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Oftalmologia Sociale n.3/2007
Rivista di sanità pubblica dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità
IAPB Italia onlus
Direttore avv. Giuseppe Castronovo
Caporedattore: dott. Filippo Cruciani
e-mail: [email protected]
Editoriale
Titolo:
“Un sogno che diventa realtà”
di Avv. G. Castronovo
Sommario:
...ma anche una realtà che farà sognare e soprattutto sperare i tanti cittadini minorati della vista, che
darà alla ricerca scientifica lo slancio necessario ed opportuno per prevenire le tante patologie
oftalmiche
Sin dai primi giorni della mia Presidenza, agli inizi degli anni ’80, ho pensato che fosse mio dovere
dare concretezza d’azione ai nobilissimi scopi della Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per
la Prevenzione della Cecità, costituita nel 1977 dall’Unione Italiana dei Ciechi e dal compianto
Prof. G.B. Bietti, Presidente della S.O.I..
E fu così che, per passione associativa, convinto che ognuno di noi dovesse sino in fondo
impegnarsi nel sociale, ho cominciato a sognare che anche in Italia fosse possibile promuovere la
cultura per la prevenzione delle gravi patologie che portano alla perdita della vista; ho cominciato a
sognare di potere, da non vedente, con l’aiuto di altri non vedenti e dei tanti validissimi Oculisti
italiani, tutelare il bene prezioso della vista per milioni di altri cittadini. Insieme a me hanno
cominciato a sognare tanti altri Amici e, come amava ripetere il grande Martin Luter King
“...quando si è in molti a sognare, quel sogno diventa realtà”, quella nostra aspirazione si è
trasformata in concrete iniziative con la Legge n. 284 del 28 agosto 1997, fortemente voluta
dall’Unione Italiana Ciechi e dalla nostra Agenzia, grazie alla quale essa ha spiccato il volo e in
tutta Italia sono stati costituiti numerosi Centri per l’Educazione e la Riabilitazione Visiva degli
Ipovedenti.
Spiccato il volo, la Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità ha
dispiegato la propria azione su tutto il territorio nazionale, con iniziative di prevenzione primaria e
secondaria che continuano a riscuotere il plauso di tanti cittadini ed il sostegno pieno del Ministero
della Salute.
E così abbiamo cominciato a sognare la creazione a Roma di un Polo Nazionale di servizi e ricerca
per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti. Ed il sogno di pochi è
diventato il sogno di molti, tanto da coinvolgere il Parlamento italiano, che con la Legge n. 291 del
2003 ha fornito alla nostra Agenzia i mezzi per la creazione del Polo Nazionale. A dieci anni dalla
Legge n. 284/1997, un altro nostro ambizioso sogno diventa realtà: il Polo Nazionale di servizi e
ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti verrà inaugurato dal
Ministro per la Salute, On. Livia Turco, giovedì 11 ottobre 2007, in occasione della Giornata
Mondiale della Vista; l’inaugurazione avrà luogo al Policlinico “A. Gemelli”, dove ha sede il Polo
Nazionale.
Un sogno che diventa realtà! Ma anche una realtà che farà sognare e soprattutto sperare i tanti
cittadini minorati della vista che confidano in una riabilitazione moderna ed efficace; che darà alla
ricerca scientifica lo slancio necessario ed opportuno per prevenire le tante patologie che ancora
oggi portano alla perdita della vista o ad una sua grave compromissione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che segue ed apprezza l’attività della nostra
organizzazione, da anni ribadisce con insistenza che l’ipovisione-cecità costituisce, allo stato
attuale, un problema prioritario per i Servizi Sanitari di tutti i Paesi, siano essi in via di sviluppo che
industrializzati. Essi sono chiamati, davanti alla drammaticità del fenomeno, a organizzare
programmi di intervento non solo profilattico e terapeutico, ma anche e soprattutto di riabilitazione.
Le stime parlano chiaro: secondo valutazioni dell’OMS, i ciechi nel mondo sono oggi 37 milioni e
circa 124 milioni gli ipovedenti; in Italia, si stima che i ciechi siano 300.000 e più di un milione gli
ipovedenti. Il forte incremento demografico nei Paesi in via di sviluppo (dove si stima che vivano 9
ciechi o ipovedenti su 100) e l’allungamento della vita media nei Paesi industrializzati, sta
determinando un progressivo aumento dei cittadini affetti da cecità o da ipovisione. Ecco perché
urge, anche in Italia, un grande impegno sociale e culturale, oltre che scientifico, affinché la
prevenzione delle diverse patologie diventi prassi quotidiana.
Il Polo Nazionale voluto e creato dalla Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la
Prevenzione della Cecità ha tra le sue finalità la ricerca clinica nella medicina preventiva, la ricerca
Epidemiologica, la formazione e l’aggiornamento degli Operatori, la riabilitazione globale degli
ipovedenti secondo i più accreditati protocolli riabilitativi a livello internazionale, la progettazione e
la sperimentazione di nuovi ausili informatici.
Tutto questo è un sogno? Perdonateci, ma lo scrivente e i Dirigenti della Sezione Italiana
dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità sono degli inguaribili sognatori!
Se la poesia è figlia del sogno e la speranza si nutre della ragione, con questa consapevolezza
confidiamo che la scienza possa sconfiggere la cecità e ridare la luce a chi ha sempre conosciuto il
buio.
Per questo grandioso obiettivo, il polo nazionale costituisce un grande strumento di ricerca perché il
sogno, l’ambizione e la speranza diventino una nuova meravigliosa realtà sociale.
PROGRAMMA PRELIMINARE
Inaugurazione del Polo di Servizi e Ricerca
per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti
Riunione dei Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti
Roma, 11 e 12 Ottobre 2007
Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico Agostino Gemelli
Largo Agostino Gemelli, 8 – Roma
11 Ottobre 2007
ORE 10.00
Cerimonia inaugurale di presentazione del Polo Nazionale di Servizi e Ricerca per la
prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti.
Interventi:
-Avv. Giuseppe Castronovo
Presidente IAPB Italia – Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità
-Prof. Antonio Cicchetti
Direttore Amministrativo Università Cattolica del Sacro Cuore
-Prof. Cesare Catananti
Direttore Policlinico Agostino Gemelli
-On. Livia Turco
Ministro della Salute
-On. Walter Veltroni
Sindaco di Roma
-Prof. Tommaso Daniele
Presidente U.I.C.
-Prof. Corrado Balacco Gabrieli
Presidente SOI – Società Oftalmologia Italiana
ORE 12.00
Conferenza Stampa:
“Ipovisione: nuove sfide dal mondo”
Dott. Silvio Paolo Mariotti
Responsabile Programma Prevenzione della Cecità e Sordità
Organizzazione Mondiale della Sanità - Ginevra
“La prevenzione della cecità in Italia: un impegno sociale oltre che sanitario”
Prof. Enzo Tioli
Componente Direzione Nazionale IAPB Italia
“La riabilitazione visiva in Italia: migliorare la qualità della vista per migliorare
la qualità della vita”
Prof. Emilio Balestrazzi
Direttore Dipartimento Oftalmologia Policlinico Agostino Gemelli – Roma
“L’importanza della ricerca per la prevenzione delle minorazioni visive”
Prof. Alfredo Reibaldi
Direttore Scientifico Polo Nazionale di Servizi e Ricerca per la prevenzione
della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti
ORE 13.00
Lunch
ORE 15.00
Riunione dei Rappresentanti dei Centri
Coordinatore: Avv. Giuseppe Castronovo
Presidente IAPB Italia – Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità
“Come è nato il Polo: iter legislativo”
“Finalità e struttura del Polo”
“I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti e il Ministero della
Salute”
“I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti e le Regioni:
attuazione della Legge 284 del 28 Agosto 1997”
“I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti in Italia oggi:
fotografia di una realtà”
ORE 16.30
Dibattito
ORE 18.00
Chiusura dei lavori
12 Ottobre
ORE 9.00
“Problematiche a confronto”
Interventi dei Rappresentanti dei Centri di Educazione
e Riabilitazione Visiva Ipovedenti
ORE 11.00
Tavola Rotonda
“La Riabilitazione Visiva in Italia: il ruolo delle Società Scientifiche
e delle Associazioni Pazienti”
ORE 13.00
Conclusioni a cura dell’Avv. Giuseppe Castronovo
Editoriale
Titolo:
Elettrofisiologia: perché?
di E. Rispoli, M. Lo Grasso
Sommario:
Perché, nonostante la loro utilità, gli esami elettrofunzionali non hanno subito la medesima
diffusione di altre tecniche semeiologiche?
Nonostante lo sforzo, anche se di pochi, ed i progressi tecnologici e metodologici raggiunti dalle
metodiche elettrofunzionali, esistono molte strutture oftalmiche, anche ben attrezzate, che le
considerano superflue o le ignorano del tutto. Talvolta capita anche che apparecchiature per
elettrofisiologia vengano acquistate solo per completare una dotazione di strumenti, e che poi la
gestione venga affidata a personale con poca o nessuna esperienza in materia. In questi casi i dati
ottenuti dagli esami elettrofunzionali vengono letti e interpretati in modo superficiale o addirittura
errato, facendo crollare sempre di più la fiducia dell’oculista nelle tecniche elettrofunzionali e
indirizzando sempre di più l’interesse verso le recenti metodiche morfocliniche (Fluorangio, OCT,
SLO, ecc.).
Pur convinti della fondamentale importanza della diagnostica per immagini, in special modo con le
più recenti attrezzature, che consentono una visione della retina in vivo fin nei sui minimi dettagli, è
tuttavia utile porre alcune osservazioni sulla ancora valida attualità della semeiotica
elettrofunzionale.
Tali osservazioni si basano sulla natura sostanzialmente elettrica del nostro sistema sensoriale.
Quando infatti uno dei nostri sensi (udito, vista, tatto, ecc. …) viene sollecitato, lo stimolo viene
trasformato in impulsi elettrici che viaggiano lungo il sistema nervoso e raggiungono il cervello
sotto forma di variazione di scariche elettriche (potenziali di azione). Anche quando compiamo una
qualsiasi azione il cervello comanda e guida tale azione attraverso l’invio di “scariche elettriche”.
Tutte le nostre sensazioni e finanche i nostri pensieri possono essere considerati come scariche
elettriche che variano in ben definite zone del nostro cervello.
Possiamo affermare che l’essenza stessa della nostra esistenza è regolata o addirittura è una
sequenza di variazioni di potenziali elettrici. La morte non è altro che lo spegnimento di questi
potenziali elettrici (elettroencefalogramma piatto).
Se la morte è caratterizzata dallo spegnimento dell’attività elettrica, la vita è rappresentata dalla
presenza dell’attività elettrica, anzi, dalla corretta presenza dell’attività elettrica (attività elettrica
nella norma = funzione vitale nella norma). In teoria, allora, una qualsiasi patologia potrebbe essere
rilevata, valutata e seguita attraverso il solo studio dell’attività elettrica delle strutture coinvolte.
Questa teoria, sebbene applicabile ed ampiamente applicata in vitro e in condizioni sperimentali, (la
maggior parte delle nostre conoscenze nel campo della fisiologia sono state ottenute grazie a studi
elettrofisiologici) trova tuttavia notevoli limitazioni nell’applicazione clinica per l’impossibilità di
applicare in vivo elettrodi direttamente sulle membrane cellulari. Tuttavia le variazioni dei
potenziali elettrici locali delle singole cellule provocano variazioni delle correnti elettriche di
circolazione nei tessuti ad esse adiacenti, che si propagano fin sulla superficie cutanea e che
possono essere rilevate in maniera non invasiva con elettrodi cutanei.
Purtroppo il segnale che si registra sulla superficie cutanea non è legato all’attività elettrica di un
singolo neurone o di una singola famiglia neuronale, ma è la risultante della complessa attività
elettrica di tutte le cellule che si trovano in prossimità del punto di applicazione dell’elettrodo.
È possibile tuttavia superare, o almeno ridurre, la limitazione dovuta all’impossibilità di connettere
gli elettrodi direttamente alle membrane dei neuroni attraverso le complesse tecnologie e
metodologie che costituiscono la moderna elettrofisiologia clinica.
Ciò premesso la domanda che ci si può porre è: perché impiegare i metodi complessi ed indiretti
dell’elettrofisiologia per conoscere lo stato del sistema visivo e dei suoi componenti quando è
possibile guardarli direttamente attraverso i moderni esami morfoclinici?
Per rispondere alla domanda è necessario premettere l’osservazione che le alterazioni del sistema
visivo, possono avere un’ insorgenza meccanica o un’insorgenza funzionale. Sono ad insorgenza
meccanica quelle patologie come il distacco di retina, il foro retinico, i vari essudati ecc., in cui
un’alterazione della morfologia, speso dovuta a trazioni meccaniche, ha come conseguenza
un’alterazione della funzione. Sono invece ad insorgenza funzionale patologie come la retinite
pigmentosa, la neurite ottica ecc., in cui l’alterazione morfologica è la conseguenza della
degenerazione neuronale.
Se è ovvio che nelle patologie ad insorgenza meccanica l’analisi morfoclinica consente oggi una
perfetta visualizzazione del danno e, di conseguenza una precisa diagnosi, è pur vero che in tutte
quelle patologie che originano da alterazioni funzionali, per es. la neurite ottica di tipo
demielinizzante, maculopatie tossiche, ecc., l’indagine morfoclinica mostra, il più delle volte,
immagini alterate solo in fasi tardive e spesso quando il danno non è più reversibile. In questi casi
attente indagini funzionali (campo visivo, senso cromatico, sensibilità al contrasto ecc.) risultano
certamente preferibili e, nella maggior parte dei casi, dirimenti.
A questo punto è logico porsi la domanda: perché ricorrere agli esami elettrofunzionali se è
possibile usare esami più semplici e diffusi quali il campo visivo, la sensibilità al contrasto, l’acuità
visiva, ecc.? La risposta a quest’ultimo quesito è legata alle differenze sostanziali fra le metodiche
funzionali psicofisiche e quelle elettrofisiologiche. Tali differenze sono varie ma è importante
soffermarsi su alcune di esse:
a – Maggiore obbiettività delle risposte elettrofunzionali rispetto a quelle psicofisiche. In queste
ultime infatti è di fondamentale importanza la collaborazione del paziente e la sua volontà di
rispondere. Gli esami elettrofunzionali assumono pertanto un ruolo di maggiore importanza nei
soggetti in età preverbale e nei pazienti non collaboranti, come i simulatori.
b – Possibilità di ottenere valutazioni numeriche sulla funzionalità dei diversi parametri della
funzione visiva, al di fuori delle soglie. Ciò è dovuto al limite degli esami psicofisici che non sono
in grado di valutare “quanto” è visibile uno stimolo visibile. Per es. se un paziente ha una acuità
visiva di 7/10 possiamo sapere solo che legge le prime sette righe ma non sappiamo nulla di come o
quanto le legge. Al contrario, una risposta elettrofunzionale fornisce un valore numerico che è tanto
migliore quanto migliore è la percezione dei diversi stimoli visibili.
c – Migliore capacità di localizzazione longitudinale del danno. Il sistema visivo si estende
radialmente se si fa riferimento alle diverse aree retiniche (foveola, fovea, parafovea, perifovea,
periferia), ma anche longitudinalmente se si fa riferimento al cammino ottico, che partendo dai
fotorecettori, si sviluppa lungo i vari interneuroni della retina per proseguire sui lunghi assoni delle
cellule ganglionari fino ai corpi genicolati laterali ed infine da questi alle aree corticali. Una
alterazione del campo visivo fornisce una precisa localizzazione a livello radiale di un danno, ma
non fornisce indicazioni dirette sul tipo di neuroni alterati o sulla posizione del danno lungo il
percorso ottico. Per contro i diversi esami elettrofunzionali hanno proprio lo scopo di determinare
quali e quanti sono i neuroni alterati lungo il percorso ottico dai recettori alle aree corticali.
Un ultima domanda a cui rispondere è: perché, nonostante la loro utilità, gli esami elettrofunzionali
non hanno subito la medesima diffusione di altre tecniche semeiologiche?
La risposta a quest’ultima domanda è legata essenzialmente alla particolare conformazione
anatomica dell’occhio che non solo è un organo esterno, e quindi direttamente osservabile, ma è
munito di una finestra, la pupilla, che consente di osservarlo addirittura al suo interno. E’ come se il
cuore, anziché chiuso nella gabbia toracica si fosse trovato all’esterno ed avesse presentato le pareti
trasparenti in modo da mostrare le valvole e tutte le strutture interne. Con un cuore siffatto
probabilmente l’elettrocardiografia non sarebbe mai stata inventata!!
La possibilità di esplorare l’interno e l’esterno dell’occhio ha fatto si che venissero preferite
dall’oculista, e quindi anche sviluppate tecnologicamente, tutte le tecniche semeiologiche atte ad
osservare anatomicamente l’occhio, tralasciando, o portando in secondo piano, la semeiotica
funzionale e, a maggior ragione, quella elettrofunzionale. In altre parole, è opinione di molti che è
più facile “guardare” un’alterazione, anche se all’interno dell’occhio, piuttosto che “dedurne”
l’esistenza attraverso le complicate osservazioni a cui conducono gli esami elettrofunzionali.
Purtroppo però la sola osservazione non è sempre sufficiente, nonostante i grandi passi fatti dai
mezzi di osservazione della retina. Si può dire che è un po’ come guardare una bella auto da corsa:
è certamente importante che la linea sia filante per una buona penetrazione nell’aria, che gli spoiler
siano proporzionati e ben disegnati per stabilizzarla alle alte velocità, che le gomme siano in perfette
condizioni per la tenuta di strada ecc. Tutti questi elementi osservabili dall’esterno sono
fondamentali per il buon funzionamento dell’auto. E’ tuttavia indispensabile che anche il motore
con tutti i suoi controlli e meccanismi sia in perfette condizioni e questi elementi non sono
osservabili dall’esterno, ma solo mettendo in moto e, come si dice in gergo, eseguendo una prova su
strada.
Anche per il sistema visivo è possibile la prova su strada, ed è quella che si fa attraverso gli esami
elettrofunzionali: si “mette in moto” l’occhio, fornendo stimoli visibili adeguati, e se ne verifica il
corretto funzionamento attraverso l’analisi delle diverse risposte elettriche.
ATTI Sezione S.I.O.L. (Società Italiana Oftalmologia Legale)
Titolo:
Puntatori laser giocattolo: valutazione del rischio e norme di prevenzione e protezione
di G. F. Mariutti
Istituto Superiore di Sanità. Roma
Sommario:
I puntatoti laser giocattolo sono degli oggetti il cui uso non è scevro da rischi diretti e indiretti
L’uso di puntatori luminosi, al posto della tradizionale “bacchetta di legno”, per evidenziare dati e
dettagli proiettati su uno schermo nelle conferenze e seminari risale a oltre 30 anni fa.
I primi tipi di puntatori ottici erano sostanzialmente costituiti da una sorgente di luce tradizionale e
da un sistema ottico di collimazione e focalizzazione. Essi sono stati sostituiti, nell’arco di pochi
anni, da puntatori laser alimentati da batterie, che emettono un fascio più collimato e luminoso e
che, fra l’altro, hanno un’autonomia maggiore e sono molto più leggeri e maneggevoli.
I puntatori laser più diffusi emettono luce rossa di lunghezza d’onda compresa fra 630 e 675 nm.
Sono disponibili anche puntatori con laser a luce verde (530 nm) che però sono molto più costosi.
Attualmente molti conferenzieri utilizzano detti puntatori laser per uso professionale che sovente
sono, per forma e dimensioni, identici a una penna (figura 1).
