Relazione 15apr07

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LA FAMIGLIA
tra fede, etica e politica
Questa mia riflessione, introduttiva agli altri interventi e al confronto che ne seguirà tra i
partecipanti, si articolerà attorno a questi punti:
1. Il nostro cammino dopo il Convegno ecclesiale di Verona
2. La sfida culturale: crisi delle evidenze etiche
3. Famiglia, valore a cui tendere
4. La sfida dei modelli di convivenza
5. Il compito della Chiesa
6. Parlare o tacere?
1. Il nostro cammino dopo il Convegno ecclesiale di Verona
Mi ha colpito, leggendo o ascoltando alcune voci del Convegno di Verona, la consapevolezza di
sperimentare oggi — come Chiesa — una “distanza culturale” tra la fede cristiana e la mentalità
contemporanea su tanti ambiti della vita quotidiana delle persone: affettività, fragilità, educazione,
lavoro e festa, cittadinanza. E, tuttavia, l’invito condiviso da tutti è quello di non considerare questa
distanza culturale come una sorta di “condanna, disgrazia, fatalità” del nostro tempo, ma al contrario
“occasione, sollecitazione, opportunità” di scelte prioritarie del nostro essere cristiani.
A questo scopo, la Chiesa italiana in questi anni ha deciso di coltivare in modo nuovo e creativo la
caratteristica “popolare” del cristianesimo italiano. “Popolarità” del cristianesimo non significa una
scelta di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente sul territorio, capace di rianimare la
vita quotidiana delle persone, attenta alla vita della città, pronta ad orientare le forme culturali della
coscienza civile.
Resto ogni volta colpito, quando Papa Benedetto XVI richiama i cristiani con insistenza sul fatto
che, prima di dire dei ‘no’, dobbiamo comunicare e testimoniare al mondo una visione positiva
dell’uomo e della stessa fede. “Il Cristianesimo non è un cumulo di proibizioni, ma un’opzione
positiva”: così in un’intervista in preparazione al viaggio in Germania. “Ci vogliono trasformare in
moralisti noiosi”: così ai vescovi della Svizzera in Visita ad Limina. E così pure al recente Convegno
delle Chiese in Italia, a Verona. Non è un caso che Papa Benedetto XVI, nel suo incisivo discorso ai
convegnisti, abbia richiamato proprio sotto il profilo culturale il servizio della Chiesa in Italia alla
nazione, all’Europa e al mondo:
“L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole…
Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come
universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di
laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano
della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare…”.
E proseguiva: “L’Italia però costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza
cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni
età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in atto
un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più
anche alle famiglie… La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e
anzitutto esserne consapevoli… in rapporto alle sfide del nostro tempo”. Quali sfide?
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2. Le sfide culturali
Conviene solo accennare ad alcune delle grandi sfide culturali che tendono a comporre il quadro
globale entro il quale anche l’agire cristiano viene ad essere interpellato.
a) L’individualismo
CHARLES TAYLOR, filosofo canadese cattolico, rileva — tra le caratteristiche del nostro tempo —
il fatto che l’individualismo si stia trasformando in un fenomeno ben più radicale di “atomismo
sociale”. Si fa strada, cioè, la convinzione che i rapporti tra gli individui siano semplicemente “davanti
a noi” e non “alle nostre spalle”, in un passato che ci vincola; di conseguenza, possiamo sceglierli a
partire dal riconoscimento che siamo «atomi autoreferenziali».
L’esito di questo processo autonomistico così inteso è l’anomia, ovvero quella visione che si può
riassumere nel dogma libertario: “Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?”. Tale principio è
continuamente invocato in ogni passaggio strategico nel dibattito che va dalla bioetica ad altri settori.
Ci si sta infatti rendendo conto della ricaduta delle pulsioni libertarie sul tessuto civile e sul vissuto dei
nostri giovani.
