MORTE CELLULARE
Approcci genetici e biochimici hanno consentito di fare notevoli progressi nel campo della comprensione
della biologia delle neoplasie. Uno delle più importanti evidenze è stato il riconoscimento che la
resistenza alla morte cellulare è un aspetto importante sia della tumorigenesi che dello sviluppo di
resistenza ai farmaci antitumorali.
Il più comune tipo di morte è l’apoptosi che è un programma fisiologico di “suicidio cellulare” essenziale
per lo sviluppo embrionale, la funzione del sistema immunitario e il mantenimento dell’omeostasi
tissutale negli organismi multicellulari.
Esistono inoltre diversi meccanismi di morte cellulari detti non-apoptotici il cui ruolo fisiologico non è
stato ancora del tutto chiarito; tra questi ricordiamo la necrosi, l’autofagia e la catastrofe mitotica. La
senescenza può invece essere considerata una sorta di “morte cellulare vitale” perché, benché le cellule
senescenti mantengano l’integrità della membrana plasmatica, esse vanno incontro ad un arresto
permanente della crescita e perdono la loro clonogenicità.
Senescenza: la senescenza cellulare fu descritta intorno al 1961 in cellule primarie in coltura che
mostravano un periodo di intensa proliferazione, durante il quale i telomeri dei loro cromosomi
diventavano significativamente più corti e successivamente la loro crescita decelerava e le cellule
entravano in una forma di arresto permanente del ciclo cellulare, noto come senescenza replicativa. A
livello biochimico la senescenza è accompagnata da variazioni del metabolismo dall’induzione di attività
-galattosidasica. A livello genetico si osservano alterazioni della struttura della cromatina e dei
pattern di espressione genica.
La senescenza può essere indotta da danni al DNA e attivazione oncogenica, nonché da agenti in grado
di ridurre un accorciamento dei telomeri. In questi casi viene indotto un programma di senescenza che
prevede l’attivazione di diversi inibitori del ciclo cellulare e richiede la funzione di p53, p21, RB e p16,
cioè di geni che sono in ultima analisi in grado di inibire la tumorigenesi. Recentemente è stato
dimostrato in modelli in vivo che effettivamente la senescenza inibisce la tumorigenesi.
Autofagia: in cellule normali proteine che non servono più vengono degradate mediante due meccanismi
indipendenti. Uno è la proteolisi mediata dall’ubiquitina e realizzata nel proteasoma e l’altro è
l’autofagia, un meccanismo in cui le proteine e i componenti di organelli vengono degradati nei lisosomi.
Esistono evidenze secondo cui questo meccanismo è altamente conservato in diverse specie ed è
attivato, ad esempio, in risposta alla carenza di fattori di crescita. Molti degli studi sull’autofagia sono
stati condotti in lieviti nei quali il principale scopo di questo processo è quello di sostenere la
sopravvivenza in situazioni di carenza di nutrienti, catabolizzando componenti intracellulari ed
eliminando organelli danneggiati.
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In seguito all’induzione di autofagia si osserva la formazione di vescicole autofagiche o autofagosomi
delimitate da un bilayer lipidico probabilmente originato dal reticolo endoplasmatico. L’autofagosoma
incapsula gli orfanelli da eliminare e poi si connette e si fonde con i lisosomi nei quali avviene la
degradazione del materiale.
La funzione della morte cellulare per autofagia non è ancora stata chiarita.
Catastrofe mitotica: questo temine è stato coniato per descrivere il destino letale di cellule di
Schizosacharomyces pombe forzate ad entrare in mitosi prematuramente. Recentemente, il temine
catastrofe mitotica viene utilizzato per indicare il tipo di morte di cellulare causato da mitosi
aberranti. La catastrofe mitotica è associata con la formazione di cellule giganti multinucleate che
contengono cromosomi non condensati.
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APOPTOSI
E’ ormai assodato il concetto per cui i vari farmaci antitumorali hanno si un proprio meccanismo d’azione
(inibizione di enzimi, danni al DNA etc), però quello che in realtà poi determina il successo della terapia
è che queste inibizioni enzimatiche, questi danni a carico del DNA etc, sono in grado di scatenare
qualcosa che fa morire la cellula. Questo “qualcosa” è il processo apoptotico.
