Oftalmologia Sociale n.3/2007 Rivista di sanità pubblica dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità IAPB Italia onlus Direttore avv. Giuseppe Castronovo Caporedattore: dott. Filippo Cruciani e-mail: [email protected] Editoriale Titolo: “Un sogno che diventa realtà” di Avv. G. Castronovo Sommario: ...ma anche una realtà che farà sognare e soprattutto sperare i tanti cittadini minorati della vista, che darà alla ricerca scientifica lo slancio necessario ed opportuno per prevenire le tante patologie oftalmiche Sin dai primi giorni della mia Presidenza, agli inizi degli anni ’80, ho pensato che fosse mio dovere dare concretezza d’azione ai nobilissimi scopi della Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, costituita nel 1977 dall’Unione Italiana dei Ciechi e dal compianto Prof. G.B. Bietti, Presidente della S.O.I.. E fu così che, per passione associativa, convinto che ognuno di noi dovesse sino in fondo impegnarsi nel sociale, ho cominciato a sognare che anche in Italia fosse possibile promuovere la cultura per la prevenzione delle gravi patologie che portano alla perdita della vista; ho cominciato a sognare di potere, da non vedente, con l’aiuto di altri non vedenti e dei tanti validissimi Oculisti italiani, tutelare il bene prezioso della vista per milioni di altri cittadini. Insieme a me hanno cominciato a sognare tanti altri Amici e, come amava ripetere il grande Martin Luter King “...quando si è in molti a sognare, quel sogno diventa realtà”, quella nostra aspirazione si è trasformata in concrete iniziative con la Legge n. 284 del 28 agosto 1997, fortemente voluta dall’Unione Italiana Ciechi e dalla nostra Agenzia, grazie alla quale essa ha spiccato il volo e in tutta Italia sono stati costituiti numerosi Centri per l’Educazione e la Riabilitazione Visiva degli Ipovedenti. Spiccato il volo, la Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità ha dispiegato la propria azione su tutto il territorio nazionale, con iniziative di prevenzione primaria e secondaria che continuano a riscuotere il plauso di tanti cittadini ed il sostegno pieno del Ministero della Salute. E così abbiamo cominciato a sognare la creazione a Roma di un Polo Nazionale di servizi e ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti. Ed il sogno di pochi è diventato il sogno di molti, tanto da coinvolgere il Parlamento italiano, che con la Legge n. 291 del 2003 ha fornito alla nostra Agenzia i mezzi per la creazione del Polo Nazionale. A dieci anni dalla Legge n. 284/1997, un altro nostro ambizioso sogno diventa realtà: il Polo Nazionale di servizi e ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti verrà inaugurato dal Ministro per la Salute, On. Livia Turco, giovedì 11 ottobre 2007, in occasione della Giornata Mondiale della Vista; l’inaugurazione avrà luogo al Policlinico “A. Gemelli”, dove ha sede il Polo Nazionale. Un sogno che diventa realtà! Ma anche una realtà che farà sognare e soprattutto sperare i tanti cittadini minorati della vista che confidano in una riabilitazione moderna ed efficace; che darà alla ricerca scientifica lo slancio necessario ed opportuno per prevenire le tante patologie che ancora oggi portano alla perdita della vista o ad una sua grave compromissione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che segue ed apprezza l’attività della nostra organizzazione, da anni ribadisce con insistenza che l’ipovisione-cecità costituisce, allo stato attuale, un problema prioritario per i Servizi Sanitari di tutti i Paesi, siano essi in via di sviluppo che industrializzati. Essi sono chiamati, davanti alla drammaticità del fenomeno, a organizzare programmi di intervento non solo profilattico e terapeutico, ma anche e soprattutto di riabilitazione. Le stime parlano chiaro: secondo valutazioni dell’OMS, i ciechi nel mondo sono oggi 37 milioni e circa 124 milioni gli ipovedenti; in Italia, si stima che i ciechi siano 300.000 e più di un milione gli ipovedenti. Il forte incremento demografico nei Paesi in via di sviluppo (dove si stima che vivano 9 ciechi o ipovedenti su 100) e l’allungamento della vita media nei Paesi industrializzati, sta determinando un progressivo aumento dei cittadini affetti da cecità o da ipovisione. Ecco perché urge, anche in Italia, un grande impegno sociale e culturale, oltre che scientifico, affinché la prevenzione delle diverse patologie diventi prassi quotidiana. Il Polo Nazionale voluto e creato dalla Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità ha tra le sue finalità la ricerca clinica nella medicina preventiva, la ricerca Epidemiologica, la formazione e l’aggiornamento degli Operatori, la riabilitazione globale degli ipovedenti secondo i più accreditati protocolli riabilitativi a livello internazionale, la progettazione e la sperimentazione di nuovi ausili informatici. Tutto questo è un sogno? Perdonateci, ma lo scrivente e i Dirigenti della Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità sono degli inguaribili sognatori! Se la poesia è figlia del sogno e la speranza si nutre della ragione, con questa consapevolezza confidiamo che la scienza possa sconfiggere la cecità e ridare la luce a chi ha sempre conosciuto il buio. Per questo grandioso obiettivo, il polo nazionale costituisce un grande strumento di ricerca perché il sogno, l’ambizione e la speranza diventino una nuova meravigliosa realtà sociale. PROGRAMMA PRELIMINARE Inaugurazione del Polo di Servizi e Ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti Riunione dei Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti Roma, 11 e 12 Ottobre 2007 Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico Agostino Gemelli Largo Agostino Gemelli, 8 – Roma 11 Ottobre 2007 ORE 10.00 Cerimonia inaugurale di presentazione del Polo Nazionale di Servizi e Ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti. Interventi: -Avv. Giuseppe Castronovo Presidente IAPB Italia – Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità -Prof. Antonio Cicchetti Direttore Amministrativo Università Cattolica del Sacro Cuore -Prof. Cesare Catananti Direttore Policlinico Agostino Gemelli -On. Livia Turco Ministro della Salute -On. Walter Veltroni Sindaco di Roma -Prof. Tommaso Daniele Presidente U.I.C. -Prof. Corrado Balacco Gabrieli Presidente SOI – Società Oftalmologia Italiana ORE 12.00 Conferenza Stampa: “Ipovisione: nuove sfide dal mondo” Dott. Silvio Paolo Mariotti Responsabile Programma Prevenzione della Cecità e Sordità Organizzazione Mondiale della Sanità - Ginevra “La prevenzione della cecità in Italia: un impegno sociale oltre che sanitario” Prof. Enzo Tioli Componente Direzione Nazionale IAPB Italia “La riabilitazione visiva in Italia: migliorare la qualità della vista per migliorare la qualità della vita” Prof. Emilio Balestrazzi Direttore Dipartimento Oftalmologia Policlinico Agostino Gemelli – Roma “L’importanza della ricerca per la prevenzione delle minorazioni visive” Prof. Alfredo Reibaldi Direttore Scientifico Polo Nazionale di Servizi e Ricerca per la prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva degli ipovedenti ORE 13.00 Lunch ORE 15.00 Riunione dei Rappresentanti dei Centri Coordinatore: Avv. Giuseppe Castronovo Presidente IAPB Italia – Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità “Come è nato il Polo: iter legislativo” “Finalità e struttura del Polo” “I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti e il Ministero della Salute” “I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti e le Regioni: attuazione della Legge 284 del 28 Agosto 1997” “I Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti in Italia oggi: fotografia di una realtà” ORE 16.30 Dibattito ORE 18.00 Chiusura dei lavori 12 Ottobre ORE 9.00 “Problematiche a confronto” Interventi dei Rappresentanti dei Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva Ipovedenti ORE 11.00 Tavola Rotonda “La Riabilitazione Visiva in Italia: il ruolo delle Società Scientifiche e delle Associazioni Pazienti” ORE 13.00 Conclusioni a cura dell’Avv. Giuseppe Castronovo Editoriale Titolo: Elettrofisiologia: perché? di E. Rispoli, M. Lo Grasso Sommario: Perché, nonostante la loro utilità, gli esami elettrofunzionali non hanno subito la medesima diffusione di altre tecniche semeiologiche? Nonostante lo sforzo, anche se di pochi, ed i progressi tecnologici e metodologici raggiunti dalle metodiche elettrofunzionali, esistono molte strutture oftalmiche, anche ben attrezzate, che le considerano superflue o le ignorano del tutto. Talvolta capita anche che apparecchiature per elettrofisiologia vengano acquistate solo per completare una dotazione di strumenti, e che poi la gestione venga affidata a personale con poca o nessuna esperienza in materia. In questi casi i dati ottenuti dagli esami elettrofunzionali vengono letti e interpretati in modo superficiale o addirittura errato, facendo crollare sempre di più la fiducia dell’oculista nelle tecniche elettrofunzionali e indirizzando sempre di più l’interesse verso le recenti metodiche morfocliniche (Fluorangio, OCT, SLO, ecc.). Pur convinti della fondamentale importanza della diagnostica per immagini, in special modo con le più recenti attrezzature, che consentono una visione della retina in vivo fin nei sui minimi dettagli, è tuttavia utile porre alcune osservazioni sulla ancora valida attualità della semeiotica elettrofunzionale. Tali osservazioni si basano sulla natura sostanzialmente elettrica del nostro sistema sensoriale. Quando infatti uno dei nostri sensi (udito, vista, tatto, ecc. …) viene sollecitato, lo stimolo viene trasformato in impulsi elettrici che viaggiano lungo il sistema nervoso e raggiungono il cervello sotto forma di variazione di scariche elettriche (potenziali di azione). Anche quando compiamo una qualsiasi azione il cervello comanda e guida tale azione attraverso l’invio di “scariche elettriche”. Tutte le nostre sensazioni e finanche i nostri pensieri possono essere considerati come scariche elettriche che variano in ben definite zone del nostro cervello. Possiamo affermare che l’essenza stessa della nostra esistenza è regolata o addirittura è una sequenza di variazioni di potenziali elettrici. La morte non è altro che lo spegnimento di questi potenziali elettrici (elettroencefalogramma piatto). Se la morte è caratterizzata dallo spegnimento dell’attività elettrica, la vita è rappresentata dalla presenza dell’attività elettrica, anzi, dalla corretta presenza dell’attività elettrica (attività elettrica nella norma = funzione vitale nella norma). In teoria, allora, una qualsiasi patologia potrebbe essere rilevata, valutata e seguita attraverso il solo studio dell’attività elettrica delle strutture coinvolte. Questa teoria, sebbene applicabile ed ampiamente applicata in vitro e in condizioni sperimentali, (la maggior parte delle nostre conoscenze nel campo della fisiologia sono state ottenute grazie a studi elettrofisiologici) trova tuttavia notevoli limitazioni nell’applicazione clinica per l’impossibilità di applicare in vivo elettrodi direttamente sulle membrane cellulari. Tuttavia le variazioni dei potenziali elettrici locali delle singole cellule provocano variazioni delle correnti elettriche di circolazione nei tessuti ad esse adiacenti, che si propagano fin sulla superficie cutanea e che possono essere rilevate in maniera non invasiva con elettrodi cutanei. Purtroppo il segnale che si registra sulla superficie cutanea non è legato all’attività elettrica di un singolo neurone o di una singola famiglia neuronale, ma è la risultante della complessa attività elettrica di tutte le cellule che si trovano in prossimità del punto di applicazione dell’elettrodo. È possibile tuttavia superare, o almeno ridurre, la limitazione dovuta all’impossibilità di connettere gli elettrodi direttamente alle membrane dei neuroni attraverso le complesse tecnologie e metodologie che costituiscono la moderna elettrofisiologia clinica. Ciò premesso la domanda che ci si può porre è: perché impiegare i metodi complessi ed indiretti dell’elettrofisiologia per conoscere lo stato del sistema visivo e dei suoi componenti quando è possibile guardarli direttamente attraverso i moderni esami morfoclinici? Per rispondere alla domanda è necessario premettere l’osservazione che le alterazioni del sistema visivo, possono avere un’ insorgenza meccanica o un’insorgenza funzionale. Sono ad insorgenza meccanica quelle patologie come il distacco di retina, il foro retinico, i vari essudati ecc., in cui un’alterazione della morfologia, speso dovuta a trazioni meccaniche, ha come conseguenza un’alterazione della funzione. Sono invece ad insorgenza funzionale patologie come la retinite pigmentosa, la neurite ottica ecc., in cui l’alterazione morfologica è la conseguenza della degenerazione neuronale. Se è ovvio che nelle patologie ad insorgenza meccanica l’analisi morfoclinica consente oggi una perfetta visualizzazione del danno e, di conseguenza una precisa diagnosi, è pur vero che in tutte quelle patologie che originano da alterazioni funzionali, per es. la neurite ottica di tipo demielinizzante, maculopatie tossiche, ecc., l’indagine morfoclinica mostra, il più delle volte, immagini alterate solo in fasi tardive e spesso quando il danno non è più reversibile. In questi casi attente indagini funzionali (campo visivo, senso cromatico, sensibilità al contrasto ecc.) risultano certamente preferibili e, nella maggior parte dei casi, dirimenti. A questo punto è logico porsi la domanda: perché ricorrere agli esami elettrofunzionali se è possibile usare esami più semplici e diffusi quali il campo visivo, la sensibilità al contrasto, l’acuità visiva, ecc.? La risposta a quest’ultimo quesito è legata alle differenze sostanziali fra le metodiche funzionali psicofisiche e quelle elettrofisiologiche. Tali differenze sono varie ma è importante soffermarsi su alcune di esse: a – Maggiore obbiettività delle risposte elettrofunzionali rispetto a quelle psicofisiche. In queste ultime infatti è di fondamentale importanza la collaborazione del paziente e la sua volontà di rispondere. Gli esami elettrofunzionali assumono pertanto un ruolo di maggiore importanza nei soggetti in età preverbale e nei pazienti non collaboranti, come i simulatori. b – Possibilità di ottenere valutazioni numeriche sulla funzionalità dei diversi parametri della funzione visiva, al di fuori delle soglie. Ciò è dovuto al limite degli esami psicofisici che non sono in grado di valutare “quanto” è visibile uno stimolo visibile. Per es. se un paziente ha una acuità visiva di 7/10 possiamo sapere solo che legge le prime sette righe ma non sappiamo nulla di come o quanto le legge. Al contrario, una risposta elettrofunzionale fornisce un valore numerico che è tanto migliore quanto migliore è la percezione dei diversi stimoli visibili. c – Migliore capacità di localizzazione longitudinale del danno. Il sistema visivo si estende radialmente se si fa riferimento alle diverse aree retiniche (foveola, fovea, parafovea, perifovea, periferia), ma anche longitudinalmente se si fa riferimento al cammino ottico, che partendo dai fotorecettori, si sviluppa lungo i vari interneuroni della retina per proseguire sui lunghi assoni delle cellule ganglionari fino ai corpi genicolati laterali ed infine da questi alle aree corticali. Una alterazione del campo visivo fornisce una precisa localizzazione a livello radiale di un danno, ma non fornisce indicazioni dirette sul tipo di neuroni alterati o sulla posizione del danno lungo il percorso ottico. Per contro i diversi esami elettrofunzionali hanno proprio lo scopo di determinare quali e quanti sono i neuroni alterati lungo il percorso ottico dai recettori alle aree corticali. Un ultima domanda a cui rispondere è: perché, nonostante la loro utilità, gli esami elettrofunzionali non hanno subito la medesima diffusione di altre tecniche semeiologiche? La risposta a quest’ultima domanda è legata essenzialmente alla particolare conformazione anatomica dell’occhio che non solo è un organo esterno, e quindi direttamente osservabile, ma è munito di una finestra, la pupilla, che consente di osservarlo addirittura al suo interno. E’ come se il cuore, anziché chiuso nella gabbia toracica si fosse trovato all’esterno ed avesse presentato le pareti trasparenti in modo da mostrare le valvole e tutte le strutture interne. Con un cuore siffatto probabilmente l’elettrocardiografia non sarebbe mai stata inventata!! La possibilità di esplorare l’interno e l’esterno dell’occhio ha fatto si che venissero preferite dall’oculista, e quindi anche sviluppate tecnologicamente, tutte le tecniche semeiologiche atte ad osservare anatomicamente l’occhio, tralasciando, o portando in secondo piano, la semeiotica funzionale e, a maggior ragione, quella elettrofunzionale. In altre parole, è opinione di molti che è più facile “guardare” un’alterazione, anche se all’interno dell’occhio, piuttosto che “dedurne” l’esistenza attraverso le complicate osservazioni a cui conducono gli esami elettrofunzionali. Purtroppo però la sola osservazione non è sempre sufficiente, nonostante i grandi passi fatti dai mezzi di osservazione della retina. Si può dire che è un po’ come guardare una bella auto da corsa: è certamente importante che la linea sia filante per una buona penetrazione nell’aria, che gli spoiler siano proporzionati e ben disegnati per stabilizzarla alle alte velocità, che le gomme siano in perfette condizioni per la tenuta di strada ecc. Tutti questi elementi osservabili dall’esterno sono fondamentali per il buon funzionamento dell’auto. E’ tuttavia indispensabile che anche il motore con tutti i suoi controlli e meccanismi sia in perfette condizioni e questi elementi non sono osservabili dall’esterno, ma solo mettendo in moto e, come si dice in gergo, eseguendo una prova su strada. Anche per il sistema visivo è possibile la prova su strada, ed è quella che si fa attraverso gli esami elettrofunzionali: si “mette in moto” l’occhio, fornendo stimoli visibili adeguati, e se ne verifica il corretto funzionamento attraverso l’analisi delle diverse risposte elettriche. ATTI Sezione S.I.O.L. (Società Italiana Oftalmologia Legale) Titolo: Puntatori laser giocattolo: valutazione del rischio e norme di prevenzione e protezione di G. F. Mariutti Istituto Superiore di Sanità. Roma Sommario: I puntatoti laser giocattolo sono degli oggetti il cui uso non è scevro da rischi diretti e indiretti L’uso di puntatori luminosi, al posto della tradizionale “bacchetta di legno”, per evidenziare dati e dettagli proiettati su uno schermo nelle conferenze e seminari risale a oltre 30 anni fa. I primi tipi di puntatori ottici erano sostanzialmente costituiti da una sorgente di luce tradizionale e da un sistema ottico di collimazione e focalizzazione. Essi sono stati sostituiti, nell’arco di pochi anni, da puntatori laser alimentati da batterie, che emettono un fascio più collimato e luminoso e che, fra l’altro, hanno un’autonomia maggiore e sono molto più leggeri e maneggevoli. I puntatori laser più diffusi emettono luce rossa di lunghezza d’onda compresa fra 630 e 675 nm. Sono disponibili anche puntatori con laser a luce verde (530 nm) che però sono molto più costosi. Attualmente molti conferenzieri utilizzano detti puntatori laser per uso professionale che