Sta quindi maturando, a partire dagli Stati Uniti, la convinzione che stiamo entrando in una
società post-secolare; una società, cioè, segnata da un avvertimento fondamentale: la spinta della
secolarizzazione, una volta diventata secolarismo, si è come trasformata in un solvente che brucia tutti i
legami sociali e che non consente più all’individuo di sentirsi un cittadino, ma un cliente nei confronti
dei poteri pubblici, che reclama dei diritti. Di conseguenza, si tende ad avvertire le istituzioni pubbliche
(non solo politiche: anche la famiglia, la Chiesa, la scuola…) come tendenzialmente oppressive e
mortificanti della libertà.
b) Eclissi delle differenze
Stiamo entrando in un orizzonte culturale nel quale facciamo fatica ad articolare le differenze,
dalle più banali alle più radicali. I ragazzi, in particolare, non sanno cogliere la differenza tra naturale e
artificiale, tra reale e virtuale, tra maschio e femmina. Basti pensare a come i contatti virtuali superino
ormai quelli reali, o a come il dibattito sulle convivenze di fatto mascheri il declassamento della
differenza sessuale ad una qualsiasi differenza somatica, del tutto irrilevante.
La tesi che la differenza sessuale non si fondi su di una realtà biologica, ma sia determinata
solamente dal tipo di educazione ricevuta, è stata sostenuta dal medico statunitense JOHN MONEY, che
nel 1972 sostenne di averne la prova scientifica. La sua teoria è stata accolta con entusiasmo dal
femminismo radicale americano, anche se venne smentita pochi anni più tardi. Si può dire come già nel
1949, SIMONE DE BEAUVOIR, profeticamente, avesse affermato: “donne si diventa, non si nasce”.
Nel frattempo, l’idea che l’identità sessuale fosse frutto solo della costruzione culturale dava
origine alla ideologia del “gender”, tradotta in italiano con la parola “genere”: in sostanza, negare che
le diversità fra donne e uomini siano naturali, e sostenere invece che sono costruite culturalmente,
voleva dire che tali diversità potevano essere modificate, a seconda del desiderio individuale,
configurando così l’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della
vita stessa della persona.
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Anche se si presenta solo come allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le
possibilità di scelta individuale, l’ideologia del “genere”, negando la differenza sessuale, trasforma in
modo definitivo la cultura occidentale, cambiando completamente l’idea di natura e di identità
naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema
antropologico. Non è solo questione di esaudire desideri di singoli, o di gestire degli affetti, ma di
riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano; a questo fine l’ancoraggio fisico della
paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto
irriducibile e strutturante da cui non si deve prescindere.
L’indifferenza alle differenze è esattamente il nome del relativismo. Si tratta di un fenomeno che
diviene particolarmente grave quando si entra in un’epoca di pluralismo culturale. In una società
pluralista culturalmente, se non si dispone di uno strumento razionale per articolare le differenze, si è
portati a concepire la società come un contenitore di “tribù morali” chiuse, che non sono in grado di
dialogare le une con le altre, perché non si riesce a vedere più ciò che accomuna le differenze.
c) La fine della storia
In un celebre libro di FRANCIS FUKUYAMA del 1992, La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui ad
una buona intuizione corrispondeva una declinazione piuttosto semplificata, si afferma che la fine della
storia nasce dall’esaurimento del fine: con l’eclisse di ideologie proiettate verso il futuro viene meno il
senso prospettico del cammino da intraprendere.
Altri indicatori culturali ci aiutano ad approfondire questo fenomeno. Il dibattito sul postmoderno
sottolinea il tema della fine delle “grandi narrazioni” (JEAN-FRANÇOIS LYOTARD). Il fatto stesso di
non riuscire a caratterizzare il nostro tempo se non inserendo il prefisso “post” (post-moderno, postindustriale, post-secolare, post-umano) sta a indicare che non abbiamo un’idea di futuro, o comunque
che l’unica possibilità di definirci è capire in che modo entriamo in rapporto con il nostro passato. Che
ne è allora del futuro?
Il futuro è adesso. Come ha scritto REMO BODEI, “è stata lanciata un’Opa sul futuro e ciascuno si
ritaglia una fetta di cielo”. Qui i giovani ci pongono implicitamente una sfida. Per loro, il “futuro è
adesso”; la storia diventa una biografia, a volte spezzata; è autentico solo ciò che è immediato. Il
grande orizzonte moderno dell’utopia si è banalizzato in quello tecnologico dell’attesa. Non possiamo
non vedere che la differenza tra questi due orizzonti è macroscopica, perché il secondo perde la valenza
salvifica dell’utopia e non riesce a guardare oltre l’immediato.
