MORTE CELLULARE Approcci genetici e biochimici hanno consentito di fare notevoli progressi nel campo della comprensione della biologia delle neoplasie. Uno delle più importanti evidenze è stato il riconoscimento che la resistenza alla morte cellulare è un aspetto importante sia della tumorigenesi che dello sviluppo di resistenza ai farmaci antitumorali. Il più comune tipo di morte è l’apoptosi che è un programma fisiologico di “suicidio cellulare” essenziale per lo sviluppo embrionale, la funzione del sistema immunitario e il mantenimento dell’omeostasi tissutale negli organismi multicellulari. Esistono inoltre diversi meccanismi di morte cellulari detti non-apoptotici il cui ruolo fisiologico non è stato ancora del tutto chiarito; tra questi ricordiamo la necrosi, l’autofagia e la catastrofe mitotica. La senescenza può invece essere considerata una sorta di “morte cellulare vitale” perché, benché le cellule senescenti mantengano l’integrità della membrana plasmatica, esse vanno incontro ad un arresto permanente della crescita e perdono la loro clonogenicità. Senescenza: la senescenza cellulare fu descritta intorno al 1961 in cellule primarie in coltura che mostravano un periodo di intensa proliferazione, durante il quale i telomeri dei loro cromosomi diventavano significativamente più corti e successivamente la loro crescita decelerava e le cellule entravano in una forma di arresto permanente del ciclo cellulare, noto come senescenza replicativa. A livello biochimico la senescenza è accompagnata da variazioni del metabolismo dall’induzione di attività -galattosidasica. A livello genetico si osservano alterazioni della struttura della cromatina e dei pattern di espressione genica. La senescenza può essere indotta da danni al DNA e attivazione oncogenica, nonché da agenti in grado di ridurre un accorciamento dei telomeri. In questi casi viene indotto un programma di senescenza che prevede l’attivazione di diversi inibitori del ciclo cellulare e richiede la funzione di p53, p21, RB e p16, cioè di geni che sono in ultima analisi in grado di inibire la tumorigenesi. Recentemente è stato dimostrato in modelli in vivo che effettivamente la senescenza inibisce la tumorigenesi. Autofagia: in cellule normali proteine che non servono più vengono degradate mediante due meccanismi indipendenti. Uno è la proteolisi mediata dall’ubiquitina e realizzata nel proteasoma e l’altro è l’autofagia, un meccanismo in cui le proteine e i componenti di organelli vengono degradati nei lisosomi. Esistono evidenze secondo cui questo meccanismo è altamente conservato in diverse specie ed è attivato, ad esempio, in risposta alla carenza di fattori di crescita. Molti degli studi sull’autofagia sono stati condotti in lieviti nei quali il principale scopo di questo processo è quello di sostenere la sopravvivenza in situazioni di carenza di nutrienti, catabolizzando componenti intracellulari ed eliminando organelli danneggiati. 1 In seguito all’induzione di autofagia si osserva la formazione di vescicole autofagiche o autofagosomi delimitate da un bilayer lipidico probabilmente originato dal reticolo endoplasmatico. L’autofagosoma incapsula gli orfanelli da eliminare e poi si connette e si fonde con i lisosomi nei quali avviene la degradazione del materiale. La funzione della morte cellulare per autofagia non è ancora stata chiarita. Catastrofe mitotica: questo temine è stato coniato per descrivere il destino letale di cellule di Schizosacharomyces pombe forzate ad entrare in mitosi prematuramente. Recentemente, il temine catastrofe mitotica viene utilizzato per indicare il tipo di morte di cellulare causato da mitosi aberranti. La catastrofe mitotica è associata con la formazione di cellule giganti multinucleate che contengono cromosomi non condensati. 