Stefano Beccastrini LA VARIEGATA BELLEZZA E L’INEVITABILE DRAMMATICITA’ DELLA VITA JEAN RENOIR E IL FIUME (1950) Le Fleuve, che parrebbe uno dei miei film più ricercati, in realtà è il più vicino alla natura. Se non ci fosse una storia basata su forze ineluttabili come l’infanzia, l’amore, la morte, sarebbe un documentario 1. INTRODUZIONE. IL CINEMA E I FIUMI E’ a tutti noto come i quattro elementi – la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco - che, secondo le più antiche tradizioni filosofiche dei molti popoli del Pianeta, costituiscono la materia prima di cui è fatto il mondo, rappresentano anche, nelle diverse mitologie e religioni di quegli stessi popoli, complessi simbolici di straordinaria forza evocativa. Tutto ciò ha trovato profonda eco, nei secoli, nelle diverse forme artistiche con le quali l’umana creatività si è, appunto simbolicamente, espressa. L’acqua, uno di tali quattro elementi fondamentali, si è fatta così, attraverso le proprie incarnazioni più significative e per esempio i fiumi, simbolo ricorrente della poiesis espressiva sia figurativa (si pensi, tanto per fare un solo esempio, alla Fontana dei quattro fiumi del Bernini in Piazza Navona) sia letteraria (da Omero a Ungaretti, i fiumi sono stati protagonisti di larga parte della poesia d’ogni tempo) sia, ormai da oltre un secolo, cinematografica. Mi piacerebbe un giorno, se avessi tempo e salute a sufficienza, scrivere un libro su Il cinema e i fiumi. Mai argomento fu più ricco di poesia, denso di simbologia, foriero di variegate risonanze filosofiche e religiose. In esso parlerei del Po, sulle cui sponde è ambientata buona parte del miglior cinema italiano - qui mi limito a ricordare Roberto Rossellini e l’ultimo episodio di Paisà, 1946, nonché Michelangelo Antonioni e il suo Gente del Po, 1947 - e nelle cui acque spesso gonfie di piena si è rispecchiata nella propria coraggiosa sofferenza un bel pezzo di storia d’Italia. Parlerei poi dei grandi fiumi americani. A cominciare dal Mississippi, sulle cui sponde Mark Twain ambientò l’indimenticabile Le avventure di Huckleberry Finn (così dando origine, secondo l’autorevole opinione di Ernest Hemingway, a tutta quanta la moderna letteratura americana) e sono stati girati tanti indimenticabili film hollywoodiani (per esempio, Show Boat, 1951, di quel maestro della danza e dell’avventura che fu George Sidney), e dal Missouri (a proposito del cui rapporto con il cinema vorrei ricordare almeno Il cacciatore del Missouri di William Wellman, anch’esso del 1951). M ricorderei anche il fiume senza nome – di cui si sa soltanto che era senza ritorno e che simboleggiava 1 l’amore – sulla cui impetuosa corrente Otto Preminger tenne a galla la zattera di La magnifica preda (titolo originale River of No Return, 1954) e mi intratterrei commosso sulle acque che, scorrendo nell’Oregon fino alla città di Portland, sono costantemente presenti in Là dove scende il fiume (titolo originale Bend of the River, 1952) di Anthony Mann. Immergendosi in esse, in esse lottando per la vita e così purificandosi, Glyn McLyntock/James Stewart riscatta il proprio passato banditesco e diventa un uomo onesto e generoso. Una particolare attenzione poi – tornando in Europa e non trascurando i film girati sul Tamigi (per esempio, Il ponte di Waterloo, 1940, di Mervin LeRoy) e sul Volga (per esempio Volga, Volga, 1939, di Grigorij Aleksdandrov) e sul Douro (per esempio Porto della mia infanzia, 2001, di Manoel De Oliveira) e così via – la dedicherei alla Senna. Lungo le sue acque navigava infatti, un po’ stancamente per il proprio carico di toccante umanità oltre che di merci, la chiatta de L’Atalante, 1934, di Jean Vigo, giovane geniale e ribelle, il Rimbaud del cinema. Film sublime, (non scorderò mai, molti anni fa, la sera in cui, in un cinema nei pressi del Jardin de Luxembourg, ne vidi l’edizione restaurata), sul finire del quale il protagonista si tuffa appunto nella Senna quasi come nelle oscure profondità di un inconscio misterioso e proteiforme e vi incontra, dopo che ella gli è apparsa luminosa e ridente nella più bella sequenza in sovrimpressione della storia del cinema, la forza per recarsi a rintracciare la moglie, delusa e fuggita. A questo punto però, interrompendo il mio introduttivo divagare e venendo allo specifico argomento dell’articolo, accentrerò la mia attenzione sul Gange, il fiume sacro dell’Induismo, che scorre dai capelli di Shiva ed è venerato come una dea salvifica. Sulle sue sponde è stato girato il più bel film “fluviale” mai visto sullo schermo. Esso si intitola, semplicemente, Il fiume (titolo originale, The River, 1950) e ne è autore Jean Renoir. 