Il termine apoptosi deriva dal greco e sta ad indicare originariamente la caduta delle foglie dall’albero;
in senso lato è stato adottato per indicare questo tipo di morte cellulare perché indica
fondamentalmente un processo mediante il quale un organismo si libera di componenti divenute ormai
inutili, senza che l’organismo in toto abbia a risentirne. Quindi è un processo non cruento per
l’organismo che lo ospita, in contrasto a quello che avviene nella morte cellulare di tipo necrotico. La
morte per necrosi è quella che abbiamo di solito quando la cellula viene investita da un danno massivo, di
carattere chimico o fisico. Il danno primario è a livello della membrana plasmatica per cui si osserva un
aumento delle dimensioni della cellula perché vengono ad essere perturbati gli equilibri osmotici che la
membrana non è più in grado di mantenere. A livello intracellulare si hanno lesioni a carico degli
organelli che quindi possono essere compromessi nella loro funzione, si hanno anche alterazioni a livello
cromatinico. Il passaggio successivo è una lisi cellulare per dissoluzione della membrana plasmatica, gli
organelli vengono distrutti e una quantità di componenti intracellulari viene riversata nello spazio
extracellulare con il risultato di innescare una reazione a catena. Quindi questo tipo di morte ha come
risultato delle ripercussioni abbastanza imponenti a livello del tessuto circostante, non è una morte
silente e le reazioni che accompagnano la morte cellulare per necrosi possono essere anche piuttosto
dannose per l’organismo nel quale questa morte è avvenuta.
Cellula in necrosi
Al contrario, l’apoptosi è un tipo di morte silente. La struttura e l’integrità della membrana vengono
mantenute il più a lungo possibile; infatti, il danno primario che si verifica nelle cellule non è a questo
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livello. Gli organelli mantengono abbastanza bene la loro funzione; recentemente è stato evidenziato
che il mitocondrio ha un ruolo piuttosto importante nella fase iniziale dell’apoptosi e quindi si osservano
delle alterazioni a carico della funzionalità del mitocondrio che comunque mantiene la propria struttura.
Il nucleo subisce delle modificazioni caratteristiche che sono quelle che noi andiamo a ricercare per via
microscopica per identificare le cellule che stanno andando incontro ad un processo apoptotico. Per
quanto riguarda la membrana, la sua integrità viene mantenuta, ma anche essa subisce delle
modificazioni importanti che consistono fondamentalmente in una ridistribuzione dei fosfolipidi dei due
foglietti del bilayer; in particolare si osserva uno shift della fosfatidilserina, che normalmente è
presente nel foglietto interno, che si sposta sul foglietto esterno. Il significato di questa alterazione è
che funge da segnale indicando che quella cellula è ormai fuori gioco, che deve essere tolta di mezzo e
questa eliminazione viene effettuata da cellule di tipo macrofagico che riconoscono il segnale di
membrana dato da questo fosfolipide anomalo e quindi intervengono fagocitando quello che rimane della
cellula. Essa non è più intatta, ma si ritrovano solo dei suoi frammenti contenuti all’interno di una
membrana plasmatica e che prendono il nome di CORPI APOPTOTICI che vengono spazzati via dai
macrofagi senza che si abbia rilascio del loro contenuto negli spazi extracellulari e ciò evita che si
abbia una risposta infiammatoria.
Dal punto di vista morfologico quello che vediamo nella necrosi è un rigonfiamento della cellula, rottura
della membrana plasmatica, rilascio dei contenuti cellulari e reazione infiammatoria. Nel caso
dell’apoptosi abbiamo invece una contrazione del volume della cellula, un’alterazione dell’aspetto del
nucleo per una disposizione della cromatina lungo i margini del nucleo stesso e poi abbiamo una
frammentazione della cellula in corpuscoli rivestiti da membrana, che quindi servono a tenere le
componenti cellulari segregate rispetto al tessuto circostante.