Didascalia fig. 1
Figura 1: Puntatore laser per uso professionale
Nella fattispecie, l’utilizzatore è generalmente ben cosciente dei possibili rischi che l’uso non
corretto può comportare. Perciò evita accuratamente di dirigere il fascio di luce verso l’uditorio e
verso i propri occhi.
Anche nel caso dei puntatori laser si è verificato ciò che accade per la maggior parte dei nuovi
prodotti e dispositivi tecnologici immessi sul mercato. Il loro prezzo, inizialmente elevato, in un
breve arco di tempo si è ridotto in misura considerevole sia in ragione dei progressi tecnologici sia
per l’abbattimento dei costi che la produzione in larga scala determina.
Da oltre dieci anni sono presenti sul mercato dispositivi laser a stato solido di bassa potenza, il cui
costo è irrisorio se paragonato a quello dei laser di pari caratteristiche che erano prodotti 25 anni fa.
Questo tipo di emettitore laser è largamente utilizzato in un gran numero di dispositivi e
applicazioni: lettori di compact disc, lettori di codici a barre etc.
Sorgenti laser a basso costo sono state e sono tutt’ora utilizzate da alcuni fabbricanti di giocattoli
dell’area asiatica (Cina, Taiwan etc.) per produrre puntatori laser giocattolo che sono stati esportati
in Europa e nel Nord America, dove hanno riscosso un notevole successo fra i bambini e i ragazzi.
Attualmente il mercato offre vari tipi di puntatori laser giocattolo che differiscono per forma,
caratteristiche della sorgente luminosa e per il numero e il disegno delle testine intercambiabili con
le quali è possibile proiettare a distanza immagini simboliche e di fantasia.
La maggior parte di questa tipologia di puntatori non professionali è provvista di gancio portachiavi
(figura 2).
Didascalia fig. 2
Figura 2: Puntatore laser giocattolo
Sono stati posti in commercio anche pistole e fucili giocattolo nei quali, tirando il grilletto, si attiva
la sorgente laser, alloggiata opportunamente all’interno della canna, che “spara” il fascio di luce a
notevoli distanze.
Sin dall’inizio della loro commercializzazione le autorità di diversi Paesi e alcune organizzazioni
internazionali di protezione quali, ad esempio, la OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità
(Health Risks from Use of Laser Pointers. Fact Sheet 202, July 1998) si sono preoccupate di
valutare i possibili rischi che l’uso di detti giocattoli da parte di bambini e ragazzi può comportare.
A tal fine, laboratori specializzati hanno effettuato le necessarie determinazioni strumentali su vari
campioni, necessarie sia per caratterizzare le sorgenti laser utilizzate sia per verificare il rispetto
delle norme nazionali e internazionali pertinenti attualmente in vigore.
I produttori, i venditori e gli utilizzatori di laser devono, infatti, ognuno per il proprio ambito di
responsabilità e competenza, rispettare le norme tecniche armonizzate riguardanti questo tipo di
sorgenti di radiazione ottica.
Come è noto, a differenza delle più familiari sorgenti di luce utilizzate nell’illuminazione (lampade
a incandescenza, a fluorescenza e alogene), la luce emessa dai laser non è policromatica e non viene
emessa più o meno uniformemente in tutte le direzioni, caratteristica, quest’ultima, necessaria per
illuminare ampie superfici (le pareti di una stanza) con una singola lampada. La radiazione ottica
emessa da un laser, invece, è sostanzialmente monocromatica e tutta concentrata in un fascio
collimato di sezione approssimativamente circolare molto piccola (pochi millimetri quadrati).
In definitiva i laser sono sorgenti puntiformi quasi ideali che emettono radiazione altamente
direzionale e possono irradiare potenze notevoli in un piccolo angolo solido.
Per questa loro specifica caratteristica i laser sono sorgenti di elevatissima brillanza. Un laser che
emetta pochi milliwatt è vari ordini di grandezza più brillante di qualsiasi altra sorgente artificiale di
luce e può risultare anche più brillante del sole.
E sono proprio l’elevata collimazione e la notevole brillanza del fascio luminoso che li rende, fra
l’altro, particolarmente adatti ad essere usati come puntatori.
Tali caratteristiche, d’altra parte, fanno comprendere anche intuitivamente perché siffatte sorgenti
possono essere fonte di rischio, soprattutto per l’occhio.
I raggi paralleli di un fascio di luce collimata, come quelli laser, vengono concentrati o focalizzati
sulla retina in una immagine estremamente piccola. Il potere teorico di amplificazione (o guadagno
ottico) dell’occhio, per un diametro della pupilla di circa 4 mm, può essere anche dell’ordine di 105.
Conseguentemente, la potenza luminosa per unità di area (irradianza) incidente sulla cornea risulterà
amplificata sulla retina, teoricamente, di un fattore pari al guadagno ottico. L’effetto più rilevante
dell’assorbimento della radiazione visibile e infrarossa fino a 1400 nm, focalizzata sulla retina, è lo
sviluppo di calore nell’area dell’immagine, con conseguente innalzamento localizzato della
temperatura (figura 3).
Didascalia fig. 3
Figura 3: Immagine retinica: sorgente luminosa tradizionale (A) e fascio laser (B)
Dati teorici e sperimentali mostrano che fasci di luce laser analoghi a quelli di un puntatore operante
nell’intervallo di lunghezza d’onda 640 ÷ 670 nm, se focalizzati sulla retina, nel caso peggiore
possono provocare un aumento di temperatura localizzato, nell’area puntiforme dell’immagine
retinica, di circa 2 ÷ 2,5°C per milliwatt di potenza del raggio laser. Pertanto, un puntatore che
emetta anche qualche milliwatt di luce è in grado di produrre sulla retina aumenti di temperatura
potenzialmente pericolosi, soprattutto se, per varie circostanze, la durata, dell’esposizione è
superiore al tempo “standard” (0,25 secondi) della reazione protettiva che il fenomeno
dell’abbagliamento induce in un soggetto normale, ovvero la chiusura delle palpebre e la rotazione
della testa.
Riferimenti normativi per i laser in generale e per i puntatori in particolare
Tutte le sorgenti laser, intese anche come prodotti che incorporano una o più sorgenti laser prodotte,
commercializzate e utilizzate in Italia, devono essere conformi alle prescrizioni e disposizioni
contenute nella norma tecnica armonizzata CEI–EN 60825-1 attualmente in vigore, il cui titolo è
“Sicurezza degli apparecchi Laser, Parte 1: Classificazione delle apparecchiature, prescrizioni e
guida per l’utilizzatore”.
Inoltre, ai puntatori laser si applica l’ordinanza del Ministero della Sanità del 16 luglio 1998,
pubblicata nella G.U. Serie Generale n. 167 del 20 luglio 1998, intitolata “Divieto di
commercializzazione sul territorio nazionale di puntatori laser o di oggetti con funzioni di
puntatori laser di classe pari o superiore a 3 secondo la norma CEI-EN 60825”. Essa è stata
emanata a seguito di segnalazioni di casi di uso improprio di detti prodotti, che in qualche caso sono
stati puntati deliberatamente contro gli occhi di bambini o ragazzi. Inoltre si è considerato che i
puntatori laser, di classe pari o superiore a 3 secondo la norma europea CEI EN 60825, tenuto conto
anche della loro potenza, possono provocare lesioni oculari e quindi costituiscono un pericolo grave
ed immediato per la salute umana.
Detta ordinanza esclude dal divieto i puntatori laser commercializzati per usi professionali specifici
e le cui modalità di impiego sono chiaramente indicate dal responsabile della loro immissione sul
mercato.
Per verificare se ai puntatori laser giocattolo posti in commercio soddisfano quanto disposto
dall’ordinanza precedentemente richiamata, è necessario determinarne la classe di appartenenza
secondo la norma europea CEI-EN 60825 in vigore nel 1998.
Secondo la CEI EN 60825, gli apparecchi laser sono raggruppati in 5 classi (1, 2, 3A, 3B e 4) per
ciascuna delle quali sono specificati i Limiti di Emissione Accessibile (LEA). Il LEA definisce il
valore massimo della radiazione laser accessibile ad un individuo durante l’utilizzazione del
dispositivo. I LEA, a loro volta, sono derivati dai valori di Esposizione Massima Permessa (EMP).
I livelli EMP rappresentano il livello massimo al quale l’occhio o la pelle possono essere esposti
senza subire un danno a breve o a lungo termine; questi livelli dipendono dalla lunghezza d’onda
della radiazione, dalla durata dell’impulso o dal tempo di esposizione, dalla natura del tessuto
esposto e, per quanto riguarda la radiazione visibile e il vicino infrarosso (regione spettrale 400 ÷
1400 nm) dalle dimensioni dell’immagine retinica. Per quanto riguarda le 5 classi, valgono le
seguenti considerazioni:
Classe 1
I laser di classe 1 sono quelli intrinsecamente sicuri, perché la potenza del fascio di luce emesso in
nessun caso determina il superamento della EMP per l’occhio.
Classe 2
I laser di classe 2 sono dispositivi a bassa potenza che emettono radiazione visibile (400-700 nm).
Per un laser ad emissione continua la potenza massima del fascio (LEA) non deve superare 1 mW.
Se l’occhio, sia per cause accidentali sia per uso improprio altrui, viene colpito dal fascio di
radiazione di un dispositivo laser appartenente a questa classe, la sua protezione è assicurata dal
fenomeno dell’abbagliamento, che innesca contemporaneamente due meccanismi di difesa: il
riflesso di chiusura delle palpebre e il movimento della testa volto ad allontanare l’occhio dal fascio
di luce incidente.
Classe 3A
I laser di classe 3A sono dispositivi più potenti rispetto a quelli di classe 2. Nella regione del visibile
(400-700 nm) non possono emettere una potenza continua superiore a 5 mW. Inoltre, l’irradianza in
qualsiasi punto del fascio non deve superare il valore di 25 W/m . Questo secondo vincolo ha lo
scopo di limitare la potenza massima accessibile all’occhio, con un diametro della pupilla di 7 mm,
ad un valore non superiore a 1 mW.
L’esposizione accidentale dell’occhio a fasci laser di classe 3A comporta effetti simili a quelli che si
verificano con sorgenti di classe 2. Tuttavia, l’osservazione diretta di un fascio laser di classe 3A
attraverso strumenti ottici, ad esempio un binocolo, può risultare pericolosa per l’occhio.
2
Classe 3B
I laser ad emissione continua di classe 3B non devono avere una potenza del fascio superiore a 500
mW. L’osservazione diretta del fascio di dispositivi appartenenti a questa classe è pericolosa,
poiché la potenza emessa può essere sufficiente a produrre danni oculari. Maggiore è la potenza più
grande è, ovviamente, il rischio di danno. L’estensione e la gravità delle eventuali lesioni dipenderà
da vari fattori, quali l’intensità del fascio, il diametro della pupilla e la durata dell’esposizione.
Classe 4
Appartengono a questa classe tutti i dispositivi laser con una potenza del fascio superiore a 500
mW. I laser della classe 4 possono produrre riflessioni diffuse pericolose e, a differenza delle
precedenti quattro classi, sono in grado di produrre danni anche sulla pelle esposta.
Targhettatura
Ogni apparecchio laser deve essere munito di targhetta. Le targhette devono essere fissate in modo
permanente, ed essere leggibili, e chiaramente visibili, durante il funzionamento, la manutenzione e
l’assistenza. Esse devono essere posizionate in modo da poter essere lette evitando il superamento
del LEA di classe 1. Ad esclusione della classe 1, i bordi delle targhette e i segni grafici devono
essere in nero su fondo giallo. Per ogni classe è previsto che la targhetta riporti uno specifico
messaggio informativo.
Puntatori laser giocattolo presenti sul mercato
L’esperienza diretta del Dipartimento Tecnologie e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità e i dati
resi disponibili da altre analoghe istituzioni europee hanno dimostrato che la maggior parte dei
puntatori laser giocattolo presenti sul mercato italiano hanno caratteristiche che li connotano come
prodotti di classe 3A o 3B.
In particolare, frequentemente si riscontrano puntatori laser che non soddisfano quanto disposto sia
dalla norma armonizzata CEI–EN 60825 sia dall’ordinanza del Ministero della Sanità del 16 luglio
1998, precedentemente citata.
Con riferimento alla norma CEI–EN 60825, le violazioni che più frequentemente sono state
riscontrate sono:
• etichettatura assente o non conforme alla norma CEI–EN 60825;
• non corretta classificazione della sorgente laser;
• in alcuni puntatori, la classe di appartenenza, indicata con la numerazione romana, sta a dimostrare
che il laser non è stato classificato secondo le disposizioni contenute nella norma CEI–EN 60825,
che usa una numerazione araba, ma facendo riferimento allo “standard” in vigore negli USA, il
quale presenta delle significative differenze rispetto a quello europeo. In particolare, la classe IIIA,
dallo “standard” americano, non prescrive, a differenza di quello europeo, che l’irradianza del fascio
laser sia inferiore a 25 W/m2. Frequentemente un laser di classe IIIA (USA) corrisponde a un classe
3B (Europa);
• in altri casi, la potenza misurata del fascio è significativamente superiore a quella dichiarata in
etichetta dal costruttore.
Oltre alle predette violazioni, a fronte di un rispetto formale delle norme, si osservano talvolta delle
inconsistenze: sulla confezione dei prodotti distribuiti attraverso un importatore italiano, o sul foglio
illustrativo allegato, viene posto, come d’altra parte la legge prescrive, il marchio CE, che attesta la
rispondenza o conformità del prodotto a tutte le direttive dell’Unione Europea ad esso applicabili, e
quindi garantisce i consumatori dell’Unione che il prodotto possiede le necessarie caratteristiche di
sicurezza d’uso, a cui si aggiungono le avvertenze e le precauzioni redatte in lingua italiana.
Tuttavia, esse sono di difficile lettura perché stampate con caratteri estremamente minuscoli.
Di solito nei puntatori provvisti di testine intercambiabili, viene riportato: “Articolo conforme alle
norme di sicurezza, Direttiva n° 88/378/CEE D.L. 313 del 27/09/91, legge n° 428, art. 54 del
29/12/90. Può contenere piccole parti. Non adatto ai bambini di età inferiore ai 3 anni.”. La direttiva
88/378/CEE è quella relativa al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri riguardanti la
sicurezza dei giocattoli, mentre il D.L. 313 del 27/09/91 si riferisce all’attuazione di detta direttiva,
a norma dell’articolo 54 sulla sicurezza dei giocattoli della legge delega 428 del 29/12/90.
La legge 88/378, per quanto attiene le condizioni di sicurezza, stabilisce nell’articolo 2 che “i
giocattoli debbono essere fabbricati a regola d’arte in materia di sicurezza e possono essere
immessi sul mercato solo se non compromettono la sicurezza e/o la salute degli utilizzatori o di
altre persone, quando sono utilizzati conformemente alla loro destinazione, per una durata
d’impiego prevedibile in considerazione del comportamento abituale dei bambini”
Più recentemente, sono stati immessi sul mercato dei puntatori che, per forma e caratteristiche, sono
sostanzialmente identici ai puntatori laser giocattolo, ma che il costruttore dichiara non essere dei
giocattoli e non destinati ai bambini (this is not a toy, keep out of reach of children). In questo caso,
viene riportata anche una sigla CE, scritta con caratteri diversi da quelli utilizzati per il marchio CE,
che può essere fonte di equivoco. Infatti trattasi di prodotti fabbricati in Cina, sprovvisti di istruzioni
in lingua italiana nei quali, la sigla CR è l’acronimo di China Export.
Poiché per i laser di classe 3B la naturale risposta avversa all’abbagliamento (chiusura delle
palpebre e rotazione della testa) non è sufficiente a prevenire eventuali rischi per l’occhio, ne
consegue che alcuni puntatori presenti sul mercato sono potenzialmente pericolosi.
Il riflesso di chiusura delle palpebre, provocato dal forte stimolo luminoso, si traduce in una
reazione efficace di protezione nell’esposizione diretta dell’occhio a laser di classe pari o inferiore a
3A soltanto se il tempo massimo di risposta non supera 0,25 secondi. Per la visione diretta del
fascio di un laser di classe 3B, detto tempo di risposta all’abbagliamento, che è stato definito
convenzionalmente, può risultare insufficiente a prevenire il danno oculare.
Va osservato, inoltre, che a parità di potenza, irradianza e fattori geometrici, lo stimolo luminoso
dipende dal colore della luce, perché la risposta dell’occhio umano, nell’intervallo del visibile (400
÷ 780 nm), è dipendente dalla lunghezza d’onda e presenta un massimo a circa 550 nm (risposta
fotopica “standard”).
Come è mostrato nella figura 4, se consideriamo due puntatori di differente lunghezza d’onda (676
nm e 640 nm) che emettano la stessa potenza radiante, la luminosità percepita dall’occhio sarà
approssimativamente nel rapporto 1:10.
Didascalia fig. 4
Figura 4: Sensibilità fotopica dell’occhio umano
Un ulteriore elemento di riflessione, che induce a considerare con cautela la problematica
protezionistica relativa a questi particolari giocattoli, scaturisce dal fatto che, in linea di massima, le
disposizioni e i limiti contenuti nelle norme armonizzate attualmente in vigore nel nostro Paese e a
livello internazionale sono state elaborate perché prioritariamente era necessario proteggere i
lavoratori esposti in ambiente di lavoro, cioè individui adulti e idonei a svolgere attività anche con
sorgenti laser.
Tale genesi non significa necessariamente che le stesse norme sono inadeguate per la protezione
della popolazione. Tuttavia, la loro elaborazione è avvenuta tenendo conto dell’esistente, in
particolare delle norme generali che disciplinano la protezione dei lavoratori, le quali prevedono
anche che gli stessi siano sottoposti a sorveglianza sanitaria. I lavoratori che utilizzano abitualmente
sorgenti laser verosimilmente saranno sottoposti anche a visita oculistica preventiva e riceveranno
sia adeguate informazioni sui possibili rischi connessi all’uso di sorgenti laser, istruzioni su come
evitarli e dotazioni individuali di protezione (occhiali).
E’ possibile che la protezione della popolazione in generale, e dei bambini come gruppo particolare,
basata su norme che partono da tali presupposti possa risultare in alcuni casi non sufficiente.
Innanzitutto, va considerato che la conoscenza dei possibili rischi dei fasci di luce laser, nella
popolazione e fra i bambini, può essere limitata o addirittura assente. Inoltre, non si possono
trascurare eventuali effetti particolari collegati alla frequenza delle discromatopsie congenite (cioè
l’incapacità di vedere determinati colori).
Nella popolazione generale circa il 5% dei soggetti è affetto da protanomalia, cioè alterazione della
visione nella banda della radiazione rossa. Questi individui sono a maggior rischio se colpiti da un
fascio di luce rossa, perché in essi non si manifesta in misura sufficiente l’abbagliamento e
conseguentemente, nella fattispecie, la risposta di difesa dell’occhio o è assente o non è
sufficientemente rapida per prevenire adeguatamente l’eventuale rischio.
L’esperienza pratica ha mostrato che i bambini, dopo aver provato gioia e meraviglia nel dirigere e
proiettare il fascio e le immagini su superfici e oggetti lontani, in particolare quando è buio, alle
volte, per gioco, lo puntano volontariamente verso l’occhio dei loro amici e coetanei, allo scopo di
abbagliarli.
Proprio questi comportamenti poco responsabili ancorché frequenti nei bambini e nei ragazzi sono
all’origine di altri possibili rischi indiretti dell’uso di puntatori laser giocattolo.
Si è verificato più volte, infatti, che, accidentalmente o deliberatamente, il fascio luminoso abbia
colpito l’occhio di individui impegnati in attività, ad esempio la guida di autoveicoli, nelle quali
anche la temporanea limitazione della funzione visiva prodotta dall’abbagliamento può essere causa
di rischi o danni.