2. IN INDIA, IN CERCA DI COSA? Per gli indù, l’universo è Dio e siccome Dio è ovunque per essi è naturale adorare un albero o una pietra o un fiume, poiché ogni cosa testimonia la presenza dell’Essere Supremo Jean Renoir si recò in India, per girarvi uno dei suoi film più solenni, nel 1950. Egli era fuggito dalla natia, e sempre adorata, Francia all’inizio della II guerra mondiale, quando i soldati nazisti giunsero a marciare con le loro lugubri svastiche lungo gli Champs-Élysées. Altri grandi cineasti europei lo avevano preceduto, per sfuggire al nazismo, nell’esilio americano: Fritz Lang, per esempio. Narra la leggenda, ma forse è addirittura storia, che, di fronte alla proposta fattagli da Hitler di diventare il direttore della cinematografia di stato tedesca, egli prese tempo e scappò negli Stati Uniti. Sia Renoir che Lang, forse quest’ultimo con maggior capacità di adattamento alla macchina di produzione hollywoodiana, furono tutt’altro che artisticamente inattivi durante l’esilio americano: Lang rimase in USA circa vent’anni e vi girò una ventina di film (alcuni dei quali restano tra i suoi massimi capolavori), Renoir vi rimase invece circa dieci anni e vi girò soltanto sette film (tutti più belli di quel che abbiano pensato, in genere, la critica e il pubblico ma certamente nessuno dei quali, se non quello di cui tratta questo articolo ossia l’ultimo, può essere annoverato tra le sue opere cinematografiche più belle). Un evento ha accomunato Lang e Renoir: entrambi hanno girato infatti il proprio film di addio all’America, prima del ritorno in Europa, sentendo il bisogno di recarsi a filmare in India. Renoir lo fece nel 1950, proprio per girare Il fiume, 2 Lang nel 1959, per girare il dittico de Il sepolcro indiano e La tigre di Eschnapur. La coincidenza appare significativa o almeno tale da destare la legittima curiosità di noi amanti del cinema (e di Renoir e di Lang). Tanto più se pensiamo al fatto che anche Roberto Rossellini, nel 1959, in un momento di crisi e di svolta del proprio cinema e della propria vita personale e culturale, si recò in India e vi girò, oltre al reportage televisivo in dieci episodi L’India vista da Rossellini, lo straordinario India (in realtà il titolo originale era India. Matri Bhumi, India Humus della Terra). Non è questa l’occasione per mettersi a indagare sulle affinità e sulle differenze tra i tre film. Basti dire che tutti e tre i loro autori hanno cercato in India una nuova ispirazione, una nuova visione del mondo, una nuova saggezza con la quale affrontare il proprio successivo “ritorno a casa” ossia ad essere cineasti europei. In Renoir prevalse il fascino della religione indù, della sua capacità di accettare la vita e la morte, il mutamento e la stasi, l’eternità e l’incessante rinnovarsi delle cose. In Lang, quello dell’ambiente esotico, dell’avventura, dell’incontro di due civiltà, due culture, due atteggiamenti verso il mondo tra loro difficilmente dialoganti. In Rossellini, infine, quello per la sapienza indù, per la diversa – rispetto a quella occidentale - epistemologia cognitiva del popolo indiano, per la differente concezione dell’idea di conoscenza e di progresso. Ma parliamo finalmente, e solamente, del film indiano di Renoir. Esso gli venne in mente quando lesse, sul New Yorker, una recensione del romanzo The River della scrittrice inglese (lei, che colà visse a lungo in India, si definiva anglo-indiana) Rumer Godden. Incuriosito, acquistò il libro, lo lesse e gli piacque, gli apparve subito quale una bella storia da trasformare in un film che fosse a un tempo di qualità ma anche accettabile dall’industria hollywoodiana e dal grande pubblico. Le prime reazioni dei produttori furono, però, piuttosto fredde. L’India, sullo schermo, doveva significare per forza elefanti e caccia alla tigre e né gli uni né l’altra erano presenti nel soggetto proposto da Renoir (furono poi ben presenti invece, seppur in maniera diversa da quella dei film d’avventura hollywoodiana girati in un’ India di cartapesta, nei film indiani di Lang e di Rossellini). Finalmente Renoir, come racconta in La mia vita, i miei film (Renoir, 1992), trovò il produttore disposto a finanziare il film tratto dal romanzo della Godden: si trattava di un fiorista di Beverly Hills che “Adorava il cinema, adorava l’India e si adoperava in favore dei suoi due amori con dinamismo incredibile “ (Idem). Grazie a lui, la storia del cinema fu arricchita anche della “tenera e semplice storia” (Idem) de Il fiume. 