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Il fatto che questo tipo di morte cellulare sia così efficiente e che disturbi così poco il resto
dell’organismo ha fatto si che venisse scelto dal punto di vista evolutivo per tutta una serie di processi
fisiologici legati allo sviluppo embrionale. Caso tipico è la trasformazione del girino in rana; le cellule
che costituiscono la coda del girino vengono perse nel corso della metamorfosi attraverso il processo
apoptotico. Anche nell’embrione umano esistono delle strutture vestigiali che vanno perse nel corso
dello sviluppo (come le membrane interdigitali) perché le cellule che le costituiscono vanno incontro ad
apoptosi. Un altro esempio è costituito al sistema immunitario: il suo sviluppo è pesantemente
condizionato dalla capacità dei linfociti T, che sarebbero autoreattivi, di andare incontro al processo
apoptotico. Anche lo sviluppo del sistema nervoso è condizionato da questo processo in quanto il sistema
nervoso embrionale e del neonato ha una numero di neuroni estremamente superiore a quello del
sistema nervoso funzionale e questi neuroni in soprannumero vanno in apoptosi e scompaiono
semplicemente perché non riescono a venire in contatto con delle fonti di fattori di crescita che ne
permettono il differenziamento e lo sviluppo.
Gli stimoli che possono portare la cellula ad un processo apoptotico sono della natura più disparata:
innanzitutto i farmaci e quindi una condizione non fisiologica. Anche le radiazioni ionizzanti sono in
grado di indurre apoptosi; il venire meno di stimoli ormonali può portare ad una involuzione dell’organo
per la mancanza di fattori di crescita. Esistono delle molecole che interagiscono con dei veri e propri
recettori detti DEATH RECEPTORS in quanto l’interazione di questi ligandi con i propri recettori ha
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come risultato la morte cellulare (questa è una delle vie di induzione di apoptosi più studiate al
momento).
Il processo apoptotico interviene in diverse situazioni fisiologiche. L’interesse nei confronti
dell’apoptosi non è solo rivolto alle sue potenzialità nella terapia antitumorale, ma anche perché in una
perturbazione dei processi apoptotici si può trovare una base per giustificare la formazione del tumore.
In una situazione di oncostasi corretta abbiamo una popolazione cellulare in cui la velocità di
proliferazione cellulare e la velocità con cui le cellule vanno incontro a differenziamento o apoptosi si
equivale, quindi viene mantenuta la dimensione di questa popolazione cellulare. Quando si ha una
perturbazione di una di queste due velocità abbiamo dei problemi; l’aspetto sul quale ci si era
soffermati maggiormente per quanto riguarda lo studio dei tumori era un aumento della velocità di
proliferazione cellulare, ed è proprio a questo livello che intervengono la maggior parte degli oncogeni
noti. Recentemente si è riconosciuto che questo non è il solo modo in cui la popolazione cellulare può
aumentare la propria numerosità, una iperproliferazione si può avere anche quando si ha una diminuzione
della velocità con cui le cellule vanno incontro a differenziamento o morte. Questo di per se non
significa che le cellule diano origine ad un tumore, perché non è sufficiente un disregolazione della
proliferazione, le cellule devono acquisire altre caratteristiche, però è abbastanza chiaro che se
l’aumento del numero di cellule risulta favorito questo costituisce un terreno fertile per l’insorgenza e
la selezione di mutazioni. Quindi a lungo andare è molto più probabile che in una popolazione in
soprannumero si abbia la selezione di cloni che hanno quelle caratteristiche tali da dare origine ad un
tumore benigno o maligno.
Anche la carenza di processi apoptotici rappresenta un problema perchè le cellule non muoiono e
rimangono nell’organismo non soltanto per quanto riguarda i tumori, ma anche per esempio per quanto
riguarda malattie su base autoimmune perché l’apoptosi permette all’organismo di eliminare quei cloni
linfocitari che riconoscono componenti endogene come estranee. Quando questa eliminazione non ha
luogo in maniera sufficientemente efficace si può avere l’insorgenza di cloni autoreattivi. Anche nel
caso di infezioni da parte di virus, alcuni dei quali sono virus oncogeni, l’inibizione dell’apoptosi è uno dei
mezzi che il virus utilizza per garantire la propria sopravvivenza. Ovviamente se la cellula infettata dal
virus va incontro ad apoptosi quello non può diffondersi, quindi una delle cose che può fare è indurre la
produzione di prodotti proteici che inibiscano i processi apoptotici nella cellula infettata.