2 APOPTOSI E’ ormai assodato il concetto per cui i vari farmaci antitumorali hanno si un proprio meccanismo d’azione (inibizione di enzimi, danni al DNA etc), però quello che in realtà poi determina il successo della terapia è che queste inibizioni enzimatiche, questi danni a carico del DNA etc, sono in grado di scatenare qualcosa che fa morire la cellula. Questo “qualcosa” è il processo apoptotico. Il termine apoptosi deriva dal greco e sta ad indicare originariamente la caduta delle foglie dall’albero; in senso lato è stato adottato per indicare questo tipo di morte cellulare perché indica fondamentalmente un processo mediante il quale un organismo si libera di componenti divenute ormai inutili, senza che l’organismo in toto abbia a risentirne. Quindi è un processo non cruento per l’organismo che lo ospita, in contrasto a quello che avviene nella morte cellulare di tipo necrotico. La morte per necrosi è quella che abbiamo di solito quando la cellula viene investita da un danno massivo, di carattere chimico o fisico. Il danno primario è a livello della membrana plasmatica per cui si osserva un aumento delle dimensioni della cellula perché vengono ad essere perturbati gli equilibri osmotici che la membrana non è più in grado di mantenere. A livello intracellulare si hanno lesioni a carico degli organelli che quindi possono essere compromessi nella loro funzione, si hanno anche alterazioni a livello cromatinico. Il passaggio successivo è una lisi cellulare per dissoluzione della membrana plasmatica, gli organelli vengono distrutti e una quantità di componenti intracellulari viene riversata nello spazio extracellulare con il risultato di innescare una reazione a catena. Quindi questo tipo di morte ha come risultato delle ripercussioni abbastanza imponenti a livello del tessuto circostante, non è una morte silente e le reazioni che accompagnano la morte cellulare per necrosi possono essere anche piuttosto dannose per l’organismo nel quale questa morte è avvenuta. Cellula in necrosi Al contrario, l’apoptosi è un tipo di morte silente. La struttura e l’integrità della membrana vengono mantenute il più a lungo possibile; infatti, il danno primario che si verifica nelle cellule non è a questo 3 livello. Gli organelli mantengono abbastanza bene la loro funzione; recentemente è stato evidenziato che il mitocondrio ha un ruolo piuttosto importante nella fase iniziale dell’apoptosi e quindi si osservano delle alterazioni a carico della funzionalità del mitocondrio che comunque mantiene la propria struttura. Il nucleo subisce delle modificazioni caratteristiche che sono quelle che noi andiamo a ricercare per via microscopica per identificare le cellule che stanno andando incontro ad un processo apoptotico. Per quanto riguarda la membrana, la sua integrità viene mantenuta, ma anche essa subisce delle modificazioni importanti che consistono fondamentalmente in una ridistribuzione dei fosfolipidi dei due foglietti del bilayer; in particolare si osserva uno shift della fosfatidilserina, che normalmente è presente nel foglietto interno, che si sposta sul foglietto esterno. Il significato di questa alterazione è che funge da segnale indicando che quella cellula è ormai fuori gioco, che deve essere tolta di mezzo e questa eliminazione viene effettuata da cellule di tipo macrofagico che riconoscono il segnale di membrana dato da questo fosfolipide anomalo e quindi intervengono fagocitando quello che rimane della cellula. Essa non è più intatta, ma si ritrovano solo dei suoi frammenti contenuti all’interno di una membrana plasmatica e che prendono il nome di CORPI APOPTOTICI che vengono spazzati via dai macrofagi senza che si abbia rilascio del loro contenuto negli spazi extracellulari e ciò evita che si abbia una risposta infiammatoria. Dal punto di vista morfologico quello che vediamo nella necrosi è un rigonfiamento della cellula, rottura della membrana plasmatica, rilascio dei contenuti cellulari e reazione infiammatoria. Nel caso dell’apoptosi abbiamo invece una contrazione del volume della cellula, un’alterazione dell’aspetto del nucleo per una disposizione della cromatina lungo i margini del nucleo stesso e poi abbiamo una frammentazione della cellula in corpuscoli rivestiti da membrana, che quindi servono a tenere le componenti cellulari segregate rispetto al tessuto circostante. 