LA FAMIGLIA tra fede, etica e politica Questa mia riflessione, introduttiva agli altri interventi e al confronto che ne seguirà tra i partecipanti, si articolerà attorno a questi punti: 1. Il nostro cammino dopo il Convegno ecclesiale di Verona 2. La sfida culturale: crisi delle evidenze etiche 3. Famiglia, valore a cui tendere 4. La sfida dei modelli di convivenza 5. Il compito della Chiesa 6. Parlare o tacere? 1. Il nostro cammino dopo il Convegno ecclesiale di Verona Mi ha colpito, leggendo o ascoltando alcune voci del Convegno di Verona, la consapevolezza di sperimentare oggi — come Chiesa — una “distanza culturale” tra la fede cristiana e la mentalità contemporanea su tanti ambiti della vita quotidiana delle persone: affettività, fragilità, educazione, lavoro e festa, cittadinanza. E, tuttavia, l’invito condiviso da tutti è quello di non considerare questa distanza culturale come una sorta di “condanna, disgrazia, fatalità” del nostro tempo, ma al contrario “occasione, sollecitazione, opportunità” di scelte prioritarie del nostro essere cristiani. A questo scopo, la Chiesa italiana in questi anni ha deciso di coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica “popolare” del cristianesimo italiano. “Popolarità” del cristianesimo non significa una scelta di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente sul territorio, capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, attenta alla vita della città, pronta ad orientare le forme culturali della coscienza civile. Resto ogni volta colpito, quando Papa Benedetto XVI richiama i cristiani con insistenza sul fatto che, prima di dire dei ‘no’, dobbiamo comunicare e testimoniare al mondo una visione positiva dell’uomo e della stessa fede. “Il Cristianesimo non è un cumulo di proibizioni, ma un’opzione positiva”: così in un’intervista in preparazione al viaggio in Germania. “Ci vogliono trasformare in moralisti noiosi”: così ai vescovi della Svizzera in Visita ad Limina. E così pure al recente Convegno delle Chiese in Italia, a Verona. Non è un caso che Papa Benedetto XVI, nel suo incisivo discorso ai convegnisti, abbia richiamato proprio sotto il profilo culturale il servizio della Chiesa in Italia alla nazione, all’Europa e al mondo: “L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole… Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare…”. E proseguiva: “L’Italia però costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in atto un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie… La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto esserne consapevoli… in rapporto alle sfide del nostro tempo”. Quali sfide? –2– 2. Le sfide culturali Conviene solo accennare ad alcune delle grandi sfide culturali che tendono a comporre il quadro globale entro il quale anche l’agire cristiano viene ad essere interpellato. a) L’individualismo CHARLES TAYLOR, filosofo canadese cattolico, rileva — tra le caratteristiche del nostro tempo — il fatto che l’individualismo si stia trasformando in un fenomeno ben più radicale di “atomismo sociale”. Si fa strada, cioè, la convinzione che i rapporti tra gli individui siano semplicemente “davanti a noi” e non “alle nostre spalle”, in un passato che ci vincola; di conseguenza, possiamo sceglierli a partire dal riconoscimento che siamo «atomi autoreferenziali». L’esito di questo processo autonomistico così inteso è l’anomia, ovvero quella visione che si può riassumere nel dogma libertario: “Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?”. Tale principio è continuamente invocato in ogni passaggio strategico nel dibattito che va dalla bioetica ad altri settori. Ci si sta infatti rendendo conto della ricaduta delle pulsioni libertarie sul tessuto civile e sul vissuto dei nostri giovani. Sta quindi maturando, a partire dagli Stati Uniti, la convinzione che stiamo entrando in una società post-secolare; una società, cioè, segnata da un avvertimento fondamentale: la spinta della secolarizzazione, una volta diventata secolarismo, si è come trasformata in un solvente che brucia tutti i legami sociali e che non consente più all’individuo di sentirsi un cittadino, ma un cliente nei