Ci sono disturbi associati ad una eccessiva apoptosi, uno di questi è la sindrome dell’immunodeficienza
acquisita in cui si ha la scomparsa di alcuni cloni linfocitari per un’apoptosi inappropriata. Si hanno anche
malattie neurodegenerative in cui si osserva la scomparsa per apoptosi di classi particolari di neuroni
con caratteristiche modificazioni che sono responsabili della sintomatologia della malattia (malattia di
Alzehimer, di Parkinson, nella sclerosi laterale amiotrofica). Le sindromi mielodisplasiche sono delle
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lesioni che si ritengono pre neoplastiche, da cui facilmente si sviluppano delle neoplasie vere e proprie e
una di queste è l’anemia aplastica in cui si ha l’eliminazione di tutti i tipi di cellule staminali midollari e
anche questo può essere dovuto ad un alterato processo apoptotico. In condizioni di ischemia, cioè di
ridotto apporto di sangue a determinati organi, il danno che viene indotto è costituito sia da necrosi,
nella zona più direttamente colpita, sia da apoptosi, nella zona che si trova ai limiti tra quella colpita e il
rimanente tessuto sano. In seguito ad ischemia si può avere o la perdita di funzionalità totale
dell’organo perché la mancanza di apporto di ossigeno e nutrienti comporta una compromissione
irreversibile dell’organo e in questo caso il danno fondamentale è dovuto a necrosi. Nel caso in cui ci sia
una possibilità di ripresa, questa è legata al ripristino dell’irrorazione sanguigna dell’organo ed è a livello
di questa riperfusione post-ischemica che vengono indotti i più gravi danni di tipo apoptotico. Quindi
non stupisce che per diversi aspetti il processo apoptotico sia stato molto studiato anche per trovare
un rimedio a tutte queste anomalie che si traducono in malattie ad esito letale o gravemente
incapacitante per chi le contrae. Si è cercato di chiarire quali siano gli attori del processo apoptotico e
di vedere se fosse possibile andare ad interferire con questi. In alcuni casi, per esempio nei tumori in
cui la lesione macroscopica riguarda la numerosità della popolazione cellulare, questo approccio può
andare bene; nel caso della malattia di Alzheimer in cui l’apoptosi delle cellule neuronali in realtà non ha
un ruolo causale ma è determinata dall’accumulo di particolari sostanze (sostanza -amiloide), se noi
andiamo ad inibire l’apoptosi indotta da queste non risolviamo il problema perché questa sostanza
continua ad accumularsi nelle cellule neuronali che verranno comunque compromesse dal punto di vista
funzionale. Quindi dobbiamo distinguere tra casi in cui un’alterazione del processo apoptotico può
portare a un miglioramento sensibile per quanto riguarda la progressione delle malattie e casi in cui si
tratta di una misura pagliativa che non ha in realtà un riscontro pratico dal punto di vista terapeutico.
Nel caso della terapia dei tumori le prospettive sono abbastanza buone appunto perché anche se con
una modulazione dell’apoptosi non andiamo a modificare il fenotipo della cellula tumorale, però la
mettiamo in condizioni di non danneggiare ulteriormente l’organismo.
Il processo apoptotico si può suddividere in diverse fasi: una prima fase detta di condanna e una
seconda fase detta di esecuzione (terminale). La fase terminale si svolge in maniera abbastanza
costante nei vari tipi di cellule ed è quella che riguarda fondamentalmente la degradazione della
cromatina e la frammentazione del nucleo.
Quest’ultima fase del processo apoptotico è quella più universalmente diffusa nei vari tipi cellulari ed è
quella che è stata studiata per prima perché quella più microscopicamente evidente. I primi studi per
l’identificazione dell’apoptosi riguardavano l’osservazione al microscopio a fluorescenza delle cellule, in
quanto fornendo alla cellula un colorante fluorescente in grado di legarsi al DNA si vede che il nucleo da
tondeggiante assume diverse forme globulari che indicano che è avvenuta la scompaginazione della
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cromatina. Altro tipo di analisi molto diffusa riguarda la frammentazione del DNA, quindi mediante
estrazione del DNA nucleare, elettroforesi su gel di agarosio, colorazione del gel con bromuro di etidio,
che si lega al DNA e permette di evidenziare un pattern caratteristico per quanto riguarda il
frammento di DNA, che prende il nome di LADDER e noi troviamo che nel gel abbiamo la comparsa di
una serie di bande più o meno equidistanti una dall’altra (da cui il nome “scala a pioli”). Questa
frammentazione è dovuta al fatto che il DNA viene rotto a livello delle giunzioni internucleosomali;
sapendo che un nucleosoma è costituito da circa 80 paia di basi, questi frammenti sono formati da uno o
più nucleosomi quindi hanno un peso molecolare che è multiplo di quello dei nucleosomi. Di solito
comunque è difficile trovare un ladder preciso, ma si trovano delle strisciate su cui sono più evidenti
delle bande con intensità di fluorescenza più elevata e altre con meno intensità. La comparsa del ladder,
o di qualcosa di simile, sta ad indicare un evento apoptotico e la frammentazione del DNA che è dovuta
a particolari enzimi chiamati ENDONUCLEASI.