In definitiva, i puntatori laser giocattolo sono degli oggetti il cui uso da parte di bambini e ragazzi
non è scevro da rischi diretti e indiretti.
Le attuali norme riguardanti la sicurezza dei giocattoli non contemplano il rischio da radiazione
ottica, e dei fasci laser in particolare. Si tratta certamente di una lacuna che dovrebbe essere risolta.
E’ positivo che l’allora Ministero della Sanità abbia tempestivamente emanato l’ordinanza
precedentemente richiamata la quale, introducendo dei vincoli sulla potenza irradiata, si può ridurre
notevolmente il rischio.
ATTI Sezione S.I.O.L. (Società Italiana Oftalmologia Legale)
Titolo:
Rischio oculare da giocattolo. Normativa attuale dei videogiochi
di P. L. Grenga, V. Recupero, R. Cannata.
Università degli Studi di Roma “La Sapienza” - Policlinico Umberto I - Dipartimento di Scienze
Oftalmologiche
Sommario:
Al momento non c’è alcuna evidenza scientifica di associazioni tra patologie del sistema visivo e
videogiochi
Negli ultimi anni si è diffuso sempre di più l’utilizzo dei videogiochi come passatempo, sviluppo
che ha interessato non solo i bambini ma anche i ragazzi e gli adulti di diverse fasce d’età. Questo
fenomeno è diventato, quindi, d’interesse comune e – come tutte le questioni che non riguardano
soltanto una nicchia della nostra società – merita la nostra attenzione: nel nostro caso ci siamo
concentrati sull’impatto che l’utilizzo dei videogiochi, a volte anche esasperato, ha sulla salute e, in
particolare, sull’apparato visivo.
Inizialmente, dunque, abbiamo analizzato la letteratura internazionale al fine di poter conoscere
quali siano i dati e i risultati delle ricerche cliniche ottenuti in differenti campi della medicina
sull’utilizzo dei videogiochi. Successivamente abbiamo passato in rassegna le normative italiane ed
europee che ne regolamentano la produzione, la vendita e l’utilizzo.
Innanzitutto, è importante citare alcuni numeri che mettono in luce l’importanza del fenomeno dei
videogiochi: secondo il MOIGE (Movimento Genitori) nel nostro Paese sono circa 18 milioni, il
36% della popolazione adulta italiana si diverte con essi e gli under 14 trascorrono una media di 55
minuti al giorno con un videogioco. Un’inchiesta della GFK del Settembre 2006 ha rivelato che, in
Italia, il 71% dei videogiocatori sono maggiorenni; di questa percentuale il 40% ha un’età compresa
tra 25 e 44 anni. Secondo un sondaggio condotto nel 2005 dalla Società Aesvi-AcNielsen su un
campione di 17.000 individui con più di 14 anni, il Lazio è risultato essere la regione con la
percentuale più alta di videogiocatori: circa il 42% contro una media nazionale del 36%.
Questi dati ci danno un’idea di quanto ormai i videogiochi siano diffusi nella nostra società e, di
conseguenza, del loro possibile impatto sulla salute e, nel nostro caso, sul sistema visivo.
Gli psicologi, gli psichiatri e i sociologi hanno dimostrato un grande interesse attraverso ricerche sui
comportamenti dei bambini: l’associazione tra obesità e utilizzo dei videogiochi è risultata stretta;
infatti, durante il tempo trascorso davanti allo schermo è aumentato il consumo di cibo che,
associato ad una vita sedentaria, porta all’aumento progressivo del peso. Oltre al problema
dell’obesità, alcuni studi hanno dimostrato come i bambini con un carattere più introverso e, quindi,
meno propenso ai rapporti interpersonali, sviluppino delle forme di dipendenza che li rendono
“schiavi” dei videogiochi, con alcuni casi limite che arrivano a forme di vera e propria
videodipendenza che richiede cure di sostegno psicologico.
I sociologi hanno, invece, notato come gli adolescenti, dopo avere giocato oltre 4 ore al giorno,
sviluppino un atteggiamento più aggressivo della norma, mettendolo in relazione con il tipo di
videogioco usato (ad esempio, i giochi “sparatutto” e altri videogiochi violenti).
Una ricerca clinica ha dimostrato come, facendo giocare dei soggetti in buone condizioni di salute,
si ottenga un incremento dei valori fisiologici dello stress; questo permette di poter studiare
l’eventuale efficacia terapeutica di farmaci che hanno come finalità quella di ridurre lo stress1.
Le complicanze più importanti legate all’uso dei videogiochi sono di sicuro quelle studiate dai
neurologi, che hanno concentrato l’attenzione sul rischio di insorgenza di attacchi di epilessia
durante l’utilizzo di un videogioco. Il termine “photosensitive” è usato per indicare una condizione,
evidenziata all’EEG, di reazione parossistica ad una stimolazione fotopica intermittente, condizione
che in soggetti sensibili predispone all’attacco epilettico e i videogiochi possono agire da fattore
scatenante2. E’ questo il principale motivo per cui nel libretto di istruzioni di molti videogiochi è
scritto che il loro uso andrebbe evitato da parte di soggetti con pregressi attacchi di epilessia.
Un gruppo di pazienti è stato invitato a giocare prima di dormire: durante il sonno sono state
studiate le diverse fasi che lo contraddistinguono. Il risultato è stato il riscontro di un accorciamento
della fase REM e di alterazioni di tutte le altre fasi3. Mentre studi eseguiti con la Risonanza
Magnetica hanno dimostrato un incremento dell’attività delle regioni cerebrali deputate allo stimolo
eccitatorio, con depressione dello stimolo inibitorio4.
Gli ortopedici hanno, invece, notato come molte ore spese di fronte ad uno schermo con la joypad in
mano possano essere responsabili di dolori legati alla postura in particolare alla schiena e al collo,
mentre per quanto riguarda gli arti superiori è stato coniato un termine riferito alla comparsa di
dolore articolare, associato a microemorragie ed onicolisi del pollice, il cosiddetto “Playstation
Thumb” (Pollice da Playstation).
Gli oftalmologi si sono occupati delle relazioni tra videogiochi e sistema visivo affrontando vari
aspetti. Nella letteratura internazionale le due pubblicazioni più rilevanti studiano le modificazioni
del campo visivo nei videogiocatori (VGP), confrontandolo con un gruppo di cosiddetti
nonvideogiocatori (NVGP). Nello specifico è stato presentato uno stimolo periferico: mentre si fissa
un oggetto è stata valutata la risposta dei 2 gruppi (VGP e NVGP), lo stimolo è stato presentato a
0°, 10°, 25°. Il risultato ha evidenziato come i VGP abbiano una percezione migliore dei NVGP. In
un secondo esperimento sono stati “allenati” i NVGP, che al termine presentavano un
miglioramento della risposta5-6. Il limite di questa ricerca ritengo sia soprattutto legato al fatto che
il tipo di esame del campo visivo e lo stimolo presentato non siano riferibili ad alcuna tecnica tra
quelle correntemente usate nell’esame del CV, ma è proposto soltanto da questa ricerca.
Un’ottima idea è quella avanzata sulla base di un trial per il trattamento dell’ambliopia: i bambini
sono stati invitati a giocare con un videogioco portatile per un’ora al giorno con la finalità di
catturare la loro attenzione nel miglior modo possibile7, così da poter ottenere un’adesione
maggiore alla terapia occlusiva da parte dei piccoli pazienti.
Completamente differente è, invece, la finalità di una ricerca svolta in una popolazione “chiusa” ai
movimenti migratori, come quella di Singapore, per poter valutare l’eventuale incidenza dell’uso
dei videogiochi sulle modificazioni refrattive. Si tratta di uno studio epidemiologico in cui sono
state esaminate per un periodo di 3 anni le modificazioni della refrazione in gruppi familiari di
bambini (7-9 anni) in relazione alle attività svolte. Lo studio ha preso spunto dal fatto che, nelle
ultime due generazioni, l’incidenza della miopia nel Sud-Est asiatico è cresciuta notevolmente. Dai
risultati non può essere escluso che quest’incremento sia collegato al maggior tempo speso in
attività di intrattenimento legate all’utilizzo di videoterminali (VDT) e videogiochi8.
Ovviamente i videogiochi sono strettamente legati a tutta la patologia da videoterminale; quindi, al
rischio di comparsa di disturbi quali arrossamento oculare, secchezza associata a bruciore e blefariti.
Si tratta di problematiche già conosciute e ben descritte dalla letteratura scientifica e su cui i medici
del lavoro si sono impegnati per poter regolamentare l’utilizzo del videoterminale sul posto di
lavoro. Per poter prevenire la comparsa di questi disturbi nei videogiocatori bisognerebbe, quindi,
cercare di applicare queste norme come, per esempio, sospendere dell’attività ogni 120 minuti per
almeno 15 minuti.
La seconda parte del nostro studio si è, invece, incentrata sulla ricerca e l’analisi delle normative
vigenti in ambito UE e italiano. Questa è stata la sezione più ardua della nostra ricerca e, alla fine,
quella con minori risultati: l’unica legge che riguarda marginalmente i videogiochi è quella che
regolamenta la costruzione dei giocattoli, in particolare i rischi associati alle loro componenti e alla
possibilità di danno meccanico. Si tratta della Direttiva 88/378/CEE del Consiglio del 3 maggio
1988 relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti la sicurezza dei
giocattoli, dove però tra i prodotti che non sono considerati come giocattoli ai sensi della presente
direttiva (Articolo 1, paragrafo 1), al punto 18, vengono citati i “videogiochi collegabili ad un
apparecchio televisivo, alimentati da una tensione nominale superiore a 24 volt”. Quindi, tutti i
videogiochi che si collegano a un monitor non sono considerati giocattoli e, dunque, non rientrano
in questa direttiva mentre, ad esempio, i videogiochi portatili non devono sottostare a una
regolamentazione che riguardi il tipo di gioco. In questo caso ci si occupa soltanto degli aspetti
meccanici, per cui si regolamentano la costruzione, il tipo di componenti usati e il possibile rischio
di danni legato agli stessi. Tuttavia, non si parla di malattie associate all’utilizzo prolungato dei
videogiochi.
In Italia non esiste alcuna normativa al riguardo, ho contattato personalmente dei responsabili di due
tra le più importanti case produttrici e di sviluppo di videogiochi italiane, e anche dai diretti
responsabili ho avuto conferma del fatto che per lo sviluppo e la produzione non siano attualmente
posti dalla legge italiana ed europea dei vincoli.
Al momento, quindi, l’unica normativa che si può associare all’uso dei videogiochi è quella che
regolamenta lo svolgimento di attività al videoterminale. Tuttavia, si tratta di un estratto della
Gazzetta Ufficiale (N. 244 del 18-10-2000) applicabile soltanto in ambito lavorativo.
In conclusione, si può affermare che l’uso dei videogiochi – soprattutto se si protrae per lunghi
periodi –, può portare a sviluppare un carattere aggressivo e provocare alterazioni del sonno; inoltre,
in soggetti predisposti i videogiochi possano essere un fattore scatenante di crisi epilettiche.
Tuttavia, al momento non c’è alcuna evidenza scientifica di associazioni tra patologie del sistema
visivo e videogames, ma riteniamo che – essendo poche le ricerche al riguardo e trattandosi, invece,
di un fenomeno in crescita esponenziale soltanto nell’ultimo decennio – non si possano escludere in
futuro possibili sviluppi in questa direzione.
Bibliografia
1. Assessment of a computer game as a psychological stressor Indian J Physiol Pharm 2006; 50 (4)
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2. Human photosensitivity: from pathophysiology to treatment Eur J Neurol. 2005; 12 (11): 828-41
3. Effects of playing a comnputer game using a bright display on presleep physiological variables,
sleep latency, slow wave sleep and REM sleep J Sleep Res. 2005 Sep; 14 (3): 267-73
4. VP Matthews, Indiana University School of Medicine
5. Action video game experience alters the spatial resolution of vision CS Green, D.Bavalier.
Psychological Science 2007; 18 (1): 88-94.
6. Action Video game modifies visual selective attention CS Green, D.Bavalier. Nature Vol 423 29
May 2003
7. Randomized Trial of Treatment of Amblyopia in Children Aged 7 to 17 Years Pediatric Eye
Disease Investigator Group Archives of Ophthalmology Volume 123 (4), April 2005, p437-447
8. Correlations in refractive errors between siblings in the Singapore Cohort study of Risk-factors
for myopia. Guggenheim et al. Cardiff University, UK British J Ophthalmology 2006 Nov 29
A proposito di…
Titolo:
Sull’utilizzo di Bevacizumab (Avastin) – Riflessioni
di N. Pescosolido*, P. Karavitis**
* Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, I Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dipartimento
delle Sciense dell’Invecchiamento
** Dipartimento di Scienze Oftalmologiche
Sommario:
In data 23/05/07 il direttore generale dell’AIFA ha inserito l’Avastin nei farmaci erogabili dal SSN
per il trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare. Gli Autori reputano
utile fare alcune riflessioni
Introduzione
In data 23/05/07 il direttore generale dell’AIFA ha inserito l’Avastin nei farmaci erogabili dal SSN
per il trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare. Gli Autori reputano
utile fare alcune riflessioni sull’argomento relativamente alla maculopatia degenerativa dopo aver
descritto le caratteristiche del farmaco.
Lo sviluppo del Bevacizumab (AVASTIN, rhuMAb, Genentech inc., San Francisco, California,
U.S.A.) parte nel 1997 quando viene umanizzato l’anticorpo anti-VEGF Mab A.4.6.1122 del topo
(Presta et al., 1997). La creazione del farmaco è avvenuta grazie alla mutagenesi diretta contro
regioni specifiche di un anticorpo umano con sostituzione di residui delle sei regioni di
determinazione ed anche parecchi residui della struttura con controparti murine. Il bevacizumab
limita il VEGF con affinità molto simile a quella dell'anticorpo originale del topo (Kd ~0.5 nM). In
comune con le relative controparti del topo, il bevacizumab lega e neutralizza tutte le isoforme
umane del VEGF-A. L'epitopo legante del bevacizumab è stato definito con analisi strutturale
cristallina in un complesso legante il Fab (Muller et al., 1998) con un peso molecolare di 150 kD.
Quest'analisi predice che la Gly in posizione 88 del VEGF umano è essenziale per il legame con il
bevacizumab e che questo residuo inoltre è alla base della specificità di specie del bevacizumab,
poiché un residuo di serina è stato trovato nel VEGF del topo e del ratto alla posizione
corrispondente. La produzione avviene nell’hamster cinese ed è pensata in modo tale da poter
garantire grandi quantità a prezzi relativamente bassi. Il bevacizumab non neutralizza altri membri
della famiglia del gene di VEGF, quali VEGF-B o VEGF-C.
La FDA Americana ha approvato il bevacizumab per il trattamento del cancro colon-rettale nel
febbraio del 2004 come trattamento di prima scelta. La FDA fa il punto su gli effetti collaterali
come l’aumento della pressione sistemica e la mancata guarigione delle ferite, quando
somministrato per via sistemica (FDA press release 2/2004).
Spiegazione razionale per il trattamento dell’ARMD con bevacizumab
L’inibizione del VEGF-A è stata documentata come una valida strategia terapeutica per il
trattamento dell’ARMD e in commercio esistono già due farmaci che sfruttano questo meccanismo.
Il primo è stato il pegaptanib sodico (Macugen, OSI/Eyetech, NY, USA) che agisce bloccando
soltanto l’isoforma 165 (Gragoudas et al., 2004) mentre il secondo è il ranibizumab (Lucentis,
Genentech, California, USA) che non è altro che un derivato purificato del bevacizumab stesso. Le
caratteristiche di lucentis sono diverse da macugen visto che blocca indistintamente tutte le
isoforme del VEGF-A. Fig-1.
Didascalia fig. 1
Fig. 1- Possibili strategie terapeutiche per la degenerazione maculare legata all’età. L’induzione
della proliferazione e migrazione cellulare dovuta all’azione del VEGF-R con aumento della
permeabilità vascolare e la neovascolarizzazione bloccati dai farmaci Macugen, Lucentis ed
Avastin. (Da Bhisitkul., 2006)
Nelle rigorose sperimentazioni cliniche il lucentis ha dimostrato un’efficacia mai vista prima per la
cura di una patologia ostica come la degenerazione maculare essudativa legata all’età (Rakic et al.,
2003; Rosenfeld et al., 2006) hanno dimostrato che le membrane neovascolari estratte da pazienti
affetti da ARMD contengono in pari misura mRNA sia per l’isoforma 165 che per quella di minore
peso molecolare da 121 kD. Questa caratteristica che fa la differenza tra macugen e ranibizumab è
conservata anche in bevacizumab, anche se con una minore affinità di circa 3 o 6 volte per il legame
con il VEGF da parte di quest’ultimo (Chen et al., 1999; Ferrara et al., 2004). Il bevacizumab ha 2
siti di legame per il substrato rispetto ad uno solo del ranibizumab.
Queste affinità insieme al costo considerevolmente più basso del bevacizumab rispetto al
ranibizumab hanno spinto diversi medici ad usare il primo, anche in assenza di prove d’efficacia
dimostrate (off-label use).
Dati sulla farmacocinetica e la tossicità
Le proprietà farmacocinetiche di bevacizumab sono state in precedenza descritte in parecchie specie
e consistono in quelle di un tipico anticorpo monoclonale umanizzato (Lin et al., 1999). Il tempo di
emivita del bevacizumab in esseri umani è di 17-21 giorni. Inoltre, è d’importanza fondamentale
che nessuna prova di risposta anticorpale a bevacizumab sia stata segnalata in tutti i test clinici
finora effettuati, verificando il successo del processo dell'umanizzazione.
La penetrazione del bevacizumab sulla retina dei primati è stata documentata da Heiduschka et al.
(2007) tracciando il farmaco con iodio radioattivo. I risultati dimostrano chiaramente la
penetrazione nell’epitelio pigmentato retinico, la coroide e gli strati esterni dei fotorecettori con
meccanismi di trasporto attivo. Il bevacizumab è rilevabile ad una settimana di distanza nel sangue.
Bakri et al. (2007) hanno condotto un esperimento su 20 conigli per verificare la farmacocinetica
del bevacizumab alla dose di 1.25 mg ed andando a controllare i livelli della concentrazione
nell’acqueo, vitreo e nel siero. Hanno concluso che il tempo di emivita nel vitreo è di 4.32 giorni
nell’occhio di coniglio mentre riportano bassissime concentrazioni nell’occhio controlaterale non
trattato. La massima concentrazione nel siero è stata raggiunta dopo 8 gg e corrisponde allo 0.8%
della massima concentrazione nel vitreo. Sfortunatamente la sperimentazione per la farmacocinetica
del ranibizumab è stata eseguita sulla scimmia (Gaudreault et al., 2005), quindi i due modelli non
sono confrontabili.
Per valutare le possibili proprietà citotossiche ed antiproliferative di bevacizumab Spitzer et al.,
(2006) l’hanno testato su cellule dell’epitelio pigmentato retinico umano (ARPE19), cellule
retiniche ganglionari del ratto (RGC5) e cellule epiteliali coroideali del maiale. Gli Autori
affermano che una certa tossicità viene riscontrata a dosi elevate (2.5 mg/ml) mentre alla
concentrazione di 0.25 mg/ml può essere considerato sicuro. (Notare che la dose più ampiamente
utilizzata è di 0.05 ml che corrispondono a 1.25 mg, quindi 5 volte inferiore alla dose presa in
considerazione in questo studio).
