determinati requisiti e precisamente stabilità e serietà, costanza delle contribuzioni effettuate dal
partner e loro idoneità ad assicurare il mantenimento del beneficiario.
In tal caso, infatti, la condizione risolutiva non è diretta a “punire” l’ex coniuge per il fatto di aver
instaurato una nuova relazione affettiva, ma esprime la volontà dei coniugi di far cessare il diritto (e
il corrispettivo obbligo) all’assegno o ad altra prestazione patrimoniale qualora il coniuge
beneficiario non ne abbia più bisogno in quanto vi è qualcun altro che provvede alle sue necessità
materiali:
viene da chiedere se sia valido il patto che condiziona risolutivamente la corresponsione dell’assegno ad una
eventuale convivenza di fatto – con altra persona – del coniuge economicamente debole, beneficiario dell’assegno.
Secondo i principi generali del nostro ordinamento una clausola di questo tipo dovrebbe essere illecita perché
limitativa della libertà personale; se venisse formulata non come condizione, ma come termine finale l’ostacolo della
illiceità dovrebbe essere superato. In altri termini, basterebbe sostituire alla congiunzione condizionante “purché”,
l’altra con significato puramente temporale “finché”. È il criterio adottato dal legislatore nel diritto successorio: è
illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori, ma è valido il legato di pensione o altra prestazione
periodica per il tempo del celibato o della vedovanza (art. 636 c.c.)
(Metitieri 1995, 1172).
In sostanza, la validità della clausola dipende dalla sua configurazione alla stregua di un termine
anziché di una condizione.
Siffatta conclusione è pienamente conforme all’orientamento della giurisprudenza secondo cui
l’obbligo di mantenimento cessa – o almeno diventa quiescente - in presenza di una convivenza
more uxorio dell’altro coniuge. Si ritiene, infatti, che concorrono a formare la situazione reddituale
del coniuge avente diritto all'assegno anche eventuali elargizioni non meramente saltuarie, ma
continuative e protraentisi nel tempo, ricevute dal terzo con il quale lo stesso coniuge conviva e che
comportino la piena autonomia economica di quest’ultimo:
pur nella consapevolezza dell’assoluta mancanza di un dato normativo sul punto (è noto che la c.d. “famiglia di
fatto” trova l’unico riferimento normativo nell’art. 317-bis c.c., che disciplina l’esercizio della potestà dei genitori
conviventi sul figlio naturale), non pare possa affermarsi che la stabile convivenza more uxorio debba ritenersi un
fatto irrilevante sotto il profilo giuridico.
Significativo è il riconoscimento della famiglia come formazione sociale effettuato dall’art. 2 cost.; estremamente
interessanti appaiono alcune linee di tendenza, pur non univoche, che da un lato hanno visto attribuire all’ex
convivente affidatario del figlio naturale, il godimento della casa già familiare della quale sia comproprietario, da
parte di taluni giudici di merito, dall’altro hanno affermato che la prestazione del sostentamento da parte del
convivente more uxorio ponga in stato di quiescenza l’obbligo alimentare del coniuge, tenuto ex lege al soccorso,
facendola rivivere in caso di sopravvenuta mancanza di somministrazione da parte del convivente, sul presupposto
della qualificazione della famiglia di fatto quale formazione sociale, finalizzata alla convivenza dei partecipanti,
legati da vincoli di solidarietà e affetto, dal quale conseguirebbe un dovere vincolante secondo l’etica morale e
sociale vigente e quindi, in definitiva, una obbligazione materiale
(Trib. Genova 2.6.1990, GM, 1992, 60).
Sovente fra gli obblighi assunti dai coniugi relativamente alla condotta postmatrimoniale vi è quello
di non recarsi o soggiornare in un dato luogo, prevalentemente nella città in cui risiede l’ex
coniuge.