sovente sono, per forma e dimensioni, identici a una penna (figura 1). Didascalia fig. 1 Figura 1: Puntatore laser per uso professionale Nella fattispecie, l’utilizzatore è generalmente ben cosciente dei possibili rischi che l’uso non corretto può comportare. Perciò evita accuratamente di dirigere il fascio di luce verso l’uditorio e verso i propri occhi. Anche nel caso dei puntatori laser si è verificato ciò che accade per la maggior parte dei nuovi prodotti e dispositivi tecnologici immessi sul mercato. Il loro prezzo, inizialmente elevato, in un breve arco di tempo si è ridotto in misura considerevole sia in ragione dei progressi tecnologici sia per l’abbattimento dei costi che la produzione in larga scala determina. Da oltre dieci anni sono presenti sul mercato dispositivi laser a stato solido di bassa potenza, il cui costo è irrisorio se paragonato a quello dei laser di pari caratteristiche che erano prodotti 25 anni fa. Questo tipo di emettitore laser è largamente utilizzato in un gran numero di dispositivi e applicazioni: lettori di compact disc, lettori di codici a barre etc. Sorgenti laser a basso costo sono state e sono tutt’ora utilizzate da alcuni fabbricanti di giocattoli dell’area asiatica (Cina, Taiwan etc.) per produrre puntatori laser giocattolo che sono stati esportati in Europa e nel Nord America, dove hanno riscosso un notevole successo fra i bambini e i ragazzi. Attualmente il mercato offre vari tipi di puntatori laser giocattolo che differiscono per forma, caratteristiche della sorgente luminosa e per il numero e il disegno delle testine intercambiabili con le quali è possibile proiettare a distanza immagini simboliche e di fantasia. La maggior parte di questa tipologia di puntatori non professionali è provvista di gancio portachiavi (figura 2). Didascalia fig. 2 Figura 2: Puntatore laser giocattolo Sono stati posti in commercio anche pistole e fucili giocattolo nei quali, tirando il grilletto, si attiva la sorgente laser, alloggiata opportunamente all’interno della canna, che “spara” il fascio di luce a notevoli distanze. Sin dall’inizio della loro commercializzazione le autorità di diversi Paesi e alcune organizzazioni internazionali di protezione quali, ad esempio, la OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità (Health Risks from Use of Laser Pointers. Fact Sheet 202, July 1998) si sono preoccupate di valutare i possibili rischi che l’uso di detti giocattoli da parte di bambini e ragazzi può comportare. A tal fine, laboratori specializzati hanno effettuato le necessarie determinazioni strumentali su vari campioni, necessarie sia per caratterizzare le sorgenti laser utilizzate sia per verificare il rispetto delle norme nazionali e internazionali pertinenti attualmente in vigore. I produttori, i venditori e gli utilizzatori di laser devono, infatti, ognuno per il proprio ambito di responsabilità e competenza, rispettare le norme tecniche armonizzate riguardanti questo tipo di sorgenti di radiazione ottica. Come è noto, a differenza delle più familiari sorgenti di luce utilizzate nell’illuminazione (lampade a incandescenza, a fluorescenza e alogene), la luce emessa dai laser non è policromatica e non viene emessa più o meno uniformemente in tutte le direzioni, caratteristica, quest’ultima, necessaria per illuminare ampie superfici (le pareti di una stanza) con una singola lampada. La radiazione ottica emessa da un laser, invece, è sostanzialmente monocromatica e tutta concentrata in un fascio collimato di sezione approssimativamente circolare molto piccola (pochi millimetri quadrati). In definitiva i laser sono sorgenti puntiformi quasi ideali che emettono radiazione altamente direzionale e possono irradiare potenze notevoli in un piccolo angolo solido. Per questa loro specifica caratteristica i laser sono sorgenti di elevatissima brillanza. Un laser che emetta pochi milliwatt è vari ordini di grandezza più brillante di qualsiasi altra sorgente artificiale di luce e può risultare anche più brillante del sole. E sono proprio l’elevata collimazione e la notevole brillanza del fascio luminoso che li rende, fra l’altro, particolarmente adatti ad essere usati come puntatori. Tali caratteristiche, d’altra parte, fanno comprendere anche intuitivamente perché siffatte sorgenti possono essere fonte di rischio, soprattutto per l’occhio. I raggi paralleli di un fascio di luce collimata, come quelli laser, vengono concentrati o focalizzati sulla retina in una immagine estremamente piccola. Il potere teorico di amplificazione (o guadagno ottico) dell’occhio, per un diametro della pupilla di circa 4 mm, può essere anche dell’ordine di 105. Conseguentemente, la potenza luminosa per unità di area (irradianza) incidente sulla cornea risulterà amplificata sulla retina, teoricamente, di un fattore pari al guadagno ottico. L’effetto più rilevante dell’assorbimento della radiazione visibile e infrarossa fino a 1400 nm, focalizzata sulla retina, è lo sviluppo di calore nell’area dell’immagine, con conseguente innalzamento localizzato della temperatura (figura 3). Didascalia fig. 3 Figura 3: Immagine retinica: sorgente luminosa tradizionale (A) e fascio laser (B) Dati teorici e sperimentali mostrano che fasci di luce laser analoghi a quelli di un puntatore operante nell’intervallo di lunghezza d’onda 640 ÷ 670 nm, se focalizzati sulla retina, nel caso peggiore possono provocare un aumento di temperatura localizzato, nell’area puntiforme dell’immagine retinica, di circa 2 ÷ 2,5°C per milliwatt di potenza del raggio laser. Pertanto, un puntatore che emetta anche qualche milliwatt di luce è in grado di produrre sulla retina aumenti di temperatura potenzialmente pericolosi, soprattutto se, per varie circostanze, la durata, dell’esposizione è superiore al tempo “standard” (0,25 secondi) della reazione protettiva che il fenomeno dell’abbagliamento induce in un soggetto normale, ovvero la chiusura delle palpebre e la rotazione della testa. Riferimenti normativi per i laser in generale e per i puntatori in particolare Tutte le sorgenti laser, intese anche come prodotti che incorporano una o più sorgenti laser prodotte, commercializzate e utilizzate in Italia, devono essere conformi alle prescrizioni e disposizioni contenute nella norma tecnica armonizzata CEI–EN 60825-1 attualmente in vigore, il cui titolo è “Sicurezza degli apparecchi Laser, Parte 1: Classificazione delle apparecchiature, prescrizioni e guida per l’utilizzatore”. Inoltre, ai puntatori laser si applica l’ordinanza del Ministero della Sanità del 16 luglio 1998, pubblicata nella G.U. Serie Generale n. 167 del 20 luglio 1998, intitolata “Divieto di commercializzazione sul territorio nazionale di puntatori laser o di oggetti con funzioni di puntatori laser di classe pari o superiore a 3 secondo la norma CEI-EN 60825”. Essa è stata emanata a seguito di segnalazioni di casi di uso improprio di detti prodotti, che in qualche caso sono stati puntati deliberatamente contro gli occhi di bambini o ragazzi. Inoltre si è considerato che i puntatori laser, di classe pari o superiore a 3 secondo la norma europea CEI EN 60825, tenuto conto anche della loro potenza, possono provocare lesioni oculari e quindi costituiscono un pericolo grave ed immediato per la salute umana. Detta ordinanza esclude dal divieto i puntatori laser commercializzati per usi professionali specifici e le cui modalità di impiego sono chiaramente indicate dal responsabile della loro immissione sul mercato. Per verificare se ai puntatori laser giocattolo posti in commercio soddisfano quanto disposto dall’ordinanza precedentemente richiamata, è necessario determinarne la classe di appartenenza secondo la norma europea CEI-EN 60825 in vigore nel 1998. Secondo la CEI EN 60825, gli apparecchi laser sono raggruppati in 5 classi (1, 2, 3A, 3B e 4) per ciascuna delle quali sono specificati i Limiti di Emissione Accessibile (LEA). Il LEA definisce il valore massimo della radiazione laser accessibile ad un individuo durante l’utilizzazione del dispositivo. I LEA, a loro volta, sono derivati dai valori di Esposizione Massima Permessa (EMP). I livelli EMP rappresentano il livello massimo al quale l’occhio o la pelle possono essere esposti senza subire un danno a breve o a lungo termine; questi livelli dipendono dalla lunghezza d’onda della radiazione, dalla durata dell’impulso o dal tempo di esposizione, dalla natura del tessuto esposto e, per quanto riguarda la radiazione visibile e il vicino infrarosso (regione spettrale 400 ÷ 1400 nm) dalle dimensioni dell’immagine retinica. Per quanto riguarda le 5 classi, valgono le seguenti considerazioni: Classe 1 I laser di classe 1 sono quelli intrinsecamente sicuri, perché la potenza del fascio di luce emesso in nessun caso determina il superamento della EMP per l’occhio. Classe 2 I laser di classe 2 sono dispositivi a bassa potenza che emettono radiazione visibile (400-700 nm). Per un laser ad emissione continua la potenza massima del fascio (LEA) non deve superare 1 mW. Se l’occhio, sia per cause accidentali sia per uso improprio altrui, viene colpito dal fascio di radiazione di un dispositivo laser appartenente a questa classe, la sua protezione è assicurata dal fenomeno dell’abbagliamento, che innesca contemporaneamente due meccanismi di difesa: il riflesso di chiusura delle palpebre e il movimento della testa volto ad allontanare l’occhio dal fascio di luce incidente. Classe 3A I laser di classe 3A sono dispositivi più potenti rispetto a quelli di classe 2. Nella regione del visibile (400-700 nm) non possono emettere una potenza continua superiore a 5 mW. Inoltre, l’irradianza in qualsiasi punto del fascio non deve superare il valore di 25 W/m . Questo secondo vincolo ha lo scopo di limitare la potenza massima accessibile all’occhio, con un diametro della pupilla di 7 mm, ad un valore non superiore a 1 mW. L’esposizione accidentale dell’occhio a fasci laser di classe 3A comporta effetti simili a quelli che si verificano con sorgenti di classe 2. Tuttavia, l’osservazione diretta di un fascio laser di classe 3A attraverso strumenti ottici, ad esempio un binocolo, può risultare pericolosa per l’occhio. 2 Classe 3B I laser ad emissione continua di classe 3B non devono avere una potenza del fascio superiore a 500 mW. L’osservazione diretta del fascio di dispositivi appartenenti a questa classe è pericolosa, poiché la potenza emessa può essere sufficiente a produrre danni oculari. Maggiore è la potenza più grande è, ovviamente, il rischio di danno. L’estensione e la gravità delle eventuali lesioni dipenderà da vari fattori, quali l’intensità del fascio, il diametro della pupilla e la durata dell’esposizione. Classe 4 Appartengono a questa classe tutti i dispositivi laser con una potenza del fascio superiore a 500 mW. I laser della classe 4 possono produrre riflessioni diffuse pericolose e, a differenza delle precedenti quattro classi, sono in grado di produrre danni anche sulla pelle esposta. Targhettatura Ogni apparecchio laser deve essere munito di targhetta. Le targhette devono essere fissate in modo permanente, ed essere leggibili, e chiaramente visibili, durante il funzionamento, la manutenzione e l’assistenza. Esse devono essere posizionate in modo da poter essere lette evitando il superamento del LEA di classe 1. Ad esclusione della classe 1, i bordi delle targhette e i segni grafici devono essere in nero su fondo giallo. Per ogni classe è previsto che la targhetta riporti uno specifico messaggio informativo. Puntatori laser giocattolo presenti sul mercato L’esperienza diretta del Dipartimento Tecnologie e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità e i dati resi disponibili da altre analoghe istituzioni europee hanno dimostrato che la maggior parte dei puntatori laser giocattolo presenti sul mercato italiano hanno caratteristiche che li connotano come prodotti di classe 3A o 3B. In particolare, frequentemente si riscontrano puntatori laser che non soddisfano quanto disposto sia dalla norma armonizzata CEI–EN 60825 sia dall’ordinanza del Ministero della Sanità del 16 luglio 1998, precedentemente citata. Con riferimento alla norma CEI–EN 60825, le violazioni che più frequentemente sono state riscontrate sono: • etichettatura assente o non conforme alla norma CEI–EN 60825; • non corretta classificazione della sorgente laser; • in alcuni puntatori, la classe di appartenenza, indicata con la numerazione romana, sta a dimostrare che il laser non è stato classificato secondo le disposizioni contenute nella norma CEI–EN 60825, che usa una numerazione araba, ma facendo riferimento allo “standard” in vigore negli USA, il quale presenta delle significative differenze rispetto a quello europeo. In particolare, la classe IIIA, dallo “standard” americano, non prescrive, a differenza di quello europeo, che l’irradianza del fascio laser sia inferiore a 25 W/m2. Frequentemente un laser di classe IIIA (USA) corrisponde a un classe 3B (Europa); • in altri casi, la potenza misurata del fascio è significativamente superiore a quella dichiarata in etichetta dal costruttore. Oltre alle predette violazioni, a fronte di un rispetto formale delle norme, si osservano talvolta delle inconsistenze: sulla confezione dei prodotti distribuiti attraverso un importatore italiano, o sul foglio illustrativo allegato, viene posto, come d’altra parte la legge prescrive, il marchio CE, che attesta la rispondenza o conformità del prodotto a tutte le direttive dell’Unione Europea ad esso applicabili, e quindi garantisce i consumatori dell’Unione che il prodotto possiede le necessarie caratteristiche di sicurezza d’uso, a cui si aggiungono le avvertenze e le precauzioni redatte in lingua italiana. Tuttavia, esse sono di difficile lettura perché stampate con caratteri estremamente minuscoli. Di solito nei puntatori provvisti di testine intercambiabili, viene riportato: “Articolo conforme alle norme di sicurezza, Direttiva n° 88/378/CEE D.L. 313 del 27/09/91, legge n° 428, art. 54 del 29/12/90. Può contenere piccole parti. Non adatto ai bambini di età inferiore ai 3 anni.”. La direttiva 88/378/CEE è quella relativa al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri riguardanti la sicurezza dei giocattoli, mentre il D.L. 313 del 27/09/91 si riferisce all’attuazione di detta direttiva, a norma dell’articolo 54 sulla sicurezza dei giocattoli della legge delega 428 del 29/12/90. La legge 88/378, per quanto attiene le condizioni di sicurezza, stabilisce nell’articolo 2 che “i giocattoli debbono essere fabbricati a regola d’arte in materia di sicurezza e possono essere immessi sul mercato solo se non compromettono la sicurezza e/o la salute degli utilizzatori o di altre persone, quando sono utilizzati conformemente alla loro destinazione, per una durata d’impiego prevedibile in considerazione del comportamento abituale dei bambini” Più recentemente, sono stati immessi sul mercato dei puntatori che, per forma e caratteristiche, sono sostanzialmente identici ai puntatori laser giocattolo, ma che il costruttore dichiara non essere dei giocattoli e non destinati ai bambini (this is not a toy, keep out of reach of children). In questo caso, viene riportata anche una sigla CE, scritta con caratteri diversi da quelli utilizzati per il marchio CE, che può essere fonte di equivoco. Infatti trattasi di prodotti fabbricati in Cina, sprovvisti di istruzioni in lingua italiana nei quali, la sigla CR è l’acronimo di China Export. Poiché per i laser di classe 3B la naturale risposta avversa all’abbagliamento (chiusura delle palpebre e rotazione della testa) non è sufficiente a prevenire eventuali rischi per l’occhio, ne consegue che alcuni puntatori presenti sul mercato sono potenzialmente pericolosi. Il riflesso di chiusura delle palpebre, provocato dal forte stimolo luminoso, si traduce in una reazione efficace di protezione nell’esposizione diretta dell’occhio a laser di classe pari o inferiore a 3A soltanto se il tempo massimo di risposta non supera 0,25 secondi. Per la visione diretta del fascio di un laser di classe 3B, detto tempo di risposta all’abbagliamento, che è stato definito convenzionalmente, può risultare insufficiente a prevenire il danno oculare. Va osservato, inoltre, che a parità di potenza, irradianza e fattori geometrici, lo stimolo luminoso dipende dal colore della luce, perché la risposta dell’occhio umano, nell’intervallo del visibile (400 ÷ 780 nm), è dipendente dalla lunghezza d’onda e presenta un massimo a circa 550 nm (risposta fotopica “standard”). Come è mostrato nella figura 4, se consideriamo due puntatori di differente lunghezza d’onda (676 nm e 640 nm) che emettano la stessa potenza radiante, la luminosità percepita dall’occhio sarà approssimativamente nel rapporto 1:10. Didascalia fig. 4 Figura 4: Sensibilità fotopica dell’occhio umano Un ulteriore elemento di riflessione, che induce a considerare con cautela la problematica protezionistica relativa a questi particolari giocattoli, scaturisce dal fatto che, in linea di massima, le disposizioni e i limiti contenuti nelle norme armonizzate attualmente in vigore nel nostro Paese e a livello internazionale sono state elaborate perché prioritariamente era necessario proteggere i lavoratori esposti in ambiente di lavoro, cioè individui adulti e idonei a svolgere attività anche con sorgenti laser. Tale genesi non significa necessariamente che le stesse norme sono inadeguate per la protezione della popolazione. Tuttavia, la loro elaborazione è avvenuta tenendo conto dell’esistente, in particolare delle norme generali che disciplinano la protezione dei lavoratori, le quali prevedono anche che gli stessi siano sottoposti a sorveglianza sanitaria. I lavoratori che utilizzano abitualmente sorgenti laser verosimilmente saranno sottoposti anche a visita oculistica preventiva e riceveranno sia adeguate informazioni sui possibili rischi connessi all’uso di sorgenti laser, istruzioni su come evitarli e dotazioni individuali di protezione (occhiali). E’ possibile che la protezione della popolazione in generale, e dei bambini come gruppo particolare, basata su norme che partono da tali presupposti possa risultare in alcuni casi non sufficiente. Innanzitutto, va considerato che la conoscenza dei possibili rischi dei fasci di luce laser, nella popolazione e fra i bambini, può essere limitata o addirittura assente. Inoltre, non si possono trascurare eventuali effetti particolari collegati alla frequenza delle discromatopsie congenite (cioè l’incapacità di vedere determinati colori). Nella popolazione generale circa il 5% dei soggetti è affetto da protanomalia, cioè alterazione della visione nella banda della radiazione rossa. Questi individui sono a maggior rischio se colpiti da un fascio di luce rossa, perché in essi non si manifesta in misura sufficiente l’abbagliamento e conseguentemente, nella fattispecie, la risposta di difesa dell’occhio o è assente o non è sufficientemente rapida per prevenire adeguatamente l’eventuale rischio. L’esperienza pratica ha mostrato che i bambini, dopo aver provato gioia e meraviglia nel dirigere e proiettare il fascio e le immagini su superfici e oggetti lontani, in particolare quando è buio, alle volte, per gioco, lo puntano volontariamente verso l’occhio dei loro amici e coetanei, allo scopo di abbagliarli. Proprio