Prove cliniche di fase II
L'utilizzo intravitreale (iv) di bevacizumab per il trattamento delle malattie coroideo-retiniche
mediate dal fattore di sviluppo endoteliale vascolare (VEGF) si è sparso su tutto il globo in meno di
sei mesi a partire dal primo case report (Rosenfeld et al., 2005). I più ovvi motivi per l'adozione
veloce dell’Avastin iv comprendono la base scientifica razionale per il trattamento, l'efficacia in
modo schiacciante segnalata per il farmaco strettamente connesso conosciuto come Lucentis
(Ranibizumab, Genentech inc.) (Genentech press release, 2006), la presenza di un enorme necessità
di impedire la cecità delle malattie VEGF-mediate, l'acuità visiva (AV) ed i miglioramenti
anatomici apprezzati dai pazienti e dai medici, l’apparente sicurezza di breve durata ed il basso
costo all’acquisto del bevacizumab iv in confronto alla concorrenza. L'uso di Avastin intravitreale si
è sparso di bocca in bocca alle riunioni, via e-mail, dalle società specializzate sul settore, dai
giornalisti e dai pazienti. Per la prima volta, gli oftalmologi dappertutto potrebbero offrire alla vasta
maggioranza dei loro pazienti accesso ad uno tra i più innovativi farmaci di progettazione
biotecnologica ad un prezzo basso. I dati dai primi studi pubblicati sembrano sostenere le esperienze
cliniche aneddotiche degli oftalmologi dappertutto, cioè che l’Avastin iv sembra efficace e sicuro
(Avery, 2006A; 2006B; Manzano et al., 2006; Maturi et al., 2006; Shahar et al., 2006; Spaide et al.,
2006). Bashshur et al. (2006) sono stati i primi a pubblicare uno studio prospettico sul bevacizumab
iv per il trattamento della degenerazione maculare legata all'età (ARMD). All'Università Americana
del centro medico di Beirut, Bashshur et al. hanno potuto iniziare uno studio prospettico nell’agosto
del 2005 senza nessun permesso regolatore tranne quello dell'Ospedale per usare Avastin iv in una
logica compassionevole verso i malati. Nel Libano, non ci è una politica nazionale sulla
sperimentazione che richiede l'approvazione da parte d’un comitato d'esame istituzionale, tuttavia, il
rapporto degli Autori riporta il consenso informato per il trattamento ottenuto da tutti i pazienti
arruolati. Mentre nella maggioranza dei Paesi non è accettato che un tale programma di ricerca
possa essere iniziato senza supervisione più rigorosa, il protocollo utilizzato in questo studio era
simile a quelli di parecchie strategie di trattamento attualmente effettuate dappertutto per l'uso offlabel di bevacizumab iv nella terapia sistemica dei pazienti con ARMD neovascolare con
un'eccezione principale. In questo studio, Bashshur et al. hanno utilizzato infatti una dose
intravitreale di 2.5 mg, superiore alla dose di 1.25 mg ora utilizzata nella maggior parte delle
pratiche cliniche. La loro scelta di 2.5 mg è stata basata sul presupposto che una dose elevata
potesse avere una maggiore efficacia. Gli Autori hanno scelto di somministrare a 17 occhi ad
intervalli mensili per le prime tre iniezioni e segnalano i loro risultati a 12 settimane, quattro
settimane dopo la loro ultima iniezione.
L'AV, sia media che mediana a 12 settimane, è migliorata considerevolmente contemporaneamente
ad una profonda diminuzione nello spessore retinico centrale da 1 µm ottenuta usando la tomografia
ottica a coerenza (OCT). Fig-2.
Didascalia fig. 2
Fig 2 – Scansioni di Tomografia a Coerenza (OCT) e misurazioni dello spessore retinico centrale
(CRT) per un occhio con neovascolarizzazione coroideale subfoveale (CNV) dovuta ad ARMD.
Risoluzione completa del liquido sub retinico dopo la prima iniezione iv di bevacizumab. In alto:
CRT di 236 µm con AV di 20/50. In mezzo: Una settimana dopo la somministrazione si registra
CRT di 184 µm. In basso: A 4 settimane dal trattamento la CRT è di 187 µm con AV di 20/50. A 12
settimane la OCT rimane invariata e l’AV è di 20/40. (Da Bashshur et al., 2006)
Questi risultati sono stati raggiunti in assenza d'infiammazione oculare ed in assenza di qualunque
evento avverso sistemico. Uno dei loro casi è particolarmente significativo perché dimostra un
minimo effetto apparente sulla fluoroangiografia dopo la prima iniezione mentre l'immagine con
l’OCT ha rivelato una profonda riduzione della quantità di liquido subretinico. Tredici dei 17 occhi
trattati (76%) hanno avuto una risoluzione totale del liquido sub retinico. Solo dopo la seconda
iniezione la fluoroangiografia ha potuto rivelare una profonda diminuzione nel leakage della lesione
neovascolare così come una diminuzione nell’estensione della lesione. Fig-3
Didascalia fig. 3
Fig 3 – Stesso occhio della fig-2.
Fluoroangiografia: In alto a sinistra e destra: Fasi iniziali e tardive, pretrattamento con CNV occulta.
In basso: Risoluzione del leakage a 4 settimane. La risoluzione persiste a 12 settimane. (Da
Bashshur et al., 2006)
Questo tipo di risultato sostiene peraltro l'impressione clinica che la OCT può essere più sensibile
dell'angiografia con fluoresceina nell'identificazione degli effetti di trattamento dalla
farmacoterapia.
Le limitazioni di questo studio comprendono il relativamente piccolo numero di occhi trattati ed il
breve follow-up di soltanto 12 settimane. Tuttavia, altri studi di fase II hanno avuto simili numeri di
pazienti e durata del follow-up.
Si è passati da piccoli studi come il case report di Jonas et al. (2006) di un solo paziente con
neovascolarizzazione occulta legata all’ARMD a lavori ben più consistenti come quelli di Avery et
al. (2006) con 79 pazienti, lo studio IBeNA (2006) con 45 pazienti e lo studio di Moshfeghi et al.
(2006) con 18 pazienti.
Partendo da quest’ultimo gli Autori si sono prefissati come obiettivo primario di valutare la
sicurezza, l’efficacia e la durata del trattamento della neovascolarizzazione coroideale (CNV) in
pazienti con ARMD con bevacizumab somministrato per via sistemica endovenosa a dosi di 5mg/kg
di peso corporeo. Tutti i pazienti hanno tratto giovamento dalla terapia sistemica con miglioramenti
nell’AV e diminuzione dello spessore retinico all’esame con OCT ma gli Autori concludono che
non ci sarà un futuro per questo tipo di somministrazione per la paura degli effetti collaterali, per lo
più a carico del sistema cardiocircolatorio e la gestione della pressione dei pazienti. Inoltre, il
dosaggio maggiore necessario per la somministrazione sistemica induce all’aumento del costo
complessivo del trattamento, problema questo per niente trascurabile.
Lo studio IBeNA (Intravitreal Bevacizumab for Choroidal Neovascularization Caused by AMD,
2006) eseguito da Costa et al. è stato disegnato per valutare 3 diverse posologie per una singola
somministrazione iv di 1.0, 1.5 e 2.0 mg con controlli a 1, 6 e 12 settimane. Anche in assenza di un
gruppo di controllo gli Autori concludono che tutti e tre i regimi di trattamento hanno quantomeno
stabilizzato o migliorato l’AV ed abbassato lo spessore retinico all’esame con OCT con risultati
leggermente migliori per quei pazienti trattati con 1.5 o 2.0 mg. Non si sono riscontrati effetti
collaterali sistemici avversi o locali. Il miglioramento dell’AV è risultato dose dipendente.
Avery et al. (2006) hanno impostato il loro studio su 79 pazienti dalla età media di 77 anni in gran
parte precedentemente trattati con terapia fotodinamica o con iniezione di pegaptanib (63/81 occhi
trattati, pari al 78%). Il 55% dei pazienti ha dimostrato una riduzione dello spessore retinico di
almeno il 10% al controllo della prima settimana mentre l’AV è migliorata mediamente da 20/200 a
20/80 al controllo delle 8 settimane. Gli Autori riconoscono le limitazioni di questo studio per la sua
natura retrospettiva, il numero limitato di pazienti arruolati ed il follow-up di solo 8 settimane ma
segnalano nessun effetto collaterale come uveite, endoftalmite o ipertensione oculare. Inoltre,
propongono delle somministrazioni a cadenze più ravvicinate, ogni mese, quando dati più
rassicuranti diventeranno disponibili riguardo la tossicità del farmaco.
Risultati leggermente inferiori alle aspettative sono stati registrati da Vaughn Emerson et al. (2007)
rispetto agli studi sopra menzionati. Gli Autori considerano queste differenze dovute al protocollo
utilizzato con somministrazioni flessibili a seconda delle necessità dei pazienti in base alla
ricomparsa di liquido sub-retinico e ad una migliore quantificazione dei risultati grazie all’utilizzo
del protocollo ETDRS per la verifica delle variazioni dell’AV.
Considerazioni sulla sicurezza
E’ difficile parlare della sicurezza di un farmaco che non ha affrontato l’iter completo ed ha avuto
l’approvazione della FDA solo per il trattamento tumorale. I problemi precedentemente esposti circa
la pressione sistemica e i sanguinamenti (Moshfeghi et al., 2006) non sembrano affliggere
particolarmente la somministrazione intravitreale. Su 45 pazienti volontari trattati da Kernt et al.,
(2006) con 1.25 mg iv nessuno ha avuto una variazione significativa ne per quando riguarda la
pressione sistemica ne tanto meno quella intraoculare.
Un problema che ritorna con le applicazioni iv è il danno all’epitelio pigmentato della retina (Nicolo
et al., 2006; Shah et al., 2006) ma si tratta di una problematica nota per questo tipo di
somministrazioni ed aggravata dalla necessità delle applicazioni ripetute.
Terapie di combinazione
Come per tutte le altre strategie terapeutiche anche per il bevacizumab si è pensato di provare una
terapia di combinazione con la fotodinamica (PDT) con verteporfina.
Dhalla et al. (2006) su un totale di 24 occhi trattati con 1,25 mg di bevacizumab intravitreale e PDT
hanno riscontrato al controllo dei 7 mesi l’83% dei pazienti con una stabilizzazione dell’AV mentre
il 63% degli occhi ha richiesto una sola somministrazione della terapia combinata per la risoluzione
della CNV. Fig-4.
Didascalia fig. 4
Fig 4 – Terapia di combinazione PDT e Bevacizumab. A: Fotografia di fondo con evidente
emorragia, fluido sub retinico e membrana juxtafoveale grigia. B: Fluoroangiografia con leakage,
CNV dovuta ad ARMD. C: OCT con liquido sub retinico. D: OCT dopo 1 settimana di trattamento
con PDT e Bevacizumab: Risoluzione del versamento ed architettura maculare normalizzata. (Da
Dhalla et al., 2006)
In aggiunta non ci furono complicazioni o ipertensione oculare.
Costa et al. (studio IBeVe, 2007) con i dati raccolti da un piccolo studio prospettico su 11 pazienti
suggeriscono che la somministrazione di bevacizumab anche dopo un trattamento antecedente con
PDT può essere utile per la stabilizzazione dell’ARMD.
Dati simili emergono anche da altri studi (Aggio et al., 2006; Lazic et al., 2007). Non sembrano
esserci effetti avversi dalla combinazione delle due tecniche e tutti gli Autori suggeriscono il
potenziale di questa terapia. Ulteriori dati su vasta scala devono essere raccolti prima di proporla
come terapia di riferimento.
Alcuni Autori sono arrivati a proporre una tripla terapia di combinazione con verteporfin-PDT a
bassa fluenza (42 j/cm2 per 70 sec), bevacizumab (1.5 mg) e desametasone (800 µg) (Augustin et
al., 2007). Questo studio prospettico senza gruppo di controllo è stato eseguito su 104 pazienti con 5
di loro che hanno dovuto affrontare un secondo ciclo di trattamento e 18 che hanno ricevuto una
seconda iniezione di bevacizumab. Il follow-up è stato mediamente di 40 settimane con un aumento
nell’AV di 1.8 linee ed una diminuzione dello spessore retinico di 182 µm. La tripla terapia ha
dimostrato un buon miglioramento dell’AV ma il risultato più importante è quello di non dover
trattare ripetutamente i pazienti con un notevole abbassamento del costo totale della terapia.
Inoltre, si è proposta la tripla terapia con PDT, bevacizumab e triamcinolone (Ahmadied et al.,
2007). Anche in questo studio prospettico i risultati sono promettenti ma l’esiguo numero di
pazienti trattati (17 in tutto) non è sufficiente a trarre conclusioni significative.
Ulteriori dati su vasta scala devono essere raccolti prima di proporre questi schemi come terapie di
riferimento.
Conclusioni
Molte domande persistono per quanto riguarda la dose ottimale ed intervallo di dosaggio per
Avastin intravitreale. Fig-5.
Didascalia fig. 5
Fig 5 – Tecnica d’iniezione intraoculare con bevacizumab intravitreale (iv)
Anche dopo le prove di fase III con Lucentis e Macugen, ancora non conosciamo la dose ottimale o
l'intervallo di dosaggio ottimale per questi farmaci. Se escludiamo quei ricercatori critici con
evidenti conflitti finanziari bisogna ascoltare le critiche valide e cioè se si può iniettare Avastin iv
senza grandi studi prospettici che ne sostengono la relativa sicurezza. Alcuni medici sono arrivati a
dire che l'uso di Avastin intravitreale è un’infrazione del giuramento d’Ippocrate “Primum non
nocere”. Il giudizio per il trattamento con Avastin è basato sull'applicazione razionale di prove
scientifiche conosciute senza un’acquisizione completa della sicurezza e dell'efficacia. Come la
maggior parte dei clinici sanno dalla loro pratica quotidiana, la conoscenza completa è raramente
disponibile prima che una decisione possa essere presa ma la migliore conoscenza disponibile deve
essere applicata a beneficio del paziente. La base per la nostra decisione clinica coinvolge una
discussione e un consenso reciproco fra il medico ed il paziente. Attualmente, sembra esserci un
consenso globale che la strategia di trattamento con Avastin intravitreale sia logica, i rischi
potenziali ai nostri pazienti sono minimi e la redditività è così evidente che il trattamento non
dovrebbe essere negato (Steinbrook, 2006).
La risposta a tutto ciò verrà soltanto con uno studio clinico su larga scala, multicentrico che metterà
a confronto la sicurezza e l’efficacia di Avastin e Lucentis. Questo studio è attualmente in via di
sviluppo grazie ai fondi del NATIONAL EYE INSTITUTE Americano (Larkin, 2007) e solo allora,
a parere nostro, potremmo inserire il medicinale Avastin nell’elenco di quelli erogabili a totale
carico del Servizio Sanitario Nazionale nel trattamento delle maculopatie degenerative essudative.
Nell’attesa il farmaco dovrebbe seguire le procedure di trattamento off-label.
Quando riportato è una priorità imprescindibile a salvaguardia della credibilità della professionalità
dei medici oculisti italiani.
Peraltro, si manifestano dei dubbi su quando riportato nell’allegato 1 della precedente
determinazione (GU 122 del 28/5/2007):
Indicazioni terapeutica: trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare.
Criteri di inclusione: pazienti con maculopatia essudativa e/o glaucoma neovascolare.
Criteri di esclusione: maculopatie non essudative e patologie oculari non caratterizzate da
neovascolarizzazione.
Se questi criteri di esclusione hanno una qualche valenza significa dire che l’Avastin potrà essere
somministrato nelle neovascolarizzazioni post-trombotiche, nelle retinopatie diabetiche proliferanti,
etc… e quindi una palese contraddizione rispetto ai criteri d’inclusione.
Come si può augurare un proficuo lavoro ai medici specialisti con la necessità di un approfondito
monitoraggio dell’applicazione di questa normativa cosi lacunosa? Come si possono riportare
possibili abusi o violazioni se i criteri d’inclusione ed esclusione sono stati cosi presentati? Quanto
riportato è sufficiente per la nostra credibilità quando per il farmaco non vi è ancora nessuna prova
clinica in fase III considerando che altre molecole come il pegaptanib sodico (Macugen) ed il
ranibizumab (Lucentis) sono già in commercio ed in fase IV?
Quanto riportato non esclude minimamente che il farmaco possa diventare a parere nostro la prima
scelta in un futuro non remoto nel trattamento della maculopatia degenerativa essudativa ma per ora
la realtà è quella riportata.
Parole chiave
avastin, bevacizumab, maculopatia degenerativa legata all’età
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News dall’Italia
Titolo:
Visione, ipovisione, contrasto
La luce oltre il bianco per vedere meglio
di C. Boschetto
Sommario:
Il massimo del contrasto si ottiene scrivendo con la luce... La Readylight ha creato la lavagna
Grafilux che permette di percepire segni con 1/50 di visus
Istintivamente si pensa che il bianco sia il colore più luminoso ed il nero l’assenza di luce, cosicché
il massimo del contrasto si ottenga scrivendo in nero su foglio bianco o in bianco su lavagna nera.
Non è così: il massimo del contrasto si ottiene scrivendo con la luce.
Tracciando un segno luminoso, persino su un fondo bianco, si ottiene un contrasto decine di volte
maggiore di quello che separa il bianco dal nero. Ed è solo così che un ipovedente grave può vedere
ciò che l’insegnante o egli stesso sta scrivendo e quindi partecipare attivamente ad una lezione che
comporti l’uso di grafica.
Abbiamo detto un segno luminoso, cioè che emetta luce: non un segno illuminato assieme allo
sfondo, non un fondo retroilluminato, uniformemente luminoso e perciò stesso privo di contrasto.
La tecnologia che consente di tracciare segni luminosi deriva dalle fibre ottiche che, come
sappiamo, trasportano la luce dalla sorgente al punto di arrivo, e solo lì la rendono di nuovo visibile.
Questa nuova tecnologia è stata inventata dalla Readylight che ha creato la lavagna Grafilux
composta da una lastra particolare, una specie di fibra ottica piana che trasporta la luce in modo
invisibile fino ai segni tracciati sulla propria superficie, e solo attraverso questi la riemette verso chi
guarda. I segni sono così brillanti da essere percepibili anche con un solo cinquantesimo di visus.
UNO STUDIO QUALIFICATO
Il compito di studiare possibilità e limiti di questo nuovo ausilio per ipovedenti è stato assunto dalla
Dottoressa Maria Luisa Gargiulo, psicologa ipovedente, membro della Commissione Nazionale
Ipovedenti dell’U.I.C.
La ricerca è stata svolta in ambito sia ospedaliero che didattico e di seguito se ne riportano i punti
salienti.
Resoconto delle applicazioni in campo tiflologico
Il Sistema “Grafilux” costituisce uno strumento efficace per permettere alle persone con basso
residuo visivo di accedere alla grafica, sia come fruitori sia come diretti realizzatori.
Il Sistema è stato sottoposto alla prova con persone di differenti età e condizioni funzionali:
• I gravi ipovedenti dalla nascita.
• I disabili visivi con deficit progressivo ad insorgenza tardiva.
Il Sistema “Grafilux”, grazie all’alto contrasto di luminanza ed all’alta saturazione e coerenza
cromatica, costituisce un mezzo per permettere anche a soggetti con un bassissimo livello di
discriminazione e risposta alla luce, di effettuare attività grafiche.