4 Il fatto che questo tipo di morte cellulare sia così efficiente e che disturbi così poco il resto dell’organismo ha fatto si che venisse scelto dal punto di vista evolutivo per tutta una serie di processi fisiologici legati allo sviluppo embrionale. Caso tipico è la trasformazione del girino in rana; le cellule che costituiscono la coda del girino vengono perse nel corso della metamorfosi attraverso il processo apoptotico. Anche nell’embrione umano esistono delle strutture vestigiali che vanno perse nel corso dello sviluppo (come le membrane interdigitali) perché le cellule che le costituiscono vanno incontro ad apoptosi. Un altro esempio è costituito al sistema immunitario: il suo sviluppo è pesantemente condizionato dalla capacità dei linfociti T, che sarebbero autoreattivi, di andare incontro al processo apoptotico. Anche lo sviluppo del sistema nervoso è condizionato da questo processo in quanto il sistema nervoso embrionale e del neonato ha una numero di neuroni estremamente superiore a quello del sistema nervoso funzionale e questi neuroni in soprannumero vanno in apoptosi e scompaiono semplicemente perché non riescono a venire in contatto con delle fonti di fattori di crescita che ne permettono il differenziamento e lo sviluppo. Gli stimoli che possono portare la cellula ad un processo apoptotico sono della natura più disparata: innanzitutto i farmaci e quindi una condizione non fisiologica. Anche le radiazioni ionizzanti sono in grado di indurre apoptosi; il venire meno di stimoli ormonali può portare ad una involuzione dell’organo per la mancanza di fattori di crescita. Esistono delle molecole che interagiscono con dei veri e propri recettori detti DEATH RECEPTORS in quanto l’interazione di questi ligandi con i propri recettori ha 5 come risultato la morte cellulare (questa è una delle vie di induzione di apoptosi più studiate al momento). Il processo apoptotico interviene in diverse situazioni fisiologiche. L’interesse nei confronti dell’apoptosi non è solo rivolto alle sue potenzialità nella terapia antitumorale, ma anche perché in una perturbazione dei processi apoptotici si può trovare una base per giustificare la formazione del tumore. In una situazione di oncostasi corretta abbiamo una popolazione cellulare in cui la velocità di proliferazione cellulare e la velocità con cui le cellule vanno incontro a differenziamento o apoptosi si equivale, quindi viene mantenuta la dimensione di questa popolazione cellulare. Quando si ha una perturbazione di una di queste due velocità abbiamo dei problemi; l’aspetto sul quale ci si era soffermati maggiormente per quanto riguarda lo studio dei tumori era un aumento della velocità di proliferazione cellulare, ed è proprio a questo livello che intervengono la maggior parte degli oncogeni noti. Recentemente si è riconosciuto che questo non è il solo modo in cui la popolazione cellulare può aumentare la propria numerosità, una iperproliferazione si può avere anche quando si ha una diminuzione della velocità con cui le cellule vanno incontro a differenziamento o morte. Questo di per se non significa che le cellule diano origine ad un tumore, perché non è sufficiente un disregolazione della proliferazione, le cellule devono acquisire altre caratteristiche, però è abbastanza chiaro che se l’aumento del numero di cellule risulta favorito questo costituisce un terreno fertile per l’insorgenza e la selezione di mutazioni. Quindi a lungo andare è molto più probabile che in una popolazione in soprannumero si abbia la selezione di cloni che hanno quelle caratteristiche tali da dare origine ad un tumore benigno o maligno. Anche la carenza di processi apoptotici rappresenta un problema perchè le cellule non muoiono e rimangono nell’organismo non soltanto per quanto riguarda i tumori, ma anche per esempio per quanto riguarda malattie su base autoimmune perché l’apoptosi permette all’organismo di eliminare quei cloni linfocitari che riconoscono componenti endogene come estranee. Quando questa eliminazione non ha luogo in maniera sufficientemente efficace si può avere l’insorgenza di cloni autoreattivi. Anche nel caso di infezioni da parte di virus, alcuni dei quali sono virus oncogeni, l’inibizione dell’apoptosi è uno dei mezzi che il virus utilizza per garantire la propria sopravvivenza. Ovviamente se la cellula infettata dal virus va incontro ad apoptosi quello non può diffondersi, quindi una delle cose che può fare è indurre la produzione di prodotti proteici che inibiscano i processi apoptotici nella cellula infettata. Ci sono disturbi associati ad una eccessiva apoptosi, uno di questi è la sindrome dell’immunodeficienza