Ne consegue, come compito educativo nei confronti delle nuove generazioni, una visione della vita
come percorso. Nel momento in cui i rapporti con lo spazio diventano sempre più svincolati (si vive in un
luogo, si passa il weekend in un altro, si va a fare la spesa in un altro ancora …), e in un’età in cui la
cornice spaziale del vivere diventa sempre meno consolidata, è essenziale aiutare i giovani a costruire il
senso della vita come cammino, e non come un cocktail di esperienze slegate tra di loro e
continuamente “resettabili”, nell’illusione di potere sempre ricominciare da zero.
Dovremo qui concentrare l’attenzione e identificare il cuore del problema: come giustificare e come
praticare l’impegno da parte dei cattolici in una società, nella quale sono flebili e diventate labili, quasi in via
di smarrimento, le evidenze etiche? Su questo presupposto non basterà il riferimento alla società, alla
società qualificata come ricca e vivace culturalmente rispetto ad una politica ritenuta invece povera,
perché è proprio nella società che vengono meno e risultano appannate le evidenze etiche.
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3. Famiglia, valore a cui tendere
È ancora diffusa l’idea che, di fronte ai problemi che la società oggi attraversa, sia alla famiglia che
si debba guardare come ad un valore a cui tendere. Chi non ha sentito dire: “La famiglia è il
fondamento della società… è il valore più alto… è la scuola dell’amore…” e così via. Ma la realtà è
un’altra. Toccare i problemi della famiglia è un compito particolarmente difficile. Difficile, non perché
questi problemi non si conoscono, ma perché non si sa come porvi rimedio. Un matrimonio su tre —
forse la percentuale pecca per difetto — finisce in divorzio. Ci sono giovani che hanno parole dure nei
confronti delle loro famiglie: e se avessero ragione? E ci sono d’altra parte genitori che non sanno
quando e come hanno fallito nell’educazione dei figli, per non essere riusciti a trasmettere loro i valori
in cui hanno creduto.
La famiglia è dunque un problema? E il primo problema è quello della definizione stessa di famiglia. Che
cosa è famiglia? Tradizionalmente è il nucleo costruito attorno al rapporto stabile di coppia: uomo e
donna, che vivono insieme nella prospettiva di procreare. Ma questa idea di famiglia starebbe troppo
stretta per alcuni, che propongono di parlare non di unico nodello di famiglia, ma di tanti modelli di
famiglie, tutte accomunate dal fatto di essere “nucleo primario degli affetti e delle relazioni”.
Sicché famiglie sono le diverse forme di convivenza di fatto: coppie che convivono senza sposarsi,
magari dello stesso sesso, tutte accomunate dal fatto di essere nucleo primario di affetti e di relazioni.
Ma accomunate in questo modello affettivo di famiglia domani potrebbero essere annoverate anche le
famiglie poligamiche, le “comuni” di sessantottina memoria.
La famiglia è un problema, ma è anche una risorsa, un valore a cui tendere. Il motivo è che la
famiglia svolge una funzione immensa a favore della società e quindi la società ha tutto l’interesse a
sostenerla. È come dire: “cara famiglia, la nostra società riconosce di ricevere molto da te; è giusto che,
per quanto è possibile, ti aiutiamo a vivere”. Ma non basta. Non si tratta solo di un contributo
economico rilevantissimo che la famiglia offre alla società: offre dei figli cresciuti in un ambiente che ha
offerto loro serenità, non solo funziona da buon ammortizzatore sociale in caso di disoccupazione
giovanile.
Vorrei ricordare che, senza figli, la società non esiste; che, se non ci sono dei giovani, gli anziani
non hanno chi li curi; che l’educazione di un bambino è un contributo rilevantissimo che la famiglia
offre alla società. Avere dei ragazzi con pochi “buchi” nel cuore, con un passato accettabile, con una
fiducia di fondo nei confronti del futuro è un beneficio di cui la società ha bisogno più di ogni altra
cosa.
Sostenere la famiglia presso le nuove generazioni non è allora solo un problema pastorale. Certo è
compito della Chiesa — non solo dei vescovi e dei parroci, ma di ogni famiglia, educatore, associazione
che ha a cuore la trasmissione del valore della famiglia — educare le coscienze e illuminarle,
presentando ai giovani le ragioni che rendono ineguagliabilmente bella la scelta di un sacramento che
esalta il dono di sé nella fedeltà e nell’amore responsabile tra un uomo e una donna.