I dubbi sulla validità di un accordo del genere sono i medesimi visti in relazione all’obbligo di non
frequentare una determinata persona o di instaurare una convivenza more uxorio:
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la questione sarà, ancora una volta, quella di vedere a quali condizioni il comportamento cui la parte si obbliga si
ponga in conflitto con quel concetto di libertà personale supposto dai canoni socialmente accettati di ordine
pubblico. E se, in base a questi ultimi, il “confino” volontario di un soggetto in un certo luogo non appare
ammissibile, altrettanto è a dirsi per un “divieto di soggiorno” in un determinato posto. Anche in questo caso, infatti,
viene a restringersi quella libertà di movimento e di stabilimento che non può trovare limitazioni di sorta, essendo
sicuramente salvaguardata, anche sotto questo profilo, dai canoni dell’ordine pubblico.
Diverso appare invece il discorso in relazione a quei vincoli che, non esercitando influenza (o comunque
un’influenza apprezzabile) sulla libertà di movimento e soggiorno dei soggetti, tendono esclusivamente a garantire
la tranquillità e la serenità futura delle parti
(Oberto 1999a, 349).
In ultimo, perfettamente leciti sembrano essere quegli accordi, dal contenuto invero alquanto
generico, in forza dei quali ciascuno dei coniugi separandi o divorziandi si impegna a non “dare
fastidio” all’altro:
specie nelle crisi coniugali più contrastate, è sovente molto chiaro alle parti che cosa significhi “dare fastidio”: gli
atti giudiziari civili e penali traboccano di doglianze relative ad episodi quali telefonate “mute” (o, all’opposto, sin
troppo “esplicite”), magari in ore notturne, lettere anonime, pedinamenti, diffusione di pettegolezzi sul conto
dell’altro, fino a giungere alle forme di persecuzione più clamorose, quali l’affissione di manifesti che squadernano
in piazza affari riservati di famiglia, o il rilascio di interviste, magari condite di particolari piccanti (specie ove si
tratti di personaggi famosi), e così via. In molti di questi casi non sembrano venire in considerazione principi di
carattere inderogabile e dunque l’impegno all’uopo assunto ad evitare comportamenti del genere (impegno che
sovente coincide, tra l’altro, con l’obbligo di astenersi da comportamenti che potrebbero risultare anche penalmente
rilevanti) deve ritenersi valido e vincolante. (…) L’applicazione in via analogica alla materia del negozio di
separazione della normativa contrattuale consentirà alle parti di garantire il rispetto delle condizioni così concordate
attraverso la fissazione di clausole penali che impongano, per esempio, il pagamento d’una somma di denaro in
relazione a ciascuno degli “episodi di costume” (rectius: di malcostume) sopra individuati
(Oberto 1999a, 350).
5.1. Gli accordi sull’uso del cognome.
Legislazione c.c. 143 bis - 156 bis, 158 – c.p.c. 711 - l. divorzio 5.
Bibliografia Finocchiaro e Finocchiaro 1979 - Zatti 1982 - Bianca 1985 - Briguglio 1987 - De
Paola 1991 - Metitieri 1995 - Dogliotti 1995 - Ceccherini 1996 - Scardulla 1996 - Angeloni 1997 Ceccherini 1999 - Oberto 1999 – Oberto 1999a.
Con la celebrazione del matrimonio la moglie aggiunge il proprio cognome a quello del marito e lo
conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze (art. 143 bis c.c.). Il diritto della
moglie al cognome del marito è un riflesso diretto dell’unità familiare, un contrassegno del vincolo
coniugale e della appartenenza della moglie al gruppo familiare facente capo al marito (App.
Bologna 25.6.1977, GM, 1979, I, 621). È stato in proposito precisato che
l’aggiunzione del cognome (…) è stata fatta non a riconoscimento della prevalenza del marito, ma come
identificazione di quel determinato nucleo familiare nella sua unità, senza che ciò menomi nella sostanza la parità
dei coniugi
(Finocchiaro e Finocchiaro 1979, 155).
La moglie conserva il cognome del marito anche successivamente alla separazione personale (art.
156 bis c.c.); viceversa, a seguito del divorzio la donna perde il cognome che aveva aggiunto al
proprio a seguito del matrimonio (art. 5, 2° co., l. divorzio).