confronti dei poteri pubblici, che reclama dei diritti. Di conseguenza, si tende ad avvertire le istituzioni pubbliche (non solo politiche: anche la famiglia, la Chiesa, la scuola…) come tendenzialmente oppressive e mortificanti della libertà. b) Eclissi delle differenze Stiamo entrando in un orizzonte culturale nel quale facciamo fatica ad articolare le differenze, dalle più banali alle più radicali. I ragazzi, in particolare, non sanno cogliere la differenza tra naturale e artificiale, tra reale e virtuale, tra maschio e femmina. Basti pensare a come i contatti virtuali superino ormai quelli reali, o a come il dibattito sulle convivenze di fatto mascheri il declassamento della differenza sessuale ad una qualsiasi differenza somatica, del tutto irrilevante. La tesi che la differenza sessuale non si fondi su di una realtà biologica, ma sia determinata solamente dal tipo di educazione ricevuta, è stata sostenuta dal medico statunitense JOHN MONEY, che nel 1972 sostenne di averne la prova scientifica. La sua teoria è stata accolta con entusiasmo dal femminismo radicale americano, anche se venne smentita pochi anni più tardi. Si può dire come già nel 1949, SIMONE DE BEAUVOIR, profeticamente, avesse affermato: “donne si diventa, non si nasce”. Nel frattempo, l’idea che l’identità sessuale fosse frutto solo della costruzione culturale dava origine alla ideologia del “gender”, tradotta in italiano con la parola “genere”: in sostanza, negare che le diversità fra donne e uomini siano naturali, e sostenere invece che sono costruite culturalmente, voleva dire che tali diversità potevano essere modificate, a seconda del desiderio individuale, configurando così l’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita stessa della persona. –3– Anche se si presenta solo come allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le possibilità di scelta individuale, l’ideologia del “genere”, negando la differenza sessuale, trasforma in modo definitivo la cultura occidentale, cambiando completamente l’idea di natura e di identità naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema antropologico. Non è solo questione di esaudire desideri di singoli, o di gestire degli affetti, ma di riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano; a questo fine l’ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto irriducibile e strutturante da cui non si deve prescindere. L’indifferenza alle differenze è esattamente il nome del relativismo. Si tratta di un fenomeno che diviene particolarmente grave quando si entra in un’epoca di pluralismo culturale. In una società pluralista culturalmente, se non si dispone di uno strumento razionale per articolare le differenze, si è portati a concepire la società come un contenitore di “tribù morali” chiuse, che non sono in grado di dialogare le une con le altre, perché non si riesce a vedere più ciò che accomuna le differenze. c) La fine della storia In un celebre libro di FRANCIS FUKUYAMA del 1992, La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui ad una buona intuizione corrispondeva una declinazione piuttosto semplificata, si afferma che la fine della storia nasce dall’esaurimento del fine: con l’eclisse di ideologie proiettate verso il futuro viene meno il senso prospettico del cammino da intraprendere. Altri indicatori culturali ci aiutano ad approfondire questo fenomeno. Il dibattito sul postmoderno sottolinea il tema della fine delle “grandi narrazioni” (JEAN-FRANÇOIS LYOTARD). Il fatto stesso di non riuscire a caratterizzare il nostro tempo se non inserendo il prefisso “post” (post-moderno, postindustriale, post-secolare, post-umano) sta a indicare che non abbiamo un’idea di futuro, o comunque che l’unica possibilità di definirci è capire in che modo entriamo in rapporto con il nostro passato. Che ne è allora del futuro? Il futuro è adesso. Come ha scritto REMO BODEI, “è stata lanciata un’Opa sul futuro e ciascuno si ritaglia una fetta di cielo”. Qui i giovani ci pongono implicitamente una sfida. Per loro, il “futuro è adesso”; la storia diventa una biografia, a volte spezzata; è autentico solo ciò che è immediato. Il grande orizzonte moderno