questi comportamenti poco responsabili ancorché frequenti nei bambini e nei ragazzi sono all’origine di altri possibili rischi indiretti dell’uso di puntatori laser giocattolo. Si è verificato più volte, infatti, che, accidentalmente o deliberatamente, il fascio luminoso abbia colpito l’occhio di individui impegnati in attività, ad esempio la guida di autoveicoli, nelle quali anche la temporanea limitazione della funzione visiva prodotta dall’abbagliamento può essere causa di rischi o danni. In definitiva, i puntatori laser giocattolo sono degli oggetti il cui uso da parte di bambini e ragazzi non è scevro da rischi diretti e indiretti. Le attuali norme riguardanti la sicurezza dei giocattoli non contemplano il rischio da radiazione ottica, e dei fasci laser in particolare. Si tratta certamente di una lacuna che dovrebbe essere risolta. E’ positivo che l’allora Ministero della Sanità abbia tempestivamente emanato l’ordinanza precedentemente richiamata la quale, introducendo dei vincoli sulla potenza irradiata, si può ridurre notevolmente il rischio. ATTI Sezione S.I.O.L. (Società Italiana Oftalmologia Legale) Titolo: Rischio oculare da giocattolo. Normativa attuale dei videogiochi di P. L. Grenga, V. Recupero, R. Cannata. Università degli Studi di Roma “La Sapienza” - Policlinico Umberto I - Dipartimento di Scienze Oftalmologiche Sommario: Al momento non c’è alcuna evidenza scientifica di associazioni tra patologie del sistema visivo e videogiochi Negli ultimi anni si è diffuso sempre di più l’utilizzo dei videogiochi come passatempo, sviluppo che ha interessato non solo i bambini ma anche i ragazzi e gli adulti di diverse fasce d’età. Questo fenomeno è diventato, quindi, d’interesse comune e – come tutte le questioni che non riguardano soltanto una nicchia della nostra società – merita la nostra attenzione: nel nostro caso ci siamo concentrati sull’impatto che l’utilizzo dei videogiochi, a volte anche esasperato, ha sulla salute e, in particolare, sull’apparato visivo. Inizialmente, dunque, abbiamo analizzato la letteratura internazionale al fine di poter conoscere quali siano i dati e i risultati delle ricerche cliniche ottenuti in differenti campi della medicina sull’utilizzo dei videogiochi. Successivamente abbiamo passato in rassegna le normative italiane ed europee che ne regolamentano la produzione, la vendita e l’utilizzo. Innanzitutto, è importante citare alcuni numeri che mettono in luce l’importanza del fenomeno dei videogiochi: secondo il MOIGE (Movimento Genitori) nel nostro Paese sono circa 18 milioni, il 36% della popolazione adulta italiana si diverte con essi e gli under 14 trascorrono una media di 55 minuti al giorno con un videogioco. Un’inchiesta della GFK del Settembre 2006 ha rivelato che, in Italia, il 71% dei videogiocatori sono maggiorenni; di questa percentuale il 40% ha un’età compresa tra 25 e 44 anni. Secondo un sondaggio condotto nel 2005 dalla Società Aesvi-AcNielsen su un campione di 17.000 individui con più di 14 anni, il Lazio è risultato essere la regione con la percentuale più alta di videogiocatori: circa il 42% contro una media nazionale del 36%. Questi dati ci danno un’idea di quanto ormai i videogiochi siano diffusi nella nostra società e, di conseguenza, del loro possibile impatto sulla salute e, nel nostro caso, sul sistema visivo. Gli psicologi, gli psichiatri e i sociologi hanno dimostrato un grande interesse attraverso ricerche sui comportamenti dei bambini: l’associazione tra obesità e utilizzo dei videogiochi è risultata stretta; infatti, durante il tempo trascorso davanti allo schermo è aumentato il consumo di cibo che, associato ad una vita sedentaria, porta all’aumento progressivo del peso. Oltre al problema dell’obesità, alcuni studi hanno dimostrato come i bambini con un carattere più introverso e, quindi, meno propenso ai rapporti interpersonali, sviluppino delle forme di dipendenza che li rendono “schiavi” dei videogiochi, con alcuni casi limite che arrivano a forme di vera e propria videodipendenza che richiede cure di sostegno psicologico. I sociologi hanno, invece, notato come gli adolescenti, dopo avere giocato oltre 4 ore al giorno, sviluppino un atteggiamento più aggressivo della norma, mettendolo in relazione con il tipo di videogioco usato (ad esempio, i giochi “sparatutto” e altri videogiochi violenti). Una ricerca clinica ha dimostrato come, facendo giocare dei soggetti in buone condizioni di salute, si ottenga un incremento dei valori fisiologici dello stress; questo permette di poter studiare l’eventuale efficacia terapeutica di farmaci che hanno come finalità quella di ridurre lo stress1. Le complicanze più importanti legate all’uso dei videogiochi sono di sicuro quelle studiate dai neurologi, che hanno concentrato l’attenzione sul rischio di insorgenza di attacchi di epilessia durante l’utilizzo di un videogioco. Il termine “photosensitive” è usato per indicare una condizione, evidenziata all’EEG, di reazione parossistica ad una stimolazione fotopica intermittente, condizione che in soggetti sensibili predispone all’attacco epilettico e i videogiochi possono agire da fattore scatenante2. E’ questo il principale motivo per cui nel libretto di istruzioni di molti videogiochi è scritto che il loro uso andrebbe evitato da parte di soggetti con pregressi attacchi di epilessia. Un gruppo di pazienti è stato invitato a giocare prima di dormire: durante il sonno sono state studiate le diverse fasi che lo contraddistinguono. Il risultato è stato il riscontro di un accorciamento della fase REM e di alterazioni di tutte le altre fasi3. Mentre studi eseguiti con la Risonanza Magnetica hanno dimostrato un incremento dell’attività delle regioni cerebrali deputate allo stimolo eccitatorio, con depressione dello stimolo inibitorio4. Gli ortopedici hanno, invece, notato come molte ore spese di fronte ad uno schermo con la joypad in mano possano essere responsabili di dolori legati alla postura in particolare alla schiena e al collo, mentre per quanto riguarda gli arti superiori è stato coniato un termine riferito alla comparsa di dolore articolare, associato a microemorragie ed onicolisi del pollice, il cosiddetto “Playstation Thumb” (Pollice da Playstation). Gli oftalmologi si sono occupati delle relazioni tra videogiochi e sistema visivo affrontando vari aspetti. Nella letteratura internazionale le due pubblicazioni più rilevanti studiano le modificazioni del campo visivo nei videogiocatori (VGP), confrontandolo con un gruppo di cosiddetti nonvideogiocatori (NVGP). Nello specifico è stato presentato uno stimolo periferico: mentre si fissa un oggetto è stata valutata la risposta dei 2 gruppi (VGP e NVGP), lo stimolo è stato presentato a 0°, 10°, 25°. Il risultato ha evidenziato come i VGP abbiano una percezione migliore dei NVGP. In un secondo esperimento sono stati “allenati” i NVGP, che al termine presentavano un miglioramento della risposta5-6. Il limite di questa ricerca ritengo sia soprattutto legato al fatto che il tipo di esame del campo visivo e lo stimolo presentato non siano riferibili ad alcuna tecnica tra quelle correntemente usate nell’esame del CV, ma è proposto soltanto da questa ricerca. Un’ottima idea è quella avanzata sulla base di un trial per il trattamento dell’ambliopia: i bambini sono stati invitati a giocare con un videogioco portatile per un’ora al giorno con la finalità di catturare la loro attenzione nel miglior modo possibile7, così da poter ottenere un’adesione maggiore alla terapia occlusiva da parte dei piccoli pazienti. Completamente differente è, invece, la finalità di una ricerca svolta in una popolazione “chiusa” ai movimenti migratori, come quella di Singapore, per poter valutare l’eventuale incidenza dell’uso dei videogiochi sulle modificazioni refrattive. Si tratta di uno studio epidemiologico in cui sono state esaminate per un periodo di 3 anni le modificazioni della refrazione in gruppi familiari di bambini (7-9 anni) in relazione alle attività svolte. Lo studio ha preso spunto dal fatto che, nelle ultime due generazioni, l’incidenza della miopia nel Sud-Est asiatico è cresciuta notevolmente. Dai risultati non può essere escluso che quest’incremento sia collegato al maggior tempo speso in attività di intrattenimento legate all’utilizzo di videoterminali (VDT) e videogiochi8. Ovviamente i videogiochi sono strettamente legati a tutta la patologia da videoterminale; quindi, al rischio di comparsa di disturbi quali arrossamento oculare, secchezza associata a bruciore e blefariti. Si tratta di problematiche già conosciute e ben descritte dalla letteratura scientifica e su cui i medici del lavoro si sono impegnati per poter regolamentare l’utilizzo del videoterminale sul posto di lavoro. Per poter prevenire la comparsa di questi disturbi nei videogiocatori bisognerebbe, quindi, cercare di applicare queste norme come, per esempio, sospendere dell’attività ogni 120 minuti per almeno 15 minuti. La seconda parte del nostro studio si è, invece, incentrata sulla ricerca e l’analisi delle normative vigenti in ambito UE e italiano. Questa è stata la sezione più ardua della nostra ricerca e, alla fine, quella con minori risultati: l’unica legge che riguarda marginalmente i videogiochi è quella che regolamenta la costruzione dei giocattoli, in particolare i rischi associati alle loro componenti e alla possibilità di danno meccanico. Si tratta della Direttiva 88/378/CEE del Consiglio del 3 maggio 1988 relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti la sicurezza dei giocattoli, dove però tra i prodotti che non sono considerati come giocattoli ai sensi della presente direttiva (Articolo 1, paragrafo 1), al punto 18, vengono citati i “videogiochi collegabili ad un apparecchio televisivo, alimentati da una tensione nominale superiore a 24 volt”. Quindi, tutti i videogiochi che si collegano a un monitor non sono considerati giocattoli e, dunque, non rientrano in questa direttiva mentre, ad esempio, i videogiochi portatili non devono sottostare a una regolamentazione che riguardi il tipo di gioco. In questo caso ci si occupa soltanto degli aspetti meccanici, per cui si regolamentano la costruzione, il tipo di componenti usati e il possibile rischio di danni legato agli stessi. Tuttavia, non si parla di malattie associate all’utilizzo prolungato dei videogiochi. In Italia non esiste alcuna normativa al riguardo, ho contattato personalmente dei responsabili di due tra le più importanti case produttrici e di sviluppo di videogiochi italiane, e anche dai diretti responsabili ho avuto conferma del fatto che per lo sviluppo e la produzione non siano attualmente posti dalla legge italiana ed europea dei vincoli. Al momento, quindi, l’unica normativa che si può associare all’uso dei videogiochi è quella che regolamenta lo svolgimento di attività al videoterminale. Tuttavia, si tratta di un estratto della Gazzetta Ufficiale (N. 244 del 18-10-2000) applicabile soltanto in ambito lavorativo. In conclusione, si può affermare che l’uso dei videogiochi – soprattutto se si protrae per lunghi periodi –, può portare a sviluppare un carattere aggressivo e provocare alterazioni del sonno; inoltre, in soggetti predisposti i videogiochi possano essere un fattore scatenante di crisi epilettiche. Tuttavia, al momento non c’è alcuna evidenza scientifica di associazioni tra patologie del sistema visivo e videogames, ma riteniamo che – essendo poche le ricerche al riguardo e trattandosi, invece, di un fenomeno in crescita esponenziale soltanto nell’ultimo decennio – non si possano escludere in futuro possibili sviluppi in questa direzione. Bibliografia 1. Assessment of a computer game as a psychological stressor Indian J Physiol Pharm 2006; 50 (4) 367-74 2. Human photosensitivity: from pathophysiology to treatment Eur J Neurol. 2005; 12 (11): 828-41 3. Effects of playing a comnputer game using a bright display on presleep physiological variables, sleep latency, slow wave sleep and REM sleep J Sleep Res. 2005 Sep; 14 (3): 267-73 4. VP Matthews, Indiana University School of Medicine 5. Action video game experience alters the spatial resolution of vision CS Green, D.Bavalier. Psychological Science 2007; 18 (1): 88-94. 6. Action Video game modifies visual selective attention CS Green, D.Bavalier. Nature Vol 423 29 May 2003 7. Randomized Trial of Treatment of Amblyopia in Children Aged 7 to 17 Years Pediatric Eye Disease Investigator Group Archives of Ophthalmology Volume 123 (4), April 2005, p437-447 8. Correlations in refractive errors between siblings in the Singapore Cohort study of Risk-factors for myopia. Guggenheim et al. Cardiff University, UK British J Ophthalmology 2006 Nov 29 A proposito di… Titolo: Sull’utilizzo di Bevacizumab (Avastin) – Riflessioni di N. Pescosolido*, P. Karavitis** * Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, I Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dipartimento delle Sciense dell’Invecchiamento ** Dipartimento di Scienze Oftalmologiche Sommario: In data 23/05/07 il direttore generale dell’AIFA ha inserito l’Avastin nei farmaci erogabili dal SSN per il trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare. Gli Autori reputano utile fare alcune riflessioni Introduzione In data 23/05/07 il direttore generale dell’AIFA ha inserito l’Avastin nei farmaci erogabili dal SSN per il trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare. Gli Autori reputano utile fare alcune riflessioni sull’argomento relativamente alla maculopatia degenerativa dopo aver descritto le caratteristiche del farmaco. Lo sviluppo del Bevacizumab (AVASTIN, rhuMAb, Genentech inc., San Francisco, California, U.S.A.) parte nel 1997 quando viene umanizzato l’anticorpo anti-VEGF Mab A.4.6.1122 del topo (Presta et al., 1997). La creazione del farmaco è avvenuta grazie alla mutagenesi diretta contro regioni specifiche di un anticorpo umano con sostituzione di residui delle sei regioni di determinazione ed anche parecchi residui della struttura con controparti murine. Il bevacizumab limita il VEGF con affinità molto simile a quella dell'anticorpo originale del topo (Kd ~0.5 nM). In comune con le relative controparti del topo, il bevacizumab lega e neutralizza tutte le isoforme umane del VEGF-A. L'epitopo legante del bevacizumab è stato definito con analisi strutturale cristallina in un complesso legante il Fab (Muller et al., 1998) con un peso molecolare di 150 kD. Quest'analisi predice che la Gly in posizione 88 del VEGF umano è essenziale per il legame con il bevacizumab e che questo residuo inoltre è alla base della specificità di specie del bevacizumab, poiché un residuo di serina è stato trovato nel VEGF del topo e del ratto alla posizione corrispondente. La produzione avviene nell’hamster cinese ed è pensata in modo tale da poter garantire grandi quantità a prezzi relativamente bassi. Il bevacizumab non neutralizza altri membri della famiglia del gene di VEGF, quali VEGF-B o VEGF-C. La FDA Americana ha approvato il bevacizumab per il trattamento del cancro colon-rettale nel febbraio del 2004 come trattamento di prima scelta. La FDA fa il punto su gli effetti collaterali come l’aumento della pressione sistemica e la mancata guarigione delle ferite, quando somministrato per via sistemica (FDA press release 2/2004). Spiegazione razionale per il trattamento dell’ARMD con bevacizumab L’inibizione del VEGF-A è stata documentata come una valida strategia terapeutica per il trattamento dell’ARMD e in commercio esistono già due farmaci che sfruttano questo meccanismo. Il primo è stato il pegaptanib sodico (Macugen, OSI/Eyetech, NY, USA) che agisce bloccando soltanto l’isoforma 165 (Gragoudas et al., 2004) mentre il secondo è il ranibizumab (Lucentis, Genentech, California, USA) che non è altro che un derivato purificato del bevacizumab stesso. Le caratteristiche di lucentis sono diverse da macugen visto che blocca indistintamente tutte le isoforme del VEGF-A. Fig-1. Didascalia fig. 1 Fig. 1- Possibili strategie terapeutiche per la degenerazione maculare legata all’età. L’induzione della proliferazione e migrazione cellulare dovuta all’azione del VEGF-R con aumento della permeabilità vascolare e la neovascolarizzazione bloccati dai farmaci Macugen, Lucentis ed Avastin. (Da Bhisitkul., 2006) Nelle rigorose sperimentazioni cliniche il lucentis ha dimostrato un’efficacia mai vista prima per la cura di una patologia ostica come la degenerazione maculare essudativa legata all’età (Rakic et al., 2003; Rosenfeld et al., 2006) hanno dimostrato che le membrane neovascolari estratte da pazienti affetti da ARMD contengono in pari misura mRNA sia per l’isoforma 165 che per quella di minore peso molecolare da 121 kD. Questa caratteristica che fa la differenza tra macugen e ranibizumab è conservata anche in bevacizumab, anche se con una minore affinità di circa 3 o 6 volte per il legame con il VEGF da parte di quest’ultimo (Chen et al., 1999; Ferrara et al., 2004). Il bevacizumab ha 2 siti di legame per il substrato rispetto ad uno solo del ranibizumab. Queste affinità insieme al costo considerevolmente più basso del bevacizumab rispetto al ranibizumab hanno spinto diversi medici ad usare il primo, anche in assenza di prove d’efficacia dimostrate (off-label use). Dati sulla farmacocinetica e la tossicità Le proprietà farmacocinetiche di bevacizumab sono state in precedenza descritte in parecchie specie e consistono in quelle di un tipico anticorpo monoclonale umanizzato (Lin et al., 1999). Il tempo di emivita del bevacizumab in esseri umani è di 17-21 giorni. Inoltre, è d’importanza fondamentale che nessuna prova di risposta anticorpale a bevacizumab sia stata segnalata in tutti i test clinici finora effettuati, verificando il successo del processo dell'umanizzazione. La penetrazione del bevacizumab sulla retina dei primati è stata documentata da Heiduschka et al. (2007) tracciando il farmaco con iodio radioattivo. I risultati dimostrano chiaramente la penetrazione nell’epitelio pigmentato retinico, la coroide e gli strati esterni dei fotorecettori con meccanismi di trasporto attivo. Il bevacizumab è rilevabile ad una settimana di distanza nel sangue. Bakri et al. (2007) hanno condotto un esperimento su 20 conigli per verificare la farmacocinetica del bevacizumab alla dose di 1.25 mg ed andando a controllare i livelli della concentrazione nell’acqueo, vitreo e nel siero. Hanno concluso che il tempo di emivita nel vitreo è di 4.32 giorni nell’occhio di coniglio mentre riportano bassissime concentrazioni nell’occhio controlaterale non trattato. La massima concentrazione nel siero è stata raggiunta dopo 8 gg e corrisponde allo 0.8% della massima concentrazione nel vitreo. Sfortunatamente la sperimentazione per la farmacocinetica del ranibizumab è stata eseguita sulla scimmia (Gaudreault et al., 2005), quindi i due modelli non sono confrontabili. Per valutare le possibili proprietà citotossiche ed antiproliferative di bevacizumab Spitzer et al., (2006) l’hanno testato su cellule dell’epitelio pigmentato retinico umano (ARPE19), cellule retiniche ganglionari del ratto (RGC5) e cellule epiteliali coroideali del maiale. Gli Autori affermano che una certa tossicità viene riscontrata a dosi elevate (2.5 mg/ml) mentre alla concentrazione di 0.25 mg/ml può essere considerato