2. IL FIUME . Il vero mondo è quello dei bambini. Loro sono più vicini alla natura. Sono come gli scoiattoli, liberi come gli uccelli. E come gli animali sono senza falsi ritegni. Loro sanno cos'è importante. Durante la rituale, ed autunnale, festività di Diwali, la “festa delle luci” che simboleggia la vittoria del bene sul male e durante la quale è usanza accendere candele e lampade tradizionali, un giovane indù consegna alle acque del fiume una barchetta illuminata, appunto, da una lampada. Una voce fuori campo avverte “Per gli indù, l’universo è Dio e siccome Dio è ovunque per essi è naturale adorare un albero o una pietra o un fiume, poiché ogni cosa testimonia la presenza dell’Essere Supremo “. Si tratta di una suggestiva sequenza, quasi documentaristica, de Il fiume. La festa ha luogo in un villaggio bengalese, situato lungo il Gange, ove vive anche una borghese famiglia inglese composta dal padre, che dirige una fabbrica per la produzione della juta, dalla madre, da tre 3 figlie adolescenti, la maggiore delle quali si chiama Harriett, e da un figlio di dieci anni, di nome Bogey, che ama suonare il flauto – gli insegna un coetaneo, e affezionatissimo, bambino indù - e sogna di apprendere ad incantare, con tale magico suono, i serpenti. Harriett è la voce narrante del film, che in fondo è costituito sa un unico e lungo flash-back – il cui inizio e la cui fine restano però nella voce fuori campo - in cui ella, ormai adulta, racconta le proprie esperienze giovanili. Ragazzina romantica e fantasiosa, che ama scrivere poesie e inventare favole, possiede due amiche del cuore: Valérie, la figlia di un vicino e ricco proprietario terriero, e Melanie, la quale è di sangue misto in quanto sua madre, precocemente morta, era una indiana. Frequenta spesso la casa di Harriett un cugino del padre di Melanie, il capitano John, che ha perso una gamba in guerra ed è piuttosto depresso. Harriett, Melanie e Valérie ne sono affascinate e, con acerbo ed ingenuo entusiasmo, gareggiano nel cercare di attrarre la sua attenzione e conquistare la sua amicizia, finendo così con lo scoprire in sé stesse i primi palpiti dell’amore. Harriet apre al capitano il proprio mondo fantastico, gli mostra il nascondiglio segreto ov’ella custodisce i propri tesori nascosti, gli fa leggere le proprie poesie e gli racconta le favole da lei inventate. Valerie, più smaliziata, lo corteggia apertamente e con sfacciata intraprendenza, riuscendo alla fine a strappargli persino un bacio. Melanie, invece, manifesta un comportamento più ritroso e pudico, frutto della propria identità orientale e del proprio legame con la millenaria tradizione del proprio popolo. La vita scorre, lenta e serena come il grande fiume sacro, ma una tremenda disgrazia - narrata tuttavia da Renoir senza alcuna melodrammaticità - viene a turbare la famiglia di Harriett: morso da un cobra che stava cercando di incantare, il piccolo Bogey muore nel lussureggiante giardino, durante un caldo pomeriggio estivo che ha fatto appisolare, quasi a simboleggiare la fatale ineluttabilità del destino, tutti gli altri abitanti della casa. La scena del funerale, con la piccola bara di legno chiaro che si avvia verso il fiume seguita da un piccolo e fiorito corteo, è commovente ma sobria, silenziosa, straziantemente saggia. Dopo la cerimonia, il capitano brinda ai bambini: “Il vero mondo è quello dei bambini. Loro sono più vicini alla natura. Sono come gli scoiattoli, liberi come gli uccelli. E come gli animali sono senza falsi ritegni. Loro sanno cos'è importante”. La nascita, di lì a poco, di una nuova vita, una femminuccia che sostituisce Bogey nel ruolo di più giovane membro della famiglia, riporta in essa un po’ di gioiosa serenità, a testimonianza del fatto che il grande fiume della vita scorre ancora, incessantemente. Salutando il capitano che fa ritorno in Inghilterra, Harriett gli promette che continuerà a scrivere poesie ed inventare favole: anche lei, come Renoir, sa che l’arte è la sola chiave per comprendere da vicino la natura del mondo. 