dell’utopia si è banalizzato in quello tecnologico dell’attesa. Non possiamo non vedere che la differenza tra questi due orizzonti è macroscopica, perché il secondo perde la valenza salvifica dell’utopia e non riesce a guardare oltre l’immediato. Ne consegue, come compito educativo nei confronti delle nuove generazioni, una visione della vita come percorso. Nel momento in cui i rapporti con lo spazio diventano sempre più svincolati (si vive in un luogo, si passa il weekend in un altro, si va a fare la spesa in un altro ancora …), e in un’età in cui la cornice spaziale del vivere diventa sempre meno consolidata, è essenziale aiutare i giovani a costruire il senso della vita come cammino, e non come un cocktail di esperienze slegate tra di loro e continuamente “resettabili”, nell’illusione di potere sempre ricominciare da zero. Dovremo qui concentrare l’attenzione e identificare il cuore del problema: come giustificare e come praticare l’impegno da parte dei cattolici in una società, nella quale sono flebili e diventate labili, quasi in via di smarrimento, le evidenze etiche? Su questo presupposto non basterà il riferimento alla società, alla società qualificata come ricca e vivace culturalmente rispetto ad una politica ritenuta invece povera, perché è proprio nella società che vengono meno e risultano appannate le evidenze etiche. –4– 3. Famiglia, valore a cui tendere È ancora diffusa l’idea che, di fronte ai problemi che la società oggi attraversa, sia alla famiglia che si debba guardare come ad un valore a cui tendere. Chi non ha sentito dire: “La famiglia è il fondamento della società… è il valore più alto… è la scuola dell’amore…” e così via. Ma la realtà è un’altra. Toccare i problemi della famiglia è un compito particolarmente difficile. Difficile, non perché questi problemi non si conoscono, ma perché non si sa come porvi rimedio. Un matrimonio su tre — forse la percentuale pecca per difetto — finisce in divorzio. Ci sono giovani che hanno parole dure nei confronti delle loro famiglie: e se avessero ragione? E ci sono d’altra parte genitori che non sanno quando e come hanno fallito nell’educazione dei figli, per non essere riusciti a trasmettere loro i valori in cui hanno creduto. La famiglia è dunque un problema? E il primo problema è quello della definizione stessa di famiglia. Che cosa è famiglia? Tradizionalmente è il nucleo costruito attorno al rapporto stabile di coppia: uomo e donna, che vivono insieme nella prospettiva di procreare. Ma questa idea di famiglia starebbe troppo stretta per alcuni, che propongono di parlare non di unico nodello di famiglia, ma di tanti modelli di famiglie, tutte accomunate dal fatto di essere “nucleo primario degli affetti e delle relazioni”. Sicché famiglie sono le diverse forme di convivenza di fatto: coppie che convivono senza sposarsi, magari dello stesso sesso, tutte accomunate dal fatto di essere nucleo primario di affetti e di relazioni. Ma accomunate in questo modello affettivo di famiglia domani potrebbero essere annoverate anche le famiglie poligamiche, le “comuni” di sessantottina memoria. La famiglia è un problema, ma è anche una risorsa, un valore a cui tendere. Il motivo è che la famiglia svolge una funzione immensa a favore della società e quindi la società ha tutto l’interesse a sostenerla. È come dire: “cara famiglia, la nostra società riconosce di ricevere molto da te; è giusto che, per quanto è possibile, ti aiutiamo a vivere”. Ma non basta. Non si tratta solo di un contributo economico rilevantissimo che la famiglia offre alla società: offre dei figli cresciuti in un ambiente che ha offerto loro serenità, non solo funziona da buon ammortizzatore sociale in caso di disoccupazione giovanile. Vorrei ricordare che, senza figli, la società non esiste; che, se non ci sono dei giovani, gli anziani non hanno chi li curi; che l’educazione di un bambino è un contributo rilevantissimo che la famiglia offre alla società. Avere dei ragazzi con pochi “buchi” nel cuore, con un passato accettabile, con una fiducia di fondo nei confronti del futuro è un beneficio di cui la società ha bisogno più di ogni altra cosa. Sostenere la famiglia presso