VALUTAZIONE DELL’APOPTOSI
I principali test utilizzati si basano fondamentalmente sull’osservazione della morfologia delle cellule e
sulla ricerca di frammentazione del DNA.
Analisi morfologica
Può essere realizzata utilizzando due tipi di tecniche:
1.
microscopia elettronica
2. microscopia a fluorescenza – esistono diverse metodiche di preparazione dei campioni:
-
TUNEL assay – si basa sul presupposto che la rottura del DNA durante il processo
apoptotico dà luogo a frammenti di DNA con rotture del doppio filamento. Questi
frammenti possono essere identificati marcando la loro estremità 3’-OH per mezzo di
un enzima, la TdT (Terminal deoxynucleotidyl Transferase), che catalizza la
polimerizzazione di nucleotidi alle estremità 3’. Utilizzando nucleotidi marcati con
fluoresceina questi frammenti di DNA possono essere facilmente visualizzati
utilizzando un microscopio a fluorescenza. Un metodo alternativo consiste nell’analisi dei
campioni mediante citofluorimetro.
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-
comet assay – in questa tecnica le cellule vengono “intrappolate” in gel di agarosio su un
vetrino portaoggetti, lisate utilizzando un detergente denaturante e poi soggette a
elettroforesi per un breve periodo. Il DNA viene poi evidenziato mediante colorazione
con un colorante che si intercali nel DNA, ad esempio bromuro di etidio, e osservazione
al microscopia a fluorescenza. Il DNA non danneggiato non è in grado di penetrare nel
gel di agarosio e viene quindi ritenuto nelle cavità formate dalle cellule lisate; le catene
di DNA danneggiato invece migrano lungo il gel e formano la “coda “ della cometa.
-
colorazione con DAPI – in questo caso le cellule fissate su un vetrino portaoggetti con
etanolo vengono colorate con 4’, 6-diamidino-2-fenilindolo (DAPI), un composto
fluorescente che forma complessi con il DNA. Va tenuto presente che il DAPI
interagisce anche con i tRNA e quindi occore particolare cura nella stima del DNA in
presenza di tali molecole.
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-
colorazione con ioduro di propidio – le cellule fissate su un vetrino portaoggetti vengono
incubate con ioduro di propidio e successivamente osservate mediante microscopio a
fluorescenza
controlli
trattati
Frammentazione del DNA
Questo tipo di tecnica prevede che le cellule da analizzare vengano lisate e il loro DNA estratto e
fatto correre su gel di agarosio. Il DNA viene successivamente colorato incubando il gel con bromuro di
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etidio, che si lega al DNA e permette di evidenziare un pattern di frammentazione caratteristico
costituito da una serie di bande più o meno equidistanti una dall’altra (LADDER).
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Autofagia
L’autofagia è un processo cellulare complesso, altamente conservato e regolato, ATP-dipendente che
avviene in tutte le cellule eucariote. Esso coinvolge il riarrangiamento di membrane subcellulari al fine
di sequestrare porzioni del citoplasma e organuli da esporre all’azione degradativa degli enzimi
lisosomiali, nei quali il materiale sequestrato è catabolizzato e riciclato.
Le vie autofagiche meglio caratterizzate sono la macroautofagia, la microautofagia e l’autofagia
chaperone-mediata. Esse si differenziano per il modo con cui il materiale da degradare viene
trasportato all’interno delle vescicole lisosomiali, per il tipo di materiale trasportato e per i meccanismi
di regolazione.
2.4.1
Autofagia chaperone-mediata (CMA)
Molti tipi di cellule possono degradare proteine citosoliche attraverso la forma di autofagia chaperonemediata (CMA), un processo con elevata selettività per un particolare gruppo di proteine
citoplasmatiche che vengono traslocate attraverso la membrana lisosomiale senza richiedere la
formazione di vacuoli o la deformazione di membrana. Tutti i substrati di CMA contengono una
particolare sequenza aminoacidica KFERQ
(Lys-Phe-Glu-Arg-Gln) che viene riconosciuta dalle
chaperonine, tra cui la proteina heat shock di 70 kDa (hsc70). Il complesso chaperonina-proteina si lega
alla membrana lisosomiale mediante l’interazione con il recettore LAMP-2° e ciò favorisce il trasporto
del materiale da degradare all’interno dell’organulo.