Resoconto dell’attività in situazione riabilitativa
Le “Grafilux” sono state impiegate in maniera ottimale come ausilio nella riabilitazione della
persona ipovedente, anche pluriminorata, in quanto consentono attività che agevolano il recupero di
alcune importanti funzioni psicomotorie:
• La coordinazione oculomanuale: l’uso del Sistema “Grafilux” permette infatti alla persona
ipovedente di controllare e dirigere i propri movimenti attraverso informazioni visive e di avere un
costante feedback visivo, stabilendo una relazione causale tra il movimento compiuto dal braccio e
dalla mano e la traccia lasciata. Molti bambini ipovedenti non stabiliscono una corretta
coordinazione oculomanuale per il semplice fatto che in condizioni normali non sono in grado di
vedere i movimenti della loro mano e quindi non possono essere in grado di coordinarli con il
controllo visivo.
• La motricità fine: attraverso i movimenti coordinati delle dita, del polso e del braccio, viene
affinata e rafforzata la coordinazione tra tutte le articolazioni interessate, permettendo alla persona
di avere un controllo costante della qualità dei suoi movimenti volontari, attraverso la verifica visiva
del tratto prodotto.
• La rieducazione al riconoscimento visivo delle forme, dei colori e delle organizzazioni spaziali
complesse, che possono essere più facilmente percepite e conseguentemente elaborate
cognitivamente.
• L’orientamento spaziale bidimensionale: il tracciamento a forte contrasto permette infatti, anche
agli ipovedenti gravi, di imparare a rappresentare la realtà in forma bidimensionale, cosa che
sarebbe impossibile se utilizzassero soltanto strumenti di rappresentazione tattile a rilievo
(tridimensionali).
• La formazione, il consolidamento od il recupero dei concetti topologici: attraverso esercizi che
permettono di migliorare la comprensione dei rapporti spaziali degli elementi presenti sul piano
rispetto a quest’ultimo o relativamente alla loro organizzazione interna a vari livelli di complessità.
Risultati
Le persone che si sono giovate di questo tipo di effetto del Sistema “Grafilux” sono tutte in età
infantile e preadolescenziale (dall’età di 1 anno e 4 mesi fino ai 12 anni).
Il sistema “Grafilux” è stato utilizzato nel corso di trattamenti riabilitativi di diverso genere, in
special modo nel corso di psicomotricità e di attività di stimolazione visiva da parte di ortottisti e
terapisti della riabilitazione.
In genere si è trattato di soggetti con minorazione visiva primaria ovvero acquisita nei primissimi
mesi di vita, in molti casi associata a ritardo psicomotorio. La massima parte delle patologie sono
state riconducibili alla retinopatia del prematuro, soprattutto nei casi di bambini molto piccoli.
Sono stati anche trattati soggetti con altre patologie a carico del sistema visivo sia per quanto
riguarda l’occhio che di origine centrale, quali opacità corneale, nistagmo congenito, retinopatia
pigmentosa, glaucoma, coloboma e microftalmo, ecc.
In tutti i casi in cui è presente un residuo visivo sia pur minimo è stato possibile l’utilizzo del
Sistema “Grafilux”.
Precisamente, il visus più basso in presenza del quale è stato possibile utilizzare il Sistema
“Grafilux” è stato di un cinquantesimo non correggibile in entrambi gli occhi.
Utilizzo in situazione didattica
Questo sistema ha permesso ad alcuni allievi ipovedenti di seguire attività didattiche che prevedono
l’utilizzo di forme di rappresentazione grafica bidimensionale come in particolari discipline
curricolari quali il disegno, la geografia, l’algebra, la geometria piana, la storia dell’arte.
Con questo strumento si evitano gli inconvenienti derivanti dalla traduzione delle rappresentazioni
figurative necessarie per la didattica di queste discipline in forme tattili a rilievo, che spesso non
possono sostituire altrettanto efficacemente i disegni.
Il Sistema “Grafilux” è stato inserito tra i materiali didattici di alcuni alunni ipovedenti della scuola
dell’obbligo e superiore.
In particolare l’uso elettivo dei pannelli di grande dimensione è quello della sostituzione della
lavagna normale di classe.
Quando ciò è avvenuto si sono potuti osservare i seguenti risultati:
1. L’alunno ipovedente non ha più bisogno di una riproduzione personalizzata dei disegni prodotti
dall’insegnante durante le sue lezioni, in quanto quest’ultimo utilizza la lavagna a forte
tracciamento luminoso per spiegare a tutta la classe. Quando il residuo visivo non permette
all’alunno ipovedente di seguire correttamente la spiegazione dal suo banco, l’insegnante
interrompe brevemente la sua spiegazione per permettergli di avvicinarsi e guardare i disegni
oggetto della lezione. In tutti i casi vi è stata una maggiore integrazione e socializzazione
dell’alunno nel contesto didattico della classe, non essendo più stato necessario l’intervento
dell’insegnante di sostegno per riprodurre i disegni oggetto della lezione su altri supporti o formati,
appositamente per l’alunno ipovedente.
2. L’alunno ipovedente ha potuto sostenere le interrogazioni e le prove di verifica con le stesse
modalità dei suoi compagni, evitando inconvenienti derivanti dalla mancanza di standardizzazione
delle prove suddette.
3. L’alunno ipovedente ha potuto seguire le prove individuali dei suoi compagni nel momento in
cui essi le hanno effettuate, intervenendo a questa importante attività di apprendimento ed
integrazione della classe.
Nei casi di ipovisione medio-lieve è molto frequente riscontrare una difficoltà da parte dei familiari
e degli insegnanti ad attribuire correttamente bisogni e necessità speciali all’allievo ed altresì si
riscontra frequentemente una difficoltà da parte di quest’ultimo a manifestare apertamente le sue
difficoltà nel percepire lo scritto su di una lavagna comune. A questo sono associati di solito
comportamenti di depistamento da parte dell’alunno quando l’insegnante si accorge che egli non
segue. È facile che egli giustifichi questo con distrazione, dissenso o altro. In questi casi l’alunno
apprende solo dalla parte verbale delle spiegazioni e spesso dà l’impressione di aver visto i disegni
solo perché egli deduce ciò che viene scritto dai dialoghi e dai commenti ai disegni stessi. In questi
casi, dopo l’introduzione della “Grafilux” si è potuto riscontrare un netto miglioramento della
comprensione e del raggiungimento degli obbiettivi didattici in quanto per l’alunno ipovedente è
possibile seguire e comprendere tutti i vari passaggi delle spiegazioni.
4. La lavagna Grafilux può essere usata come strumento dimostrativo e di spiegazione da parte
dell’insegnante, che in tal modo mette l’alunno ipovedente in condizione di seguire insieme a tutti i
suoi compagni la lezione con sforzo oculare e di attenzione infinitamente minore rispetto a
quello che sarebbe necessario in presenza di una lavagna comune.
Una piccola Grafilux può essere adoperata anche direttamente dall’alunno a casa propria nelle sue
produzioni grafiche durante lo studio. In questo modo l’insegnante può valutare la preparazione
dell’alunno in modo più sereno, in quanto le produzioni saranno meno influenzate dalla sua
minorazione visiva. Gli elaborati creati in condizioni di basso contrasto rendono infatti molto
difficile per l’insegnante attribuire gli errori al mancato raggiungimento degli obiettivi didattici
piuttosto che al deficit visivo.
Conclusioni
Attraverso l’utilizzo costante della lavagna Grafilux a tracciamento luminoso si è constatato che, in
situazione riabilitativa, essa consente di recuperare una serie di funzioni psicomotorie come:
• la coordinazione oculomanuale
• la motricità fine
• il riconoscimento visivo di forme, colori e organizzazioni spaziali complesse
• l’orientamento spaziale bidimensionale
• la formazione, il consolidamento o il recupero dei concetti topologici
La sua adozione in ambiente didattico ha invece favorito:
• una migliore concentrazione ed un minore sforzo nel seguire le lezioni
• un miglioramento sensibile del rendimento
• una maggiore indipendenza dall’intervento dell’insegnante di sostegno
• la socializzazione e l’integrazione dello studente ipovedente con il resto della classe
Informazioni più dettagliate, contributi video ed audio e la relazione completa sono disponibili sul
sito dell’azienda produttrice delle lavagne Grafilux: www.readylight.it.
Lavori scientifici
Titolo:
Epidemiologia della cecità ed ipovisione nell’infanzia: indagine su un campione di soggetti con
handicap visivo che hanno presentato domanda per ottenere una borsa di studio
di F. Cruciani, V. Silvestri, F. Amore
Università “La Sapienza” - Roma Dipartimento di Scienze Oftalmologiche (Dir. Prof. C. Balacco
Gabrieli)
IAPB - Italia (Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, Sezione Italiana)
Abstract
Gli autori svolgono un’indagine statistica sulle cause di cecità e loro prevalenza nell’infanzia allo
scopo di fornire un quadro epidemiologico del fenomeno handicap visivo in Italia.
La fonte dati utilizzata è stata la certificazione oculistica presentata da soggetti non vedenti giovani
per un concorso per sussidio scolastico.
Gli AA. presentano anche dati forniti dall’Istituto dei Ciechi di Milano, dal ministero della Pubblica
Istruzione e dall’ISTAT.
Introduzione
Le minorazioni visive nel bambino hanno oggi, nel nostro Paese, una prevalenza ed incidenza bassa
ma un impatto psico-sociale molto rilevante.
L'ipovisione che compare alla nascita o precocemente nell'infanzia crea, infatti, situazioni più
complesse rispetto all'adulto perché essa, oltre a determinare una disabilità settoriale, interferisce
con numerose aree dello sviluppo e dell'apprendimento.
Nell'ambito delle funzioni percettive, la vista riveste un ruolo centrale nello sviluppo neuromotorio,
cognitivo e affettivo del bambino, tanto da poterla definire come il primo strumento di interazione
con la realtà circostante.
Un deficit di questo canale senso-percettivo costituisce un serio fattore di rischio per lo sviluppo
neuropsichico del soggetto, poiché compromette anche aree apparentemente lontane dalla funzione
visiva.
La ridotta e alterata percezione visiva, per esempio, non specifica a sufficienza né le caratteristiche
degli oggetti, né i rapporti spaziali tra di essi; ciò comporta spesso un ritardo nella formazione dei
concetti ed una scarsa consapevolezza delle relazioni spaziali. Ne deriva un deficit dello sviluppo
motorio.
Lo sviluppo visivo può stimolare delle risposte da parte del sistema motorio addirittura all'età di 5 o
6 mesi, da parte del sistema percettivo da 6 a 7 mesi e da parte del sistema cognitivo ad 1 anno di
età.
Bisogna ricordare che esiste un "periodo plastico" che in genere si identifica tra la nascita e i due, tre
anni di vita, durante il quale il sistema visivo è particolarmente plastico e il suo sviluppo dipende
dalla qualità della stimolazione a livello dei coni foveali.
Durante questo periodo critico di maturazione, se l’ occhio viene privato delle esperienze visive, le
proprietà dei suoi neuroni non riescono a svilupparsi come previsto.
Lo sviluppo fisiologico del sistema visivo si ha entro i tre anni di vita, ma le possibilità terapeuticoriabilitative proseguono oltre.
Questa plasticità del sistema nervoso infantile, se da un lato rappresenta uno svantaggio per il
bambino, dall'altro permette però dei recuperi funzionali più significativi di quelli che si verificano
negli adulti.
Considerando che la vista ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo del bambino, è intuibile
come una compromissione della funzione visiva possa incidere in maniera rilevante sullo sviluppo
stesso e possa costituire un fattore di rischio per il formarsi del soggetto stesso e per l'acquisizione
successiva di codici adeguati di interazione sociale.
Il bambino ipovedente, infatti, può evidenziare atteggiamenti di dipendenza, passività, insicurezza,
tendenza all'isolamento, quale risultato delle strategie messe in atto per evitare le situazioni troppo
difficili per lui e, conseguentemente, molto ansiogene.
I bambini ipovedenti hanno esigenze specifiche per l’uso della propria capacità visiva.
L’ipovisione può ridurre le esperienze della vita, la velocità di lavoro, lo sviluppo motorio e la
capacità di orientamento, le abilità in attività pratiche.
L’ipovisione può, quindi, interferire con l’educazione del bambino come pure con lo sviluppo
emotivo e relazionale.
Da quanto sin qui detto si comprende come la consapevolezza dell’entità del fenomeno handicap
visivo nell’infanzia in Italia rappresenti un dato essenziale da cui partire per intraprendere qualsiasi
campagna di prevenzione, ovvero qualsiasi programma riabilitativo.
Non esistono nel nostro Paese lavori che definiscano l’epidemiologia del fenomeno cecitàipovisione nell’infanzia.
Con la presente indagine si vuole dare un contributo, sia pure limitato, in questo campo.
Scopo
Pertanto l’obiettivo che la presente ricerca si propone è quello di apportare informazioni sulle cause
principali di handicap visivo nell’infanzia in Italia.
Materiali e Metodi
Come fonte dati sono stati utilizzati certificati oculistici del residuo funzionale visivo e delle
malattie responsabili di bambini e adolescenti ipovedenti o non vedenti, che hanno presentato
domanda per il conferimento di un sussidio scolastico.
Il bando di concorso è istituito annualmente dal M.A.C. (Movimento Apostolico Ciechi) sotto la
denominazione di concorso Munõz a favore della integrazione scolastica di non vedenti.
Tutti i partecipanti devono presentare una documentazione oculistica in cui risulti non solo il
residuo visivo, ma anche la causa che ha determinato la condizione di cecità o d’ipovisione.
Nella presente indagine sono state prese in considerazione tutte le domande presentate nell’arco
temporale che va dall’ anno scolastico 1991/92 all’ anno scolastico 2004/05.
I casi sono risultati essere complessivamente 452.
Risultati
Come si è detto il campione in considerazione, è risultato composto da 452 soggetti.
Di questi i maschi sono 227,cioè il 50%, e le femmine risultano essere 225. (Tab. 1).
La tabella 2 presenta la distribuzione in base all’età dei soggetti al momento della presentazione
della domanda.
Da questa si può rilevare che il maggior numero dei richiedenti il conferimento del sussidio
scolastico, aveva l’età di 7 anni quindi il 13,5 %, 12 anni l’11.1 %, 15 anni il 10,9 %.
Emerge quindi, che le età più rappresentate sono i 7 anni, i 12 anni e i 15 anni.
Per quanto riguarda invece l’anno di nascita, sempre considerato in base al momento di
presentazione della domanda di partecipazione al bando, dalla tabella 3, sembrano essere i più
rilevanti gli anni: 1988 con 45 soggetti 10,0%, 1987 con 43 soggetti 9,5%, 1989 con 38 soggetti 8,4
%, e a seguire 1997 e 1991 con 28 soggetti ciascuno, 6,2%.
In base alla distribuzione territoriale del nostro campione, come si evince dalla tabelle 4, tutte le
regioni risultavano rappresentate sia pure con percentuali differenti.
Ai primi posti figurano la Sicilia, la Puglia, il Piemonte, la Campania e la Calabria, che peraltro
sono tra le più popolose in Italia.
Questo fatto conferisce una certa significatività al campione.
Le patologie responsabili delle minorazioni visive, sono invece riportate nella tabella 5.
E’ evidenziabile come le degenerazioni tapeto-retiniche assumano un ruolo di rilievo nelle
minorazioni visive dei soggetti presi in considerazione per tale studio.
Sotto la denominazione di degenerazioni tapeto-retiniche, le più frequenti sono state: retinite
pigmentosa, amaurosi congenita di Leber, la malattia di Best, la malattia di Stargardt.
In effetti, le suddette patologie sono state riscontrate in 138 soggetti, sul totale di 452, pari al 30,5
%.
A seguire, per ordine di frequenza, si trovano le otticopatie e la ROP.
Tra le prime l’atrofia ottica assume particolare importanza, riscontrata con notevole frequenza: 73
diversi soggetti, pari al 16,2 % di tutto il campione considerato.
La retinopatia del prematuro è risultata essere causa di minorazione visiva in 72 casi, pari 15,9 %
dell’ intera campionatura.
A seguire con 37, 36 prendono parte, come possibili patologie responsabili di handicap visivo, il
glaucoma e la cataratta congeniti, con percentuali dell’8,2%.
Con minore frequenza, rispetto alle suddette patologie, sono state trovate le anomalie del bulbo,
quali anoftalmo e microftalmo, il retinoblastoma, con 17 casi e una percentuale del 3,8 %, insieme
alle cheratopatie, il distacco di retina, in 12 soggetti, con una percentuale del 2,7 %, il nistagmo
congenito in 11 e le corioretiniti in 6 soggetti ciascuno con percentuali del 2,4% e dell’ 1,3%.
Per quanto riguarda, inoltre, la distribuzione dei soggetti considerando la scuola frequentata (tab.6),
come dato rilevante bisogna sottolineare che, al momento della presentazione della domanda di
partecipazione al concorso, ben 148 soggetti dei 452 considerati, risultavano iscritti alla scuola
elementare.
A seguire 122 dei minorati visivi, risultavano essere iscritti alla scuola media superiore, mentre 66
soggetti alla scuola materna.
Di seguito, 95 alla scuola media inferiore mentre, in ultimo, 21 soggetti risultavano essere iscritti
all’università.
Se si mettono a confronto le patologie osservate nei casi del nostro studio, con il sesso dei soggetti
considerati, è possibile notare come vi sia un’equa distribuzione fra i diversi tipi di malattie e il
sesso maschile e femminile. Infatti, in tutte le patologie osservate non vi è una prevalenza di un
sesso sull’ altro, ma si distribuiscono uniformemente (tab.7)
Inoltre, se si analizza il tipo di patologia, mettendola a confronto con la regione di provenienza del
soggetto affetto (tab.8), è possibile evidenziare, anche in questo caso, una distribuzione alquanto
uniforme.
Per quanto riguarda, ad esempio, la retinopatia del prematuro, le regioni con il maggior numero di
minorati si ha in Puglia con 13 casi e in Piemonte con 11 casi.
Questo risultato è di difficile interpretazione; sicuramente da valutare come fatto occasionale legato
alla propaganda fatta ai fini della partecipazione al concorso.
REGIONI
Piemonte
Lombardia
Trentino AA 6
Veneto
Friuli V G
Liguria
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Basilicata
Puglia
Calabria
Sicilia
Sardegna
TOTALE
Degenerazioni
tap.-retiniche
12
4
1
10
7
8
10
7
8
5
6
5
1
8
1
13
7
14
6
138
ROP
Otticopatie
11
4
6
3
2
6
1
1
4
4
2
5
5
2
2
2
2
1
2
2
3
5
2
7
1
13
3
9
72
8
8
1
19
73
Cataratta
congenita
3
Glaucoma
congenito
3
5
PATOLOGIE
Anoftalmo/
Retinoblastoma Cheratopatie
microftalmo
2
5
2
1
Distacco
di retina
1
2
2
2
1
1
2
1
2
1
3
1
3
1
5
3
3
3
3
2
2
2
1
2
2
2
3
2
4
1
7
1
3
3
3
1
36
1
3
3
2
37
2
2
33
Corioretiniti
2
Nistagmo
congenito
1
9
1
1
3
2
3
2
2
1
1
5
2
1
2
2
3
17
1
17
1
2
1
3
1
2
2
12
6
5
11
TOTALE
44
21
27
10
18
23
24
21
22
21
23
5
44
2
47
26
57
8
452
Tab. 8
Analizzando, invece, le diverse patologie con l’età dei soggetti considerati, si può facilmente notare
come all’età di 12 anni ci sia la maggior incidenza di degenerazioni tapeto-retiniche con 22 casi, a
seguire, a 7 anni con 14 casi, inoltre a 16 anni con 12 casi sui 452 dell’intera campionatura.
Per quanto riguarda la retinopatia del prematuro, la maggior incidenza si ha a 7 anni con 13 casi, a
seguire a 4 anni con 10 casi sul campione totale.