le nuove generazioni non è allora solo un problema pastorale. Certo è compito della Chiesa — non solo dei vescovi e dei parroci, ma di ogni famiglia, educatore, associazione che ha a cuore la trasmissione del valore della famiglia — educare le coscienze e illuminarle, presentando ai giovani le ragioni che rendono ineguagliabilmente bella la scelta di un sacramento che esalta il dono di sé nella fedeltà e nell’amore responsabile tra un uomo e una donna. Sì, come cristiani la famiglia ci sta a cuore. Non perché, come sospetta qualcuno, attraverso il modello tradizionale di famiglia la Chiesa voglia continuare a esercitare un potere sulle coscienze. Io, come uomo di Chiesa, mi vergognerei se fosse così. Ma il problema è anche sociale e culturale, per non dire politico. Sostenere e difendere il modello di famiglia, secondo il dettato stesso della Costituzione italiana (art. 29), riguarda anche chi ha responsabilità civili e politiche, in particolare coloro che in questo ambito si sono impegnati politicamente a tutelare i diritti e i doveri dei più deboli. –5– Oggi, vista la tendenza crescente a forme diverse di convivenza, “culturalmente” più debole diventa il modello di famiglia fondato sul matrimonio. E le statistiche — sui giornali di questi giorni con qualche compiacimento — non mancano di rimbalzare in questo senso. Mi chiedo perciò se non sia un preciso dovere della politica — ripeto — quello di non ignorare questa debolezza della famiglia, che emerge dalla attuale realtà sociale, per non dire marginalità, nella quale la famiglia tuttora è confinata. Se invece ha ancora senso parlare di cittadinanza della famiglia come di un bene comune che ci sta a cuore in quanto tale, la politica della famiglia — vista più come risorsa e protagonista, e non come pura e semplice destinataria di servizi — non può non avere precedenza sul resto: precedenza anche nei tempi di intervento, e comunque come criterio per valutare o misurare ogni altro intervento. 4. La sfida dei modelli di convivenza Da quanto precede, risulta che solo nel contesto di una vera e autentica politica familiare, nel senso ora indicato, può avere spazio la considerazione dei problemi personali e sociali connessi alle unioni di fatto. L’esistenza stessa di queste situazioni, infatti, anche a prescindere dalla loro consistenza numerica e dalla loro notevole diversificazione, ha un evidente risvolto sociale, sia sulle coppie e famiglie, sia sulla società come tale. Non è possibile non affrontare i problemi che vengono sollevati da queste situazioni: tutti, anche se in modi diversi, siamo coinvolti e quindi impegnati. La diffusione delle unioni di fatto e delle unioni tra persone dello stesso sesso pone oggi un problema al legislatore, diviso tra l’esigenza di fare i conti con l’evoluzione del costume verso modelli di convivenza e l’esigenza di un ancoraggio etico-sociale. Il primo e fondamentale riferimento per l’ordinamento italiano, e dunque per le pubbliche autorità, è rappresentato, come già detto, dalla Costituzione, in particolare dagli articoli 29.30.31: “La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”, recita l’art. 29. Merita notare che la locuzione “società naturale” sia stata voluta da Togliatti; furono poi A. Moro e C. Mortati a esplicitarne il senso. Il carattere originario della società familiare, precedente allo Stato, prescrive perciò allo Stato stesso una "zona di rispetto”, lo impegna a “inchinarsi” alla sua autonomia. Se ne ricava anche il cosiddetto “favor familiæ”, confermato dalla giurisprudenza costituzionale. A fronte di questa tradizione giuridica, la tendenza oggi è quella di riconoscere analoghi “diritti” alle cosiddette unioni di fatto. L’aspetto prevalente nel dibattito attuale, se non esclusivo, sembra essere quello di una regolamentazione giuridica di questo fenomeno che aiuti le persone che lo vivono. Ora non può non preoccuparci il clima di confusione, anzi di deformazione che sta caratterizzando il dibattito. Non è esagerato — penso — parlare di “deformazione”, se guardiamo, anzi tutto, alla forte politicizzazione, che tende a spostare i termini stessi del problema: in primo piano non sta la