3. DOVE PORTA “IL FIUME”? CONCLUSIONI Il fiume scorre, il mondo va ruotando, alba e tramonto, mezzanotte e giorno, il sole al dì, gli astri alla notte intorno, il giorno è andato, la fine sta iniziando Il film, alla sua uscita, fu accusato di essere un documentario mancato, di andare in cerca di esotici panteismi e di astratti misticismi, di tacere sui misfatti del colonialismo inglese e altre scemenze del genere. Renoir continuò ad andare, come aveva sempre fatto, per la sua strada (che, comunque, 4 portò Il fiume a ricevere un premio a Venezia e a piacere molto a Francois Truffaut, il quale lo definì, ma forse citando un altro esegeta, un film-cerchio, Truffaut, 1978). Renoir ha affermato: “La fleuve è una sorta di resoconto della vita di una famiglia inglese in Bengala Nel racconto non c’è né inizio né fine. E’ come se si fosse prelevato un pezzo della vita di un gruppo umano senza cercare di farne la storia. E’ la cornice a delimitare la dimensione del soggetto. Il principale problema per me era essere autentico. Io conoscevo l’India attraverso i libri… ma mi mancava il contatto dal vivo… La divina provvidenza venne anche questa volta in mio soccorso” (Renoir, 1992). Dal soccorso della divina provvidenza nacque un film sublime. Maestoso, pur nel suo scorrere lento come il fiume che ne è, così come gli animali e le piante, protagonista al pari dei personaggi umani. Solenne, pur nel proprio narrare vicende di vita e di morte, di amore e di pianto, assolutamente quotidiane, prive di enfasi e di melodrammaticità. Un’opera esteticamente e filosoficamente eccelsa: il ritrarre personaggi che il costante trascorrere del tempo muta e matura, nonchè l’infinito e instancabile fluire del fiume che fa da testimone della vicenda di uomini e cose, colloca il film in una visione di saggezza universale, cosmica. Narrando le vicende d’una famiglia europea che vive in India da molti anni nonché assumendo il suo punto di vista – incuriosito e stupito ma poi anche, soprattutto nei bambini, ammirato e desideroso di capire - sugli usi, i costumi, i riti millenari e moderni a un tempo del popolo indù, Renoir definisce una propria, persino nuova, filosofia della vita: tollerante, misurantesi con la complessa unità del Tutto, saggia nel proprio accettare la vita e la morte, il caso e la necessità, la variegata bellezza e l’inevitabile drammaticità del mondo. Il film omaggio poetico allo splendore delle molteplici apparenze del Kharma. - lasciò tracce perenni sia nel successivo cinema di Renoir sia in quello indiano. In India Renoir, che non aveva fino ad allora mai girato un film a colori, scoprì proprio la bellezza priva di sfumature e la levità del colore del Bengala, la sua capacità di trasformarsi quasi naturalmente in immagine cinematografica. Da buon intenditore di pittura, definì quei colori addirittura matissiani. Tornato in Europa, creò sulla base dell’esperienza bengalese una vera e propria teoria del colore cinematografico, che lo porterà a realizzare opere variopinte quali La carrozza d’oro, 1953, e French Can Can, 1955, ed a girare a colori tutti i propri film successivi. Quanto alle tracce lasciate nella cultura indiana dalla presenza, e dal modo di filmare, di Renoir, esse furono indubbiamente importanti e durevoli. Non a caso Satyajit Ray, il più grande cineasta dell’India del XX secolo, imparò il proprio mestiere di regista cinematografico proprio facendo l’assistente di regia, per Renoir, sul set de Il fiume. Come ha scritto Gianni Amelio, uno degli uomini di cinema italiani che stimo di più (anche nelle sue vesti di critico dei film altrui): “Satyajit Ray…(è)…il più grande regista che l’India abbia mai avuto, regista di Calcutta, la città orientale lontana dalle produzioni più popolari del resto del paese…Quando avevo dodici anni, vidi nello stesso giorno due volte di seguito Aparijito (che significa L’invitto) e mi sembrò che parlasse di casa mia. Da allora ho cercato di non perdere mai i film e gli scritti di Satyajit Ray. Ma in Italia di lui conosciamo poco o niente e questa ò, oltre che una perdita, una colpa” (Amelio, 2004). Riferimenti bibliografici Amelio G. Il vizio del cinema, Vedere, amare, fare un film, Einaudi, Torino, 2004 Renoir J. La mia vita, i miei film, Marsilio, Venezia, 1992 Truffaut F., I film della mia vita, Marsilio, Venezia, 1978 5