sicuro. (Notare che la dose più ampiamente utilizzata è di 0.05 ml che corrispondono a 1.25 mg, quindi 5 volte inferiore alla dose presa in considerazione in questo studio). Prove cliniche di fase II L'utilizzo intravitreale (iv) di bevacizumab per il trattamento delle malattie coroideo-retiniche mediate dal fattore di sviluppo endoteliale vascolare (VEGF) si è sparso su tutto il globo in meno di sei mesi a partire dal primo case report (Rosenfeld et al., 2005). I più ovvi motivi per l'adozione veloce dell’Avastin iv comprendono la base scientifica razionale per il trattamento, l'efficacia in modo schiacciante segnalata per il farmaco strettamente connesso conosciuto come Lucentis (Ranibizumab, Genentech inc.) (Genentech press release, 2006), la presenza di un enorme necessità di impedire la cecità delle malattie VEGF-mediate, l'acuità visiva (AV) ed i miglioramenti anatomici apprezzati dai pazienti e dai medici, l’apparente sicurezza di breve durata ed il basso costo all’acquisto del bevacizumab iv in confronto alla concorrenza. L'uso di Avastin intravitreale si è sparso di bocca in bocca alle riunioni, via e-mail, dalle società specializzate sul settore, dai giornalisti e dai pazienti. Per la prima volta, gli oftalmologi dappertutto potrebbero offrire alla vasta maggioranza dei loro pazienti accesso ad uno tra i più innovativi farmaci di progettazione biotecnologica ad un prezzo basso. I dati dai primi studi pubblicati sembrano sostenere le esperienze cliniche aneddotiche degli oftalmologi dappertutto, cioè che l’Avastin iv sembra efficace e sicuro (Avery, 2006A; 2006B; Manzano et al., 2006; Maturi et al., 2006; Shahar et al., 2006; Spaide et al., 2006). Bashshur et al. (2006) sono stati i primi a pubblicare uno studio prospettico sul bevacizumab iv per il trattamento della degenerazione maculare legata all'età (ARMD). All'Università Americana del centro medico di Beirut, Bashshur et al. hanno potuto iniziare uno studio prospettico nell’agosto del 2005 senza nessun permesso regolatore tranne quello dell'Ospedale per usare Avastin iv in una logica compassionevole verso i malati. Nel Libano, non ci è una politica nazionale sulla sperimentazione che richiede l'approvazione da parte d’un comitato d'esame istituzionale, tuttavia, il rapporto degli Autori riporta il consenso informato per il trattamento ottenuto da tutti i pazienti arruolati. Mentre nella maggioranza dei Paesi non è accettato che un tale programma di ricerca possa essere iniziato senza supervisione più rigorosa, il protocollo utilizzato in questo studio era simile a quelli di parecchie strategie di trattamento attualmente effettuate dappertutto per l'uso offlabel di bevacizumab iv nella terapia sistemica dei pazienti con ARMD neovascolare con un'eccezione principale. In questo studio, Bashshur et al. hanno utilizzato infatti una dose intravitreale di 2.5 mg, superiore alla dose di 1.25 mg ora utilizzata nella maggior parte delle pratiche cliniche. La loro scelta di 2.5 mg è stata basata sul presupposto che una dose elevata potesse avere una maggiore efficacia. Gli Autori hanno scelto di somministrare a 17 occhi ad intervalli mensili per le prime tre iniezioni e segnalano i loro risultati a 12 settimane, quattro settimane dopo la loro ultima iniezione. L'AV, sia media che mediana a 12 settimane, è migliorata considerevolmente contemporaneamente ad una profonda diminuzione nello spessore retinico centrale da 1 µm ottenuta usando la tomografia ottica a coerenza (OCT). Fig-2. Didascalia fig. 2 Fig 2 – Scansioni di Tomografia a Coerenza (OCT) e misurazioni dello spessore retinico centrale (CRT) per un occhio con neovascolarizzazione coroideale subfoveale (CNV) dovuta ad ARMD. Risoluzione completa del liquido sub retinico dopo la prima iniezione iv di bevacizumab. In alto: CRT di 236 µm con AV di 20/50. In mezzo: Una settimana dopo la somministrazione si registra CRT di 184 µm. In basso: A 4 settimane dal trattamento la CRT è di 187 µm con AV di 20/50. A 12 settimane la OCT rimane invariata e l’AV è di 20/40. (Da Bashshur et al., 2006) Questi risultati sono stati raggiunti in assenza d'infiammazione oculare ed in assenza di qualunque evento avverso sistemico. Uno dei loro casi è particolarmente significativo perché dimostra un minimo effetto apparente sulla fluoroangiografia dopo la prima iniezione mentre l'immagine con l’OCT ha rivelato una profonda riduzione della quantità di liquido subretinico. Tredici dei 17 occhi trattati (76%) hanno avuto una risoluzione totale del liquido sub retinico. Solo dopo la seconda iniezione la fluoroangiografia ha potuto rivelare una profonda diminuzione nel leakage della lesione neovascolare così come una diminuzione nell’estensione della lesione. Fig-3 Didascalia fig. 3 Fig 3 – Stesso occhio della fig-2. Fluoroangiografia: In alto a sinistra e destra: Fasi iniziali e tardive, pretrattamento con CNV occulta. In basso: Risoluzione del leakage a 4 settimane. La risoluzione persiste a 12 settimane. (Da Bashshur et al., 2006) Questo tipo di risultato sostiene peraltro l'impressione clinica che la OCT può essere più sensibile dell'angiografia con fluoresceina nell'identificazione degli effetti di trattamento dalla farmacoterapia. Le limitazioni di questo studio comprendono il relativamente piccolo numero di occhi trattati ed il breve follow-up di soltanto 12 settimane. Tuttavia, altri studi di fase II hanno avuto simili numeri di pazienti e durata del follow-up. Si è passati da piccoli studi come il case report di Jonas et al. (2006) di un solo paziente con neovascolarizzazione occulta legata all’ARMD a lavori ben più consistenti come quelli di Avery et al. (2006) con 79 pazienti, lo studio IBeNA (2006) con 45 pazienti e lo studio di Moshfeghi et al. (2006) con 18 pazienti. Partendo da quest’ultimo gli Autori si sono prefissati come obiettivo primario di valutare la sicurezza, l’efficacia e la durata del trattamento della neovascolarizzazione coroideale (CNV) in pazienti con ARMD con bevacizumab somministrato per via sistemica endovenosa a dosi di 5mg/kg di peso corporeo. Tutti i pazienti hanno tratto giovamento dalla terapia sistemica con miglioramenti nell’AV e diminuzione dello spessore retinico all’esame con OCT ma gli Autori concludono che non ci sarà un futuro per questo tipo di somministrazione per la paura degli effetti collaterali, per lo più a carico del sistema cardiocircolatorio e la gestione della pressione dei pazienti. Inoltre, il dosaggio maggiore necessario per la somministrazione sistemica induce all’aumento del costo complessivo del trattamento, problema questo per niente trascurabile. Lo studio IBeNA (Intravitreal Bevacizumab for Choroidal Neovascularization Caused by AMD, 2006) eseguito da Costa et al. è stato disegnato per valutare 3 diverse posologie per una singola somministrazione iv di 1.0, 1.5 e 2.0 mg con controlli a 1, 6 e 12 settimane. Anche in assenza di un gruppo di controllo gli Autori concludono che tutti e tre i regimi di trattamento hanno quantomeno stabilizzato o migliorato l’AV ed abbassato lo spessore retinico all’esame con OCT con risultati leggermente migliori per quei pazienti trattati con 1.5 o 2.0 mg. Non si sono riscontrati effetti collaterali sistemici avversi o locali. Il miglioramento dell’AV è risultato dose dipendente. Avery et al. (2006) hanno impostato il loro studio su 79 pazienti dalla età media di 77 anni in gran parte precedentemente trattati con terapia fotodinamica o con iniezione di pegaptanib (63/81 occhi trattati, pari al 78%). Il 55% dei pazienti ha dimostrato una riduzione dello spessore retinico di almeno il 10% al controllo della prima settimana mentre l’AV è migliorata mediamente da 20/200 a 20/80 al controllo delle 8 settimane. Gli Autori riconoscono le limitazioni di questo studio per la sua natura retrospettiva, il numero limitato di pazienti arruolati ed il follow-up di solo 8 settimane ma segnalano nessun effetto collaterale come uveite, endoftalmite o ipertensione oculare. Inoltre, propongono delle somministrazioni a cadenze più ravvicinate, ogni mese, quando dati più rassicuranti diventeranno disponibili riguardo la tossicità del farmaco. Risultati leggermente inferiori alle aspettative sono stati registrati da Vaughn Emerson et al. (2007) rispetto agli studi sopra menzionati. Gli Autori considerano queste differenze dovute al protocollo utilizzato con somministrazioni flessibili a seconda delle necessità dei pazienti in base alla ricomparsa di liquido sub-retinico e ad una migliore quantificazione dei risultati grazie all’utilizzo del protocollo ETDRS per la verifica delle variazioni dell’AV. Considerazioni sulla sicurezza E’ difficile parlare della sicurezza di un farmaco che non ha affrontato l’iter completo ed ha avuto l’approvazione della FDA solo per il trattamento tumorale. I problemi precedentemente esposti circa la pressione sistemica e i sanguinamenti (Moshfeghi et al., 2006) non sembrano affliggere particolarmente la somministrazione intravitreale. Su 45 pazienti volontari trattati da Kernt et al., (2006) con 1.25 mg iv nessuno ha avuto una variazione significativa ne per quando riguarda la pressione sistemica ne tanto meno quella intraoculare. Un problema che ritorna con le applicazioni iv è il danno all’epitelio pigmentato della retina (Nicolo et al., 2006; Shah et al., 2006) ma si tratta di una problematica nota per questo tipo di somministrazioni ed aggravata dalla necessità delle applicazioni ripetute. Terapie di combinazione Come per tutte le altre strategie terapeutiche anche per il bevacizumab si è pensato di provare una terapia di combinazione con la fotodinamica (PDT) con verteporfina. Dhalla et al. (2006) su un totale di 24 occhi trattati con 1,25 mg di bevacizumab intravitreale e PDT hanno riscontrato al controllo dei 7 mesi l’83% dei pazienti con una stabilizzazione dell’AV mentre il 63% degli occhi ha richiesto una sola somministrazione della terapia combinata per la risoluzione della CNV. Fig-4. Didascalia fig. 4 Fig 4 – Terapia di combinazione PDT e Bevacizumab. A: Fotografia di fondo con evidente emorragia, fluido sub retinico e membrana juxtafoveale grigia. B: Fluoroangiografia con leakage, CNV dovuta ad ARMD. C: OCT con liquido sub retinico. D: OCT dopo 1 settimana di trattamento con PDT e Bevacizumab: Risoluzione del versamento ed architettura maculare normalizzata. (Da Dhalla et al., 2006) In aggiunta non ci furono complicazioni o ipertensione oculare. Costa et al. (studio IBeVe, 2007) con i dati raccolti da un piccolo studio prospettico su 11 pazienti suggeriscono che la somministrazione di bevacizumab anche dopo un trattamento antecedente con PDT può essere utile per la stabilizzazione dell’ARMD. Dati simili emergono anche da altri studi (Aggio et al., 2006; Lazic et al., 2007). Non sembrano esserci effetti avversi dalla combinazione delle due tecniche e tutti gli Autori suggeriscono il potenziale di questa terapia. Ulteriori dati su vasta scala devono essere raccolti prima di proporla come terapia di riferimento. Alcuni Autori sono arrivati a proporre una tripla terapia di combinazione con verteporfin-PDT a bassa fluenza (42 j/cm2 per 70 sec), bevacizumab (1.5 mg) e desametasone (800 µg) (Augustin et al., 2007). Questo studio prospettico senza gruppo di controllo è stato eseguito su 104 pazienti con 5 di loro che hanno dovuto affrontare un secondo ciclo di trattamento e 18 che hanno ricevuto una seconda iniezione di bevacizumab. Il follow-up è stato mediamente di 40 settimane con un aumento nell’AV di 1.8 linee ed una diminuzione dello spessore retinico di 182 µm. La tripla terapia ha dimostrato un buon miglioramento dell’AV ma il risultato più importante è quello di non dover trattare ripetutamente i pazienti con un notevole abbassamento del costo totale della terapia. Inoltre, si è proposta la tripla terapia con PDT, bevacizumab e triamcinolone (Ahmadied et al., 2007). Anche in questo studio prospettico i risultati sono promettenti ma l’esiguo numero di pazienti trattati (17 in tutto) non è sufficiente a trarre conclusioni significative. Ulteriori dati su vasta scala devono essere raccolti prima di proporre questi schemi come terapie di riferimento. Conclusioni Molte domande persistono per quanto riguarda la dose ottimale ed intervallo di dosaggio per Avastin intravitreale. Fig-5. Didascalia fig. 5 Fig 5 – Tecnica d’iniezione intraoculare con bevacizumab intravitreale (iv) Anche dopo le prove di fase III con Lucentis e Macugen, ancora non conosciamo la dose ottimale o l'intervallo di dosaggio ottimale per questi farmaci. Se escludiamo quei ricercatori critici con evidenti conflitti finanziari bisogna ascoltare le critiche valide e cioè se si può iniettare Avastin iv senza grandi studi prospettici che ne sostengono la relativa sicurezza. Alcuni medici sono arrivati a dire che l'uso di Avastin intravitreale è un’infrazione del giuramento d’Ippocrate “Primum non nocere”. Il giudizio per il trattamento con Avastin è basato sull'applicazione razionale di prove scientifiche conosciute senza un’acquisizione completa della sicurezza e dell'efficacia. Come la maggior parte dei clinici sanno dalla loro pratica quotidiana, la conoscenza completa è raramente disponibile prima che una decisione possa essere presa ma la migliore conoscenza disponibile deve essere applicata a beneficio del paziente. La base per la nostra decisione clinica coinvolge una discussione e un consenso reciproco fra il medico ed il paziente. Attualmente, sembra esserci un consenso globale che la strategia di trattamento con Avastin intravitreale sia logica, i rischi potenziali ai nostri pazienti sono minimi e la redditività è così evidente che il trattamento non dovrebbe essere negato (Steinbrook, 2006). La risposta a tutto ciò verrà soltanto con uno studio clinico su larga scala, multicentrico che metterà a confronto la sicurezza e l’efficacia di Avastin e Lucentis. Questo studio è attualmente in via di sviluppo grazie ai fondi del NATIONAL EYE INSTITUTE Americano (Larkin, 2007) e solo allora, a parere nostro, potremmo inserire il medicinale Avastin nell’elenco di quelli erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale nel trattamento delle maculopatie degenerative essudative. Nell’attesa il farmaco dovrebbe seguire le procedure di trattamento off-label. Quando riportato è una priorità imprescindibile a salvaguardia della credibilità della professionalità dei medici oculisti italiani. Peraltro, si manifestano dei dubbi su quando riportato nell’allegato 1 della precedente determinazione (GU 122 del 28/5/2007): Indicazioni terapeutica: trattamento delle maculopatie essudative e del glaucoma neovascolare. Criteri di inclusione: pazienti con maculopatia essudativa e/o glaucoma neovascolare. Criteri di esclusione: maculopatie non essudative e patologie oculari non caratterizzate da neovascolarizzazione. Se questi criteri di esclusione hanno una qualche valenza significa dire che l’Avastin potrà essere somministrato nelle neovascolarizzazioni post-trombotiche, nelle retinopatie diabetiche proliferanti, etc… e quindi una palese contraddizione rispetto ai criteri d’inclusione. Come si può augurare un proficuo lavoro ai medici specialisti con la necessità di un approfondito monitoraggio dell’applicazione di questa normativa cosi lacunosa? Come si possono riportare possibili abusi o violazioni se i criteri d’inclusione ed esclusione sono stati cosi presentati? Quanto riportato è sufficiente per la nostra credibilità quando per il farmaco non vi è ancora nessuna prova clinica in fase III considerando che altre molecole come il pegaptanib sodico (Macugen) ed il ranibizumab (Lucentis) sono già in commercio ed in fase IV? Quanto riportato non esclude minimamente che il farmaco possa diventare a parere nostro la prima scelta in un futuro non remoto nel trattamento della maculopatia degenerativa essudativa ma per ora la realtà è quella riportata. Parole chiave avastin, bevacizumab, maculopatia degenerativa legata all’età BIBLIOGRAFIA Ahmadieh H, Taei R, Soheilian M, Riazi-Esfahani M, Karkhaneh R, Lashay A, Azarmina M, Dehghan MH, Moradian S. Single-session photodynamic therapy combined with intravitreal bevacizumab and triamcinolone for neovascular age-related macular degeneration. BMC Ophthalmol. 2007 (7); 7:10. Augustin AJ, Puls S, Offermann I. 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Non è così: il massimo del contrasto si ottiene scrivendo con la luce. Tracciando un segno luminoso, persino su un fondo bianco, si ottiene un contrasto decine di volte maggiore di quello che separa il bianco dal nero. Ed è solo così che un ipovedente grave può vedere ciò che l’insegnante o egli stesso sta scrivendo e quindi partecipare attivamente ad una lezione che comporti l’uso di grafica. Abbiamo detto un segno luminoso, cioè che emetta luce: non un segno illuminato assieme allo sfondo, non un fondo retroilluminato, uniformemente luminoso e perciò stesso privo di contrasto. La tecnologia che consente di tracciare segni luminosi deriva dalle fibre ottiche che, come sappiamo, trasportano la luce dalla sorgente al punto di arrivo, e solo lì la rendono di nuovo visibile. Questa nuova tecnologia è stata inventata dalla Readylight che ha creato la lavagna Grafilux composta da una lastra particolare, una specie di fibra ottica piana che trasporta la luce in modo invisibile fino ai segni tracciati sulla propria superficie, e solo attraverso questi la riemette verso chi guarda. I segni sono così brillanti da essere percepibili anche con un solo cinquantesimo di visus. UNO STUDIO QUALIFICATO Il compito di studiare possibilità e limiti di questo nuovo ausilio per ipovedenti è stato assunto dalla Dottoressa Maria Luisa Gargiulo, psicologa ipovedente, membro della Commissione Nazionale Ipovedenti dell’U.I.C. La ricerca è stata svolta in ambito sia ospedaliero che didattico e di seguito se ne riportano i punti salienti. Resoconto delle applicazioni in campo tiflologico Il Sistema “Grafilux” costituisce uno strumento efficace per permettere alle persone con basso residuo visivo di accedere alla grafica, sia come fruitori sia come diretti realizzatori. Il Sistema è stato sottoposto alla prova con persone di differenti età e condizioni funzionali: • I gravi ipovedenti dalla nascita. • I disabili visivi con deficit progressivo ad insorgenza tardiva. Il Sistema “Grafilux”, grazie all’alto contrasto di luminanza ed all’alta saturazione e coerenza cromatica, costituisce un mezzo per permettere anche a soggetti con un bassissimo livello di discriminazione e risposta alla luce, di effettuare attività grafiche. Resoconto dell’attività in situazione riabilitativa Le “Grafilux” sono state impiegate in maniera ottimale come ausilio nella riabilitazione della persona ipovedente, anche pluriminorata, in quanto consentono attività che agevolano il recupero di alcune importanti funzioni psicomotorie: • La coordinazione oculomanuale: l’uso del Sistema “Grafilux” permette infatti alla persona ipovedente di controllare e dirigere i propri movimenti attraverso informazioni visive e di avere un costante feedback visivo, stabilendo una relazione causale tra il movimento compiuto dal braccio e dalla mano e la traccia lasciata. Molti bambini ipovedenti non stabiliscono una corretta coordinazione oculomanuale per il