Sì, come cristiani la famiglia ci sta a cuore. Non perché, come sospetta qualcuno, attraverso il
modello tradizionale di famiglia la Chiesa voglia continuare a esercitare un potere sulle coscienze. Io,
come uomo di Chiesa, mi vergognerei se fosse così. Ma il problema è anche sociale e culturale, per non dire
politico. Sostenere e difendere il modello di famiglia, secondo il dettato stesso della Costituzione
italiana (art. 29), riguarda anche chi ha responsabilità civili e politiche, in particolare coloro che in
questo ambito si sono impegnati politicamente a tutelare i diritti e i doveri dei più deboli.
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Oggi, vista la tendenza crescente a forme diverse di convivenza, “culturalmente” più debole
diventa il modello di famiglia fondato sul matrimonio. E le statistiche — sui giornali di questi giorni
con qualche compiacimento — non mancano di rimbalzare in questo senso. Mi chiedo perciò se non
sia un preciso dovere della politica — ripeto — quello di non ignorare questa debolezza della famiglia,
che emerge dalla attuale realtà sociale, per non dire marginalità, nella quale la famiglia tuttora è
confinata.
Se invece ha ancora senso parlare di cittadinanza della famiglia come di un bene comune che ci sta
a cuore in quanto tale, la politica della famiglia — vista più come risorsa e protagonista, e non come
pura e semplice destinataria di servizi — non può non avere precedenza sul resto: precedenza anche nei
tempi di intervento, e comunque come criterio per valutare o misurare ogni altro intervento.
4. La sfida dei modelli di convivenza
Da quanto precede, risulta che solo nel contesto di una vera e autentica politica familiare, nel senso
ora indicato, può avere spazio la considerazione dei problemi personali e sociali connessi alle unioni di
fatto. L’esistenza stessa di queste situazioni, infatti, anche a prescindere dalla loro consistenza numerica
e dalla loro notevole diversificazione, ha un evidente risvolto sociale, sia sulle coppie e famiglie, sia
sulla società come tale. Non è possibile non affrontare i problemi che vengono sollevati da queste
situazioni: tutti, anche se in modi diversi, siamo coinvolti e quindi impegnati.
La diffusione delle unioni di fatto e delle unioni tra persone dello stesso sesso pone oggi un
problema al legislatore, diviso tra l’esigenza di fare i conti con l’evoluzione del costume verso modelli
di convivenza e l’esigenza di un ancoraggio etico-sociale. Il primo e fondamentale riferimento per
l’ordinamento italiano, e dunque per le pubbliche autorità, è rappresentato, come già detto, dalla
Costituzione, in particolare dagli articoli 29.30.31: “La famiglia è una società naturale fondata sul
matrimonio”, recita l’art. 29. Merita notare che la locuzione “società naturale” sia stata voluta da
Togliatti; furono poi A. Moro e C. Mortati a esplicitarne il senso.
Il carattere originario della società familiare, precedente allo Stato, prescrive perciò allo Stato
stesso una "zona di rispetto”, lo impegna a “inchinarsi” alla sua autonomia. Se ne ricava anche il
cosiddetto “favor familiæ”, confermato dalla giurisprudenza costituzionale. A fronte di questa tradizione
giuridica, la tendenza oggi è quella di riconoscere analoghi “diritti” alle cosiddette unioni di fatto.
L’aspetto prevalente nel dibattito attuale, se non esclusivo, sembra essere quello di una
regolamentazione giuridica di questo fenomeno che aiuti le persone che lo vivono. Ora non può non
preoccuparci il clima di confusione, anzi di deformazione che sta caratterizzando il dibattito. Non è
esagerato — penso — parlare di “deformazione”, se guardiamo, anzi tutto, alla forte politicizzazione, che
tende a spostare i termini stessi del problema: in primo piano non sta la questione delle unioni di fatto,
ma quella degli schieramenti politici, sia al loro interno sia nel loro rapporto.