questione delle unioni di fatto, ma quella degli schieramenti politici, sia al loro interno sia nel loro rapporto. Di “deformazione” poi si deve parlare per la forte spinta culturale di un radicale “soggettivismo” e “individualismo”, che, da un lato, ritiene “diritto” ciò che è “desiderio”, e dall’altro giunge a negare la rilevanza personale e sociale della differenza e complementarità sessuale. L’esito di questa spinta culturale è la richiesta, più o meno mascherata, di dare riconoscimento pubblico alle unioni omosessuali. –6– Non si può negare che a diffondere e a rafforzare una simile “deformazione” contribuiscono in maniera rilevante gli strumenti della comunicazione sociale ogniqualvolta derogano al loro dovere di fornire un’informazione libera e corretta, e finiscono per essere succubi degli interessi del “potere” economico, politico e culturale. Il rischio che si corre è di giungere ad una “strumentalizzazione” di un preciso fenomeno sociale per fini ben diversi dal dichiarato intento di dare risposta — anche giuridicolegale — a disagi e a richieste dei conviventi. 5. Il compito della Chiesa In questo clima confuso e deformato, gli stessi interventi del Papa e della Conferenza Episcopale Italiana sono spesso accolti, in particolare dai media, nella logica di volere a tutti i costi determinarne una collocazione politica. Così si dimentica che il loro senso preciso è quello di richiamare a quei valori etici fondamentali che si presentano come particolarmente urgenti nelle circostanze attuali e a favorire un preciso giudizio storico. Una conseguenza quanto mai facile di tutto ciò, è il fatto che anche i credenti possono essere tentati di inserirsi in questa stessa logica, così che il clima di contrapposizione spesso frontale, di divisione, di sospetto può contagiare non poco il vissuto delle nostre comunità cristiane, minacciando di ostacolare il cammino ecclesiale di obbedienza alla verità, di confronto e di dialogo nel rispetto di tutte le persone, di crescita nella comunione. La qualità etica della politica non può derivare solo dalla responsabilità di chi governa, ma anche dalla responsabilità di chi è governato. Dobbiamo quindi impegnarci tutti a uscire da prospettive ristrette e distorcenti: con la vigilanza morale, il ricupero della razionalità umana, l’esercizio di un paziente e coraggioso discernimento su quanto è veramente necessario e utile per le sorti della famiglia e della società, nel rispetto della dignità della persona. È inoltre da rilanciare con convinzione e forza l’inscindibile legame tra verità e carità, tra ideale normativo e cammino esistenziale verso di esso. Oltre il “clima”, si pone il tema del “contenuto” degli interventi che la società, e in essa la politica, elabora per affrontare la problematica delle unioni di fatto, in particolare dei tentativi, attraverso varie proposte di legge, per una loro regolamentazione giuridica. L’interrogativo riguarda il “come”, a quali condizioni e verso chi deve attuarsi tale intervento: a prescindere da una concreta attenzione globale e complessiva ai valori e alle esigenze della famiglia? Riconoscendo uno “status” giuridico analogo a quello della famiglia? Personalmente ritengo che a queste domande si debba rispondere negativamente. I diritti e i doveri delle singole persone che convivono possono essere infatti adeguatamente regolamentati ricorrendo al diritto comune e ad eventuali modifiche della normativa civilistica. A queste domande ha comunque dato una autorevole risposta la “Nota del Consiglio permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto” del 28 marzo scorso. 