semplice fatto che in condizioni normali non sono in grado di vedere i movimenti della loro mano e quindi non possono essere in grado di coordinarli con il controllo visivo. • La motricità fine: attraverso i movimenti coordinati delle dita, del polso e del braccio, viene affinata e rafforzata la coordinazione tra tutte le articolazioni interessate, permettendo alla persona di avere un controllo costante della qualità dei suoi movimenti volontari, attraverso la verifica visiva del tratto prodotto. • La rieducazione al riconoscimento visivo delle forme, dei colori e delle organizzazioni spaziali complesse, che possono essere più facilmente percepite e conseguentemente elaborate cognitivamente. • L’orientamento spaziale bidimensionale: il tracciamento a forte contrasto permette infatti, anche agli ipovedenti gravi, di imparare a rappresentare la realtà in forma bidimensionale, cosa che sarebbe impossibile se utilizzassero soltanto strumenti di rappresentazione tattile a rilievo (tridimensionali). • La formazione, il consolidamento od il recupero dei concetti topologici: attraverso esercizi che permettono di migliorare la comprensione dei rapporti spaziali degli elementi presenti sul piano rispetto a quest’ultimo o relativamente alla loro organizzazione interna a vari livelli di complessità. Risultati Le persone che si sono giovate di questo tipo di effetto del Sistema “Grafilux” sono tutte in età infantile e preadolescenziale (dall’età di 1 anno e 4 mesi fino ai 12 anni). Il sistema “Grafilux” è stato utilizzato nel corso di trattamenti riabilitativi di diverso genere, in special modo nel corso di psicomotricità e di attività di stimolazione visiva da parte di ortottisti e terapisti della riabilitazione. In genere si è trattato di soggetti con minorazione visiva primaria ovvero acquisita nei primissimi mesi di vita, in molti casi associata a ritardo psicomotorio. La massima parte delle patologie sono state riconducibili alla retinopatia del prematuro, soprattutto nei casi di bambini molto piccoli. Sono stati anche trattati soggetti con altre patologie a carico del sistema visivo sia per quanto riguarda l’occhio che di origine centrale, quali opacità corneale, nistagmo congenito, retinopatia pigmentosa, glaucoma, coloboma e microftalmo, ecc. In tutti i casi in cui è presente un residuo visivo sia pur minimo è stato possibile l’utilizzo del Sistema “Grafilux”. Precisamente, il visus più basso in presenza del quale è stato possibile utilizzare il Sistema “Grafilux” è stato di un cinquantesimo non correggibile in entrambi gli occhi. Utilizzo in situazione didattica Questo sistema ha permesso ad alcuni allievi ipovedenti di seguire attività didattiche che prevedono l’utilizzo di forme di rappresentazione grafica bidimensionale come in particolari discipline curricolari quali il disegno, la geografia, l’algebra, la geometria piana, la storia dell’arte. Con questo strumento si evitano gli inconvenienti derivanti dalla traduzione delle rappresentazioni figurative necessarie per la didattica di queste discipline in forme tattili a rilievo, che spesso non possono sostituire altrettanto efficacemente i disegni. Il Sistema “Grafilux” è stato inserito tra i materiali didattici di alcuni alunni ipovedenti della scuola dell’obbligo e superiore. In particolare l’uso elettivo dei pannelli di grande dimensione è quello della sostituzione della lavagna normale di classe. Quando ciò è avvenuto si sono potuti osservare i seguenti risultati: 1. L’alunno ipovedente non ha più bisogno di una riproduzione personalizzata dei disegni prodotti dall’insegnante durante le sue lezioni, in quanto quest’ultimo utilizza la lavagna a forte tracciamento luminoso per spiegare a tutta la classe. Quando il residuo visivo non permette all’alunno ipovedente di seguire correttamente la spiegazione dal suo banco, l’insegnante interrompe brevemente la sua spiegazione per permettergli di avvicinarsi e guardare i disegni oggetto della lezione. In tutti i casi vi è stata una maggiore integrazione e socializzazione dell’alunno nel contesto didattico della classe, non essendo più stato necessario l’intervento dell’insegnante di sostegno per riprodurre i disegni oggetto della lezione su altri supporti o formati, appositamente per l’alunno ipovedente. 2. L’alunno ipovedente ha potuto sostenere le interrogazioni e le prove di verifica con le stesse modalità dei suoi compagni, evitando inconvenienti derivanti dalla mancanza di standardizzazione delle prove suddette. 3. L’alunno ipovedente ha potuto seguire le prove individuali dei suoi compagni nel momento in cui essi le hanno effettuate, intervenendo a questa importante attività di apprendimento ed integrazione della classe. Nei casi di ipovisione medio-lieve è molto frequente riscontrare una difficoltà da parte dei familiari e degli insegnanti ad attribuire correttamente bisogni e necessità speciali all’allievo ed altresì si riscontra frequentemente una difficoltà da parte di quest’ultimo a manifestare apertamente le sue difficoltà nel percepire lo scritto su di una lavagna comune. A questo sono associati di solito comportamenti di depistamento da parte dell’alunno quando l’insegnante si accorge che egli non segue. È facile che egli giustifichi questo con distrazione, dissenso o altro. In questi casi l’alunno apprende solo dalla parte verbale delle spiegazioni e spesso dà l’impressione di aver visto i disegni solo perché egli deduce ciò che viene scritto dai dialoghi e dai commenti ai disegni stessi. In questi casi, dopo l’introduzione della “Grafilux” si è potuto riscontrare un netto miglioramento della comprensione e del raggiungimento degli obbiettivi didattici in quanto per l’alunno ipovedente è possibile seguire e comprendere tutti i vari passaggi delle spiegazioni. 4. La lavagna Grafilux può essere usata come strumento dimostrativo e di spiegazione da parte dell’insegnante, che in tal modo mette l’alunno ipovedente in condizione di seguire insieme a tutti i suoi compagni la lezione con sforzo oculare e di attenzione infinitamente minore rispetto a quello che sarebbe necessario in presenza di una lavagna comune. Una piccola Grafilux può essere adoperata anche direttamente dall’alunno a casa propria nelle sue produzioni grafiche durante lo studio. In questo modo l’insegnante può valutare la preparazione dell’alunno in modo più sereno, in quanto le produzioni saranno meno influenzate dalla sua minorazione visiva. Gli elaborati creati in condizioni di basso contrasto rendono infatti molto difficile per l’insegnante attribuire gli errori al mancato raggiungimento degli obiettivi didattici piuttosto che al deficit visivo. Conclusioni Attraverso l’utilizzo costante della lavagna Grafilux a tracciamento luminoso si è constatato che, in situazione riabilitativa, essa consente di recuperare una serie di funzioni psicomotorie come: • la coordinazione oculomanuale • la motricità fine • il riconoscimento visivo di forme, colori e organizzazioni spaziali complesse • l’orientamento spaziale bidimensionale • la formazione, il consolidamento o il recupero dei concetti topologici La sua adozione in ambiente didattico ha invece favorito: • una migliore concentrazione ed un minore sforzo nel seguire le lezioni • un miglioramento sensibile del rendimento • una maggiore indipendenza dall’intervento dell’insegnante di sostegno • la socializzazione e l’integrazione dello studente ipovedente con il resto della classe Informazioni più dettagliate, contributi video ed audio e la relazione completa sono disponibili sul sito dell’azienda produttrice delle lavagne Grafilux: www.readylight.it. Lavori scientifici Titolo: Epidemiologia della cecità ed ipovisione nell’infanzia: indagine su un campione di soggetti con handicap visivo che hanno presentato domanda per ottenere una borsa di studio di F. Cruciani, V. Silvestri, F. Amore Università “La Sapienza” - Roma Dipartimento di Scienze Oftalmologiche (Dir. Prof. C. Balacco Gabrieli) IAPB - Italia (Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, Sezione Italiana) Abstract Gli autori svolgono un’indagine statistica sulle cause di cecità e loro prevalenza nell’infanzia allo scopo di fornire un quadro epidemiologico del fenomeno handicap visivo in Italia. La fonte dati utilizzata è stata la certificazione oculistica presentata da soggetti non vedenti giovani per un concorso per sussidio scolastico. Gli AA. presentano anche dati forniti dall’Istituto dei Ciechi di Milano, dal ministero della Pubblica Istruzione e dall’ISTAT. Introduzione Le minorazioni visive nel bambino hanno oggi, nel nostro Paese, una prevalenza ed incidenza bassa ma un impatto psico-sociale molto rilevante. L'ipovisione che compare alla nascita o precocemente nell'infanzia crea, infatti, situazioni più complesse rispetto all'adulto perché essa, oltre a determinare una disabilità settoriale, interferisce con numerose aree dello sviluppo e dell'apprendimento. Nell'ambito delle funzioni percettive, la vista riveste un ruolo centrale nello sviluppo neuromotorio, cognitivo e affettivo del bambino, tanto da poterla definire come il primo strumento di interazione con la realtà circostante. Un deficit di questo canale senso-percettivo costituisce un serio fattore di rischio per lo sviluppo neuropsichico del soggetto, poiché compromette anche aree apparentemente lontane dalla funzione visiva. La ridotta e alterata percezione visiva, per esempio, non specifica a sufficienza né le caratteristiche degli oggetti, né i rapporti spaziali tra di essi; ciò comporta spesso un ritardo nella formazione dei concetti ed una scarsa consapevolezza delle relazioni spaziali. Ne deriva un deficit dello sviluppo motorio. Lo sviluppo visivo può stimolare delle risposte da parte del sistema motorio addirittura all'età di 5 o 6 mesi, da parte del sistema percettivo da 6 a 7 mesi e da parte del sistema cognitivo ad 1 anno di età. Bisogna ricordare che esiste un "periodo plastico" che in genere si identifica tra la nascita e i due, tre anni di vita, durante il quale il sistema visivo è particolarmente plastico e il suo sviluppo dipende dalla qualità della stimolazione a livello dei coni foveali. Durante questo periodo critico di maturazione, se l’ occhio viene privato delle esperienze visive, le proprietà dei suoi neuroni non riescono a svilupparsi come previsto. Lo sviluppo fisiologico del sistema visivo si ha entro i tre anni di vita, ma le possibilità terapeuticoriabilitative proseguono oltre. Questa plasticità del sistema nervoso infantile, se da un lato rappresenta uno svantaggio per il bambino, dall'altro permette però dei recuperi funzionali più significativi di quelli che si verificano negli adulti. Considerando che la vista ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo del bambino, è intuibile come una compromissione della funzione visiva possa incidere in maniera rilevante sullo sviluppo stesso e possa costituire un fattore di rischio per il formarsi del soggetto stesso e per l'acquisizione successiva di codici adeguati di interazione sociale. Il bambino ipovedente, infatti, può evidenziare atteggiamenti di dipendenza, passività, insicurezza, tendenza all'isolamento, quale risultato delle strategie messe in atto per evitare le situazioni troppo difficili per lui e, conseguentemente, molto ansiogene. I bambini ipovedenti hanno esigenze specifiche per l’uso della propria capacità visiva. L’ipovisione può ridurre le esperienze della vita, la velocità di lavoro, lo sviluppo motorio e la capacità di orientamento, le abilità in attività pratiche. L’ipovisione può, quindi, interferire con l’educazione del bambino come pure con lo sviluppo emotivo e relazionale. Da quanto sin qui detto si comprende come la consapevolezza dell’entità del fenomeno handicap visivo nell’infanzia in Italia rappresenti un dato essenziale da cui partire per intraprendere qualsiasi campagna di prevenzione, ovvero qualsiasi programma riabilitativo. Non esistono nel nostro Paese lavori che definiscano l’epidemiologia del fenomeno cecitàipovisione nell’infanzia. Con la presente indagine si vuole dare un contributo, sia pure limitato, in questo campo. Scopo Pertanto l’obiettivo che la presente ricerca si propone è quello di apportare informazioni sulle cause principali di handicap visivo nell’infanzia in Italia. Materiali e Metodi Come fonte dati sono stati utilizzati certificati oculistici del residuo funzionale visivo e delle malattie responsabili di bambini e adolescenti ipovedenti o non vedenti, che hanno presentato domanda per il conferimento di un sussidio scolastico. Il bando di concorso è istituito annualmente dal M.A.C. (Movimento Apostolico Ciechi) sotto la denominazione di concorso Munõz a favore della integrazione scolastica di non vedenti. Tutti i partecipanti devono presentare una documentazione oculistica in cui risulti non solo il residuo visivo, ma anche la causa che ha determinato la condizione di cecità o d’ipovisione. Nella presente indagine sono state prese in considerazione tutte le domande presentate nell’arco temporale che va dall’ anno scolastico 1991/92 all’ anno scolastico 2004/05. I casi sono risultati essere complessivamente 452. Risultati Come si è detto il campione in considerazione, è risultato composto da 452 soggetti. Di questi i maschi sono 227,cioè il 50%, e le femmine risultano essere 225. (Tab. 1). La tabella 2 presenta la distribuzione in base all’età dei soggetti al momento della presentazione della domanda. Da questa si può rilevare che il maggior numero dei richiedenti il conferimento del sussidio scolastico, aveva l’età di 7 anni quindi il 13,5 %, 12 anni l’11.1 %, 15 anni il 10,9 %. Emerge quindi, che le età più rappresentate sono i 7 anni, i 12 anni e i 15 anni. Per quanto riguarda invece l’anno di nascita, sempre considerato in base al momento di presentazione della domanda di partecipazione al bando, dalla tabella 3, sembrano essere i più rilevanti gli anni: 1988 con 45 soggetti 10,0%, 1987 con 43 soggetti 9,5%, 1989 con 38 soggetti 8,4 %, e a seguire 1997 e 1991 con 28 soggetti ciascuno, 6,2%. In base alla distribuzione territoriale del nostro campione, come si evince dalla tabelle 4, tutte le regioni risultavano rappresentate sia pure con percentuali differenti. Ai primi posti figurano la Sicilia, la Puglia, il Piemonte, la Campania e la Calabria, che peraltro sono tra le più popolose in Italia. Questo fatto conferisce una certa significatività al campione. Le patologie responsabili delle minorazioni visive, sono invece riportate nella tabella 5. E’ evidenziabile come le degenerazioni tapeto-retiniche assumano un ruolo di rilievo nelle minorazioni visive dei soggetti presi in considerazione per tale studio. Sotto la denominazione di degenerazioni tapeto-retiniche, le più frequenti sono state: retinite pigmentosa, amaurosi congenita di Leber, la malattia di Best, la malattia di Stargardt. In effetti, le suddette patologie sono state riscontrate in 138 soggetti, sul totale di 452, pari al 30,5 %. A seguire, per ordine di frequenza, si trovano le otticopatie e la ROP. Tra le prime l’atrofia ottica assume particolare importanza, riscontrata con notevole frequenza: 73 diversi soggetti, pari al 16,2 % di tutto il campione considerato. La retinopatia del prematuro è risultata essere causa di minorazione visiva in 72 casi, pari 15,9 % dell’ intera campionatura. A seguire con 37, 36 prendono parte, come possibili patologie responsabili di handicap visivo, il glaucoma e la cataratta congeniti, con percentuali dell’8,2%. Con minore frequenza, rispetto alle suddette patologie, sono state trovate le anomalie del bulbo, quali anoftalmo e microftalmo, il retinoblastoma, con 17 casi e una percentuale del 3,8 %, insieme alle cheratopatie, il distacco di retina, in 12 soggetti, con una percentuale del 2,7 %, il nistagmo congenito in 11 e le corioretiniti in 6 soggetti ciascuno con percentuali del 2,4% e dell’ 1,3%. Per quanto riguarda, inoltre, la distribuzione dei soggetti considerando la scuola frequentata (tab.6), come dato rilevante bisogna sottolineare che, al momento della presentazione della domanda di partecipazione al concorso, ben 148 soggetti dei 452 considerati, risultavano iscritti alla scuola elementare. A seguire 122 dei minorati visivi, risultavano essere iscritti alla scuola media superiore, mentre 66 soggetti alla scuola materna. Di seguito, 95 alla scuola media inferiore mentre, in ultimo, 21 soggetti risultavano essere iscritti all’università. Se si mettono a confronto le patologie osservate nei casi del nostro studio, con il sesso dei soggetti considerati, è possibile notare come vi sia un’equa distribuzione fra i diversi tipi di malattie e il sesso maschile e femminile. Infatti, in tutte le patologie osservate non vi è una prevalenza di un sesso sull’ altro, ma si distribuiscono uniformemente (tab.7) Inoltre, se si analizza il tipo di patologia, mettendola a confronto con la regione di provenienza del soggetto affetto (tab.8), è possibile evidenziare, anche in questo caso, una distribuzione alquanto uniforme. Per quanto riguarda, ad esempio, la retinopatia del prematuro, le regioni con il maggior numero di minorati si ha in Puglia con 13 casi e in Piemonte con 11 casi. Questo risultato è di difficile interpretazione; sicuramente da valutare come fatto occasionale legato alla propaganda fatta ai fini della partecipazione al concorso. REGIONI Piemonte Lombardia Trentino AA 6 Veneto Friuli V G Liguria Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Basilicata Puglia Calabria Sicilia Sardegna TOTALE Degenerazioni tap.-retiniche 12 4 1 10 7 8 10 7 8 5 6 5 1 8 1 13 7 14 6 138 ROP Otticopatie 11 4 6 3 2 6 1 1 4 4 2 5 5 2 2 2 2 1 2 2 3 5 2 7 1 13 3 9 72 8 8 1 19 73 Cataratta congenita 3 Glaucoma congenito 3 5 PATOLOGIE Anoftalmo/ Retinoblastoma Cheratopatie microftalmo 2 5 2 1 Distacco di retina 1 2 2 2 1 1 2 1 2 1 3 1 3 1 5 3 3 3 3 2 2 2 1 2 2 2 3 2 4 1 7 1 3 3 3 1 36 1 3 3 2 37 2 2 33 Corioretiniti 2 Nistagmo congenito 1 9 1 1 3 2 3 2 2 1 1 5 2 1 2 2 3 17 1 17 1 2 1 3 1 2 2 12 6 5 11 TOTALE 44 21 27 10 18 23 24 21 22 21 23 5 44 2 47 26 57 8 452 Tab. 8 Analizzando, invece, le diverse patologie con l’età dei soggetti considerati, si può facilmente notare come all’età di 12 anni ci sia la maggior incidenza di degenerazioni tapeto-retiniche con 22 casi, a seguire, a 7 anni con 14 casi, inoltre a 16 anni con 12 casi sui 452 dell’intera campionatura. Per quanto riguarda la retinopatia del prematuro, la maggior incidenza si ha a 7 anni con 13 casi, a seguire a 4 anni con 10 casi sul campione totale. Altro dato rilevante per lo studio, è mettere in evidenza che all’età di 15 anni si ha la maggior incidenza di otticopatie, con 16 casi, a seguire bisogna menzionare i 14 casi rilevabili all’età di 7 anni (Tab.9). Età (anni) 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 TOTALE Degenerazioni T.