Spesso nell’ambito dell’accordo di separazione o di divorzio su domanda congiunta non mancano
pattuizioni relative rispettivamente al non uso o all’uso del cognome maritale da parte della ex
moglie:
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è chiaro dunque – sulla base di quanto testé detto – che la questione degli accordi sul cognome maritale si presente
in termini, per così dire, rovesciati, nelle due situazioni qui prese in esame. Nella separazione, invero, l’intesa ha ad
oggetto l’eventuale non uso del cognome del marito, laddove nel divorzio essa concerne l’eventuale uso del
cognome dell’ex marito
(Oberto 1999a, 352).
Parte della dottrina sembra essere orientata nel senso di riconoscere validità delle intese dei coniugi
dirette a regolamentare l’uso del cognome del marito successivamente alla separazione o al divorzio
(Zatti 1982, 250; Scardulla 1996, 299), a condizione che esse siano comprese fra le clausole
sottoposte al vaglio dell’autorità giudiziaria:
i coniugi possono convenire che la moglie separata non usi il cognome del marito, come pure che la moglie
divorziata continui ad usarlo. Condicio iuris per l’efficacia del patto è il provvedimento del giudice (decreto di
omologazione della separazione consensuale o sentenza di divorzio); in mancanza del provvedimento l’accordo non
può produrre effetto. Possiamo seguire l’insegnamento della Cassazione, che, per altra questione, distingue tra
clausole “extraprocessuali” e clausole che appartengono alla categoria dei negozi che necessariamente hanno sede
nel processo. Certamente l’accordo sull’uso del cognome appartiene a questa seconda categoria: se concluso fuori
del processo è affatto inefficace.
Se vi sono figli, il giudice, nonostante l’accordo dei coniugi, può rifiutare l’omologazione della separazione, se
ritiene l’uso, o il non uso, del cognome aggiunto da parte della donna pregiudizievole per la prole
(Metitieri 1995, 1174).
Per converso, si ritiene che il cognome non possa costituire oggetto di valido accordo in quanto il
cognome stesso è da considerare un segno identificativo della persona ovvero un diritto della
personalità, caratterizzato da risvolti di tipo pubblicistico e pertanto indisponibile. Da ciò
deriverebbe l’invalidità di qualsiasi accordo relativo all’uso del cognome del marito:
in materia di diritto al nome, è d’obbligo risalire alla norma generale di cui all’art. 6 c.c., secondo la quale “ogni
persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito”.
Il nome civile, com’è noto, risulta da due elementi, il prenome, o nome individuale, e il cognome, o nome di
famiglia, detto anche patronimico. In particolare il cognome costituisce il contrassegno della personalità e indica
l'appartenenza ad una famiglia, di cui contraddistingue tutti i membri, comunicandosi ai discendenti.
L’acquisto o la perdita del cognome sono regolati espressamente dalla legge, come appunto, dispone il citato art. 6
c.c., con una norma che inquadra il nome nella disciplina dei diritti della personalità, caratterizzati, a differenza dei
diritti aventi ad oggetto un bene patrimoniale, dalla intrasferibilità, dalla irrinunciabilità e dalla imprescrittibilità.
Uno dei modi di acquisto del cognome è il matrimonio (art. 144 c.c.) previgente, e 143-bis dell’attuale testo); come
si è già osservato poi, una delle cause di perdita è lo scioglimento del matrimonio (art. 5 della l. n. 898 del 1970);
norma, quest’ultima, non derogabile, in quanto concernente un diritto della personalità, legato, come si è detto, al
rapporto di appartenenza ad una famiglia, e avente, peraltro, spiccati caratteri di natura pubblicistica, costituendo,
come il nome in genere, una forma obbligatoria di designazione delle persone, imposta, fra l’altro, nell’interesse
generale.
Né va trascurata la considerazione, posta in rilievo dalla Corte di cassazione in sentenza 21 ottobre 1955 n. 3399,
che il diritto della moglie al cognome del marito non è che un riflesso diretto dell’unità familiare, un contrassegno
del vincolo coniugale e della appartenenza della moglie al gruppo familiare facente capo al marito, sì che, venuto
meno il vincolo coniugale, e cessata irrevocabilmente l’unicità del gruppo familiare, non può non determinarsi nei
confronti della moglie, che non è più tale, la perdita del diritto all’uso del cognome del marito.