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Il carattere selettivo di CMA fa sì che questa forma d’autofagia sia attivata quando la discriminazione
tra le proteine da degradare è importante. Durante condizioni di stress, come per esempio la mancanza
di nutrienti, l’attività di CMA aumenta dopo che la macroautofagia, anch’essa attivata, comincia a
calare. Questa attivazione sequenziale di una via autofagica non-selettiva, seguita da una selettiva, può
essere finalizzata ad evitare la degradazione di componenti cellulari essenziali in caso di un digiuno
prolungato.
Microautofagia
La microautofagia è coinvolta nell’inglobamento e nella degradazione di regioni complete del citosol,
inclusi proteine e organuli citoplasmatici, direttamente da parte dei lisosomi, senza richiedere la
formazione di vacuoli autofagici intermedi. Il lisosoma, infatti, per invaginazione o estroflessione,
avvolge il citoplasma e in seguito si chiude a formare una vescicola interna che contiene il materiale da
degradare.
La microautofagia è stata tradizionalmente considerata come una forma di autofagia attiva per
garantire il turnover delle proteine a lunga vita in condizioni basali, ma studi recenti la ritengono anche
responsabile, in parte, della degradazione dei perossisomi.
Macroautofagia
La macroautofagia o autofagia è un processo dinamico responsabile della degradazione sia di proteine
solubili a lunga vita che di organuli in condizioni di stress. Essa comporta la formazione di vacuoli a
doppia membrana (autofagosomi) che sequestrano porzioni di citoplasma e sono destinati a fondersi con
i lisosomi per generare autolisosomi che degradino il materiale mediante l’azione delle idrolasi lisosmiali
per poi riciclarne i prodotti di degradazione.
Il processo autofagico è governato da un gruppo di geni, originariamente identificati in lievito,
denominati ATG (autophagy-related genes) e può essere diviso nelle seguenti fasi:

Iniziazione: in cellule di mammifero il segnale deriva dal sensore per il nutrimento mTOR che
termina di inibire un complesso serina/treonina chinasi contenente ULK 1/2, ATG13 e FIP200.
Tale complesso, una volta attivato, è responsabile della formazione di una membrana di isolamento
o fagoforo che circonda parzialmente il materiale da degradare.

Formazione dell’autofagosoma: la nucleazione di un autofagosoma prematuro dipende dall’attività
della chinasi hVps34 (PIK3 class III) e dalla sua associazione con la proteina Beclin 1 e
p150/Vps35. A questa operazione segue la chiusura dell’autofagosoma operata da due sistemi di
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coniugazione simili all’ubiquitina (ATG5–ATG12 e LC3-II). Il primo è attivato da ATG7 e porta alla
formazione di un complesso multimerico composto da ATG5–ATG12-ATG16, la cui azione è
fondamentale per dirigere l’inserimento di LC3 nella membrana dell’autofagosoma. LC3 è un
marker autofagico molto utilizzato e viene inizialmente sintetizzato dalla cellula come precursore
(proLC3) per essere poi successivamente processato a LC3-I da ATG4.
La sua completa maturazione (LC3-II) si ottiene mediante la coniugazione a fosfatidiletanolamina
(PE) sulla superficie dell’autofagosoma.

Maturazione e degradazione: il meccanismo molecolare alla base della maturazione richiede
l’azione di proteine lisosomiali come LAMP1 e LAMP2, la GTPasi Rab7, la proteina UVRAG
(ultraviolet-radiation-resistance-associated gene) e altre molecole. UVRAG indirizza le proteine
chiamate “tethering proteins” alla membrana dell’autofagosoma e in questo modo attiva Rab7 per
facilitare la fusione con il lisosoma. L’autolisosoma formato è una vescicola a pH acido contenente
molti enzimi, tra cui la catepsina, che tramite un processo catabolico degradano peptidi e altri
costituenti cellulari per rifornire la cellula di materiali ed energia sufficienti alla sopravvivenza
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