-R. 2 10 7 7 14 6 6 8 22 8 8 9 12 6 9 1 3 ROP Otticopatie 10 3 1 13 3 5 3 1 6 1 3 10 4 3 3 1 2 5 5 14 3 2 1 2 4 4 3 16 2 2 4 3 Cataratta cong. Glaucoma cong. 3 6 3 6 3 3 2 1 4 2 4 2 2 5 2 2 1 2 7 3 3 1 2 1 2 1 1 PATOLOGIE Ano. RetinoMicroftalmo blastoma Cheratopatie 3 3 1 2 4 1 2 1 5 2 3 2 1 4 1 3 72 1 4 1 1 2 2 2 2 1 1 1 2 3 36 37 33 Corioretiniti 17 1 1 1 1 17 Nistagmo cong. 1 1 4 1 1 1 2 1 4 15 1 1 2 2 73 1 1 1 1 1 138 1 1 Distacco di retina 1 3 12 6 11 TOTALE 3 36 27 22 61 22 12 15 22 50 20 19 49 28 23 8 8 8 1 2 1 452 Tab. 9 Questi dati sono in sintonia con gli aspetti clinici delle patologie. nfine, se si mettono a confronto le diverse patologie osservate in questo studio con la scuola frequentata dai vari soggetti, al momento della presentazione della domanda di partecipazione al concorso Munõz (tab.10), è possibile notare come, per quanto riguarda le degenerazioni tapetoretiniche, 38 soggetti frequentavo la scuola elementare, come altrettanti 38 erano iscritti alla scuola media inferiore, a seguire la scuola media superiore con 36 soggetti, la scuola materna con 22 e l’università con 4. PATOLOGIA Degenerazioni T.-R. ROP Otticopatie Cataratta cong. Glaucoma cong. Ano./Microftalmo Retinoblastoma Cheratopatie Distacco di retina Corioretiniti1 Nistagmo cong. TOTALE Materna Elementare 22 6 13 3 9 4 4 3 1 38 29 22 13 19 10 4 3 2 2 66 6 148 SCUOLA FREQUENTATA DAI SOGGETTI Media Media inferiore superiore 38 36 14 20 11 27 5 15 3 4 10 5 7 2 1 6 4 1 2 1 5 95 122 Università TOTALE 4 3 138 72 73 36 37 33 17 17 12 2 4 4 4 6 21 11 452 Tab. 10 Considerando la retinopatia del prematuro, il maggior numero di soggetti risultava essere iscritto alla scuola elementare con un numero di 29 soggetti. Il maggior numero di minorati visivi affetti da otticopatie, risultava essere iscritto alla scuola media superiore. A seguire, considerando gli affetti da cataratta congenita, in numero di 19 soggetti frequentavano la elementari. Ancora gli alunni ipovedenti, a causa di glaucoma congenito, risultavano essere iscritti in numero di 10 ciascuno, alla scuola elementare e media superiore. Nel nostro studio è stato possibile ricavare dai certificati considerati solamente 32 casi di pluriminorazione. Le cause di pluriminorazione, anche se non complete, messe in evidenza dal nostro studio possono essere ricondotte a: sordità congenita riscontrata in 11 casi, tetraplegia spastica infantile in 9 casi, idrocefalo in 8 casi, polineurite in 2 casi, e neurofibromatosi e astrocitoma con 1 caso ciascuno. Si può inoltre notare dalla tabella 11 come si distribuivano a seconda delle varie patologie cui erano associate. Sordità congenita Tetraplegia spastica infantile Idrocefalo Polineurite Neurofibromatosi Astrocitoma pilocitico TOT Degenerazioni T.-R. 8 ROP 3 6 Otticopatie 3 6 14 Corioretinite 9 2 3 2 1 1 10 TOT 11 5 8 2 1 1 32 Tab. 11 Si può notare come la maggior parte dei casi che presentavano sordità congenita, erano affetti da una forma di degenerazione tapeto-retinica. Per quanto riguarda la tetraplegia spastica infantile, in maggior numero dei casi, è stata riscontrata nelle otticopatie. L’idrocefalo è stato invece riscontrato in ben 6 casi in soggetti che presentavano degenerazione tapeto-retinica. Considerazioni e Conclusioni L’OMS ci ricorda che la cecità infantile, oggi nel Mondo, costituisce un grave problema per i Servizi Sanitari. Innanzi tutto i termini epidemiologici. Si stima che sul nostro Pianeta ogni 5 minuti, che passano, un bambino diventi cieco. Ora, nei Paesi Industrializzati, le minorazioni visive sono più rare in termini di prevalenza ed incidenza. Comunque anche qui l’ impatto psico-sociale è molto rilevante. L’ipovisione, come detto in precedenza, che compare alla nascita o precocemente nell’infanzia crea situazioni complesse perché, oltre a determinare una disabilità settoriale, interferisce con numerose aree dello sviluppo e dell’ apprendimento. Nelle pluriminorazioni questa situazione si accentua maggiormente. La persona pluriminorata psicosensoriale difatti, può presentare : minorazione, parziale o totale, di entrambi i canali sensoriali (sordocecità) ed altri deficit: ad esempio, minorazioni del canale visivo e/o uditivo accompagnata da grave ritardo evolutivo/intellettivo, e/o da deficit motorio, e/o da disordini comportamentali. A prescindere dagli aspetti più squisitamente umani, riguardo al dramma di un bambino non vedente, esistono i problemi economici legati alla sua assistenza e alla sua formazione che incidono pesantemente sulla famiglia e sulla società. E’ difficile oggi stabilire quale sia la prevalenza del fenomeno cecità-ipovisione in Italia nell’infanzia. Soltanto per darne un’idea, sia pure grossolana, abbiamo voluto anche valutare i soggetti che frequentano l’Istituto dei Ciechi di Milano, una delle istituzioni per non vedenti più prestigiose d’Italia. Ci sono state fornite le seguenti cifre: l’Istituto segue 164 minorati visivi, cosi distribuiti: 4 a domicilio o al nido 30 nella scuola materna 70 nella scuola elementare 33 nella scuola media 27 nella scuola superiore Si tratta sicuramente di un dato in difetto e approssimativo, ma ci dice che il fenomeno non è molto esteso, almeno nel nostro Paese. Un’altra informazione può essere desunta dai dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione: i ciechi che nell’anno 2006-2007 frequentano la scuola pubblica, costituiscono l’1,5% del totale dei disabili, e sono così distribuiti: 282 bambini nella scuola dell’infanzia, 902 nella scuola primaria, 560 nella scuola media di I grado e 772 in quella media di II grado. Come sottolinea il prof. Tioli, vicepresidente UIC, 2516 studenti ciechi non costituiscono poi una quota così elevata e le risorse necessarie ad un’assistenza adeguata sicuramente si possono trovare. Infine, per gentile concessione dell’ISTAT, possiamo fornire dati dell’ultima indagine eseguita sullo stato di salute della popolazione italiana, anno 2005: 1. I soggetti affetti da cecità di età 0 -14 anni costituiscono lo 0,7% di tutti i non vedenti (maschi 1,1% - femmine 0,4%) 2. Riguardo all’età di insorgenza della cecità, la percentuale dei ciechi alla nascita (per 100 persone affette da cecità) è di 4,8%; nell’intervallo 2-14 anni è pari a 11,4%. Se consideriamo il fenomeno in altri paesi, le cifre cambiano sensibilmente. In Africa, come risulta dalla soprastante tabella, ad esempio – sempre facendo riferimento ai dati OMS – tra tutti i ciechi esistenti (circa 330.000), ben il 24 % sono bambini, vale a dire 79.200. La popolazione infantile totale è di 253 milioni. In Asia la situazione è solo un po’ migliore, in quanto la percentuale tra i ciechi dei bambini non vedenti, è variabile tra il 16 % e il 20 %. In Europa e nell’ America del Nord tale percentuale scende al 2-4 %. Ma le differenze maggiori si rinvengono tra le cause dell’ handicap visivo. Nel nostro studio è emerso che in Italia la causa principale, nei primi anni di vita, è costituita dalla ROP. Negli anni successivi intervengono e diventano preminenti le retino-otticopatie eredo-familiari. Sono rarissime, per non dire scomparse, le cause infettive pre e post-natali; ridotte di molto le cataratte congenite e tutte le forme prevenibili. Se ci rifacciamo ai dati raccolti e classificati dalla World Bank Region (OMS) vediamo che: la patologia corneale, causa di cecità, incide tra i Paesi Industrializzati e Africa Sub-Sahariana in un rapporto di 1: 36 (percentuale tra le varie forme patologiche in riferimento al distretto); tra i primi e l’India di 1: 25; con la Cina di 1: 26. Per la cataratta congenita, sempre tra Paesi Industrializzati e gli altri in via di sviluppo, di 8: 20. Se per le patologie retiniche il rapporto è pressoché uguale 25: 22, la situazione cambia per il nervo ottico con una netta inversione 25: 10. Table 1: Magnitude of Blindness in Children Region Africa India No. children million 253 340 No. blind 330,000 270,000 Prev. /1,000 1.2 0.8 Total % blind children 24 20 Rest of Asia China Middle East Latin America Western Economies Eastern Europe Total 264 336 238 167 168 77 1,843 220,000 200,000 190,000 100,000 50,000 40,000 1,400,000 0,8 0.6 0.8 0.6 0.3 0.5 0.71 16 12 14 8 4 2 100% Parole Chiave cecità dell’infanzia, epidemiologia, cause di cecità Si ringrazia il Movimento Apostolico Ciechi (M.A.C.) per la gentile collaborazione. Bibliografia 1. M. Zingirian – E. Gandolfo IPOVISIONE, Nuova Frontiera dell’Oftalmologia, GISI, Edizioni SOI, 2002 2. N. Pescosolido IPOVISIONE, Riabilitazione visiva alla guida automobilistica, Fabiano Editore, 2002 3. B. Ricci Patologia oculare in età pediatrica, Verduci Editore,1992 4. M. G. 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Our purpose was to determine the precise localization of these flecks within the retinal layers using Stratus Optical Coherence Tomography (OCT). Design: Prospective observational case series. Methods: A complete ophthalmologic examination, including autofluorescence, fluorescein angiography (FA) and Stratus OCT (Carl Zeiss) was performed in 49 eyes of 26 consecutive patients with FFM. Six to 12 Stratus OCT linear scans focused on the retinal flecks were performed in each eye. Results: The age at presentation ranged from 23 to 71 years and visual acuity ranged from 20/20 to 20/400. Hyperreflective deposits classified in two types were observed on Stratus OCT: type 1 lesions (94% of eyes) presented as dome-shaped deposits located in the inner part of the RPE layer and type 2 lesions (86% of eyes) presented as small linear deposits located at the level of the outer nuclear layer and clearly separated from the RPE layer. Conclusions: Stratus OCT is a non-invasive instrument that provides new information on the location of flecks in FFM. The location of type 2 lesions is quite unusual among macular dystrophies; OCT may therefore be useful in the diagnosis of retinal flecks in some cases of FFM. INTRODUCTION Retinal dystrophies are a heterogeneous group of inherited rare disorders characterized by progressive degenerations of neuroepitelium (expecially the photoreceptors’ layer) and of retinal pigment epithelium (RPE). Autosomal dominant, recessive, and X-linked inheritance patterns of inheritance have been described for each different retinal dystrophy as well as sporadic cases, implying genetic and molecular heterogeneity with great variability in severity and rate of progression from family to family and sometimes within the same family. Several characteristic fundus pictures are seen in combination with each retinal dystrophy and unfortunately there are only a few contributively anatomopathologic studies. OCT is a non-invasive tool that provides new information about retinal morphology, particularly useful since little is know about the histology of these disorders. In fact, OCT images seem to correlate well with histological cross sections of the retina in animal experiment. OCT has been particularly helpful for the understanding of retinal abnormalities in these disorders. The capacity for visualization of the structures of the affected retina at any area of interest has offered very interesting images for the understanding of the pathogenesis, showing the evolution of the disease. Moreover, OCT contributes to the differential diagnosis in cases with doubtful findings. ANALYSIS OF RETINAL FLECKS IN FUNDUS FLAVIMACULATUS Stargardt disease (STGD) is an autosomal recessive macular dystrophy of childhood, characterized by juvenile onset, rapid progression and a poor visual outcome1-3. On the other hand, fundus flavimaculatus (FFM), a Stargardt-like phenotype described by Franceschetti, is characterized by late-onset and slow progression4,5. The disease is usually termed STGD when visual acuity loss begins in the first two decades, while the term FFM is favoured when the disease begins at the end of the second decade or in the third decade. Genetic studies demonstrated a continuum between STGD and FFM, both linked with the ABCA4 gene6-8. Yellowish-white deposits called retinal “flecks” are usual features of both STGD and FFM9-10. These flecks are small or large, extremely polymorphous, rounded, fusiform, spearlike, pisciforms, giants, butterfly or X-shaped, and can be juxta-macular or diffusely distributed in the fundus3,11. At the beginning, the deposits appear yellowish-white and well defined. Later, the retinal flecks become grey, fuzzy and ill-defined and are hardly visible on fundus examination, although clearly revealed by autofluorescent frames12-14. The exact location of the retinal flecks within the retina is still controversial11. Klein and Krill15 established the presence of mucoplysaccharide deposits (hyaluronic acid) in retinal cells. On the other hand, Eagle16 found a massive accumulation of lipofuscine (that is composed of A2-E) in the retinal pigment epithelium (RPE) cells. Optical coherence tomography (OCT) is a non-invasive technique based on low interferometry that provides optical cross-sectional images of the retina and morphologic information similar to that obtained from histological sections. Stratus OCT is a recent introduced instrument that provides morphological information of the retina with a better resolution compared with first generation OCT instruments. Our purpose was to determine the precise localization of retinal flecks within the retina, in FFM patients, using Stratus OCT. PATIENTS AND METHODS Twenty six consecutive patients who presented to our department with FFM macular dystrophy were prospectively included in this study, in compliance with French regulations and after approval from our local ethics committee. Criteria for inclusion were: age over 18 years old, presence of retinal flecks on fundus examination, evidence of autofluorescence of the retinal flecks, and diagnosis of dark choroid on fluorescein angiography (FA). Eyes presenting with any associated macular diseases (myopia > -8 D, angioid streaks, confluent drusen, epiretrinal membrane), or complication such as choroidal neovascularization were excluded from this study. All patients underwent a complete ophthalmologic examination, including assessment of best-corrected visual acuity (BCVA), fundus biomicroscopy, colour photography of the fundus, red free frames, autofluorescence frames and FA (Canon 60 fundus camera, Tokyo, Japan; Topcon TRC-50 retinal camera, Tokyo, Japan; Zeiss FF 450 plus, Carl Zeiss AG, Germany). Optical coherence tomography examination was performed with the ultimate commercial OCT unit (Stratus OCT, Carl Zeiss Meditec, Inc., Dublin, CA). A minimum of 6 scans of 5 mm were performed in each study eye. Because our goal was to found retinal lesions, we performed up to 12 OCT scans when no lesions were observed after 6 scans. The OCT scans were positioned so that the cross-sectional cut would go through the flecks based on color fundus photography and fundus autofluorescence. For each scan, the shape and reflectivity of the material, its location, the reflectivity and appearance of the retinal pigment epithelium (RPE) and any retinal changes, were noted. Only good quality scans, showing retinal layers, were analyzed. RESULTS A total of 49 eyes (26 patients) were included in this study: both eyes of 23 patients and one eye of 3 patients. One patient (case 1, RE) presented with a unilateral epiretinal membrane and thus only the left eye was included. Two patients (case 17, RE and case 21, LE) presented with choroidal neovascularization and, therefore, only the fellow eye was included (Table). There were 9 women and 17 men with a mean age at presentation of 43 years (range: 23 to 71 years). BCVA ranged from 20/20 to 20/400 and was better than 20/40 in 14 eyes, between 20/40 and 20/80 in 20 eyes, and less than 20/80 in 15 eyes (Table). On colour fundus photography, the retinal flecks presented heterogeneous patterns which were perifoveolar or widely distributed in the fundus. These retinal flecks were more prominently visible in the red free frames in comparison with the colour photographs. Autofluorescent frames clearly delineated the retinal flecks. On FA, the retinal flecks appeared as ill-defined areas of hypofluorescence, surrounded by haloes of hyperfluorescence corresponding to changes in the RPE. In accordance with the strict criteria for inclusion, dark choroid was present in all the study eyes. Stratus OCT allowed visualization of hyperreflective dots that could be interpreted as the presence of material that make up the retinal flecks. When comparing Stratus OCT scans with colour photographs of the fundus and autofluorescent frames, the location of the hyperreflective deposits correlated with the location of the retinal flecks. Although all the OCT scan sections appeared to include the retinal flecks, the hyperreflective lesions were not detectable in all the OCT sections. However, performing 6 to 12 scans per eye allowed the identification of the hyperreflective deposits in all the study eyes. These hyperreflective deposits were located more or less deeply within the retinal layers. We have to classified, into two types, the hyperreflective deposits according to their location within the retina. Type 1 deposits were dome-shaped and aspect located at the level of or just above the RPE in continuum with the inner part of the RPE layer (figure 1). In most cases, the reflectivity of the RPE and the material was very close and, hence, could not be differentiated by OCT. Type 1 deposits were observed in at least one OCT scan in 46 out of 49 (94%) eyes and in two or more OCT scans in 42 out of 49 (86%) eyes (table). Type 2 deposits presented as small, linear, hyperreflective lesions located at the level of the inner segments of photoreceptors or outer nuclear layer (ONL) and clearly separated from the RPE layer (figures 2 and 3). The OCT reflectivity of type 2 deposits was similar to the reflectivity of type 1 deposits, in contrast with the hyporeflectivity of the ONL. Type 2 lesions were observed in at least one OCT scan in 42 out of 49 (86%) eyes and in two or more OCT scans in 34 out of 49 (69%) eyes. All the study eyes presented at last one of the two described patterns of hyperreflective deposits on OCT. When both eyes were combined, all the study patients presented both types of lesions on Stratus OCT (figure 4). DISCUSSION In this large series of FFM patients, Stratus OCT revealed small hyperreflective deposits corresponding with the retinal flecks located either at the level of the RPE layer or at the level of the ONL. Retinal flecks observed in STGD/FFM patients are typically heterogeneous, in their surface, their pattern, and their distribution in the fundus. On fundus examination and colour photography, these flecks are commonly poorly contrasted and appear as yellowish-white lesions on an orange background. The retinal flecks are clearer on red free frames, although they are best and clearly delineated on autofluorescent frames (figure 4B). Despite some histological reports, the exact location of the retinal flecks within the retinal layers remains controversial. Recently, Ergun et al17 analyzed photoreceptor morphology in 14 patients affected with Stargardt's disease and fundus flavimaculatus using ultrahigh-resolution optical coherence tomography (UHR-OCT). In this series, UHR-OCT demonstrated excellent visualization of intraretinal morphology and enabled quantification of the photoreceptor layer. Lower visual acuity correlated with a greater transverse photoreceptor loss. However, they did not demonstrate the location of the retinal flecks. Here our purpose was to determine the precise location of the retinal flecks within the retina in FFM patients. On Stratus OCT, the retinal flecks presented as small hyperreflective lesions