Altro dato rilevante per lo studio, è mettere in evidenza che all’età di 15 anni si ha la maggior
incidenza di otticopatie, con 16 casi, a seguire bisogna menzionare i 14 casi rilevabili all’età di 7
anni (Tab.9).
Età (anni)
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
TOTALE
Degenerazioni
T.-R.
2
10
7
7
14
6
6
8
22
8
8
9
12
6
9
1
3
ROP
Otticopatie
10
3
1
13
3
5
3
1
6
1
3
10
4
3
3
1
2
5
5
14
3
2
1
2
4
4
3
16
2
2
4
3
Cataratta
cong.
Glaucoma
cong.
3
6
3
6
3
3
2
1
4
2
4
2
2
5
2
2
1
2
7
3
3
1
2
1
2
1
1
PATOLOGIE
Ano.
RetinoMicroftalmo
blastoma
Cheratopatie
3
3
1
2
4
1
2
1
5
2
3
2
1
4
1
3
72
1
4
1
1
2
2
2
2
1
1
1
2
3
36
37
33
Corioretiniti
17
1
1
1
1
17
Nistagmo
cong.
1
1
4
1
1
1
2
1
4
15
1
1
2
2
73
1
1
1
1
1
138
1
1
Distacco di retina
1
3
12
6
11
TOTALE
3
36
27
22
61
22
12
15
22
50
20
19
49
28
23
8
8
8
1
2
1
452
Tab. 9
Questi dati sono in sintonia con gli aspetti clinici delle patologie.
nfine, se si mettono a confronto le diverse patologie osservate in questo studio con la scuola
frequentata dai vari soggetti, al momento della presentazione della domanda di partecipazione al
concorso Munõz (tab.10), è possibile notare come, per quanto riguarda le degenerazioni tapetoretiniche, 38 soggetti frequentavo la scuola elementare, come altrettanti 38 erano iscritti alla scuola
media inferiore, a seguire la scuola media superiore con 36 soggetti, la scuola materna con 22 e
l’università con 4.
PATOLOGIA
Degenerazioni T.-R.
ROP
Otticopatie
Cataratta cong.
Glaucoma cong.
Ano./Microftalmo
Retinoblastoma
Cheratopatie
Distacco di retina
Corioretiniti1
Nistagmo cong.
TOTALE
Materna
Elementare
22
6
13
3
9
4
4
3
1
38
29
22
13
19
10
4
3
2
2
66
6
148
SCUOLA FREQUENTATA DAI SOGGETTI
Media
Media
inferiore
superiore
38
36
14
20
11
27
5
15
3
4
10
5
7
2
1
6
4
1
2
1
5
95
122
Università
TOTALE
4
3
138
72
73
36
37
33
17
17
12
2
4
4
4
6
21
11
452
Tab. 10
Considerando la retinopatia del prematuro, il maggior numero di soggetti risultava essere iscritto
alla scuola elementare con un numero di 29 soggetti.
Il maggior numero di minorati visivi affetti da otticopatie, risultava essere iscritto alla scuola media
superiore.
A seguire, considerando gli affetti da cataratta congenita, in numero di 19 soggetti frequentavano la
elementari.
Ancora gli alunni ipovedenti, a causa di glaucoma congenito, risultavano essere iscritti in numero
di 10 ciascuno, alla scuola elementare e media superiore.
Nel nostro studio è stato possibile ricavare dai certificati considerati solamente 32 casi di
pluriminorazione.
Le cause di pluriminorazione, anche se non complete, messe in evidenza dal nostro studio possono
essere ricondotte a: sordità congenita riscontrata in 11 casi, tetraplegia spastica infantile in 9 casi,
idrocefalo in 8 casi, polineurite in 2 casi, e neurofibromatosi e astrocitoma con 1 caso ciascuno.
Si può inoltre notare dalla tabella 11 come si distribuivano a seconda delle varie patologie cui erano
associate.
Sordità congenita
Tetraplegia spastica infantile
Idrocefalo
Polineurite
Neurofibromatosi
Astrocitoma pilocitico
TOT
Degenerazioni T.-R.
8
ROP
3
6
Otticopatie
3
6
14
Corioretinite
9
2
3
2
1
1
10
TOT
11
5
8
2
1
1
32
Tab. 11
Si può notare come la maggior parte dei casi che presentavano sordità congenita, erano affetti da
una forma di degenerazione tapeto-retinica.
Per quanto riguarda la tetraplegia spastica infantile, in maggior numero dei casi, è stata riscontrata
nelle otticopatie.
L’idrocefalo è stato invece riscontrato in ben 6 casi in soggetti che presentavano degenerazione
tapeto-retinica.
Considerazioni e Conclusioni
L’OMS ci ricorda che la cecità infantile, oggi nel Mondo, costituisce un grave problema per i
Servizi Sanitari.
Innanzi tutto i termini epidemiologici.
Si stima che sul nostro Pianeta ogni 5 minuti, che passano, un bambino diventi cieco.
Ora, nei Paesi Industrializzati, le minorazioni visive sono più rare in termini di prevalenza ed
incidenza.
Comunque anche qui l’ impatto psico-sociale è molto rilevante.
L’ipovisione, come detto in precedenza, che compare alla nascita o precocemente nell’infanzia crea
situazioni complesse perché, oltre a determinare una disabilità settoriale, interferisce con numerose
aree dello sviluppo e dell’ apprendimento.
Nelle pluriminorazioni questa situazione si accentua maggiormente.
La persona pluriminorata psicosensoriale difatti, può presentare : minorazione, parziale o totale, di
entrambi i canali sensoriali (sordocecità) ed altri deficit: ad esempio, minorazioni del canale visivo
e/o uditivo accompagnata da grave ritardo evolutivo/intellettivo, e/o da deficit motorio, e/o da
disordini comportamentali.
A prescindere dagli aspetti più squisitamente umani, riguardo al dramma di un bambino non
vedente, esistono i problemi economici legati alla sua assistenza e alla sua formazione che incidono
pesantemente sulla famiglia e sulla società.
E’ difficile oggi stabilire quale sia la prevalenza del fenomeno cecità-ipovisione in Italia
nell’infanzia.
Soltanto per darne un’idea, sia pure grossolana, abbiamo voluto anche valutare i soggetti che
frequentano l’Istituto dei Ciechi di Milano, una delle istituzioni per non vedenti più prestigiose
d’Italia.
Ci sono state fornite le seguenti cifre: l’Istituto segue 164 minorati visivi, cosi distribuiti:
4 a domicilio o al nido
30 nella scuola materna
70 nella scuola elementare
33 nella scuola media
27 nella scuola superiore
Si tratta sicuramente di un dato in difetto e approssimativo, ma ci dice che il fenomeno non è molto
esteso, almeno nel nostro Paese.
Un’altra informazione può essere desunta dai dati forniti dal Ministero della Pubblica
Istruzione: i ciechi che nell’anno 2006-2007 frequentano la scuola pubblica, costituiscono
l’1,5% del totale dei disabili, e sono così distribuiti: 282 bambini nella scuola dell’infanzia,
902 nella scuola primaria, 560 nella scuola media di I grado e 772 in quella media di II grado.
Come sottolinea il prof. Tioli, vicepresidente UIC, 2516 studenti ciechi non costituiscono poi una
quota così elevata e le risorse necessarie ad un’assistenza adeguata sicuramente si possono trovare.
Infine, per gentile concessione dell’ISTAT, possiamo fornire dati dell’ultima indagine eseguita
sullo stato di salute della popolazione italiana, anno 2005:
1. I soggetti affetti da cecità di età 0 -14 anni costituiscono lo 0,7% di tutti i non vedenti
(maschi 1,1% - femmine 0,4%)
2. Riguardo all’età di insorgenza della cecità, la percentuale dei ciechi alla nascita (per 100
persone affette da cecità) è di 4,8%; nell’intervallo 2-14 anni è pari a 11,4%.
Se consideriamo il fenomeno in altri paesi, le cifre cambiano sensibilmente.
In Africa, come risulta dalla soprastante tabella, ad esempio – sempre facendo riferimento ai dati
OMS – tra tutti i ciechi esistenti (circa 330.000), ben il 24 % sono bambini, vale a dire 79.200.
La popolazione infantile totale è di 253 milioni.
In Asia la situazione è solo un po’ migliore, in quanto la percentuale tra i ciechi dei bambini non
vedenti, è variabile tra il 16 % e il 20 %.
In Europa e nell’ America del Nord tale percentuale scende al 2-4 %.
Ma le differenze maggiori si rinvengono tra le cause dell’ handicap visivo.
Nel nostro studio è emerso che in Italia la causa principale, nei primi anni di vita, è costituita dalla
ROP.
Negli anni successivi intervengono e diventano preminenti le retino-otticopatie eredo-familiari.
Sono rarissime, per non dire scomparse, le cause infettive pre e post-natali; ridotte di molto le
cataratte congenite e tutte le forme prevenibili.
Se ci rifacciamo ai dati raccolti e classificati dalla World Bank Region (OMS) vediamo che: la
patologia corneale, causa di cecità, incide tra i Paesi Industrializzati e Africa Sub-Sahariana in un
rapporto di 1: 36 (percentuale tra le varie forme patologiche in riferimento al distretto); tra i primi e
l’India di 1: 25; con la Cina di 1: 26.
Per la cataratta congenita, sempre tra Paesi Industrializzati e gli altri in via di sviluppo, di 8: 20.
Se per le patologie retiniche il rapporto è pressoché uguale 25: 22, la situazione cambia per il nervo
ottico con una netta inversione 25: 10.
Table 1: Magnitude of Blindness in Children
Region
Africa
India
No. children
million
253
340
No.
blind
330,000
270,000
Prev.
/1,000
1.2
0.8
Total %
blind children
24
20
Rest of Asia
China
Middle East
Latin America
Western Economies
Eastern Europe
Total
264
336
238
167
168
77
1,843
220,000
200,000
190,000
100,000
50,000
40,000
1,400,000
0,8
0.6
0.8
0.6
0.3
0.5
0.71
16
12
14
8
4
2
100%
Parole Chiave
cecità dell’infanzia, epidemiologia, cause di cecità
Si ringrazia il Movimento Apostolico Ciechi (M.A.C.) per la gentile collaborazione.
Bibliografia
1. M. Zingirian – E. Gandolfo IPOVISIONE, Nuova Frontiera dell’Oftalmologia, GISI, Edizioni
SOI, 2002
2. N. Pescosolido IPOVISIONE, Riabilitazione visiva alla guida automobilistica, Fabiano
Editore, 2002
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4. M. G. Bucci Oftalmologia, Società Editrice Universo, 2002
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Lavori scientifici
Titolo:
Contribution of oct imaging in inheritated macular dystrophies
di G. Querques, MD
Department of Ophyhalmology, Policlinico Riuniti di Foggia, University of Foggia
ABSTRACT
Objective: Retinal dystrophies are a heterogeneous group of inherited rare disorders characterized
by progressive degenerations of neuroepitelium Retinal flecks are commonly observed in both
Stargardt disease and fundus flavimaculatus (FFM). Our purpose was to determine the precise
localization of these flecks within the retinal layers using Stratus Optical Coherence Tomography
(OCT).
Design: Prospective observational case series.
Methods: A complete ophthalmologic examination, including autofluorescence, fluorescein
angiography (FA) and Stratus OCT (Carl Zeiss) was performed in 49 eyes of 26 consecutive
patients with FFM. Six to 12 Stratus OCT linear scans focused on the retinal flecks were performed
in each eye.
Results: The age at presentation ranged from 23 to 71 years and visual acuity ranged from 20/20 to
20/400. Hyperreflective deposits classified in two types were observed on Stratus OCT: type 1
lesions (94% of eyes) presented as dome-shaped deposits located in the inner part of the RPE layer
and type 2 lesions (86% of eyes) presented as small linear deposits located at the level of the outer
nuclear layer and clearly separated from the RPE layer.
Conclusions: Stratus OCT is a non-invasive instrument that provides new information on the
location of flecks in FFM. The location of type 2 lesions is quite unusual among macular
dystrophies; OCT may therefore be useful in the diagnosis of retinal flecks in some cases of FFM.
INTRODUCTION
Retinal dystrophies are a heterogeneous group of inherited rare disorders characterized by
progressive degenerations of neuroepitelium (expecially the photoreceptors’ layer) and of retinal
pigment epithelium (RPE). Autosomal dominant, recessive, and X-linked inheritance patterns of
inheritance have been described for each different retinal dystrophy as well as sporadic cases,
implying genetic and molecular heterogeneity with great variability in severity and rate of
progression from family to family and sometimes within the same family. Several characteristic
fundus pictures are seen in combination with each retinal dystrophy and unfortunately there are only
a few contributively anatomopathologic studies.
OCT is a non-invasive tool that provides new information about retinal morphology, particularly
useful since little is know about the histology of these disorders. In fact, OCT images seem to
correlate well with histological cross sections of the retina in animal experiment. OCT has been
particularly helpful for the understanding of retinal abnormalities in these disorders. The capacity
for visualization of the structures of the affected retina at any area of interest has offered very
interesting images for the understanding of the pathogenesis, showing the evolution of the disease.
Moreover, OCT contributes to the differential diagnosis in cases with doubtful findings.
ANALYSIS OF RETINAL FLECKS IN FUNDUS FLAVIMACULATUS
Stargardt disease (STGD) is an autosomal recessive macular dystrophy of childhood, characterized
by juvenile onset, rapid progression and a poor visual outcome1-3. On the other hand, fundus
flavimaculatus (FFM), a Stargardt-like phenotype described by Franceschetti, is characterized by
late-onset and slow progression4,5. The disease is usually termed STGD when visual acuity loss
begins in the first two decades, while the term FFM is favoured when the disease begins at the end
of the second decade or in the third decade. Genetic studies demonstrated a continuum between
STGD and FFM, both linked with the ABCA4 gene6-8. Yellowish-white deposits called retinal
“flecks” are usual features of both STGD and FFM9-10. These flecks are small or large, extremely
polymorphous, rounded, fusiform, spearlike, pisciforms, giants, butterfly or X-shaped, and can be
juxta-macular or diffusely distributed in the fundus3,11. At the beginning, the deposits appear
yellowish-white and well defined. Later, the retinal flecks become grey, fuzzy and ill-defined and
are hardly visible on fundus examination, although clearly revealed by autofluorescent frames12-14.
The exact location of the retinal flecks within the retina is still controversial11. Klein and Krill15
established the presence of mucoplysaccharide deposits (hyaluronic acid) in retinal cells. On the
other hand, Eagle16 found a massive accumulation of lipofuscine (that is composed of A2-E) in the
retinal pigment epithelium (RPE) cells.
Optical coherence tomography (OCT) is a non-invasive technique based on low interferometry that
provides optical cross-sectional images of the retina and morphologic information similar to that
obtained from histological sections. Stratus OCT is a recent introduced instrument that provides
morphological information of the retina with a better resolution compared with first generation OCT
instruments. Our purpose was to determine the precise localization of retinal flecks within the
retina, in FFM patients, using Stratus OCT.
PATIENTS AND METHODS
Twenty six consecutive patients who presented to our department with FFM macular dystrophy
were prospectively included in this study, in compliance with French regulations and after approval
from our local ethics committee. Criteria for inclusion were: age over 18 years old, presence of
retinal flecks on fundus examination, evidence of autofluorescence of the retinal flecks, and
diagnosis of dark choroid on fluorescein angiography (FA). Eyes presenting with any associated
macular diseases (myopia > -8 D, angioid streaks, confluent drusen, epiretrinal membrane), or
complication such as choroidal neovascularization were excluded from this study. All patients
underwent a complete ophthalmologic examination, including assessment of best-corrected visual
acuity (BCVA), fundus biomicroscopy, colour photography of the fundus, red free frames,
autofluorescence frames and FA (Canon 60 fundus camera, Tokyo, Japan; Topcon TRC-50 retinal
camera, Tokyo, Japan; Zeiss FF 450 plus, Carl Zeiss AG, Germany). Optical coherence tomography
examination was performed with the ultimate commercial OCT unit (Stratus OCT, Carl Zeiss
Meditec, Inc., Dublin, CA). A minimum of 6 scans of 5 mm were performed in each study eye.
Because our goal was to found retinal lesions, we performed up to 12 OCT scans when no lesions
were observed after 6 scans. The OCT scans were positioned so that the cross-sectional cut would
go through the flecks based on color fundus photography and fundus autofluorescence. For each
scan, the shape and reflectivity of the material, its location, the reflectivity and appearance of the
retinal pigment epithelium (RPE) and any retinal changes, were noted. Only good quality scans,
showing retinal layers, were analyzed.
RESULTS
A total of 49 eyes (26 patients) were included in this study: both eyes of 23 patients and one eye of 3
patients. One patient (case 1, RE) presented with a unilateral epiretinal membrane and thus only the
left eye was included. Two patients (case 17, RE and case 21, LE) presented with choroidal
neovascularization and, therefore, only the fellow eye was included (Table). There were 9 women
and 17 men with a mean age at presentation of 43 years (range: 23 to 71 years). BCVA ranged from
20/20 to 20/400 and was better than 20/40 in 14 eyes, between 20/40 and 20/80 in 20 eyes, and less
than 20/80 in 15 eyes (Table).
On colour fundus photography, the retinal flecks presented heterogeneous patterns which were
perifoveolar or widely distributed in the fundus. These retinal flecks were more prominently visible
in the red free frames in comparison with the colour photographs. Autofluorescent frames clearly
delineated the retinal flecks. On FA, the retinal flecks appeared as ill-defined areas of hypofluorescence, surrounded by haloes of hyperfluorescence corresponding to changes in the RPE. In
accordance with the strict criteria for inclusion, dark choroid was present in all the study eyes.
Stratus OCT allowed visualization of hyperreflective dots that could be interpreted as the presence
of material that make up the retinal flecks. When comparing Stratus OCT scans with colour
photographs of the fundus and autofluorescent frames, the location of the hyperreflective deposits
correlated with the location of the retinal flecks. Although all the OCT scan sections appeared to
include the retinal flecks, the hyperreflective lesions were not detectable in all the OCT sections.
However, performing 6 to 12 scans per eye allowed the identification of the hyperreflective deposits
in all the study eyes.
These hyperreflective deposits were located more or less deeply within the retinal layers. We have
to classified, into two types, the hyperreflective deposits according to their location within the
retina. Type 1 deposits were dome-shaped and aspect located at the level of or just above the RPE in
continuum with the inner part of the RPE layer (figure 1). In most cases, the reflectivity of the RPE
and the material was very close and, hence, could not be differentiated by OCT. Type 1 deposits
were observed in at least one OCT scan in 46 out of 49 (94%) eyes and in two or more OCT scans
in 42 out of 49 (86%) eyes (table). Type 2 deposits presented as small, linear, hyperreflective lesions
located at the level of the inner segments of photoreceptors or outer nuclear layer (ONL) and clearly
separated from the RPE layer (figures 2 and 3). The OCT reflectivity of type 2 deposits was similar
to the reflectivity of type 1 deposits, in contrast with the hyporeflectivity of the ONL. Type 2 lesions
were observed in at least one OCT scan in 42 out of 49 (86%) eyes and in two or more OCT scans
in 34 out of 49 (69%) eyes.
All the study eyes presented at last one of the two described patterns of hyperreflective deposits on
OCT. When both eyes were combined, all the study patients presented both types of lesions on
Stratus OCT (figure 4).
DISCUSSION
In this large series of FFM patients, Stratus OCT revealed small hyperreflective deposits
corresponding with the retinal flecks located either at the level of the RPE layer or at the level of the
ONL.
Retinal flecks observed in STGD/FFM patients are typically heterogeneous, in their surface, their
pattern, and their distribution in the fundus. On fundus examination and colour photography, these
flecks are commonly poorly contrasted and appear as yellowish-white lesions on an orange
background. The retinal flecks are clearer on red free frames, although they are best and clearly
delineated on autofluorescent frames (figure 4B).