Di “deformazione” poi si deve parlare per la forte spinta culturale di un radicale “soggettivismo” e
“individualismo”, che, da un lato, ritiene “diritto” ciò che è “desiderio”, e dall’altro giunge a negare la
rilevanza personale e sociale della differenza e complementarità sessuale. L’esito di questa spinta
culturale è la richiesta, più o meno mascherata, di dare riconoscimento pubblico alle unioni
omosessuali.
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Non si può negare che a diffondere e a rafforzare una simile “deformazione” contribuiscono in
maniera rilevante gli strumenti della comunicazione sociale ogniqualvolta derogano al loro dovere di
fornire un’informazione libera e corretta, e finiscono per essere succubi degli interessi del “potere”
economico, politico e culturale. Il rischio che si corre è di giungere ad una “strumentalizzazione” di un
preciso fenomeno sociale per fini ben diversi dal dichiarato intento di dare risposta — anche giuridicolegale — a disagi e a richieste dei conviventi.
5. Il compito della Chiesa
In questo clima confuso e deformato, gli stessi interventi del Papa e della Conferenza Episcopale Italiana
sono spesso accolti, in particolare dai media, nella logica di volere a tutti i costi determinarne una
collocazione politica. Così si dimentica che il loro senso preciso è quello di richiamare a quei valori
etici fondamentali che si presentano come particolarmente urgenti nelle circostanze attuali e a favorire
un preciso giudizio storico.
Una conseguenza quanto mai facile di tutto ciò, è il fatto che anche i credenti possono essere tentati di
inserirsi in questa stessa logica, così che il clima di contrapposizione spesso frontale, di divisione, di
sospetto può contagiare non poco il vissuto delle nostre comunità cristiane, minacciando di ostacolare
il cammino ecclesiale di obbedienza alla verità, di confronto e di dialogo nel rispetto di tutte le persone,
di crescita nella comunione. La qualità etica della politica non può derivare solo dalla responsabilità di
chi governa, ma anche dalla responsabilità di chi è governato.
Dobbiamo quindi impegnarci tutti a uscire da prospettive ristrette e distorcenti: con la vigilanza
morale, il ricupero della razionalità umana, l’esercizio di un paziente e coraggioso discernimento su
quanto è veramente necessario e utile per le sorti della famiglia e della società, nel rispetto della dignità
della persona. È inoltre da rilanciare con convinzione e forza l’inscindibile legame tra verità e carità, tra
ideale normativo e cammino esistenziale verso di esso.
Oltre il “clima”, si pone il tema del “contenuto” degli interventi che la società, e in essa la politica,
elabora per affrontare la problematica delle unioni di fatto, in particolare dei tentativi, attraverso varie
proposte di legge, per una loro regolamentazione giuridica. L’interrogativo riguarda il “come”, a quali
condizioni e verso chi deve attuarsi tale intervento: a prescindere da una concreta attenzione globale e
complessiva ai valori e alle esigenze della famiglia? Riconoscendo uno “status” giuridico analogo a
quello della famiglia?
Personalmente ritengo che a queste domande si debba rispondere negativamente. I diritti e i doveri
delle singole persone che convivono possono essere infatti adeguatamente regolamentati ricorrendo al
diritto comune e ad eventuali modifiche della normativa civilistica. A queste domande ha comunque
dato una autorevole risposta la “Nota del Consiglio permanente a riguardo della famiglia fondata sul
matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto” del 28 marzo scorso.
6. Parlare o tacere?
Si è rimproverato alla Chiesa di parlare solo attraverso gli esponenti della Gerarchia, sollevando
ancora una volta il contenzioso tra clero e laici nella Chiesa, tra pastori e fedeli, che esige di determinare
ciò che è proprio del Magistero e ciò che è proprio dei laici. Questo a me sembra un problema che
dovrebbe essere ormai accantonato a partire da una duplice considerazione.
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Anzitutto, alla luce della Christifideles laici (n. 15) di Giovanni Paolo II, e della riflessione teologicopastorale che ha propiziato il chiarimento, è superata l’idea di attribuire soltanto ai laici, cioè alle
persone cristiane laiche, la caratteristica di laicità. È una concezione, infatti, assolutamente ingenua. Si
deve intendere piuttosto che ogni cristiano qualunque sia la sua condizione – compresa la condizione
derivante dall’ordine episcopale/presbiterale – debba pensare e sappia pensare il proprio stato in
termini di laicità.