located either at the inner part of the RPE layer (type 1) or at the level of the ONL (type 2). None of the fundus features, the features on autofluorescent frames or angiographic features were characteristic of a particular type of retinal flecks. In other words, neither of the two types of hyperreflective lesions was correlated with a specific phenotype of the flecks. Type 1 lesions were observed in 94% (46 out of 49) of the study eyes and all the 26 patients presented this type of lesions in at least one eye. They appeared as dome-shaped hyperreflective deposits in the inner part of the RPE layer (figures 1 and 4). This finding may be compared with that observed in adult-onset foveomacular vitelliform dystrophy (AFVD)18. However, the hyperreflective lesions are smaller and dome-shaped in FFM contrasting with the stretch aspect observed in AFVD. Type 2 lesions were observed in 86% (42 out of 49) of the study eyes and all 26 patients presented this type of lesions in at least one eye. It is conceivable that among eyes in which type 2 lesions was not identified, more performing more scans or 3 mm scans may have revealed the “absent” lesion. Type 2 lesions appeared as small, linear, hyperreflective deposits at the level of the ONL and welldifferentiated visibly from the RPE layer (figures 2, 3 and 4). This location is unusual in the field of inherited macular dystrophies distinct from lesions observed in AFVD18, Best macular dystrophy19 or malattia leventinese20, localized at the level of RPE We believe that this unusual location could contribute to the positive diagnosis in some cases of retinal flecks in STGD/FFM. Several lines of evidence suggest that the two types of retinal flecks merely reflect different stages of the same disorder. First, both lesions were observed simultaneously in 80% (39 out of 49) of the study eyes. Second, all patients had the two lesion types, either in the right eye or the left eye. Finally, in some scan sections, intermediate aspect, sharing common features between types 1 and 2 were observed (Figure 4D). However, the chronological evolution, from type 1 to type 2 or from type 2 to type 1, could be debated. On the one hand, it could be speculated that type 2 deposits progressively increase from the photoreceptor layer to the RPE. This hypothesis would be consistent with the fact that the initial impairment, the ABCA4 protein, is primarily located in the photoreceptors. On the other hand, and most likely, we hypothesize that the hyperreflective deposits at the level of the ONL (type 2) could be the residual cover of the dome-shaped lesions (type 1). This latter hypothesis is consistent with the natural history of the flecks in the fundus; these flecks progressively degrade, from a welldefined lesion to residual material. In conclusion, Stratus OCT is a useful non-invasive instrument that provides new information on the location of the retinal flecks in STGD/FFM. The yellowish-white material is located either at the level of the RPE (type 1) or, unusually, at the level of the outer nuclear layer (type 2). We believe that OCT may provide additional diagnostic information and could help in the diagnosis of retinal flecks in some cases of STGD/FFM due to the unusual location of the type 2 lesions. Keywords Fundus Flavimaculatus; Optical Coherence Tomography; Retinal dystrophy; Stargardt disease. REFERENCES 1. Stargardt K. Ueber familiare progressive degeneration in der makulagegend des Auges. Albrecht V. Graefes. Arch Ophthalmol. 1909; 71: 534-50. 2. Cibis GW, Morey M, Karris DJ. 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Didascalia figure: Figure 1: Stratus optical coherent tomography (OCT) demonstrates type 1 deposits facing retinal flecks (case 5, RE) Colour photograph shows macular atrophy and retina flecks (A). OCT scans are illustrated by the arrows “a” and “b”. The auto-fluorescent frame clearly delineates the retinal flecks (B). Thin and open arrows point out two of the flecks, respectively crossed by scans 1 and 2. Fluorescein angiography shows the dark choroid appearance (C). The hypofluorescent flecks (arrows) are hardly discernable in the hyperfluorescent background due to retinal pigment epithelium (RPE) changes. The OCT scan 1 (D) shows a small hyperreflective deposit located at the inner part of the RPE layer (thin arrow). The OCT scan 2 (E) shows a similar feature (open arrow) and macular atrophy. Squares illustrate enlarged view of these little dots that appear to correspond to the accumulation of auto-fluorescent material marked by the arrows. Figure 2: Stratus OCT demonstrates type 2 deposits facing retinal flecks (case 12, LE) Colour photograph shows macular atrophy and retina flecks (A). OCT scans are illustrated by the arrows 1 and 2. The auto-fluorescent frame (confocal) clearly delineates the retinal flecks and shows autofluorescence of the macular area (B). Arrows point out two of the flecks, crossed by scans 1 and 2. On indocyanine green angiography (ICG), late phase (30 min), the hypofluorescent lesions appear more numerous than the autofluorescent flecks (C). The OCT scan 1 (D) shows a small hyperreflective linear deposits located at the level of the outer nuclear layer and clearly distinguished from the RPE layer (open arrow). The OCT scan 2 (E) shows a similar feature (thin arrow). These small lesions appear to correspond to the accumulation of auto-fluorescent material and are interpreted as retinal flecks marked by the arrows. It is notable that only the autofluorescent flecks could be identified by OCT. Figure 3: Another example of type 2 deposits evidenced by Stratus OCT (case 9, LE). Colour photograph shows macular atrophy and retinal flecks. OCT scans are illustrated by the arrows 1 and 2. The auto-fluorescent frame (confocal) demarcates the retinal flecks and shows autofluorescence of the macular area (B). Arrows point out 3 of the flecks, crossed by scans 1 (thin arrows) and 2 (open arrow). The OCT scan #1 (C) shows two small hyperreflective dots localized at the level of the outer nuclear layer (thin arrows). The hyperreflective deposits observed at the level of the ONL by Stratus OCT appears to correspond to retinal flecks (open arrow; D). Figure 4: Both type 1 and type 2 FFM deposits visualized by Stratus OCT within the same eye (case 12, LE) Colour photograph shows numerous retinal flecks (A). The 5 mm OCT scans are illustrated by the 4 doted arrows. In the red-free frame (enlarged view), the flecks appear slightly more contrasted (B). No profound macular atrophy is visible. Thin arrow, open arrow and triangle point out 3 of the flecks crossed by the OCT scans. Fluorescein angiography shows ill defined hyperfluorescence around the macular area and a dark choroid appearance on the temporal side (C). Arrows are marked on the corresponding locations. On OCT scan #1 (D), a dome-shaped elevation of the RPE level (type 1, thin arrow) is observed. On the same scan, two other lesions are visible: a deposit within the photoreceptor layer (type 2, on the left side of the arrow) and a lesion, intermediate between the type 1 and type 2 patterns (curved arrow). On OCT scan #2 (E), a typical type 2 deposit is observed, clearly distinct from the RPE layer (open arrow). This hyperreflective deposit does not clearly correlate with the well-defined flecks on colour photography but could correspond to a hypofluorescent lesion on fluorescein angiography (open arrow). On OCT scan 3 (F), a type 1 deposit is observed (triangle) as well as two small type 2 deposits on the right side. On OCT scan 4 (G) the type 1 deposits corresponding to the triangle and the thin arrow are shown again. Case SEX AGE EYE VISUAL ACUITY Type 1 deposits/ total scans Type 1 deposits/ total scans 1 M 58 20/40 4/12 3/12 LE 2 F 23 RE LE 20/125 20/160 7/12 3/12 6/12 0/12 3 M 33 RE LE 20/50 20/20 3/6 1/6 1/6 2/6 4 M 41 RE LE 20/32 20/50 3/12 1/12 0/12 2/12 5 F 23 RE LE 20/125 20/160 6/12 5/12 3/12 2/12 6 M 59 RE LE 20/25 20/40 2/6 3/6 0/6 4/6 7 M 26 RE LE 20/160 20/160 5/12 5/12 3/12 3/12 8 M 26 RE LE 20/320 20/250 2/6 2/6 6/6 4/6 9 F 41 RE LE 20/80 20/63 5/12 4/12 4/12 4/12 10 M 47 RE LE 20/40 20/50 3/12 2/12 1/12 1/12 11 M 66 RE LE 20/25 20/32 4/6 1/6 6/6 3/6 12 F 44 RE LE 20/40 20/20 4/6 1/6 2/6 3/6 13 F 33 RE LE 20/80 20/63 5/10 5/12 1/10 5/12 14 M 38 RE LE 20/63 20/200 3/12 3/6 0/12 3/6 15 M 51 RE LE 20/40 20/32 6/6 6/6 6/6 6/6 16 M 71 RE LE 20/40 20/160 5/7 10/12 6/7 9/12 17 M 58 LE 20/40 10/12 9/12 18 F 24 RE LE 20/200 20/200 7/12 5/12 10/12 7/12 19 F 55 RE LE 20/20 20/400 2/12 0/12 4/12 6/12 20 F 41 RE LE 20/32 20/32 3/6 2/6 1/6 1/6 21 F 70 RE 20/25 4/6 3/6 22 M 26 RE LE 20/50 20/63 2/10 5/10 0/10 2/10 23 M 45 RE LE 20/25 20/25 8/10 7/10 7/10 6/10 24 M 32 RE LE 20/63 20/25 3/6 0/12 2/6 1/12 25 M 58 RE LE 20/400 20/63 0/12 2/12 1/12 0/12 26 M 29 RE LE 20/100 20/63 5/6 5/6 2/6 0/6 Table. Type 1 and type 2 hyperreflcetive deposits observed in FFM patients using Stratus OCT. M: male; F: female; RE: right eye; LE: left eye. Lavori scientifici Titolo: Risultati clinici del trapianto di cellule staminali dell’epitelio di M. Papalia Scuola di specializzazione in Oftalmologia La superficie oculare è ricoperta dagli epiteli della congiuntiva tarsale, della congiuntiva bulbare, del limbus sclerocorneale e della cornea che hanno la funzione di proteggere l’occhio da agenti patogeni microbici, da corpi estranei e permettono buone prestazioni ottiche. Anche se questi epiteli hanno un ruolo simile, le caratteristiche biochimiche e istologiche di ciascuno sono molto diverse(1,2,3). Lo strato basale dell’epitelio limbare situato nella zona di transizione tra epitelio congiuntivale ed epitelio corneale contiene le cellule corneali epiteliali staminali che garantiscono l’integrità dell’epitelio generando le cellule amplificanti transitorie (TA) che migrano fuori dalla membrana. In alcune condizioni patologiche come la sindrome di Stevens-Johnson, il pemfigoide oculare, ustioni chimiche o termiche, aniridia, tossicità da farmaci o traumi oculari gravi si ha una completa perdita delle cellule staminali cui consegue il ricoprimento della cornea da parte della congiuntiva. Questo processo patologico, denominato congiuntivalizzazione, determina una cicatrizzazione fibrovascolare con conseguente opacizzazione e perdita della funzione visiva (11,12,13). Queste condizioni patologiche sono classificabili come insufficienza o scompensi limbari. Il trattamento chirurgico tradizionale dei deficit limbari con tecniche come la cheratoplastica perforante o lamellare hanno una prognosi generalmente infausta, in quanto non sono in grado di ricostruire la barriera limbare. Nei pazienti con deficit limbare l’unica opzione terapeutica consiste nell’effettuare un trapianto di limbus per restaurare la capacità rigenerativa dell’epitelio corneale, prima di sottoporli ad una cheratoplastica perforante, anche questa necessaria per sostituire lo stroma danneggiato. I difetti limbari possono essere trattati con il trapianto di porzioni di limbus prelevati da cadavere, da congiunti o dall’occhio controlaterale del paziente nel caso di un danno monolaterale. Tuttavia queste ultime due procedure espongono ad un rischio l’occhio del donatore, in quanto la porzione prelevata deve essere relativamente grande e si può creare una deplezione della restante parte del limbus, rischiando l’insorgenza di un deficit limbare in un occhio precedentemente sano. Con il trapianto di limbus inoltre vengono portate nell’occhio ricevente non solo le cellule staminali epiteliali ma anche cellule di Langerhans, fibroblasti e linfociti che possono scatenare una risposta infiammatoria ed aumentare il rischio di rigetto del tessuto donato (14). Queste limitazioni esplicano l’esigenza di espandere le cellule limbari in vitro prima di trapiantarle sull’occhio lesionato. Si sta cercando di isolare un tessuto con un numero sufficientemente alto di cellule epiteliali pure in modo da mimare al meglio la normale superficie corneale (15,16,17,18,19). Attualmente non esistono evidenze cliniche su quale sia il tessuto più idoneo per il trasporto (carrier) delle cellule epiteliali espanse in vitro. Sono stati finora sperimentati collagene, fibrina, lenti a contatto, garze paraffinate e membrane amniotiche come carrier (16,17,20). Nei processi di riparazione le cellule epiteliali migrano su una matrice provvisoria costituita da fibrina e fibronectina (21,22,23), si ritiene pertanto che un supporto di fibrina possa essere il più indicato per il trasporto delle cellule epiteliali in vitro, in quanto mimerebbe la fisiologica riparazione di una ferita. I nostri risultati sono stati ottenuti da pazienti trattati presso il nostro istituto (Prof.C.E. Traverso) e reclutati nell’ambito di una ricerca multicentrica coordinata dalla Fondazione Banca degli Occhi del Veneto. In questo studio abbiamo selezionato un gruppo omogeneo di pazienti con fallimento limbare. Il grado di difetto limbare è stato studiato in base all’aspetto clinico e alla espressione di specifici pattern di cheratine. Sono stati arruolati 5 pazienti (2 donne e 3 uomini) di età fra 36 e 72 anni. Tre pazienti erano affetti da esiti di ustione chimica, uno da esiti di infezione corneale DNDD ed uno da cheratite DNDD. MATERIALI E METODI Per i trapianti autologhi le cellule sono state coltivate a partire da una biopsia limbare di 1-2 mm2 effettuata sull’occhio controlaterale sano. Le colture cellulari, l’analisi immunoistochimica, la preparazione del gel di fibrina, sono stati eseguiti presso il laboratorio di Colture Cellulari della Fondazione Banca degli Occhi del Veneto, diretta dalla dott.ssa Graziella Pellegrini. Le cellule coltivate su supporto di fibrina (diametro dell’impianto di circa 16 mm) sono state applicate sulla superficie corneo-sclerale ed adagiate anche sotto la congiuntiva dissecata. RISULTATI Nella tabella 1 sono elencate le caratteristiche demografiche del paziente, la durata e la causa della malattia e la funzione visiva. Tabella 1: caratteristiche demografiche del paziente, durata e causa della patologia, funzione visiva. Paziente Età Sesso Occhio colpito durata patologia (mesi) Causa visus 1 72 M OD 40 infezione non definita moto mano 2 62 F OD 75 Cheratite DNDD 1|50 3 39 M OS 48 ustione chimica conta dita 4 36 M OD 25 ustione chimica moto mano 5 65 F OS 180 ustione chimica 4|50 Tutti pazienti avevano una funzione visiva marcatamente compromessa (il visus era compreso tra moto mano e 4/50). Una settimana dopo l’intervento tutti i pazienti avevano un epitelio integro e la sua trasparenza è stata giudicata buona in un caso e discreta nei restanti quattro. Grazie alla integrità e stabilità della superficie oculare raggiunta in tutti i pazienti con il trapianto di cellule limbari espanse, la prognosi di una cheratoplastica e la qualità della vita è nettamente migliorata. CONCLUSIONI Le cellule limbari dopo la coltura primaria possono essere crioconservate e quindi utilizzate nel caso in cui il primo trapianto dovesse fallire, giustificando la complessità ed i costi che caratterizzano questa tecnica. L’uso del gel di fibrina come carrier per trasportare le cellule epiteliali non è scevro da effetti collaterali. Per ottenere una perfetta trasparenza dell’epitelio è infatti necessario che il gel venga riassorbito completamente e senza che questo causi alcuna cicatrizzazione a livello corneale. Purtroppo una infiammazione corneale anche lieve può compromettere il risultato facendo residuare delle opacità. Sono stati studiati anche altri carrier, ed in particolare la membrana amniotica, ma nessuno garantisce un completo riassorbimento senza reliquati. Nel nostro studio in tutti i pazienti è stata ottenuta una superficie oculare stabile e non si è sviluppata nessuna complicanza nell’occhio donatore. In due pazienti è stata eseguita con successo la cheratoplastica perforante a distanza di un anno dal trapianto di limbus. Una volta raggiunta la stabilità della condizione clinica i pazienti sono stati sottoposti a cheratoplastica perforante per sostituire lo stroma corneale opaco. Questi pazienti hanno avuto un recupero funzionale buono e mantengono una buona trasparenza ed integrità epiteliale. Si tratta di casi clinici molto complessi in cui l’esecuzione di una cheratoplastica senza aver prima restaurato la capacità proliferativa dell’epitelio corneale non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. Didascalie delle figure: Foto 1: quadro clinico al primo accesso (paziente 3) Foto 2: quadro clinico il primo giorno postoperatorio (paziente 3) Foto 3: quadro clinico a 11 mesi dalla cheratoplastica perforante (paziente 3) BIBLIOGRAFIA 1. Thoft RA, friend J. Biochemical transformation of regenerating ocular surface epithelium. Invest Ophthalmol Vis Sci.1977; 16: 14-20. 2. Wei ZG, Wu RL, Lavker RM, Sun TT. In vitro growth and differentiation of rabbit bulbar, fornix, and palpebral conjunctival epithelia: implications on conjunctival epithelial transdifferentiation and stem cells. Invest Ophtalml Vis Sci. 1993; 34: 1814-1828. 3. Wei ZG, Wu RL, Lavker RM, Sun TT. 