Despite some histological reports, the exact location of the retinal flecks within the retinal layers
remains controversial. Recently, Ergun et al17 analyzed photoreceptor morphology in 14 patients
affected with Stargardt's disease and fundus flavimaculatus using ultrahigh-resolution optical
coherence tomography (UHR-OCT). In this series, UHR-OCT demonstrated excellent visualization
of intraretinal morphology and enabled quantification of the photoreceptor layer. Lower visual
acuity correlated with a greater transverse photoreceptor loss. However, they did not demonstrate
the location of the retinal flecks. Here our purpose was to determine the precise location of the
retinal flecks within the retina in FFM patients.
On Stratus OCT, the retinal flecks presented as small hyperreflective lesions located either at the
inner part of the RPE layer (type 1) or at the level of the ONL (type 2). None of the fundus features,
the features on autofluorescent frames or angiographic features were characteristic of a particular
type of retinal flecks. In other words, neither of the two types of hyperreflective lesions was
correlated with a specific phenotype of the flecks.
Type 1 lesions were observed in 94% (46 out of 49) of the study eyes and all the 26 patients
presented this type of lesions in at least one eye. They appeared as dome-shaped hyperreflective
deposits in the inner part of the RPE layer (figures 1 and 4). This finding may be compared with that
observed in adult-onset foveomacular vitelliform dystrophy (AFVD)18. However, the
hyperreflective lesions are smaller and dome-shaped in FFM contrasting with the stretch aspect
observed in AFVD.
Type 2 lesions were observed in 86% (42 out of 49) of the study eyes and all 26 patients presented
this type of lesions in at least one eye. It is conceivable that among eyes in which type 2 lesions was
not identified, more performing more scans or 3 mm scans may have revealed the “absent” lesion.
Type 2 lesions appeared as small, linear, hyperreflective deposits at the level of the ONL and welldifferentiated visibly from the RPE layer (figures 2, 3 and 4). This location is unusual in the field of
inherited macular dystrophies distinct from lesions observed in AFVD18, Best macular dystrophy19
or malattia leventinese20, localized at the level of RPE We believe that this unusual location could
contribute to the positive diagnosis in some cases of retinal flecks in STGD/FFM.
Several lines of evidence suggest that the two types of retinal flecks merely reflect different stages
of the same disorder. First, both lesions were observed simultaneously in 80% (39 out of 49) of the
study eyes. Second, all patients had the two lesion types, either in the right eye or the left eye.
Finally, in some scan sections, intermediate aspect, sharing common features between types 1 and 2
were observed (Figure 4D).
However, the chronological evolution, from type 1 to type 2 or from type 2 to type 1, could be
debated. On the one hand, it could be speculated that type 2 deposits progressively increase from the
photoreceptor layer to the RPE. This hypothesis would be consistent with the fact that the initial
impairment, the ABCA4 protein, is primarily located in the photoreceptors. On the other hand, and
most likely, we hypothesize that the hyperreflective deposits at the level of the ONL (type 2) could
be the residual cover of the dome-shaped lesions (type 1). This latter hypothesis is consistent with
the natural history of the flecks in the fundus; these flecks progressively degrade, from a welldefined lesion to residual material.
In conclusion, Stratus OCT is a useful non-invasive instrument that provides new information on
the location of the retinal flecks in STGD/FFM. The yellowish-white material is located either at the
level of the RPE (type 1) or, unusually, at the level of the outer nuclear layer (type 2). We believe
that OCT may provide additional diagnostic information and could help in the diagnosis of retinal
flecks in some cases of STGD/FFM due to the unusual location of the type 2 lesions.
Keywords
Fundus Flavimaculatus; Optical Coherence Tomography; Retinal dystrophy; Stargardt disease.
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Didascalia figure:
Figure 1: Stratus optical coherent tomography (OCT) demonstrates type 1 deposits facing retinal
flecks (case 5, RE)
Colour photograph shows macular atrophy and retina flecks (A). OCT scans are illustrated by the
arrows “a” and “b”. The auto-fluorescent frame clearly delineates the retinal flecks (B). Thin and
open arrows point out two of the flecks, respectively crossed by scans 1 and 2. Fluorescein
angiography shows the dark choroid appearance (C). The hypofluorescent flecks (arrows) are hardly
discernable in the hyperfluorescent background due to retinal pigment epithelium (RPE) changes.
The OCT scan 1 (D) shows a small hyperreflective deposit located at the inner part of the RPE layer
(thin arrow). The OCT scan 2 (E) shows a similar feature (open arrow) and macular atrophy.
Squares illustrate enlarged view of these little dots that appear to correspond to the accumulation of
auto-fluorescent material marked by the arrows.
Figure 2: Stratus OCT demonstrates type 2 deposits facing retinal flecks (case 12, LE)
Colour photograph shows macular atrophy and retina flecks (A). OCT scans are illustrated by the
arrows 1 and 2. The auto-fluorescent frame (confocal) clearly delineates the retinal flecks and shows
autofluorescence of the macular area (B). Arrows point out two of the flecks, crossed by scans 1 and
2. On indocyanine green angiography (ICG), late phase (30 min), the hypofluorescent lesions appear
more numerous than the autofluorescent flecks (C). The OCT scan 1 (D) shows a small
hyperreflective linear deposits located at the level of the outer nuclear layer and clearly
distinguished from the RPE layer (open arrow). The OCT scan 2 (E) shows a similar feature (thin
arrow). These small lesions appear to correspond to the accumulation of auto-fluorescent material
and are interpreted as retinal flecks marked by the arrows. It is notable that only the autofluorescent
flecks could be identified by OCT.
Figure 3: Another example of type 2 deposits evidenced by Stratus OCT (case 9, LE).
Colour photograph shows macular atrophy and retinal flecks. OCT scans are illustrated by the
arrows 1 and 2. The auto-fluorescent frame (confocal) demarcates the retinal flecks and shows
autofluorescence of the macular area (B). Arrows point out 3 of the flecks, crossed by scans 1 (thin
arrows) and 2 (open arrow). The OCT scan #1 (C) shows two small hyperreflective dots localized at
the level of the outer nuclear layer (thin arrows). The hyperreflective deposits observed at the level
of the ONL by Stratus OCT appears to correspond to retinal flecks (open arrow; D).
Figure 4: Both type 1 and type 2 FFM deposits visualized by Stratus OCT within the same eye (case
12, LE) Colour photograph shows numerous retinal flecks (A). The 5 mm OCT scans are illustrated
by the 4 doted arrows. In the red-free frame (enlarged view), the flecks appear slightly more
contrasted (B). No profound macular atrophy is visible. Thin arrow, open arrow and triangle point
out 3 of the flecks crossed by the OCT scans. Fluorescein angiography shows ill defined
hyperfluorescence around the macular area and a dark choroid appearance on the temporal side (C).
Arrows are marked on the corresponding locations. On OCT scan #1 (D), a dome-shaped elevation
of the RPE level (type 1, thin arrow) is observed. On the same scan, two other lesions are visible: a
deposit within the photoreceptor layer (type 2, on the left side of the arrow) and a lesion,
intermediate between the type 1 and type 2 patterns (curved arrow). On OCT scan #2 (E), a typical
type 2 deposit is observed, clearly distinct from the RPE layer (open arrow). This hyperreflective
deposit does not clearly correlate with the well-defined flecks on colour photography but could
correspond to a hypofluorescent lesion on fluorescein angiography (open arrow). On OCT scan 3
(F), a type 1 deposit is observed (triangle) as well as two small type 2 deposits on the right side. On
OCT scan 4 (G) the type 1 deposits corresponding to the triangle and the thin arrow are shown
again.
Case
SEX
AGE EYE
VISUAL
ACUITY
Type 1 deposits/
total scans
Type 1 deposits/
total scans
1
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58
20/40
4/12
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2
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20/125
20/160
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0/12
3
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33
RE
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20/50
20/20
3/6
1/6
1/6
2/6
4
M
41
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LE
20/32
20/50
3/12
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0/12
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5
F
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6
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59
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20/25
20/40
2/6
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7
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26
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LE
20/160
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3/12
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8
M
26
RE
LE
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20/250
2/6
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6/6
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20/80
20/63
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4/12
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10
M
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11
M
66
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3/6
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6/6
6/6
6/6
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M
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24
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10/12
7/12
19
F
55
RE
LE
20/20
20/400
2/12
0/12
4/12
6/12
20
F
41
RE
LE
20/32
20/32
3/6
2/6
1/6
1/6
21
F
70
RE
20/25
4/6
3/6
22
M
26
RE
LE
20/50
20/63
2/10
5/10
0/10
2/10
23
M
45
RE
LE
20/25
20/25
8/10
7/10
7/10
6/10
24
M
32
RE
LE
20/63
20/25
3/6
0/12
2/6
1/12
25
M
58
RE
LE
20/400
20/63
0/12
2/12
1/12
0/12
26
M
29
RE
LE
20/100
20/63
5/6
5/6
2/6
0/6
Table. Type 1 and type 2 hyperreflcetive deposits observed in FFM patients using Stratus OCT. M:
male; F: female; RE: right eye; LE: left eye.
Lavori scientifici
Titolo:
Risultati clinici del trapianto di cellule staminali dell’epitelio
di M. Papalia
Scuola di specializzazione in Oftalmologia
La superficie oculare è ricoperta dagli epiteli della congiuntiva tarsale, della congiuntiva bulbare,
del limbus sclerocorneale e della cornea che hanno la funzione di proteggere l’occhio da agenti
patogeni microbici, da corpi estranei e permettono buone prestazioni ottiche.
Anche se questi epiteli hanno un ruolo simile, le caratteristiche biochimiche e istologiche di
ciascuno sono molto diverse(1,2,3).
Lo strato basale dell’epitelio limbare situato nella zona di transizione tra epitelio congiuntivale ed
epitelio corneale contiene le cellule corneali epiteliali staminali che garantiscono l’integrità
dell’epitelio generando le cellule amplificanti transitorie (TA) che migrano fuori dalla membrana.
In alcune condizioni patologiche come la sindrome di Stevens-Johnson, il pemfigoide oculare,
ustioni chimiche o termiche, aniridia, tossicità da farmaci o traumi oculari gravi si ha una completa
perdita delle cellule staminali cui consegue il ricoprimento della cornea da parte della congiuntiva.
Questo processo patologico, denominato congiuntivalizzazione, determina una cicatrizzazione
fibrovascolare con conseguente opacizzazione e perdita della funzione visiva (11,12,13).
Queste condizioni patologiche sono classificabili come insufficienza o scompensi limbari. Il
trattamento chirurgico tradizionale dei deficit limbari con tecniche come la cheratoplastica
perforante o lamellare hanno una prognosi generalmente infausta, in quanto non sono in grado di
ricostruire la barriera limbare.
Nei pazienti con deficit limbare l’unica opzione terapeutica consiste nell’effettuare un trapianto di
limbus per restaurare la capacità rigenerativa dell’epitelio corneale, prima di sottoporli ad una
cheratoplastica perforante, anche questa necessaria per sostituire lo stroma danneggiato.
I difetti limbari possono essere trattati con il trapianto di porzioni di limbus prelevati da cadavere,
da congiunti o dall’occhio controlaterale del paziente nel caso di un danno monolaterale. Tuttavia
queste ultime due procedure espongono ad un rischio l’occhio del donatore, in quanto la porzione
prelevata deve essere relativamente grande e si può creare una deplezione della restante parte del
limbus, rischiando l’insorgenza di un deficit limbare in un occhio precedentemente sano.
Con il trapianto di limbus inoltre vengono portate nell’occhio ricevente non solo le cellule staminali
epiteliali ma anche cellule di Langerhans, fibroblasti e linfociti che possono scatenare una risposta
infiammatoria ed aumentare il rischio di rigetto del tessuto donato (14).
Queste limitazioni esplicano l’esigenza di espandere le cellule limbari in vitro prima di trapiantarle
sull’occhio lesionato.
Si sta cercando di isolare un tessuto con un numero sufficientemente alto di cellule epiteliali pure in
modo da mimare al meglio la normale superficie corneale (15,16,17,18,19).
Attualmente non esistono evidenze cliniche su quale sia il tessuto più idoneo per il trasporto
(carrier) delle cellule epiteliali espanse in vitro. Sono stati finora sperimentati collagene, fibrina,
lenti a contatto, garze paraffinate e membrane amniotiche come carrier (16,17,20).
Nei processi di riparazione le cellule epiteliali migrano su una matrice provvisoria costituita da
fibrina e fibronectina (21,22,23), si ritiene pertanto che un supporto di fibrina possa essere il più
indicato per il trasporto delle cellule epiteliali in vitro, in quanto mimerebbe la fisiologica
riparazione di una ferita.
I nostri risultati sono stati ottenuti da pazienti trattati presso il nostro istituto (Prof.C.E. Traverso) e
reclutati nell’ambito di una ricerca multicentrica coordinata dalla Fondazione Banca degli Occhi del
Veneto.
In questo studio abbiamo selezionato un gruppo omogeneo di pazienti con fallimento limbare. Il
grado di difetto limbare è stato studiato in base all’aspetto clinico e alla espressione di specifici
pattern di cheratine.
Sono stati arruolati 5 pazienti (2 donne e 3 uomini) di età fra 36 e 72 anni.
Tre pazienti erano affetti da esiti di ustione chimica, uno da esiti di infezione corneale DNDD ed
uno da cheratite DNDD.
MATERIALI E METODI
Per i trapianti autologhi le cellule sono state coltivate a partire da una biopsia limbare di 1-2 mm2
effettuata sull’occhio controlaterale sano. Le colture cellulari, l’analisi immunoistochimica, la
preparazione del gel di fibrina, sono stati eseguiti presso il laboratorio di Colture Cellulari della
Fondazione Banca degli Occhi del Veneto, diretta dalla dott.ssa Graziella Pellegrini.
Le cellule coltivate su supporto di fibrina (diametro dell’impianto di circa 16 mm) sono state
applicate sulla superficie corneo-sclerale ed adagiate anche sotto la congiuntiva dissecata.
RISULTATI
Nella tabella 1 sono elencate le caratteristiche demografiche del paziente, la durata e la causa della
malattia e la funzione visiva.
Tabella 1: caratteristiche demografiche del paziente, durata e causa della patologia, funzione visiva.
Paziente
Età
Sesso Occhio colpito
durata
patologia
(mesi)
Causa
visus
1
72
M
OD
40
infezione
non definita
moto mano
2
62
F
OD
75
Cheratite DNDD
1|50
3
39
M
OS
48
ustione chimica
conta dita
4
36
M
OD
25
ustione chimica
moto mano
5
65
F
OS
180
ustione chimica
4|50
Tutti pazienti avevano una funzione visiva marcatamente compromessa (il visus era compreso tra
moto mano e 4/50).
Una settimana dopo l’intervento tutti i pazienti avevano un epitelio integro e la sua trasparenza è
stata giudicata buona in un caso e discreta nei restanti quattro.
Grazie alla integrità e stabilità della superficie oculare raggiunta in tutti i pazienti con il trapianto di
cellule limbari espanse, la prognosi di una cheratoplastica e la qualità della vita è nettamente
migliorata.
CONCLUSIONI
Le cellule limbari dopo la coltura primaria possono essere crioconservate e quindi utilizzate nel caso
in cui il primo trapianto dovesse fallire, giustificando la complessità ed i costi che caratterizzano
questa tecnica.
L’uso del gel di fibrina come carrier per trasportare le cellule epiteliali non è scevro da effetti
collaterali. Per ottenere una perfetta trasparenza dell’epitelio è infatti necessario che il gel venga
riassorbito completamente e senza che questo causi alcuna cicatrizzazione a livello corneale.
Purtroppo una infiammazione corneale anche lieve può compromettere il risultato facendo residuare
delle opacità.
Sono stati studiati anche altri carrier, ed in particolare la membrana amniotica, ma nessuno
garantisce un completo riassorbimento senza reliquati.
Nel nostro studio in tutti i pazienti è stata ottenuta una superficie oculare stabile e non si è
sviluppata nessuna complicanza nell’occhio donatore.
In due pazienti è stata eseguita con successo la cheratoplastica perforante a distanza di un anno dal
trapianto di limbus. Una volta raggiunta la stabilità della condizione clinica i pazienti sono stati
sottoposti a cheratoplastica perforante per sostituire lo stroma corneale opaco.
Questi pazienti hanno avuto un recupero funzionale buono e mantengono una buona trasparenza ed
integrità epiteliale.
Si tratta di casi clinici molto complessi in cui l’esecuzione di una cheratoplastica senza aver prima
restaurato la capacità proliferativa dell’epitelio corneale non avrebbe avuto alcuna possibilità di
successo.
Didascalie delle figure:
Foto 1: quadro clinico al primo accesso (paziente 3)
Foto 2: quadro clinico il primo giorno postoperatorio (paziente 3)
Foto 3: quadro clinico a 11 mesi dalla cheratoplastica perforante (paziente 3)
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Lavori scientifici
Titolo:
Valutazione strumentale della diplopia in pazienti affetti da patologie neurologiche
di C. Cofone, R. Migliorini, R. Monte
Università “La Sapienza” - Roma Dipartimento di Scienze Oftalmologiche (Dir. Prof. C. Balacco
Gabrieli)
I movimenti oculari si effettuano mediante l’azione di sei muscoli. I sei muscoli extraoculari
possono essere raggruppati in tre paia: due retti con azione sul piano orizzontale (rispettivamente
interno o mediale ed esterno o laterale), due retti con azione sul piano verticale (rispettivamente
superiore ed inferiore) e due obliqui (rispettivamente superiore ed inferiore). I muscoli extraoculari
tranne l’obliquo inferiore, costituiscono un insieme anatomico,a forma di cono, il cui apice si
inserisce sul fondo dell’orbita e la cui base e’ rappresentata dall’inserzione sclerale dei muscoli sul
bulbo. L’apice del cono è’ costituito da una formazione fibrosa, il tendine di Zinn, sulla quale si
inseriscono i tendini dei quattro muscoli retti e quello dell’obliquo superiore.
Ciascun muscolo oculomotore, ad eccezione del retto interno e del retto esterno, ha un azione
principale e una sussidiaria ma, lavorando in coppia, il movimento risulta dall’azione combinata di
un muscolo agonista e di un muscolo antagonista tab.1. Il muscolo che con la sua contrazione
muove il bulbo in una direzione, è definito agonista, quello che contraendosi lo muove in direzione
opposta, è detto antagonista.
In ciascun occhio le coppie di muscoli antagonisti sono: retto mediale e laterale; retto superiore ed
inferiore; obliquo superiore ed inferiore. I muscoli che nei due occhi contraendosi lo muovono nella
stessa direzione sono detti sinergisti. Le coppie di muscoli sinergisti o coniugati nei due occhi sono:
retto mediale destro e retto laterale sinistro;
retto laterale destro e retto mediale sinistro;
retto superiore destro ed obliquo inferiore sinistro;
retto inferiore destro e obliquo superiore sinistro;
obliquo superiore destro e retto inferiore sinistro;
obliquo inferiore destro e retto superiore sinistro;
muscolo
retto superiore
retto inferiore
retto mediale
obliquo inferiore
retto esterno
obliquo superiore
azione principale
elevazione
abbassamento
adduzione
extrarotazione
abduzione
intrarotazione
azione sussidiaria
intrarotazione e adduzione
extrarotazione e adduzione
elevazione e abduzione
abbassamento e abduzione
Tab. 1: Azione dei muscoli extraoculari
I movimenti oculari sono regolati da alcune leggi della fisiologia muscolare.