Inoltre, alla luce della Octogesima adveniens (n. 4) di Paolo VI, la Chiesa è una, e costituita da tutte
le sue componenti. Conseguentemente, la Chiesa non può non procedere da questa coscienza
dell’unità, per cui sono giustificati anche gli interventi e le direttive del Magistero. È invece ancora
abbastanza spontaneo dividere l’unica missione in diversi campi, quasi in una sorta di lottizzazione: ai
preti la predicazione del Vangelo, ai monaci la preghiera, e, naturalmente, ai laici l’impegno nel
mondo. Certo, sarà scorretto che il vescovo dia delle direttive, isolato dalla propria Chiesa, e quindi
anche dai cristiani laici. Sarebbe una prassi scorretta, non giustificabile in teoria.
Non possiamo nasconderci le difficoltà nell’esercizio concreto di questo “discernimento
comunitario”, come sollecitava il Convegno ecclesiale di Palermo già nel 1995: “È difficile per tutti, in
presenza di opzioni culturali diverse, fare scelte coerenti con la fede che si professa; essere cristiani nel fare politica
esige confronto e discernimento. Siamo carenti di prassi al riguardo, e la Chiesa deve costruire spazi per rispondere a
queste esigenze. Anche perché è urgente evitare che la pluralità di opzioni si risolva nella deriva di una diaspora
dispersiva, oppure le divisioni politiche si ripercuotano sull’unità delle comunità cristiane”.
Si corre il rischio che l’esito della “diaspora politica dei cattolici” concorra alla relativa eclissi dei
valori del Cristianesimo politico e sociale, o almeno ad una loro minore visibilità, in una stagione che
vede invece, dopo la riduzione della religione a “faccenda privata” (T. LUCKMANN, La religione
invisibile), il ritorno alla dimensione pubblica della religione in democrazia (C. GEERTZ, Mondo globale,
mondi locali).
Concludendo, qui è in gioco la capacità del mondo cattolico di rappresentare i valori di fondo che
attraversano il sentire di un popolo, riattualizzandoli con proposte in grado di interpellare a fondo le
coscienze. Si tratta di superare una fase solo difensiva per accentuare la dimensione propositiva: un
invito ai cattolici ad essere più propositivi sembra venire dagli stessi intellettuali non cattolici.
Un bel momento per i cattolici? Sì. Anche a questo proposito è opportuno un dibattito più diffuso
nel Paese, in particolare tra il mondo cattolico. È argomento che riguarda il destino delle persone, e
non può essere oggetto solo di un modello preparato dal legislatore.
+ Adriano VESCOVO
Reggio Emilia, 15 aprile 2007 — Intervento alla Giornata di incontro delle Aggregazioni laicali, Associazioni,
Movimenti, Centri culturali, Forum delle Famiglie, Consultorio diocesano e responsabili dell’Ufficio di Pastorale
familiare
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BIBLIOGRAFIA
-
F. G. BRAMBILLA, Partenza da Verona, la Chiesa italiana dopo il convegno, in «Rivista del clero»,
novembre 2006.
-
L. ALICI, Crisi dell’antropologia e infinito della persona, Intervento al VII Forum del Progetto
culturale, Roma 2-3 dicembre 2005, ripreso nel recente Convegno nazionale assistenti AC,
Roma 6 febbraio 2007; cfr. anche AA. VV., Identità e genere, in «Quaderni di Scienza & Vita» 2,
marzo 2007.
-
A. CAPRIOLI, Uscire dal tempio: il cristiano nel mondo, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia
2000. Si veda anche A. CAPRIOLI - L. VACCARO (a cura di), Diritto, morale e consenso sociale,
Convegno europeo promosso dalla “Fondazione ambrosiana Paolo VI”, Morcelliana, Brescia
1989, come pure ID., Il cristiano e la politica, Morcelliana, Brescia 1994.
-
CARD. D. TETTAMANZI, Famiglia, trasmissione della fede e unioni di fatto. Intervento al Consiglio
pastorale diocesano di Milano del 17-18 febbraio 2007.
-
CEI, Nota del Consiglio Permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative
legislative in materia di unioni di fatto, 28 marzo 2007.
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