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Balacco Gabrieli) I movimenti oculari si effettuano mediante l’azione di sei muscoli. I sei muscoli extraoculari possono essere raggruppati in tre paia: due retti con azione sul piano orizzontale (rispettivamente interno o mediale ed esterno o laterale), due retti con azione sul piano verticale (rispettivamente superiore ed inferiore) e due obliqui (rispettivamente superiore ed inferiore). I muscoli extraoculari tranne l’obliquo inferiore, costituiscono un insieme anatomico,a forma di cono, il cui apice si inserisce sul fondo dell’orbita e la cui base e’ rappresentata dall’inserzione sclerale dei muscoli sul bulbo. L’apice del cono è’ costituito da una formazione fibrosa, il tendine di Zinn, sulla quale si inseriscono i tendini dei quattro muscoli retti e quello dell’obliquo superiore. Ciascun muscolo oculomotore, ad eccezione del retto interno e del retto esterno, ha un azione principale e una sussidiaria ma, lavorando in coppia, il movimento risulta dall’azione combinata di un muscolo agonista e di un muscolo antagonista tab.1. Il muscolo che con la sua contrazione muove il bulbo in una direzione, è definito agonista, quello che contraendosi lo muove in direzione opposta, è detto antagonista. In ciascun occhio le coppie di muscoli antagonisti sono: retto mediale e laterale; retto superiore ed inferiore; obliquo superiore ed inferiore. I muscoli che nei due occhi contraendosi lo muovono nella stessa direzione sono detti sinergisti. Le coppie di muscoli sinergisti o coniugati nei due occhi sono: retto mediale destro e retto laterale sinistro; retto laterale destro e retto mediale sinistro; retto superiore destro ed obliquo inferiore sinistro; retto inferiore destro e obliquo superiore sinistro; obliquo superiore destro e retto inferiore sinistro; obliquo inferiore destro e retto superiore sinistro; muscolo retto superiore retto inferiore retto mediale obliquo inferiore retto esterno obliquo superiore azione principale elevazione abbassamento adduzione extrarotazione abduzione intrarotazione azione sussidiaria intrarotazione e adduzione extrarotazione e adduzione elevazione e abduzione abbassamento e abduzione Tab. 1: Azione dei muscoli extraoculari I movimenti oculari sono regolati da alcune leggi della fisiologia muscolare. Secondo la legge di Donders “a ciascuna posizione dei bulbi oculari corrisponde un unico orientamento dei meridiani retinici,qualsiasi sia il percorso effettuato per raggiungere quella posizione”. La motilità oculare associata o coniugata rende possibile l’uso coordinato di entrambi gli occhi affinché l’immagine cada in punti corrispondenti della retina. Per ottenere e mantenere la visione binoculare è necessario che i movimenti oculari siano della stessa ampiezza in ambedue gli occhi. Questo concetto è alla base della legge della corrispondenza motoria di Hering secondo la quale “quando si effettua un movimento oculare gli stessi impulsi innervazionali vengono inviati ad ambedue gli occhi”. La fovea, area di massima acutezza visiva, è anche la depositaria della direzione visiva principale e il centro a cui si riferiscono le direzioni visive secondarie di tutti gli altri elementi retinici. Questa relazione è stabile ed è tale stabilità’ che rende possibile un campo visivo regolare. Ciascun punto o area retinica ha un patner nella retina controlaterale con cui condivide una comune direzione visiva soggettiva (corrispondenza retinica). Gli elementi dei due occhi che condividono una comune direzione visiva soggettiva sono chiamati punti retinici corrispondenti. La visione singola è la caratteristica della corrispondenza. Affinché avvenga la fusione, le immagini non solo devono cadere su aree retiniche corrispondenti, ma devono anche essere sufficientemente simili in grandezza, luminosità e nitidezza, in modo da permettere l’unificazione sensoriale. Immagini diseguali possono presentare un notevole ostacolo alla fusione.Differenze di colore e di forma portano alla rivalita’retinica. La stimolazione simultanea di elementi retinici disparati, ossia non corrispondenti, da parte di un punto oggetto, fa si che esso sia localizzato in due direzioni visive soggettive. Un punto oggetto visto simultaneamente in due direzioni, è visto doppio, cioè in diplopia. La visione doppia è la caratteristica della disparità. Quando gli assi visivi dei due occhi non sono più paralleli, un oggetto forma le proprie immagini su zone retiniche non corrispondenti. Il termine diplopia si riferisce appunto ad una alterazione della visione binoculare caratterizzata da una marcata fusione delle immagini che cadono in punti non corrispondenti della retina. Di conseguenza il soggetto riferirà una visione di due “oggetti” più o meno distinti e localizzati in due diverse direzioni. Delle due immagini, quella percepita dall’occhio sano cade sulla fovea e corrisponde all’immagine “vera”dell’oggetto, quella percepita dall’occhio deviato invece è l’immagine “ falsa”, che non essendo proiettata sulla macula ha contorni meno netti. In questo caso, si parla comunque di diplopia binoculare che non viene riferita nella visione monoculare (per esempio coprendo un occhio) perché si annulla la proiezione dell’immagine su una delle due retine. Se la visione sdoppiata persiste coprendo uno dei due occhi, si parla di diplopia monoculare che dipende da cause diverse come per esempio i deficit rifrattivi (miopia, astigmatismo,dislocazione della lente intraoculare). L’esame oculistico ed ortottico Occorre innanzitutto stabilire se la diplopia riferita e’ presente quando entrambi gli occhi sono aperti (diplopia binoculare), o se essa persiste quando è aperto un solo occhio (diplopia monoculare). Si esegue pertanto un’accurata anamnesi. Le cause di diplopia monoculare sono spesso prevalentemente ottiche o rifrattive, come vizi di refrazione non corretti o mal corretti o dislocazioni di una lente intraoculare. Le modificazioni della refrazione nell’occhio fissante possono causare diplopia. Pazienti adulti affetti da anisometropia possono sviluppare diplopia qualora il loro difetto refrattivo venga corretto, soprattutto se per la prima volta. L’effetto prismatico di una correzione con occhiali può indurre diplopia nelle diverse posizioni di sguardo. L’ortottista può così procedere con la valutazione motoria e con i test per l’esame della diplopia. Un metodo sicuro per accertere o escludere la presenza di una deviazione oculare e misurarne l’entità è rappresentato dall’osservazione del movimento di recupero di un occhio alla schermatura dell’occhio controlaterale (cover test). Per l’esecuzione di un cover test occorre disporre di una mira di fissazione e di uno schermo, quest’ultimo rappresentato da un foglio di carta, dalle dita di una mano o da una paletta. Nell’esecuzione è di fondamentale importanza ottenere l’attenzione del paziente con una mira di fissazione alla distanza desiderata. La scelta della mira dipende dal’età del paziente e dall’acuità visiva. Può essere rappresentata da un qualsiasi oggetto, dai simboli dell’ottotipo (mire accomodative), da mire luminose. E’ necessario che la sorgente luminosa non sia eccessiva, nè come superficie nè come intensità per evitare fenomeni di abbagliamento. Le mire accomodative oltre ad attirare l’interesse del paziente stimolano l’accomodazione e mettono in evidenza quanto questa sia responsabile nel mantenimento della deviazione oculare. L’esame va eseguito a 33 cm e a 5 mt dalla mire di fissazione. Il termine cover test si riferisce ad un’intera procedura della quale se ne distinguono due parti: cover-uncover, cover test alternato, cover test prismatico. Il cover-uncover è particolarmente indicato nella diagnosi differenziale tra strabismo e pseudostrabismo ed in quella di microstrabismo. Il paziente è seduto con il capo dritto e fissa una mira a distanza sia di 33 cm che di 5 m. Un occhio viene prima coperto e poi scoperto. Quando l’occhio viene schermato si osserva il movimento dell’occhio controlaterale. Se l’occhio scoperto non esegue alcun movimento siamo davanti ad un caso di ortoforia; lo stesso avviene quando viene scoperto l’occhio in precedenza coperto. In presenza di eteroforia l’occhio scoperto rimane immobile; al momento di scoprire l’occhio precedentemente coperto, questo esegue un movimento lento che lo riporta alla posizione iniziale. Il movimento indica che sotto lo schermo l’occhio era deviato e che si riallinea in visione binoculare. Secondo la direzione del movimento di ritorno si distingue in exoforia (verso l’interno); esoforia (verso l’esterno) ed iperforia (verso il basso). Una volta rilevata la direzione del movimento è’ necessario valutarne la rapidità o meglio il recupero del riallineamento che può essere ottimo, buono o scarso. Il cover test alternato si esegue anteponendo alternativamente lo schermo prima su un occhio e poi sull’altro, senza lasciare i due occhi aperti contemporaneamente, producendo la massima dissociazione della visione binoculare. Il cover test prismatico e’ poi utilizzato per misurare l’intera deviazione. Dinnanzi all’occhio deviato viene posto un prisma con base opposta alla direzione della deviazione, l’occhio controlaterale viene schermato. Si esegue il cover test mentre si fa scorrere lentamente una barra di prismi di potere sempre maggiore, finché al cover test non si rileverà alcun movimento. Per la valutazione sensoriale della diplopia si usa il test delle quattro luci di Worth (il pz indossa un paio di occhiali con una lente rossa a destra e verde a sinistra e guarda 4 luci) il test del cilindro di Maddox, il test del di Franceschetti o de doppio cilindro di Maddox, il test di LessLancaster. Materiali e metodi Dopo accurata valutazione anamnestica delle caratteristiche cliniche della diplopia e degli eventuali altri segni e sintomi ad essa associati (modalità di esordio, evoluzione), è stato effettuato un esame obiettivo della motilità oculare. Sulla base di questi dati, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi principali: pazienti che riferivano diplopia monoculare o con caratteristiche cliniche non meglio precisate; pazienti che riferivano diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo alla valutazione neurologica. indipendentemente dalle caratteristiche riferite del disturbo, i soggetti di ogni gruppo sono stati inviati presso il Centro di fisiopatologia della motilità oculare (Oftalmologia B) del Dipartimento di Scienze Oftalmologiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove sono stati sottoposti a: anamnesi ortottica, valutazione obiettiva ortottica, prova al filtro rosso e schermo di Hess-Lancaster. I dati così ottenuti sono stati successivamente inseriti in una cartella informatica in correlazione con le seguenti caratteristiche estrapolate dalle cartelle: età, sesso, “tipo” di diplopia riferita soggettivamente, caratteristiche obiettive neurologiche della diplopia. Risultati Dei 100 soggetti studiati, 56 erano di sesso maschile (56%), 44 di sesso femminile (44%), di età media più o meno 2 DS di 50,99 + o – 7,2 anni. I pazienti risultavano così distribuiti fra i gruppi suddetti. 16 (16%; 10 uomini, 6 donne) riferivano diplopia monoculare; 84 (84%; 46 uomini, 38 donne) riferivano diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo all’EON. La distribuzione della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate è riportata nelle tab. 2a e 2b; la distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e delle patologie riscontate è riportata nelle tab. 3a e 3b. L’ EON della motilità oculare risultava positivo in 54 soggetti (54%; 31 uomini e 23 donne) così distribuiti fra i gruppi: 1 (1,9%) con riferita diplopia monoculare; 53 (98,1%) con riferita diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo. La prova al filtro rosso risultava positiva in 80 soggetti (80%; 43 uomini e 37 donne) così distribuiti fra i gruppi: “(2,5%) con riferita diplopia monoculare; 78 (97,5%) con riferita diplopia binoculare con o senza deviazione. Lo schermo di Hess- Lancaster risultava positivo in 70 soggetti (70%; 36 uomini e 34 donne) tutti con riferita diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo. Considerando la diplopia monoculare e/o con caratteristiche cliniche imprecisate come “falsa” e la diplopia binoculare con o senza strabismo come “vera”, sono stati calcolati i valori di sensibilità, specificità ed il valore predittivo positivo o VPP (misure di accuratezza) per l’ EON e per entrambi i test di valutazione ortottica. La sensibilità dell’ EON era del 64%, la specificità del 93% ed il VPP del 63%. Per la prova al filtro rosso, il valore di sensibilità è risultato del 93% e quello di specificità dell’ 87%, con un VPP del 97,5%. Per lo schermo di Hess, sono stati osservati un valore di sensibilità dell’ 83%, un valore di di specificità del 99% ed un VPP del 99%. Il rapporto fra i test strumentali e la diagnosi eziologica di diplopia è illustrato nelle tabelle 4a e 4b. la positività della prova al filtro rosso e quella dello schermo di Hess sono associate in maniera statisticamente significativa (p=0.000) alla diplopia in corso di ictus, sclerosi multipla, miopatie, neuropatie dei nervi cranici e traumi cranici. In ognuno di questi sottogruppi, la positività di entrambi i test è stata osservata solo nei pazienti con diplopia “vera”. Nei pazienti con diplopia “falsa” (non da strabismo paralitico) lo schermo di Hess è risultato sempre negativo, la prova al filtro rosso invece positiva in un numero molto esiguo di soggetti. Patologie Sesso M F Tot Ictus 16 (28.6 %) 16 (36.4 %) 32 SM 4 (7.1 %) 4 (9.1 %) 8 Tumori 5 (8.9 %) 1 (2.3 %) 6 2 Traumi 16 (28.6 %) 7 (15.9 %) 3 Cefalee 2 (3.6 %) 6 (13.6 %) 8 Tab. 2a: distribuzione della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate (i valori percentuali sono riferiti al fattore sesso) Patologie Miopatie Sesso M F Tot 4 (7.1 %) 3 (6.8 %) 7 Neuropatie degenerative 6 (10.7 %) 3 (6.8 %) 9 Malattie diagnosi 3 (5.4 %) 1 (2.3 %) 4 Altre / 3 (6.8 %) 3 Tab. 2b: distribuzione della popolazione a seconda del sesso e delle patologie riscontrate (i valori percentuali sono riferiti al fattore sesso) Patologie Monoculare o non precisata Ictus 2 SM / Tumori / Traumi 4 Cefalee 6 30 8 6 19 / 32 8 6 23 6 diplopia Binoculare con o senza strabismo Tot Tab. 3a: distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e delle patologie riscontrate Patologie Miopatie Neuropatie Monoculare o non precisata 1 / Malattie Altre diagnosi degenerative 1 2 Binoculare con o senza strabismo Tot 6 9 3 1 7 9 4 3 diplopia Tab. 3b: distribuzione della popolazione a seconda delle caratteristiche cliniche della diplopia e delle patologie riscontrate Prova al filtro rosso Totale Ictus Positivo Negativo 31 1 32 Patologie SM 8 / 8 Tumori 6 / 6 Traumi 15 8 23 Cefalee 3 5 8 Miopatie 6 1 7 Neuropatie 9 / 9 Malattie degenerative 2 2 4 Altre diagnosi 3 / 3 83 1 7 Tab. 4a: distribuzione della popolazione a seconda del risultato della prova al filtro rosso rispetto alle patologie riscontrate Schermo di Hess Totale Patologie Positivo Negativo Ictus 25 7 32 SM 8 / 8 Tumori 6 / 6 Traumi 14 9 23 Cefalee 1 7 8 Miopatie 6 1 7 Neuropatie 8 1 9 Malattie degenerative 2 2 4 Altre diagnosi / 3 3 70 3 0 Tab. 4b: distribuzione della popolazione a seconda del risultato dello schermo di Hess rispetto alle patologie riscontrate Discussione e conclusioni I principali vantaggi dei test strumentali, in particolar modo della prova al filtro rosso e dello schermo di Hess, per la valutazione della diplopia sono rappresentati dal basso costo e dalla rapidità e relativa semplicità di esecuzione/ interpretazione. Rispetto all’esame obiettivo neurologico della motilità oculare, entrambe le prove sono meno gravate dall’interpretazione del paziente e dell’esaminatore, pur essendo tutte valutazioni soggettive in quanto dipendenti dalla risposta dell’esaminato. L’utilizzo del filtro dissociante nella prova al filtro rosso permette di slatentizzare l’effetto diplopico e di valutare più accuratamente nelle varie direzioni di sguardo i parametri “direzione dello sdoppiamento”, “massima distanza fra le luci” e “colore della luce più lontana” che vengono utilizzati per identificare i muscoli colpiti. Nello schermo di Hess l’utilizzo del filtro rosso-verde fa sì che l’esaminato percepisca con ciascun occhio un’immagine diversa in modo tale da poter esaminare in maniera distinta la funzionalità dei muscoli a seconda del lato. L’utilizzo di una mira luminosa gestita dal paziente permette di trasformare in un’immagine visiva sullo schermo quello che il paziente vede nelle varie direzioni di sguardo. Riportando la valutazione su un grafico realizzato dopo l’esecuzione dell’esame è possibile evidenziare chiaramente le ipofunzioni e iperfunzioni dei muscoli oculari in entrambi gli occhi. Da quanto detto, è evidente che rispetto alla valutazione obiettiva (prove di inseguimento di una mira nelle varie direzioni di sguardo in visione mono e binoculare) il paziente ha minori possibilità di influenzare l’esaminatore con le proprie risposte, pertanto è di uso comune nella pratica clinica del neurologo ricorrere alla valutazione ortottica per verificare e definire in maniera precisa un sospetto di strabismo paralitico. Nonostante ciò come si è già detto non esistono studi di validazione della prova al filtro rosso e dello schermo di Hess su popolazioni di soggetti affetti da diplopia. Nel nostro lavoro, i soggetti sono stati reclutati sulla base del sintomo diplopia indipendentemente dalle patologie che potevano averla determinata (di natura neurologica e non) allo scopo di valutare l’accuratezza dei test strumentali in quanto tali. Sulla base di quanto osservato, le prove hanno elevati valori di sensibilità e specificità con differenze non significative fra la prova al filtro rosso, gravata da un maggior numero di falsi positivi e lo schermo di Hess che ha invece un maggior numero di falsi negativi. I valori di sensibilità e specificità dell’EON sono significativamente più bassi rispetto ai test strumentali e la valutazione qualitativa neurologica risulta gravata da un numero molto elevato di falsi negativi. Il VPP di un test rappresenta la percentuale di delle risposte positive che sono veramente tali, cioè esprime la capacità di un test di “misurare” l’evento in esame ed è tanto più elevato quanto più il test è in grado di identificare l’evento stesso.la prova al filtro rosso e lo schermo di Hess hanno un VPP molto più elevato rispetto all’EON. Questa disparità indica un’accuratezza molto maggiore dei test strumentali nell’identificazione di una diplopia “vera” rispetto ad una ”falsa”. La differenza riscontrata fra i valori di VPP dei due test ortottici non è significativa ma suggerisce una maggiore accuratezza diagnostica dello schermo di Hess. Comunque, l’associazione fra EON della motilità oculare e diplopia binoculare con deviazione di sguardo è risultata statisticamente molto significativa (p=0,000). Di conseguenza, la valutazione neurologica dei movimenti oculari può essere considerata molto accurata nella diagnosi d diplopia solo in presenza di una deviazione di sguardo. A conferma di questa differenza sostanziale fra l’esame strumentale e quello clinico-obiettivo, suddividendo i pazienti sulla base delle patologie, abbiamo osservato come entrambe le prove sono risultate positive solo nei soggetti con diplopia binoculare con o senza deviazione di sguardo all’EON e l’associazione è risultata statisticamente significativa per i sottogruppi ictus, sclerosi multipla, miopatie, neuropatie dei nervi cranici e traumi cranici. In particolar modo, nei soggetti affetti da tali patologie, la percentuale di falsi positivi per entrambi i test è approssimabile allo zero e quella di falsi negativi risulta non significativa. Le differenze fra i vari sottogruppi non sono risultate discrete ma interpretabili solo qualitativamente, pertanto non valutabili dal punto di vista statistici. Sebbene l’interpretazione statistica dei dati relativi ai test ortottici nelle singole patologie sia gravata da un errore di dispersione dei valori numerici, è possibile comunque affermare che la prova al filtro rosso e, soprattutto, lo schermo di Hess-Lancaster possono contribuire alla diagnosi di sede ma non forniscono informazioni sulla natura della lesione. Bibliografia 1. Albert D. M., Jakobiec F. A.: Principles and Practice of Ophthalmology. W. B. Saunders Ed., Philadelphia 1995 2. Amideí B.: Hess-Lancaster test for the examination of ocular motility. Ann Oftalmol Clin Ocul 1956; 82 (5): 207-15 3. Andreani D.: Manuale di Neuroftalmologia. Verduci Editore, Roma 2001 4. Batocchi A. P., Evoli A., Majolini L. et al: Ocular palsies in the absence of other neurological or ocular symptoms: analysis of 105 cases. J Neurol 1997; 244 (10): 639-45 5. Burton J. K, Kowal L. F.: Diplopia after refractive surgery. Arch Ophthalmology 2003, vol. 211 6. 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La linea verde funzionerà per due ore e trenta nei giorni feriali dalle ore 10 alle ore 12,30 dal lunedì al venerdì Sarà possibile consultare un medico oculista, al quale esporre il proprio problema ed ottenere i suggerimenti necessari. La speranza è che questa iniziativa contribuisca a diffondere ulteriormente la coscienza della prevenzione, concetto che incontra tutt’ora un non facile accesso nella mentalità civica e soprattutto delle categorie più a rischio (i giovanissimi e gli anziani).