Secondo la legge di Donders “a ciascuna posizione dei bulbi oculari corrisponde un unico
orientamento dei meridiani retinici,qualsiasi sia il percorso effettuato per raggiungere quella
posizione”. La motilità oculare associata o coniugata rende possibile l’uso coordinato di entrambi
gli occhi affinché l’immagine cada in punti corrispondenti della retina. Per ottenere e mantenere la
visione binoculare è necessario che i movimenti oculari siano della stessa ampiezza in ambedue gli
occhi. Questo concetto è alla base della legge della corrispondenza motoria di Hering secondo la
quale “quando si effettua un movimento oculare gli stessi impulsi innervazionali vengono inviati ad
ambedue gli occhi”. La fovea, area di massima acutezza visiva, è anche la depositaria della
direzione visiva principale e il centro a cui si riferiscono le direzioni visive secondarie di tutti gli
altri elementi retinici. Questa relazione è stabile ed è tale stabilità’ che rende possibile un campo
visivo regolare. Ciascun punto o area retinica ha un patner nella retina controlaterale con cui
condivide una comune direzione visiva soggettiva (corrispondenza retinica). Gli elementi dei due
occhi che condividono una comune direzione visiva soggettiva sono chiamati punti retinici
corrispondenti. La visione singola è la caratteristica della corrispondenza. Affinché avvenga la
fusione, le immagini non solo devono cadere su aree retiniche corrispondenti, ma devono anche
essere sufficientemente simili in grandezza, luminosità e nitidezza, in modo da permettere
l’unificazione sensoriale. Immagini diseguali possono presentare un notevole ostacolo alla
fusione.Differenze di colore e di forma portano alla rivalita’retinica. La stimolazione simultanea di
elementi retinici disparati, ossia non corrispondenti, da parte di un punto oggetto, fa si che esso sia
localizzato in due direzioni visive soggettive. Un punto oggetto visto simultaneamente in due
direzioni, è visto doppio, cioè in diplopia. La visione doppia è la caratteristica della disparità.
Quando gli assi visivi dei due occhi non sono più paralleli, un oggetto forma le proprie immagini su
zone retiniche non corrispondenti. Il termine diplopia si riferisce appunto ad una alterazione della
visione binoculare caratterizzata da una marcata fusione delle immagini che cadono in punti non
corrispondenti della retina. Di conseguenza il soggetto riferirà una visione di due “oggetti” più o
meno distinti e localizzati in due diverse direzioni. Delle due immagini, quella percepita
dall’occhio sano cade sulla fovea e corrisponde all’immagine “vera”dell’oggetto, quella percepita
dall’occhio deviato invece è l’immagine “ falsa”, che non essendo proiettata sulla macula ha
contorni meno netti. In questo caso, si parla comunque di diplopia binoculare che non viene riferita
nella visione monoculare (per esempio coprendo un occhio) perché si annulla la proiezione
dell’immagine su una delle due retine. Se la visione sdoppiata persiste coprendo uno dei due occhi,
si parla di diplopia monoculare che dipende da cause diverse come per esempio i deficit rifrattivi
(miopia, astigmatismo,dislocazione della lente intraoculare).
L’esame oculistico ed ortottico
Occorre innanzitutto stabilire se la diplopia riferita e’ presente quando entrambi gli occhi sono
aperti (diplopia binoculare), o se essa persiste quando è aperto un solo occhio (diplopia
monoculare). Si esegue pertanto un’accurata anamnesi.
Le cause di diplopia monoculare sono spesso prevalentemente ottiche o rifrattive, come vizi di
refrazione non corretti o mal corretti o dislocazioni di una lente intraoculare. Le modificazioni della
refrazione nell’occhio fissante possono causare diplopia. Pazienti adulti affetti da anisometropia
possono sviluppare diplopia qualora il loro difetto refrattivo venga corretto, soprattutto se per la
prima volta. L’effetto prismatico di una correzione con occhiali può indurre diplopia nelle diverse
posizioni di sguardo. L’ortottista può così procedere con la valutazione motoria e con i test per
l’esame della diplopia.
Un metodo sicuro per accertere o escludere la presenza di una deviazione oculare e misurarne
l’entità è rappresentato dall’osservazione del movimento di recupero di un occhio alla schermatura
dell’occhio controlaterale (cover test).
Per l’esecuzione di un cover test occorre disporre di una mira di fissazione e di uno schermo,
quest’ultimo rappresentato da un foglio di carta, dalle dita di una mano o da una paletta.
Nell’esecuzione è di fondamentale importanza ottenere l’attenzione del paziente con una mira di
fissazione alla distanza desiderata. La scelta della mira dipende dal’età del paziente e dall’acuità
visiva. Può essere rappresentata da un qualsiasi oggetto, dai simboli dell’ottotipo (mire
accomodative), da mire luminose. E’ necessario che la sorgente luminosa non sia eccessiva, nè
come superficie nè come intensità per evitare fenomeni di abbagliamento. Le mire accomodative
oltre ad attirare l’interesse del paziente stimolano l’accomodazione e mettono in evidenza quanto
questa sia responsabile nel mantenimento della deviazione oculare. L’esame va eseguito a 33 cm e a
5 mt dalla mire di fissazione. Il termine cover test si riferisce ad un’intera procedura della quale se
ne distinguono due parti: cover-uncover, cover test alternato, cover test prismatico.
Il cover-uncover è particolarmente indicato nella diagnosi differenziale tra strabismo e
pseudostrabismo ed in quella di microstrabismo. Il paziente è seduto con il capo dritto e fissa una
mira a distanza sia di 33 cm che di 5 m. Un occhio viene prima coperto e poi scoperto.
Quando l’occhio viene schermato si osserva il movimento dell’occhio controlaterale. Se l’occhio
scoperto non esegue alcun movimento siamo davanti ad un caso di ortoforia; lo stesso avviene
quando viene scoperto l’occhio in precedenza coperto. In presenza di eteroforia l’occhio scoperto
rimane immobile; al momento di scoprire l’occhio precedentemente coperto, questo esegue un
movimento lento che lo riporta alla posizione iniziale. Il movimento indica che sotto lo schermo
l’occhio era deviato e che si riallinea in visione binoculare. Secondo la direzione del movimento di
ritorno si distingue in exoforia (verso l’interno); esoforia (verso l’esterno) ed iperforia (verso il
basso). Una volta rilevata la direzione del movimento è’ necessario valutarne la rapidità o meglio il
recupero del riallineamento che può essere ottimo, buono o scarso.
Il cover test alternato si esegue anteponendo alternativamente lo schermo prima su un occhio e poi
sull’altro, senza lasciare i due occhi aperti contemporaneamente, producendo la massima
dissociazione della visione binoculare. Il cover test prismatico e’ poi utilizzato per misurare l’intera
deviazione. Dinnanzi all’occhio deviato viene posto un prisma con base opposta alla direzione della
deviazione, l’occhio controlaterale viene schermato. Si esegue il cover test mentre si fa scorrere
lentamente una barra di prismi di potere sempre maggiore, finché al cover test non si rileverà alcun
movimento. Per la valutazione sensoriale della diplopia si usa il test delle quattro luci di Worth (il
pz indossa un paio di occhiali con una lente rossa a destra e verde a sinistra e guarda 4 luci) il test
del cilindro di Maddox, il test del di Franceschetti o de doppio cilindro di Maddox, il test di LessLancaster.
Materiali e metodi
Dopo accurata valutazione anamnestica delle caratteristiche cliniche della diplopia e degli eventuali
altri segni e sintomi ad essa associati (modalità di esordio, evoluzione), è stato effettuato un esame
obiettivo della motilità oculare. Sulla base di questi dati, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi
principali: pazienti che riferivano diplopia monoculare o con caratteristiche cliniche non meglio
precisate; pazienti che riferivano diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo alla
valutazione neurologica. indipendentemente dalle caratteristiche riferite del disturbo, i soggetti di
ogni gruppo sono stati inviati presso il Centro di fisiopatologia della motilità oculare (Oftalmologia
B) del Dipartimento di Scienze Oftalmologiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove sono
stati sottoposti a: anamnesi ortottica, valutazione obiettiva ortottica, prova al filtro rosso e schermo
di Hess-Lancaster.
I dati così ottenuti sono stati successivamente inseriti in una cartella informatica in correlazione con
le seguenti caratteristiche estrapolate dalle cartelle: età, sesso, “tipo” di diplopia riferita
soggettivamente, caratteristiche obiettive neurologiche della diplopia.
Risultati
Dei 100 soggetti studiati, 56 erano di sesso maschile (56%), 44 di sesso femminile (44%), di età
media più o meno 2 DS di 50,99 + o – 7,2 anni. I pazienti risultavano così distribuiti fra i gruppi
suddetti. 16 (16%; 10 uomini, 6 donne) riferivano diplopia monoculare; 84 (84%; 46 uomini, 38
donne) riferivano diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo all’EON. La distribuzione
della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate è riportata nelle tab. 2a e 2b; la
distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e delle
patologie riscontate è riportata nelle tab. 3a e 3b. L’ EON della motilità oculare risultava positivo in
54 soggetti (54%; 31 uomini e 23 donne) così distribuiti fra i gruppi: 1 (1,9%) con riferita diplopia
monoculare; 53 (98,1%) con riferita diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo. La
prova al filtro rosso risultava positiva in 80 soggetti (80%; 43 uomini e 37 donne) così distribuiti fra
i gruppi: “(2,5%) con riferita diplopia monoculare; 78 (97,5%) con riferita diplopia binoculare con o
senza deviazione.
Lo schermo di Hess- Lancaster risultava positivo in 70 soggetti (70%; 36 uomini e 34 donne) tutti
con riferita diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo. Considerando la diplopia
monoculare e/o con caratteristiche cliniche imprecisate come “falsa” e la diplopia binoculare con o
senza strabismo come “vera”, sono stati calcolati i valori di sensibilità, specificità ed il valore
predittivo positivo o VPP (misure di accuratezza) per l’ EON e per entrambi i test di valutazione
ortottica. La sensibilità dell’ EON era del 64%, la specificità del 93% ed il VPP del 63%. Per la
prova al filtro rosso, il valore di sensibilità è risultato del 93% e quello di specificità dell’ 87%, con
un VPP del 97,5%. Per lo schermo di Hess, sono stati osservati un valore di sensibilità dell’ 83%,
un valore di di specificità del 99% ed un VPP del 99%. Il rapporto fra i test strumentali e la diagnosi
eziologica di diplopia è illustrato nelle tabelle 4a e 4b. la positività della prova al filtro rosso e
quella dello schermo di Hess sono associate in maniera statisticamente significativa (p=0.000) alla
diplopia in corso di ictus, sclerosi multipla, miopatie, neuropatie dei nervi cranici e traumi cranici.
In ognuno di questi sottogruppi, la positività di entrambi i test è stata osservata solo nei pazienti con
diplopia “vera”. Nei pazienti con diplopia “falsa” (non da strabismo paralitico) lo schermo di Hess è
risultato sempre negativo, la prova al filtro rosso invece positiva in un numero molto esiguo di
soggetti.
Patologie
Sesso M
F
Tot
Ictus
16 (28.6 %)
16 (36.4 %)
32
SM
4 (7.1 %)
4 (9.1 %)
8
Tumori
5 (8.9 %)
1 (2.3 %)
6
2
Traumi
16 (28.6 %)
7 (15.9 %)
3
Cefalee
2 (3.6 %)
6 (13.6 %)
8
Tab. 2a: distribuzione della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate (i valori
percentuali sono riferiti al fattore sesso)
Patologie
Miopatie
Sesso M
F
Tot
4 (7.1 %)
3 (6.8 %)
7
Neuropatie
degenerative
6 (10.7 %)
3 (6.8 %)
9
Malattie
diagnosi
3 (5.4 %)
1 (2.3 %)
4
Altre
/
3 (6.8 %)
3
Tab. 2b: distribuzione della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate (i valori
percentuali sono riferiti al fattore sesso)
Patologie
Monoculare
o non precisata
Ictus
2
SM
/
Tumori
/
Traumi
4
Cefalee
6
30
8
6
19
/
32
8
6
23
6
diplopia
Binoculare con
o senza strabismo
Tot
Tab. 3a: distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e
delle patologie riscontrate
Patologie
Miopatie
Neuropatie
Monoculare
o non precisata
1
/
Malattie
Altre diagnosi
degenerative
1
2
Binoculare con
o senza strabismo
Tot
6
9
3
1
7
9
4
3
diplopia
Tab. 3b: distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e
delle patologie riscontrate
Prova al filtro rosso
Totale
Ictus
Positivo
Negativo
31
1
32
Patologie
SM
8
/
8
Tumori
6
/
6
Traumi
15
8
23
Cefalee
3
5
8
Miopatie
6
1
7
Neuropatie
9
/
9
Malattie degenerative
2
2
4
Altre diagnosi
3
/
3
83
1
7
Tab. 4a: distribuzione della popolazione a seconda del risultato della prova al filtro rosso rispetto
alle patologie riscontrate
Schermo di Hess
Totale
Patologie
Positivo
Negativo
Ictus
25
7
32
SM
8
/
8
Tumori
6
/
6
Traumi
14
9
23
Cefalee
1
7
8
Miopatie
6
1
7
Neuropatie
8
1
9
Malattie degenerative
2
2
4
Altre diagnosi
/
3
3
70
3
0
Tab. 4b: distribuzione della popolazione a seconda del risultato dello schermo di Hess rispetto alle
patologie riscontrate
Discussione e conclusioni
I principali vantaggi dei test strumentali, in particolar modo della prova al filtro rosso e dello
schermo di Hess, per la valutazione della diplopia sono rappresentati dal basso costo e dalla rapidità
e relativa semplicità di esecuzione/ interpretazione. Rispetto all’esame obiettivo neurologico della
motilità oculare, entrambe le prove sono meno gravate dall’interpretazione del paziente e
dell’esaminatore, pur essendo tutte valutazioni soggettive in quanto dipendenti dalla risposta
dell’esaminato.
L’utilizzo del filtro dissociante nella prova al filtro rosso permette di slatentizzare l’effetto diplopico
e di valutare più accuratamente nelle varie direzioni di sguardo i parametri “direzione dello
sdoppiamento”, “massima distanza fra le luci” e “colore della luce più lontana” che vengono
utilizzati per identificare i muscoli colpiti. Nello schermo di Hess l’utilizzo del filtro rosso-verde fa
sì che l’esaminato percepisca con ciascun occhio un’immagine diversa in modo tale da poter
esaminare in maniera distinta la funzionalità dei muscoli a seconda del lato. L’utilizzo di una mira
luminosa gestita dal paziente permette di trasformare in un’immagine visiva sullo schermo quello
che il paziente vede nelle varie direzioni di sguardo. Riportando la valutazione su un grafico
realizzato dopo l’esecuzione dell’esame è possibile evidenziare chiaramente le ipofunzioni e
iperfunzioni dei muscoli oculari in entrambi gli occhi.
Da quanto detto, è evidente che rispetto alla valutazione obiettiva (prove di inseguimento di una
mira nelle varie direzioni di sguardo in visione mono e binoculare) il paziente ha minori possibilità
di influenzare l’esaminatore con le proprie risposte, pertanto è di uso comune nella pratica clinica
del neurologo ricorrere alla valutazione ortottica per verificare e definire in maniera precisa un
sospetto di strabismo paralitico. Nonostante ciò come si è già detto non esistono studi di validazione
della prova al filtro rosso e dello schermo di Hess su popolazioni di soggetti affetti da diplopia.
Nel nostro lavoro, i soggetti sono stati reclutati sulla base del sintomo diplopia indipendentemente
dalle patologie che potevano averla determinata (di natura neurologica e non) allo scopo di valutare
l’accuratezza dei test strumentali in quanto tali. Sulla base di quanto osservato, le prove hanno
elevati valori di sensibilità e specificità con differenze non significative fra la prova al filtro rosso,
gravata da un maggior numero di falsi positivi e lo schermo di Hess che ha invece un maggior
numero di falsi negativi. I valori di sensibilità e specificità dell’EON sono significativamente più
bassi rispetto ai test strumentali e la valutazione qualitativa neurologica risulta gravata da un
numero molto elevato di falsi negativi. Il VPP di un test rappresenta la percentuale di delle risposte
positive che sono veramente tali, cioè esprime la capacità di un test di “misurare” l’evento in esame
ed è tanto più elevato quanto più il test è in grado di identificare l’evento stesso.la prova al filtro
rosso e lo schermo di Hess hanno un VPP molto più elevato rispetto all’EON.
Questa disparità indica un’accuratezza molto maggiore dei test strumentali nell’identificazione di
una diplopia “vera” rispetto ad una ”falsa”. La differenza riscontrata fra i valori di VPP dei due test
ortottici non è significativa ma suggerisce una maggiore accuratezza diagnostica dello schermo di
Hess. Comunque, l’associazione fra EON della motilità oculare e diplopia binoculare con
deviazione di sguardo è risultata statisticamente molto significativa (p=0,000). Di conseguenza, la
valutazione neurologica dei movimenti oculari può essere considerata molto accurata nella diagnosi
d diplopia solo in presenza di una deviazione di sguardo.
A conferma di questa differenza sostanziale fra l’esame strumentale e quello clinico-obiettivo,
suddividendo i pazienti sulla base delle patologie, abbiamo osservato come entrambe le prove sono
risultate positive solo nei soggetti con diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo
all’EON e l’associazione è risultata statisticamente significativa per i sottogruppi ictus, sclerosi
multipla, miopatie, neuropatie dei nervi cranici e traumi cranici. In particolar modo, nei soggetti
affetti da tali patologie, la percentuale di falsi positivi per entrambi i test è approssimabile allo zero
e quella di falsi negativi risulta non significativa.
Le differenze fra i vari sottogruppi non sono risultate discrete ma interpretabili solo
qualitativamente, pertanto non valutabili dal punto di vista statistici. Sebbene l’interpretazione
statistica dei dati relativi ai test ortottici nelle singole patologie sia gravata da un errore di
dispersione dei valori numerici, è possibile comunque affermare che la prova al filtro rosso e,
soprattutto, lo schermo di Hess-Lancaster possono contribuire alla diagnosi di sede ma non
forniscono informazioni sulla natura della lesione.
Bibliografia
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24. Woods R. L., Bradley A., Atchison D. A.: Monocular diplopia caused by ocular aberrations
and hyperopic defocus. Vision Res 1996 Nov; 36(22): 3597-606.
Oggi c’è una grande esigenza
a tutti i livelli della Società
di avere il maggior numero di informazioni
circa le possibilità preventive, terapeutiche e riabilitative
di malattie oculari, rispetto a quelle che una visita oculistica
di routine può fornire. Esistono anche il desiderio
e la necessità di conoscere al meglio le possibilità
di assistenza sanitaria per ogni realtà riabilitativa.
LINEA VERDE
Numero telefonico : 800 068506
La Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, nel quadro della
sua costante azione promozionale, con lo scopo di diffondere la cultura della prevenzione delle
patologie oculari, ha dato il via ad una LINEA VERDE DI CONSULTAZIONE GRATUITA, aperta
a tutti coloro che chiamano da una postazione telefonica fissa situata in territorio italiano.
La linea verde funzionerà per due ore e trenta nei giorni feriali
dalle ore 10 alle ore 12,30 dal lunedì al venerdì
Sarà possibile consultare un medico oculista, al quale esporre il proprio problema ed ottenere i
suggerimenti necessari.
La speranza è che questa iniziativa contribuisca a diffondere ulteriormente la coscienza della
prevenzione, concetto che incontra tutt’ora un non facile accesso nella mentalità civica e soprattutto
delle categorie più a rischio (i giovanissimi e gli anziani).
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