acquisita in cui si ha la scomparsa di alcuni cloni linfocitari per un’apoptosi inappropriata. Si hanno anche malattie neurodegenerative in cui si osserva la scomparsa per apoptosi di classi particolari di neuroni con caratteristiche modificazioni che sono responsabili della sintomatologia della malattia (malattia di Alzehimer, di Parkinson, nella sclerosi laterale amiotrofica). Le sindromi mielodisplasiche sono delle 6 lesioni che si ritengono pre neoplastiche, da cui facilmente si sviluppano delle neoplasie vere e proprie e una di queste è l’anemia aplastica in cui si ha l’eliminazione di tutti i tipi di cellule staminali midollari e anche questo può essere dovuto ad un alterato processo apoptotico. In condizioni di ischemia, cioè di ridotto apporto di sangue a determinati organi, il danno che viene indotto è costituito sia da necrosi, nella zona più direttamente colpita, sia da apoptosi, nella zona che si trova ai limiti tra quella colpita e il rimanente tessuto sano. In seguito ad ischemia si può avere o la perdita di funzionalità totale dell’organo perché la mancanza di apporto di ossigeno e nutrienti comporta una compromissione irreversibile dell’organo e in questo caso il danno fondamentale è dovuto a necrosi. Nel caso in cui ci sia una possibilità di ripresa, questa è legata al ripristino dell’irrorazione sanguigna dell’organo ed è a livello di questa riperfusione post-ischemica che vengono indotti i più gravi danni di tipo apoptotico. Quindi non stupisce che per diversi aspetti il processo apoptotico sia stato molto studiato anche per trovare un rimedio a tutte queste anomalie che si traducono in malattie ad esito letale o gravemente incapacitante per chi le contrae. Si è cercato di chiarire quali siano gli attori del processo apoptotico e di vedere se fosse possibile andare ad interferire con questi. In alcuni casi, per esempio nei tumori in cui la lesione macroscopica riguarda la numerosità della popolazione cellulare, questo approccio può andare bene; nel caso della malattia di Alzheimer in cui l’apoptosi delle cellule neuronali in realtà non ha un ruolo causale ma è determinata dall’accumulo di particolari sostanze (sostanza -amiloide), se noi andiamo ad inibire l’apoptosi indotta da queste non risolviamo il problema perché questa sostanza continua ad accumularsi nelle cellule neuronali che verranno comunque compromesse dal punto di vista funzionale. Quindi dobbiamo distinguere tra casi in cui un’alterazione del processo apoptotico può portare a un miglioramento sensibile per quanto riguarda la progressione delle malattie e casi in cui si tratta di una misura pagliativa che non ha in realtà un riscontro pratico dal punto di vista terapeutico. Nel caso della terapia dei tumori le prospettive sono abbastanza buone appunto perché anche se con una modulazione dell’apoptosi non andiamo a modificare il fenotipo della cellula tumorale, però la mettiamo in condizioni di non danneggiare ulteriormente l’organismo. Il processo apoptotico si può suddividere in diverse fasi: una prima fase detta di condanna e una seconda fase detta di esecuzione (terminale). La fase terminale si svolge in maniera abbastanza costante nei vari tipi di cellule ed è quella che riguarda fondamentalmente la degradazione della cromatina e la frammentazione del nucleo. Quest’ultima fase del processo apoptotico è quella più universalmente diffusa nei vari tipi cellulari ed è quella che è stata studiata per prima perché quella più microscopicamente evidente. I primi studi per l’identificazione dell’apoptosi riguardavano l’osservazione al microscopio a fluorescenza delle cellule, in quanto fornendo alla cellula un colorante fluorescente in grado di legarsi al DNA si vede che il nucleo da tondeggiante assume diverse forme globulari che indicano che è avvenuta la scompaginazione della 7 cromatina. Altro tipo di analisi molto diffusa riguarda la frammentazione del DNA, quindi mediante estrazione del DNA nucleare, elettroforesi su gel di agarosio, colorazione del gel con bromuro di etidio, che si lega al DNA e permette di evidenziare un pattern caratteristico per quanto riguarda il frammento di DNA, che prende il nome di LADDER e noi troviamo che nel gel abbiamo la comparsa di una serie di bande più o meno equidistanti