Quest’ultimo, d’altra parte, non può manifestare alcun valido consenso a che la moglie continui, anche dopo la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, a far uso del cognome di lui, giacché, come si è già posto in evidenza,
il diritto al cognome, come quello al nome in genere, è indisponibile e non può, in quanto tale, costituire oggetto di
trasferimento
(App. Bologna 25.6.1977, GM, 1979, I, 623).
In sostanza, il marito non può manifestare alcun valido consenso alla continuazione da parte della
moglie dell’uso del proprio cognome dopo il divorzio; in base alle medesime argomentazioni deve
ritenersi inammissibile un accordo con cui sia inibito alla moglie l’uso del cognome del marito dopo
la separazione.
In senso analogo si è espressa la più recente dottrina che ha sì puntualizzato che il cognome
aggiunto dalla moglie è qualcosa di distinto dal nome vero e proprio cui si riferisce la disciplina
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codicistica, ma ha anche precisato che al primo deve ritenersi pienamente applicabile la normativa
dettata per il secondo, con conseguente sua indisponibilità, intrasferibilità ed irrinunziabilità:
il difetto di una specifica disciplina di questa sorta di “appendice” al cognome della donna coniugata induce
l’interprete, in base al procedimento analogico, a rifarsi ai principi che governano i segni identificativi della persona,
anziché – tanto per dire – ai rapporti di carattere patrimoniale. Certo, neppure l’eventuale inquadramento della
situazione in discorso nel novero dei diritti della personalità sembrerebbe ancora decisivo al fine di poterne
predicare l’indisponibilità, non facendo difetto ipotesi di diritti di questo genere di cui i privati possono liberamente
fare commercio: si pensi, tanto per fare un esempio, all’immagine, la cui disponibilità è espressamente prevista
dall’art. 96, L. 22 aprile 1941, n. 633 (sul diritto d’autore). D’altro canto, potrebbe ancora obiettarsi che neppure la
disciplina concernente il nome (proprio) contiene un espresso divieto circa possibili atti di disposizione.
Eppure, il carattere tassativo delle ipotesi che disciplinano l’acquisto del proprio nome appare fuori discussione,
come comprovato dal pacifico divieto per i soggetti di mutare il proprio nome, al di fuori dei casi e con il rispetto
delle complesse procedure previste dalla legge (artt. 153 ss., R.D. 9 luglio 1939, n. 1238). Ora, se a questa
constatazione s’aggiunge quella secondo cui, nel nostro ordinamento, ai coniugi è inibita la scelta d’un nome di
famiglia distinto da quello proprio del marito (pure nel caso in cui si volesse, ad instar di ciò che accade in altri
ordinamenti, scegliere il cognome della moglie: cfr. per esempio quanto disposto dal § 1355 BGB), appare
ragionevole concludere nel senso che anche all’aggiunta prevista dall’art. 143-bis c.c. vada applicato il canone
dell’indisponibilità, se non per analogia legis, quanto meno per analogia iuris (art. 12 cpv u.p. prel.) rispetto ai
principi che informano il diritto al nome
(Oberto 1999a, 357-358).
Le conclusioni della giurisprudenza e di parte della dottrina, seppur assai validamente sostenute ed
esaustivamente argomentate, non sembrano, in verità, condivisibili, in base ad una semplice
considerazione:
non vediamo la ragione per cui si debba sottolineare il significato pubblicistico dell’uso del cognome, con la sua
conseguente indisponibilità, quando su altri aspetti del negozio matrimoniale, egualmente e, forse anche
maggiormente rilevanti per il loro contenuto pubblicistico le parti possono liberamente accordarsi. Così in ordine
alla cessazione della convivenza, alla misura degli alimenti, alla stessa cura della prole, salva, ovviamente, la
successiva omologazione
(Scardulla 1996, 300).
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