6. Parlare o tacere? Si è rimproverato alla Chiesa di parlare solo attraverso gli esponenti della Gerarchia, sollevando ancora una volta il contenzioso tra clero e laici nella Chiesa, tra pastori e fedeli, che esige di determinare ciò che è proprio del Magistero e ciò che è proprio dei laici. Questo a me sembra un problema che dovrebbe essere ormai accantonato a partire da una duplice considerazione. –7– Anzitutto, alla luce della Christifideles laici (n. 15) di Giovanni Paolo II, e della riflessione teologicopastorale che ha propiziato il chiarimento, è superata l’idea di attribuire soltanto ai laici, cioè alle persone cristiane laiche, la caratteristica di laicità. È una concezione, infatti, assolutamente ingenua. Si deve intendere piuttosto che ogni cristiano qualunque sia la sua condizione – compresa la condizione derivante dall’ordine episcopale/presbiterale – debba pensare e sappia pensare il proprio stato in termini di laicità. Inoltre, alla luce della Octogesima adveniens (n. 4) di Paolo VI, la Chiesa è una, e costituita da tutte le sue componenti. Conseguentemente, la Chiesa non può non procedere da questa coscienza dell’unità, per cui sono giustificati anche gli interventi e le direttive del Magistero. È invece ancora abbastanza spontaneo dividere l’unica missione in diversi campi, quasi in una sorta di lottizzazione: ai preti la predicazione del Vangelo, ai monaci la preghiera, e, naturalmente, ai laici l’impegno nel mondo. Certo, sarà scorretto che il vescovo dia delle direttive, isolato dalla propria Chiesa, e quindi anche dai cristiani laici. Sarebbe una prassi scorretta, non giustificabile in teoria. Non possiamo nasconderci le difficoltà nell’esercizio concreto di questo “discernimento comunitario”, come sollecitava il Convegno ecclesiale di Palermo già nel 1995: “È difficile per tutti, in presenza di opzioni culturali diverse, fare scelte coerenti con la fede che si professa; essere cristiani nel fare politica esige confronto e discernimento. Siamo carenti di prassi al riguardo, e la Chiesa deve costruire spazi per rispondere a queste esigenze. Anche perché è urgente evitare che la pluralità di opzioni si risolva nella deriva di una diaspora dispersiva, oppure le divisioni politiche si ripercuotano sull’unità delle comunità cristiane”. Si corre il rischio che l’esito della “diaspora politica dei cattolici” concorra alla relativa eclissi dei valori del Cristianesimo politico e sociale, o almeno ad una loro minore visibilità, in una stagione che vede invece, dopo la riduzione della religione a “faccenda privata” (T. LUCKMANN, La religione invisibile), il ritorno alla dimensione pubblica della religione in democrazia (C. GEERTZ, Mondo globale, mondi locali). Concludendo, qui è in gioco la capacità del mondo cattolico di rappresentare i valori di fondo che attraversano il sentire di un popolo, riattualizzandoli con proposte in grado di interpellare a fondo le coscienze. Si tratta di superare una fase solo difensiva per accentuare la dimensione propositiva: un invito ai cattolici ad essere più propositivi sembra venire dagli stessi intellettuali non cattolici. Un bel momento per i cattolici? Sì. Anche a questo proposito è opportuno un dibattito più diffuso nel Paese, in particolare tra il mondo cattolico. È argomento che riguarda il destino delle persone, e non può essere oggetto solo di un modello preparato dal legislatore. + Adriano VESCOVO Reggio Emilia, 15 aprile 2007 — Intervento alla Giornata di incontro delle Aggregazioni laicali, Associazioni, Movimenti, Centri culturali, Forum delle Famiglie, Consultorio diocesano e responsabili dell’Ufficio di Pastorale familiare –8– _______________ BIBLIOGRAFIA - F. G. BRAMBILLA, Partenza da Verona, la Chiesa italiana dopo il convegno, in «Rivista del clero», novembre 2006. - L. ALICI, Crisi dell’antropologia e infinito della persona, Intervento al VII Forum del Progetto culturale, Roma 2-3 dicembre 2005, ripreso nel recente Convegno nazionale assistenti AC, Roma 6 febbraio 2007; cfr. anche AA. VV., Identità e genere, in «Quaderni di Scienza & Vita» 2, marzo 2007. - A. CAPRIOLI, Uscire dal tempio: il cristiano nel mondo, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2000. Si veda anche A. CAPRIOLI - L. VACCARO (a cura di), Diritto, morale e consenso sociale, Convegno europeo promosso dalla “Fondazione ambrosiana Paolo VI”, Morcelliana, Brescia 1989, come pure ID., Il cristiano e la politica, Morcelliana, Brescia 1994. - CARD. D. TETTAMANZI, Famiglia, trasmissione della fede e unioni di fatto. Intervento al Consiglio pastorale diocesano di Milano del 17-18 febbraio 2007. - CEI, Nota del Consiglio Permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto, 28 marzo 2007.