una dall’altra (da cui il nome “scala a pioli”). Questa frammentazione è dovuta al fatto che il DNA viene rotto a livello delle giunzioni internucleosomali; sapendo che un nucleosoma è costituito da circa 80 paia di basi, questi frammenti sono formati da uno o più nucleosomi quindi hanno un peso molecolare che è multiplo di quello dei nucleosomi. Di solito comunque è difficile trovare un ladder preciso, ma si trovano delle strisciate su cui sono più evidenti delle bande con intensità di fluorescenza più elevata e altre con meno intensità. La comparsa del ladder, o di qualcosa di simile, sta ad indicare un evento apoptotico e la frammentazione del DNA che è dovuta a particolari enzimi chiamati ENDONUCLEASI. VALUTAZIONE DELL’APOPTOSI I principali test utilizzati si basano fondamentalmente sull’osservazione della morfologia delle cellule e sulla ricerca di frammentazione del DNA. Analisi morfologica Può essere realizzata utilizzando due tipi di tecniche: 1. microscopia elettronica 2. microscopia a fluorescenza – esistono diverse metodiche di preparazione dei campioni: - TUNEL assay – si basa sul presupposto che la rottura del DNA durante il processo apoptotico dà luogo a frammenti di DNA con rotture del doppio filamento. Questi frammenti possono essere identificati marcando la loro estremità 3’-OH per mezzo di un enzima, la TdT (Terminal deoxynucleotidyl Transferase), che catalizza la polimerizzazione di nucleotidi alle estremità 3’. Utilizzando nucleotidi marcati con fluoresceina questi frammenti di DNA possono essere facilmente visualizzati utilizzando un microscopio a fluorescenza. Un metodo alternativo consiste nell’analisi dei campioni mediante citofluorimetro. 8 - comet assay – in questa tecnica le cellule vengono “intrappolate” in gel di agarosio su un vetrino portaoggetti, lisate utilizzando un detergente denaturante e poi soggette a elettroforesi per un breve periodo. Il DNA viene poi evidenziato mediante colorazione con un colorante che si intercali nel DNA, ad esempio bromuro di etidio, e osservazione al microscopia a fluorescenza. Il DNA non danneggiato non è in grado di penetrare nel gel di agarosio e viene quindi ritenuto nelle cavità formate dalle cellule lisate; le catene di DNA danneggiato invece migrano lungo il gel e formano la “coda “ della cometa. - colorazione con DAPI – in questo caso le cellule fissate su un vetrino portaoggetti con etanolo vengono colorate con 4’, 6-diamidino-2-fenilindolo (DAPI), un composto fluorescente che forma complessi con il DNA. Va tenuto presente che il DAPI interagisce anche con i tRNA e quindi occore particolare cura nella stima del DNA in presenza di tali molecole. 9 - colorazione con ioduro di propidio – le cellule fissate su un vetrino portaoggetti vengono incubate con ioduro di propidio e successivamente osservate mediante microscopio a fluorescenza controlli trattati Frammentazione del DNA Questo tipo di tecnica prevede che le cellule da analizzare vengano lisate e il loro DNA estratto e fatto correre su gel di agarosio. Il DNA viene successivamente colorato incubando il gel con bromuro di 10 etidio, che si lega al DNA e permette di evidenziare un pattern di frammentazione caratteristico costituito da una serie di bande più o meno equidistanti una dall’altra (LADDER). 11 Autofagia L’autofagia è un processo cellulare complesso, altamente conservato e regolato, ATP-dipendente che avviene in tutte le cellule eucariote. Esso coinvolge il riarrangiamento di membrane subcellulari al fine di sequestrare porzioni del citoplasma e organuli da esporre all’azione degradativa degli enzimi lisosomiali, nei quali il materiale sequestrato è catabolizzato e riciclato. Le vie autofagiche meglio caratterizzate sono la macroautofagia, la microautofagia e l’autofagia chaperone-mediata. Esse si differenziano per il modo con cui il materiale da degradare viene trasportato all’interno delle vescicole lisosomiali, per il tipo di materiale trasportato e per i meccanismi di regolazione. 2.4.1 Autofagia chaperone-mediata (CMA) Molti tipi di cellule possono degradare proteine citosoliche attraverso la forma di autofagia chaperonemediata (CMA), un processo con elevata selettività per un particolare gruppo di proteine citoplasmatiche che vengono traslocate attraverso la membrana lisosomiale senza richiedere la formazione di vacuoli o la deformazione di membrana. Tutti i substrati di CMA contengono una particolare sequenza aminoacidica KFERQ (Lys-Phe-Glu-Arg-Gln) che viene riconosciuta dalle chaperonine, tra cui la proteina heat shock di 70 kDa (hsc70). Il complesso chaperonina-proteina si lega alla membrana lisosomiale mediante l’interazione con il recettore LAMP-2° e ciò favorisce il trasporto del materiale da degradare all’interno dell’organulo. 12 Il carattere selettivo di CMA fa sì che questa forma d’autofagia sia attivata quando la discriminazione tra le proteine da degradare è importante. Durante condizioni di stress, come per esempio la mancanza di nutrienti, l’attività di CMA aumenta dopo che la macroautofagia, anch’essa attivata, comincia a calare. Questa attivazione sequenziale di una via autofagica non-selettiva, seguita da una selettiva, può essere finalizzata ad evitare la degradazione di componenti cellulari essenziali in caso di un digiuno prolungato. Microautofagia La microautofagia è coinvolta nell’inglobamento e nella degradazione di regioni complete del citosol, inclusi proteine e organuli citoplasmatici, direttamente da parte dei lisosomi, senza richiedere la formazione di vacuoli autofagici intermedi. Il lisosoma, infatti, per invaginazione o estroflessione, avvolge il citoplasma e in seguito si chiude a formare una vescicola interna che contiene il materiale da degradare. La microautofagia è stata tradizionalmente considerata come una forma di autofagia attiva per garantire il turnover delle proteine a lunga vita in condizioni basali, ma studi recenti la ritengono anche responsabile, in parte, della degradazione dei perossisomi. Macroautofagia La macroautofagia o autofagia è un processo dinamico responsabile della degradazione sia di proteine solubili a lunga vita che di organuli in condizioni di stress. Essa comporta la formazione di vacuoli a doppia membrana (autofagosomi) che sequestrano porzioni di citoplasma e sono destinati a fondersi con i lisosomi per generare autolisosomi che degradino il materiale mediante l’azione delle idrolasi lisosmiali per poi riciclarne i prodotti di degradazione. Il processo autofagico è governato da un gruppo di geni, originariamente identificati in lievito, denominati ATG (autophagy-related genes) e può essere diviso nelle seguenti fasi: Iniziazione: in cellule di mammifero il segnale deriva dal sensore per il nutrimento mTOR che termina di inibire un complesso serina/treonina chinasi contenente ULK 1/2, ATG13 e FIP200. Tale complesso, una volta attivato, è responsabile della formazione di una membrana di isolamento o fagoforo che circonda parzialmente il materiale da degradare. Formazione dell’autofagosoma: la nucleazione di un autofagosoma prematuro dipende dall’attività della chinasi hVps34 (PIK3 class III) e dalla sua associazione con la proteina Beclin 1 e p150/Vps35. A questa operazione segue la chiusura dell’autofagosoma operata da due sistemi di 13 coniugazione simili all’ubiquitina (ATG5–ATG12 e LC3-II). Il primo è attivato da ATG7 e porta alla formazione di un complesso multimerico composto da ATG5–ATG12-ATG16, la cui azione è fondamentale per dirigere l’inserimento di LC3 nella membrana dell’autofagosoma. LC3 è un marker autofagico molto utilizzato e viene inizialmente sintetizzato dalla cellula come precursore (proLC3) per essere poi successivamente processato a LC3-I da ATG4. La sua completa maturazione (LC3-II) si ottiene mediante la coniugazione a fosfatidiletanolamina (PE) sulla superficie dell’autofagosoma. Maturazione e degradazione: il meccanismo molecolare alla base della maturazione richiede l’azione di proteine lisosomiali come LAMP1 e LAMP2, la GTPasi Rab7, la proteina UVRAG (ultraviolet-radiation-resistance-associated gene) e altre molecole. UVRAG indirizza le proteine chiamate “tethering proteins” alla membrana dell’autofagosoma e in questo modo attiva Rab7 per facilitare la fusione con il lisosoma. L’autolisosoma formato è una vescicola a pH acido contenente molti enzimi, tra cui la catepsina, che tramite un processo catabolico degradano peptidi e altri costituenti cellulari per rifornire la cellula di materiali ed energia sufficienti alla sopravvivenza 14